La Rassegna d'Ischia

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Anno XXXIII N. 5 Settembre / Ottobre 2012 Euro 2,00

Le anfore greco-italiche di Ischia : archeologia e archeometria Uno scrittore russo ad Ischia nel 1829 : Stepan Ševyrëv Rassegna Libri

Personaggi Gioacchino Vallariello : un rapporto speciale con il mondo delle piante A Lacco Ameno una targa in ricordo di E. Ciannelli

Il Museo di Santa Maria di Loreto a Forio Fonti archivistiche : luoghi sacri dell’Università di Barano (Moropano) La flora pithecusana di Chevalley De Rivaz

Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi Dir. responsabile Raffaele Castagna


La Rassegna d’Ischia Anno XXXIII - N. 5 Settembre/Ottobre 2012 Euro 2,00 Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi Editore e Direttore responsabile : Raffaele Castagna

La Rassegna d’Ischia Via IV novembre 25 - 80076 Lacco Ameno (NA) Registrazione Tribunale di Napoli n. 2907 del 16.02.1980 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione n. 8661.

Stampa : Pixartprinting, Quarto d’Altino (VE)

Sommario 3 La Flora pithecusana di Chevalley De Rivaz 5 Mariolino Capuano in mostra ad Avise 6 La Litoranea Casamicciola-Lacco Ameno 7 Il Museo di S. Maria di Loreto a Forio 10 Personaggi : Gioacchino Vallariello 14 Le anfore greco-italiche di Ischia 20 Una targa in ricordo di E. Ciannelli 23 Uno scrittore russo a Ischia: Stepan Ševyrëv 27 Testimonianze : Martin Wolf 28 Rassegna Libri

31 Musei Capitolini Il Grande Custode della Memoria

34 Fonti archivistiche Luoghi dell’Un. di Barano : Moropano

39 “Le due Italie” L’unificazione - La questione meridionale

43 Il nome “Ischia” sul monumento al re Umberto I a Superga In copertina (I) : Vendemmia a Ischia di Gabriele Smargiassi (1798-1882)

Forio - Galleria Del Monte Mostra di Daniela Pergreffi

Disegni & Design

A cura della Proloco Sant’Alessandro d’
Ischia

Corteo storico del costume ischitano In occasione della Festa di Sant’Alessandro, il 26 agosto 2012 si è svolta nel Comune d’Ischia la popolare sfilata in costume che ha percorso, con oltre duecento figuranti, le vie del centro storico dal Castello al Borgo medioevale di Sant’Alessandro. Rievocazione non di un singolo avvenimento storico, ma rappresentazione della storia dell’isola dalla fondazione di Pitekoussai, ben otto secoli prima di Cristo, ai Borbone che tanto amarono e valorizzarono l’isola. Nel mezzo, l’epoca angioina, l’epoca aragonese, il Rinascimento di Vittoria Colonna e del Cenacolo letterario che faceva corona alla poetessa, l’età vicereale e il Settecento di Carlo III. La sfilata, nata nel 1981 per iniziativa di un gruppo di cittadini residenti nel borgo di Sant’Alessandro, si rinnova costantemente nel tempo. La manifestazione è stata preceduta da incontri culturali, da esibizioni folkloristiche, e dal Premio in onore dello scopritore di Pithekoussai, Giorgio Buchner, per un lavoro dedicato a tematiche archeologiche su Pithecusa; questa edizione è stata vinta da Nicoletta Manzi per una tesi sull’insediamento in località Mazzola di Lacco Ameno. ***

Ischia “pe terre assaje luntane” dal 10 al 15 settembre 2012

L’Associazione Ischitani nel Mondo organizza 
dal 10 al 15 settembre 2012 al Borgo dell’Arso in Ischia Ponte la manifestazione “Pe’ terre assaje luntane” - 
L’Emigrazione Ischitana verso le Americhe
, IX edizione
. Le opinioni espresse dagli autori non impegnano la rivista La collaborazione ospitata s’intende offerta gratuitamente - Manoscritti, fotografie ed altro (anche se non pubblicati), libri e giornali non si restituiscono - La Direzione ha facoltà di condensare, secondo le esigenze di impaginazione e di spazio e senza alterarne la sostanza, gli scritti a disposizione. conto corrente postale n. 29034808 intestato a Raffaele Castagna - Via IV novembre 25 80076 Lacco Ameno (NA) www.larassegnadischia.i www.ischiainsula.eu info@larassegnadischia.it rassegna@alice.it


Illustrazione dell’inedita e manoscritta Flora pithecusana ossia Catalogo alfabetico delle piante vascolari dell’isola d’Ischia di Giacomo Stefano Chevalley de Rivaz (1834), botanico non conosciuto Anteriormente (circa venti anni) all’opera di

Giovanni Gussone sulla flora ischitana, il medico Chevalley de Rivaz, autore di una descrizione in varie edizioni sulle acque termali dell’isola d’Ischia, si era anche interessato della vegetazione ed aveva preprato un catalogo alfabetico delle piante vascolari d’Ischia, catalogo che però rimase sempre e soltanto un manoscritto inedito. Ciò afferma Paolo Buchner in una breve biografia del de Rivaz, precisando inoltre che negli Annali di Botanica (volume XII, Roma 1914) a cura di Ermanno Migliorato venne presentata una Illustrazione dell’inedita e manoscritta Flora pithecusana1 ossia Catalogo alfabetico delle piante vascolari dell’isola d’Ischia di Giacomo Stefano Chevalley de Rivaz (1834), botanico non conosciuto.

Leggiamo quanto scrive Ermanno Migliorato.

Per la storia della flora dell’isola d’Ischia illustro questo ms. perché esso è anteriore di vent’anni alla preziosa Enumeratio del Gussone2. Lo pubblico per intero e ne confronto il contenuto con l’opera suddetta, con la memoria del Béguinot sulla vegetazione delle isole napoletane e con altri scritti floristici, tra i quali la Flora dei campi flegrei del Terracciano3. Il de Rivaz non è citato nell’Enumeratio del Gussone, né nelle seguenti opere, per cui non è conosciuto come florista italiano : 1 Circa il nome antico d’Ischia, Pithecusa, quanto segue: Giove precipitò Tifeo nell’isola e trasformò gli abitanti in scimie (pitecos) (Strafforello e Treves. Dizionario universale di Geografia. Milano, 1878). Fu detta Pithecusa dai Greci, da pitos, vaso, per l’arte dei vasi di creta che vi fiorì, non perchè abitata da scimie, ecc. La reversione pitecoide mitologica trova, nientemeno, valida testimonianza in Boccardo (Enciclopedia italiana, 1881), che riporta: «Nei tempi remoti Ischia e Procida venivano chiamate col nome complessivo di Pithecusae, da una specie di scimia indigena ora affatto scomparsa». 2 Gussone Joh., Enumeratio plantarum vascularium in Insula Inarime sponte provenientium vel oeconomico usu passim cultarum. Neapoli, 1854, Idem II addenda, Junio, 1855 (in fase di preparazione una versione italiana). 3 Terracciano Nic. - La Flora dei Campi flegrei. Atti del R. Istituto d’Incoraggiamento di Napoli. Serie VI, vol. VIII, Napoli, 1910

Pasquale Gius. Ant. - Documenti biografici di Giovanni Gussone, botanico napolitano, tratti dalle sue opere e specialmente dal suo erbario. Atti dell’Accademia Pontaniana. Napoli 1871. Saccardo Pier Andrea - La Botanica in Italia. Materiali per la Storia di questa scienza. Memorie del R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti; vol. XXV, n. 4, 1895; id. XXVI, n. 6, 1901. Béguinot Aug. La vegetazione delle isole ponziane e napoletane: Annali di Botanica. Roma, dicembre 1905; vol. III, pp. 181-454. Premetto alcuni cenni biografici ricavati dall’archivio della Facolta di medicina di Parigi, dalla chiesa di Vevey, dalle pubblicazioni dell’autore e dall’archivio municipale di Casamicciola. Giacomo Stefano Chevalley de Rivaz nacque il 16 agosto 1801 a Vevey4, piccola cittadina sul lago di Ginevra. Nel quadriennio 1823-27 studiò medicina a Parigi, ove si laureò il 16 agosto 1827 con la Dissertation sur les principaux effets du froid sur l’economie animale5. Nel 1830 già era stabilito nell’isola d’Ischia, come si apprende dalla data di una delle sue opere, perciò la sua andata colà dovette effettuarsi poco dopo la laurea, tenuto conto che ci volle un buon anno per preparare l’opera. Esercitò la medicina in Napoli e a Casamicciola, ove aveva fondata una casa di salute; fu medico di valore e filantropo, tanto da meritare per i servizi resi durante il colera del 1836 la medaglia d’oro del Re e i diritti di cittadinanza dal decurionato (consiglio comunale) d’Ischia6 per aver diretto gli ospedali colerici d’Ischia. Cessò di vivere nell’8 dicembre 1863 in Casamicciola. De Rivaz si occupò della Flora naturale dell’isola d’Ischia e contrade vicine, come si rileva da un’indicazione contenuta in una copertina d’un suo scritto stampato nel 1844, però non mi è riuscito di sapere se 4 Da Jean Jacques Chevalley e Marguerite Ruchet, ambedue di Vevey (Registres des Baptèmes et naissances de Vevey des 1763 à 1807, vol. VI, p. 461). 5 Stampata a Parigi nell’istesso anno, 20 pp. in-4. Fu tradotta nel 1844 in italiano, e stampata in Napoli, dal dott. Giovanni Sannicola, medico di Venafro. 6 Cfr. Poliorama pittoresco, vol. II, Napoli, 1837

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ne seguì la pubblicazione come fu annunziato7. Per quanto io abbia ricercato nelle opere floristiche del Gussone e del Tenore non ho mai trovato citato il de Rivaz, né il nome di lui figura, per quanto mi consti, fra i botanici dell’incantevole isola, e ciò meraviglia poiché certamente i due sommi fitografi napoletani lo conobbero, specie il Gussone che dal 1850 al 1854 divideva la propria dimora tra Napoli ed Ischia per preparare l’Enumeratio suddetta. Circa probabili raccolte di piante d’Ischia fatte dal de Rivaz per erbarii di botanici, quanto segue: La supposizione che nell’Erbario di Michelangelo Ziccardi vi potessero essere piante, perché questo medico e botanico fu amico di lui, è riuscita infruttuosa malgrado le scru7 Souvenirs d’Ischia ou Mélanges scientifiques, historiques et littéraires rélatifs à cette île et aux contrées qui l’avoisinent (pour paraìtre prochaînement. 1845). De Rivaz nella sua casa di salute a Casamicciola (Pension Sauvé) aveva stabilito un osservatorio meteorologico, come fa fede la seguente notizia : Observations meteorologiques de la maison de Santé du Doct. Chevalley de Rivaz à l’île d’Ischia. - État atmosphérique du ler au 31me octobre 1863. Tables d’observations. Bollettino meteorologico. Roma, 1863

Jacques Étienne Chevalley de Rivaz

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polose ricerche fatte in proposito dal mio amico prof. Armando Villani8. Così pure per l’erbario De Candolle, ove supposi esistessero piante d’Ischia essendo de Rivaz della regione ginevrina. Neanche nell’erbario Delessert, conservato a Ginevra e che contiene piante d’Ischia raccolte da Frédéric Splitgerber, si trovano piante del de Rivaz, il quale per giunta, è completamente sconosciuto ai botanici del cantone Vaud (a cui appartiene Vevey, paese natio di lui), come gentilmente mi hanno comunicato i sigg. Cas. De Candolle, John Briquet e il venerando botanico ing. Emilio Burnat di Vevey, il quale con scrupolosa cura si diresse nell’interesse di questa memoria ai sigg. prof. E. Wilczek di Losanna e al sig. Chevalley abitante a Rivaz (Vaud)9. Avrei dovuto dire di più in questi ricordi biografici, ma per quanto io abbia scritto per rintracciare a Casamicciola (Ischia) il mio amico Stefano Chevalley de Rivaz, nipote del botanico, non ho ottenuto risultato. Fu appunto detto mio amico che nel 1895 mi consegnò il manoscritto10.

Il manoscritto

È di 14 pagine in formato protocollo a due colonne e con copertina, sulla quale c’è il seguente titolo : «Flora | pithecusana | ossia | Calalogo alfabetico | delle piante vascolari | dell’Isola | d’Ischia | I. S. Chevalley de Rivaz | D. P. M. | scripsit | 1834». 8 L’erbario Ziccardi, ora conservato nella Scuola superiore d’Agricoltura di Portici, fu illustrato dal Villani (Malpiglia, 1906, 1907, 1908 e Bull. Soc. botanica ital., 1907). 9 Vadano ai sudetti cortesi informatori i cordialissimi ringraziamenti dello scrivente. 10 Per assicurare alla pubblica consultazione questo ms. lo depositai (3 maggio 1909) nella Biblioteca dell’Istituto botanico di Roma, con la condizione che non venga dato in prestito fuori i locali dell’Istituto

Al disotto della data c’è un timbro circolare con l’aquila reale di Francia nel mezzo, e in giro la seguente iscrizione : «Agence consulaire de France | à l’Ile d’Ischia». L’identificazione della scrittura del de Rivaz mi risulta dal confronto di una dedica ms. in un’opera sulle acque d’Ischia. Il contenuto del ms. è di altra scrittura : evidentemeate è una copia calligrafica. I nomi delle piante enumerate dal de Rivaz sono 623, quelle del Gussone nell’Enumeratio 959 più 3 della II addenda, che fanno 962 e non 963, come nella medesima è segnato. Il De Rivaz cita il Cyperus aureus (nelle pianure arenose presso il mare), il Cyperus fascicularis (presso dei fumaioli al calore), il Cyperus olivaris (infesta gli orti, le vigne, ecc.); Pteris aquilina (nelle selve), Pteris longifolia (presso i fumaioli di Frasso a Casamicciola, de’ Caccioti); Woodwardia radicans (nelle vallate profonde di Casamicciola e di Fontana); del cipero nella Descrizione delle acque termominerali (1837) ricorda anche il polystachius, precisando che esso era stato notato già nel 1803 dal Tenore presso le fumarole di Frassi e Cacciutto. Dice ancora che la popolazione isolana poteva mettere a profitto l’uso di una specie di licheni, la Parmelia roccella, che il Tenore aveva trovato sulla superficie delle lave. * Altri scritti del de Rivaz: - Voyage de Naples à Capri, éxécuté le 4 octobre 1845 à bord du bateau à vapeur le “Stromboli”, à l’occasion du septième congrès des savants italiens. Napoli, 1846. - Su di un terremoto d’Ischia. Bull. meteor. Roma, 1863, II, pagine 20.21, 62 (Lettera).


Pinocchio tra suoni e colori

Al Castello di Avise (Valle d’Aosta)

in mostra Mariolino Capuano Mariolino Capuano, pittore di Forio d’Ischia, è stato presente con una mostra dal 7 luglio al 26 agosto 2012 dedicata a Pinocchio, nell’ambito dei festeggiamenti organizzati per l’inaugurazione del castello quattrocentesco costruito da Bonifacio d’Avise e dello spettacolo di teatro e musica per ragazzi di Livio Viano, denominato Pinocchio tra suoni e colori, così presentati nella locandina: «Le molteplici trasformazioni

di Pinocchio: metamorfosi incantate che si animano grazie agli incontri. L’idea della mostra e spettacolo Pinocchio tra suoni e colori nasce su un’isola, Ischia, un’isola di mare che ha a sua volta incontrato un’isola di montagna, la Valle d’Aosta. È lì che Livio Viano, attore e regista, e Mariolino Capuano, pittore e poeta, si conoscono, si confrontano e sognano, sullo sfondo del mare. Prende forma così un racconto espositivo che è la somma dell’esperienza di una vita di due artisti che hanno portato con loro Pinocchio, da sempre. Livio Viano rappresentandolo nel suo teatro e Mariolino Capuano dipingendolo in diverse sfumature cromatiche, stilistiche ed esistenziali. Il risultato è un nuovo Pinocchio, fuoriuscito dall’incontro

di linguaggi e sensibilità artistiche che lo fanno vivere con tutte le suggestioni letterarie, pittoriche, teatrali e immaginative che la musica fa danzare. Insieme: Livio, Mariolino, Pinocchio». Le opere di Mariolino Capuano di un realismo incredibile vanno guardate e vissute, come lo stesso artista ama suggerire, con lo spirito del noto personaggio collodiano. All’inaugurazione dell’evento erano presenti alcuni rappresentanti del mondo Confcommercio: dal presidente partenopeo, Pietro Russo, alla presidente di Confcommercio Torino nonché vice presidente Confederale, Maria Luisa Coppa, al presidente di Confcommercio Valle d’Aosta, Pierantonio Genestrone.
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Escursioni nella natura

Mariolino Capuano: C’era una volta un re

Ogni domenica, sino al mese di novembre 2012 si svolgeranno escursioni nella natura, con il geologo Aniello Di Iorio. Trekking esperienza ai gas caldi della camera magmatica – le fumarole. Questo trekking conduce alle fumarole su cui verranno cotti i wurstel e poi presso le Cantine “La Pergola”, dove si gusterà il buon vino mangiando una fantastica bruschetta. Inoltre si assaggeranno i sapori originali dell’isola d’Ischia. Si proveranno la marmellata, il miele e l’olio prodotti dalla Cantina Agriturismo La Pergola. Nell’andare verso le fumarole si vedranno i tradizionali muri a secco di colore verde, che sono tradizionali in questa parte dell’isola d’Ischia. Lungo il percorso si incontreranno massi in bilico perenne, alcuni dei quali sono stati scavati. In essi si trovano antiche cantine e ricordi dei tempi che furono. Si ammireranno panorami meravigliosi ed una particolare forma di erosione detta a tafoni o nido d’api. Tempo permettendo si vedranno in lontananzale isole Pontine e la penisola del Circeo. Informazioni nel sito: www.eurogeopark.com La Rassegna d’Ischia n. 5/2012

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La Litoranea Casamicciola-Lacco Ameno

tra “ opere perpetue” e “ prediche inutili” di Giuseppe Mazzella La frana avvenuta sabato 25 agosto 2012 dal costone sulla Litoranea Casamicciola-Lacco alle ore 21.30 circa che soltanto per un miracolo o una straordinaria coincidenza non si è trasformata in una tragedia come quella del novembre 2009 con la seconda alluvione di Casamicciola in 99 anni (i tempi della natura non sono quelli dell’uomo) mi ha riportato alla memoria un incontro che tenemmo come Associazione della Stampa delle isole di Ischia e Procida nel lontano 1986 con il giornalista Giovanni Russo, inviato speciale del Corriere della Sera e fervente meridionalista fin da giovanissimo con il suo libro Baroni e contadini. Russo mi disse che «ovunque fosse andato nel Mezzogiorno avrebbe trovato lavori pubblici incompiuti, mai terminati, e strade aperte “provvisoriamente” e cioè con un provvisorio diventato definitivo». Russo chiamò questi lavori pubblici mai terminati a regola d’arte le “opere perpetue del Mezzogiorno”. La Litoranea è una di queste “opere perpetue”. Fu aperta al pubblico il 25 luglio 1926. Lo ricorda Raffaele Castagna, nel volume Isola d’Ischia in tremila voci, titoli, immagini, che completa la voce sottolineando che «a 300 metri circa presso la Pensione Morgera (oggi non esiste più perché è stata trasformata in un complesso residenziale, ndr) una lapide (oggi appena leggibile) ricorda l’evento: «Regnando Vittorio Emanuele III Re d’Italia – Anno IV del governo del Duce Benito Mussolini – questa strada che segna l’inizio di una litoranea Porto d’Ischia, Casamicciola, Lacco Ameno, giungendo a Forio – che Salvatore Girardi, Presidente della Deputazione Provinciale volle per avvicinare Napoli all’isola, evitando scomodi scali, affidandone l’esecuzione all’ing. S. Mellucci – fu aperta al pubblico il 25 luglio 1926». Qui si ferma la voce lasciando la ricostruzione della storia ad altre fonti. La Litoranea passò negli anni ‘50 con la riorganizzazione del sistema stradale allo Stato e fu affidata in gestione all’ANAS – l’Azienda Nazionale Strade Statali – poiché tutto l’anello stradale dell’isola divenne la strada statale 270. Ma – corsi e ricorsi storici – con la riforma degli enti locali del 1990 la competenza della strada è di nuovo ritornata alla Deputazione Provinciale che non si chiama più così ma Provincia di Napoli- Città Metropolitana. Questa Litoranea - ieri allo Stato ed oggi alla Provincia – non è mai stata completata in ottantasei anni nelle opere di difesa a monte con adeguati e sicuri muri di contenimento evidentemente molto costosi. Non c’è nemmeno certezza di diritto su chi deve farli questi muri perché il Codice Civile afferma in linea generale che il muro è di proprietà del fondo dominante e quindi è il privato che dovrebbe realizzarli, ma probabilmente il privato sostie6

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ne che è stato espropriato del terreno per la costruzione della strada e quindi l’onere del contenimento è dell’ente pubblico che l’ha espropriato. Resta l’osservazione ovvia che la piena sicurezza della Litoranea non c’è, né per i pedoni né per gli automobilisti fino a quando non verranno costruiti idonei muri di contenimento per tutta la lunghezza della strada. La completa chiusura della Litoranea da parte del sindaco di Casamicciola, Arnaldo Ferrandino, ha determinato un traffico infernale perché tutto è stato dirottato per le strade secondarie di Casamicciola di Piazza Bagni, di La Rita, della Borbonica, per via Eddomade, via Principessa Margherita. Domenica 26 agosto passerà alla storia minima dell’isola d’Ischia come un inferno di lamiere senza precedenti, una delle più caotiche giornate mai vissute nell’isola in piena estate!!! Poi è arrivata una soluzione “provvisoria” – come d’abitudine – con l’apertura con un semaforo sul luogo della frana della Litoranea con una situazione meno caotica. Il caos di quella domenica mi ha riportato ad un intervento del prof. Cristofaro Mennella (1907-1976), presidente del Centro Studi su l’isola d’Ischia apparso sul numero n. 2 del giugno 1967 – quarantacinque anni fa! – che Raffaele Castagna riporta nell’altro suo lavoro Ischia – 1950-1999 Cinquanta anni di vita e di storia dell’isola verde, dove Mennella propone la realizzazione di un secondo anello stradale per l’isola d’Ischia con l’utilizzazione delle strade secondarie e con la costruzione dei tratti mancanti per soli 12 chilometri. Farebbe bene Raffaele Castagna a ripubblicarlo quell’articolo perché sembra scritto oggi, perché sottolinea l’urgenza della soluzione della viabilità isolana, perché prende atto dello sviluppo turistico e quindi della necessità di una “rete sussidiaria” all’unico anello stradale, perché esprime una concezione autentica e seria della Pianificazione territoriale. Scrive Mennella: «Si evitino gli sconci e gli abusi ma non si metta il bavaglio ad ogni iniziativa pubblica o privata. Ischia non può rimanere, integralmente, quella che era cinquanta anni fa, dal momento che la quasi totalità dei suoi abitanti è interessata al suo sviluppo economico in generale e al turismo in particolare; ben venga un piano di sviluppo o di fabbricazione ma non rigido e cavilloso, quasi come se si potesse ipotecare la storia dei decenni futuri. In tal modo dove se ne andrebbero la libertà, la democrazia, lo spirito d’ iniziativa?». Quella di Mennella fu una “predica inutile”, una voce nel deserto perché non è stato fatto un secondo anello stradale e non è stato fatto un serio e credibile piano regolatore generale. Il “provvisorio”, l’ “eterna emergenza”, è continuato con le “opere perpetue” che sono aumentate con la crescita dello sviluppo come la storia della costruzione dei depuratori delle acque reflue mentre la musica della cattiva politica è rimasta la stessa con pessimi maestri.

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Il 28 luglio 2012 inaugurato a Forio

Il Museo di Santa Maria di Loreto

Il 28 luglio 2012 è stato inaugurato a Forio il Museo di Santa Maria di Loreto, fondato dall’Amministrazione della omonima Arciconfraternita, ed ospitato nei locali dell’ex ospedale per i poveri e poi pronto soccorso dal 1954 al 1962. Esso presenta un campionario del patrimonio artistico e liturgico accumulato nel corso dei secoli nella Basilica di Santa Maria di Loreto che costituisce il centro e il fulcro di una intensa e vasta attività religiosa e sociale svolta nei sette secoli della sua storia. I luoghi: l’ospedale Il 15 marzo 1585 i Procuratori della confraternita di Santa Maria di Loreto di Forio chiesero al papa Sisto V per i pescatori di Forio e di altre località il privilegio di pescare nei giorni festivi nelle ore in cui non si svolgevano le celebrazioni liturgiche nella chiesa, di pescare nel tratto di mare da Sant’Angelo a San Montano, purché la quarta parte del ricavato della pesca fosse devoluto a beneficio della confraternita per la ricostruzione della chiesa e il mantenimento dell’ospedale per i poveri ammalati da loro fondato in quell’anno. La morte del papa impedì la spedizione della bolla che fu emanata dal successore Gregorio XIV il 10 dicembre 1590. Così l’ospedale potette iniziare la sua attività a beneficio dei poveri di Forio e di altre parti dell’Isola e spesso anche di marinai di varie provenienze che si trovavano a navigare sul nostro mare. Infatti i documenti contabili dell’ospedale registrano l’entrata e la permanenza in esso di vari marinai, soprattutto liguri, grazie anche ai continui contatti che i naviganti dell’Isola intrattenevano con quelle zone per il commercio del vino. In caso di morte, la confraternita provvedeva a sue spese alle onoranze funebri dei defunti. Abbiamo diversi contratti con i medici addetti alla cura degli infermi e anche per l’acquisto dei medicinali necessari per le cure. Nella seconda metà del sec. XIX furono ampliati i locali con la costruzione di una seconda corsia e altri piccoli ambienti nei quali oggi è ospitato il museo. Negli anni Cinquanta del secolo scorso l’ospedale fu ristrutturato e divenne un Pronto Soccorso nel quale vennero

eseguiti fino alla sua chiusura nel 1962 circa duemila interventi chirurgici di particolare importanza, grazie all’opera e alla bravura medica del dott. Giacomo Corvini, assistito da alcuni medici foriani quali i dottori Leonardo Castaldi, Vito Amalfitano, Leonardo D’Abundo con gli infermieri Angelo Genovino e la moglie Lucia Monti. I mezzi finanziari e tecnici erano, forse, limitati, ma la bravura del chirurgo e dei suoi assistenti è riuscita sempre ad avere la meglio in tutte le situazioni, particolarmente in quelle più difficili, alle quali hanno dovuto fra fronte. Nella stanza, che veniva adibita a sala operatoria dell’ospedale, sono esposti alcuni documenti, anche fotografici, che riguardano l’ospedale che ne documentano l’attività nel corso della sua storia. I luoghi: la Basilica e l’Arciconfraternita

Secondo un’antica e costante tradizione, il culto alla Santa Casa di Loreto giunse a Forio tramite alcuni pescatori o mercanti marchigiani già all’inizio del secolo XIV. Accanto al culto alla Madonna, questi introdussero anche il culto a S. Nicola da Tolentino, morto nel 1307 e proclamato beato pochi anni dopo, mentre fu canonizzato dopo oltre un secolo. Il culto a questo Santo marchigiano fu alimentato anche dalla presenza degli Agostiniani nella nostra Isola nei conventi di S. Maria della Scala al borgo di Celsa e in quello del Soccorso a Forio, che risale anch’esso al sec. XIV. Presto nella chiesa di S. Maria di Loreto fu fondata una confraternita a favore della quale furono disposte le prime donazioni da parte dei fedeli. L’attività della chiesa e della confra-

ternita subì un grave colpo per la terribile invasione del corsaro Barbarossa nel 1544 che devastò l’intera Isola. La ripresa da questa dura prova fu lenta, aggravata da un secondo duro colpo subito intorno al 1563 quando la chiesa subì il furto di due casse contenenti le cose più preziose, tra cui preziose pergamene e documenti dell’archivio, oggetti e paramenti, che erano stati portati al sicuro nel castello d’Ischia in previsione di una nuova invasione corsara. Nonostante la scomunica minacciata dal Papa, i ladri non vennero mai scoperti, per cui i procuratori della chiesa dovettero nuovamente rifare le cose perdute e soprattutto ricostruire l’archivio nella parte che riguardava i legati disposti in suo favore. Inoltre posero mano anche alla ricostruzione dell’antica chiesa sia con le elemosine dei marinai che con i contributi erogati dall’Università di Forio che, per questo, ogni anno designava, e remunerava, il predicatore quaresimale. La ricostruzione della chiesa si protrasse per parecchi decenni anche nel sec. XVII. Accanto alla chiesa grande si sviluppò l’oratorio che, probabilmente, fino all’inizio del sec. XVII, doveva costituire la cappella di S. Nicola da Tolentino. Nel corso del sec. XVIII la chiesa fu completamente restaurata, arricchita di undici altari di marmo, di nuovi stucchi, di marmi alle pareti della navata centrale, delle balaustre del trono della Madonna e di altre suppellettili al culto che era affidato a una quindicina di sacerdoti. La chiesa fu solennemente dedicata il 26 giugno 1785 dal vescovo Sebastiano de Rosa. Questi chiese anche al capitolo Vaticano la corona d’oro per la venerata e taumaturgica icona della Madonna di Loreto dipinta su tavola nel 1560 da un pittore manierista identificato in Decio Tramontano. La solenne incoronazione avvenne il 29 luglio 1787 alla presenza dei reali di Napoli. Per decreto del re di Napoli Ferdinando II del 14 ottobre 1831 la confraternita si fregiò del titolo di Arciconfraternita ”di mera onorificenza”. Nel 1868 papa Pio IX nominò La Rassegna d’Ischia n. 5/2012

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protettore dell’Arciconfraternita il Card. Gustavo d’Hohenlohe, principe bavarese. Il terremoto del 28 luglio 1883 provocò dei danni alla struttura della chiesa per cui furono necessari dei lavori di consolidamento e di restauro. Per iniziativa del Card. Luigi Lavitrano, arcivescovo di Palermo, e di Luigi Capuano, parroco di S. Sebastiano, entrambi sepolti in Basilica, l’icona della Madonna di Loreto fu nuovamente incoronata “nomine Summi Pontificis” dallo stesso Cardinale il 25 luglio 1937 con motu proprio del Papa Pio XI del 24 marzo 1937. Per decreto del 10 giugno 1938 del Card. Eugenio Pacelli, arciprete della basilica Vaticana, la chiesa veniva aggregata alla Patriarcale Basilica di S. Pietro godendo di tutti i privilegi spirituali di questa. Con bolla del 22 novembre 1989, il papa Beato Giovanni Paolo II concedeva alla chiesa, già dichiarata Santuario Mariano Diocesano, il titolo di Basilica Minore, arricchita poi di particolari indulgenze con decreto della Sacra Penitenzieria Apostolica del 20 ottobre 1995

Il Museo

La prima sala presenta alcuni dei cinquanta dipinti esistenti nella Basilica e nell’Oratorio dell’Assunta, cinque tavole e tre taee. La tavola più antica è datata 1582. A quelle qui esposte, bisogna aggiungerne altre sette che sono esposte nella Basilica, a partire da quella della Madonna di Loreto del 1560 attribuita a Decio Tramontano al centro del trono marmoreo dell’abside fino a quella racchiusa in una ricca cornice di legno dorato che si trova nella sacrestia. Il pittore foriano Cesare Calise (Forio 1560 c.- Napoli? 1640 c.) è qui presente con la Visione di S. Giovanni Apostolo. firmata e datata 1601, mentre altre sue opere, realizzate tra il 1596 e il 1607, si trovano in Basilica. L’altro pittore isolano, Alfonso di Spigna (1697-1785) è presente in museo con tre tele realizzate intorno al 1750, mentre in Basilica se ne conservano altre quattro tra cui il Riposo durante la fuga in Egitto, che costituisce uno dei suoi capolavori. La presenza del pittore in S. Maria di Loreto è documentata nelle note di spesa dei libri contabili tra 8

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il 1734 e il 1759. Altre sue opere sono andate perdute a causa del terremoto del 28 luglio 1883 che causò seri danni alla Basilica. La scultura presenta otto piccole statue, tra cui la marmorea S. Caterina d’Alessandria del sec. XVI e un S. Antonio di Padova da attribuire alla bottega dei grandi fratelli scultori Patalano di Lacco: Gaetano (Lacco 1655 – Napoli? 1700 c.) e Pietro Rocco (Lacco 1664 – Napoli? 1740 c.). Tra le sculture conservate in Basilica, vanno notate la Madonna dello Splendore (sec. XVI ) e la Immacolata di Nicola de Mari firmata e datata 1734. Nella terza sala, che costituiva l’antica sala operatoria dell’Ospedale, vi sono esposti alcuni documenti che riguardano l’Ospedale e la sua attività e varie pubblicazioni sull’Arciconfraternita e la Basilica insieme con altri oggetti di notevole importanza. La sala centrale è occupata dalle pianete e altri arredi sacri, tra cui il terno “Dei pappagalli” così detto per la presenza di alcuni ricami riproducenti dei pappagallini, in broccato, e ricami in seta e fili d’argento dorato; e un altro rosso, o rosa, di fattura veneta, entrambi del sec. XVIII. Tra gli argenti si notano la croce processionale del sec. XVIII, le Carte di Gloria in argento del 1757-58 e la Pacella o Instrumentum pacis che si faceva baciare ai fedeli durante la Messa. Risale al 1788 e costituisce un oggetto molto raro. Da notare anche un Vasetto per fiori di arte iraniana, proveniente da Kerman. La quinta sala presenta vari oggetti liturgici tra cui due tronetti per l’esposizione eucaristica, l’urna per il Giovedì Santo, alcune “frasche” di corallo e di “ramocipro” e il crotalo per il Giovedì Santo. La sesta sala custodisce alcuni dei documenti più importanti dell’Archivio dell’Arciconfraternita e della Basilica di S. Maria di Loreto e i registri più antichi dell’amministrazione dei beni della Confraternita che vanno dal 1577 ai nostri giorni. La ricostruzione delle vicende dell’archivio si può leggere nella bibliografia esposta nella sala numero due. Qui si pongono in particolare evidenza il primo registro dell’amministrazione giunto fino a noi e una copia della bolla che ricorda il furto del contenuto di due casse portate sul castello d’Ischia

per essere meglio custodite in un periodo in cui si temeva una nuova incursione di pirati berberi intorno al 1560-63. Inoltre vengono esposti due registri di atti notarili in copia effettuata dal not. Dionisio di Nacèra e da altri notai di Forio. Tutti questi atti si riferiscono ai beni della chiesa. Sono conservati anche alcuni manoscritti corali con raccolta di messe varie eseguite nelle chiese di Forio e altri corali usati dalla Confraternita: risalgono ai secoli XVIII e XIX. Una piccola bacheca è dedicata alla presentazione di copie di alcuni documenti che riguardano la Basilica conservati in altri archivi. Atti notarili rogati a favore della Confraternita dal 1566 al 1656 da vari notai copiati e transuntati dal notar Dionisio di Nacèra (Archivio Basilica Santa Maria di Loreto, I-III-33) Questo è l’ultimo di ben sei notai della famiglia di Nacèra. Al secolo XVI appartengono: Giovan Vincenzo (scheda 317 del fondo: Notai sec. XVI dell’Archivio di Stato di Napoli, con un solo protocollo); Agostino, Giovanni Antonio, Nicola Francesco (dei quali non abbiamo la scheda notarile). Nel sec. XVII abbiamo: Antonio (scheda 162 con trentatre protocolli dal 1619 al 1656) e Dionisio (scheda n. 323 di trenta protocolli dal 1638 al 1673). Figlio del notaio Giovan Vincenzo e di Vittoria Polito, aveva sposato Anna Maria Vallone e non aveva figli. Fu più volte “Procuratore” (cioè amministratore), Razionale (cioè segretario), e notaio di Santa Maria di Loreto. Con atto del notar Alfonso di Maio del 19 agosto 1679 dispose, tra l’altro, che «tutte le scritture, che servivano alla sua sedia (andassero) per beneficio della confratale chiesa di Santa Maria di Loreto, che quelle si consegnino a detta chiesa, et che si paghino al conservatore di detta scheda per ogni copia, o fede, carlini dui, et non più, ancorchè fussero ad altri cesse, et consegnate et dui carlini sono per la cercatura, quanto per l’estratione di copie e fedi». Di tutti i suoi libri si sarebbe dovuto compilare un inventario che non ci è pervenuto. Copie estratte dalli protocolli delli Notari Not. Alfonso di Maio, Not. Francesco e Marc’Antonio Calise. Per uso dell’Archivio della Venerabile Real Chiesa di Santa Maria di Loreto


di questa Terra di Forio 1770 (Archivio Basilica S. Maria di Loreto, I- III35). Di questi notai di Forio, il più antico è Francesco Calise, che è vissuto e ha rogato tra i sec. XVII e XVIII. La sua scheda notarile, è conservata nel fondo Notai sec. XVII dell’Archivio di Stato di Napoli, scheda 642 protocolli dal n. 1 al n. 11 dal 1684 al 1700. Marc’Antonio Calise, nipote del notaio Francesco, è vissuto anche lui tra XVII e XVIII secolo. La sua scheda notarile è andata perduta. Alfonso di Maio è titolare della sche-

da notarile n. 480 del fondo Notai sec. XVII dell’Archivio di Stato di Napoli dal n. 1 al n. 41 tra il 1661 e il 1701. Compilatore di questi transunti è il notaio Antonio Iacono la cui scheda notarile si conserva nell’Archivio di Stato di Napoli, fondo Notai secolo XVIII, scheda 120 protocolli dal n. 1 al n. 45, anni 1708-1755. Copia cartacea della bolla di papa Gregorio XIV del 1596: Concessione della quarta parte della pesca nei giorni festivi A beneficio della rico-

Annelisa Alleva Procida e Ischia Arrivammo a Procida col battello al crepuscolo, e qualcuno scese, ma la nostra destinazione era Ischia. Borbottai nella tua lingua che quella non era la nostra isola, ma restai incantata dalla palazzata color dell’oleandro e di albicocca, dai placidi quarti di luna dei balconi. Navigammo oltre, e scendemmo che era notte. A Ischia restammo una settimana, davanti al castello dei francobolli, leccato dai neri e verdi flutti. Vivevamo in attesa delle fotografie scattate in casa. Non volevi tornare. Per te Ischia restò sempre l’isola felice. Io invece volevo la terraferma, per fare dell’isola una vita. Tu, una volta a terra, ripartisti in fretta. Eccomi, dopo anni, a Procida, davanti a Ischia, l’isola felice. Qui ho steso e ritirato il bucato. Di Procida le onde sono mie, come i capelli: le pettino, le rovescio, e al loro sciabordio rifletto. Ne mangio i pesci, raccolgo i limoni, la osservo allo specchio, e Ischia mi pare lontana. Eppure, quando la vedo a un tratto tutta intera, con le nuvole che la sovrastano, ammassate a imitazione delle reti, penso che questa sia la tua maniera di farti vivo, di ridisegnare in aria il finito. Scambiavo te per una terra, ed eri mare. Eri il falso approdo di una zattera arrischiata. Ora guardo Ischia, perché Procida m’ha insegnato a contemplare.

struzione della chiesa e dell’ospedale (Archivio Basilica S. Maria di Loreto IIII-12 n. 1) Copia della bolla di papa Paolo V del 16 dicembre 1610 anno VI: Conferma della istituzione canonica della confraternita di Santa di Loreto in Forio (Archivio Basilica S. Maria di Loreto, I-III-13) Libro di introito della Pesca 15961634 (Archivio Basilica S. Maria di Loreto- R. 10) Agostino Di Lustro

In

Istinto e Spettri di Annelisa Alleva

Editoriale Jaca book, Milano. Collana I Poeti, prima edizione italiana 2003. Annelisa Alleva (Roma 1956) ha pubblicato varie raccolte di poesie; ha tradotto Puskin, tradotto e curato Tolstoi e molti poeti russi contemporanei.

Dalla pagina ultima di copertina: «Per te Ischia restò sempre l’isola felice. / Io invece volevo la terraferma, / per fare dell’isola una vita». Questi versi rapinosi e sigillanti introducono meglio di ogni parafrasi alla poesia di Annelisa Alleva, autrice ancora giova­ne che ha alle spalle piccole eccellenti pubblicazioni, ma esor­disce qui e ora con un libro organico e importante. È una voce forte, inconfondibile, difficile da definire, ma se volessi­mo semplificare diciamo che è poesia d’amore, la sua, che torna prepotentemente a rappresentare i venti della passione e l’ebbrezza del tempo che trascorre, vissuto non come trage­ dia ma al contrario come prova del suo esistere e della vita stessa. I luoghi, Pietroburgo, Procida, l’Irlanda, rivelano che questa è anche poesia di viaggio, dove il mondo esterno è vis­suto in simbiosi con quello interiore, in sintonia e dissonanza, in relazione vitale: il viaggio non è solo nei luoghi, ma in ogni evento del reale, e il retroterra dell’autore, traduttrice e stu­diosa di scrittori russi, favorisce la nascita di una poesia d’a­more, della natura, dell’avventura nel tempo, del bruciare delle cose, insomma una poesia impetuosa come un vento che sollevi l’anima del mondo. Il paesaggio, gli interni, si scom­pongono come in un mosaico bizantino, per ricomporsi in un movimento nel quale sentiamo il gorgoglio dell’acqua e il cre­pitare del fuoco, la forza che brucia in noi e ci fa vivere (R. M.). La Rassegna d’Ischia n. 5/2012

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Personaggi

Gioacchino Vallariello* : un rapporto speciale con il mondo

delle piante e l’interesse per quelle rare ed endemiche dell’isola d’Ischia di Pino Fois Gioacchino Vallariello nacque a Margherita di Savoia, oggi in provincia di Barletta; primo di 5 figli perse il padre a 12 anni circa e fu mandato nel collegio Enaoli a Formia (LT) nel 1961, a soli 13 anni cominciò la sua vita lontano da casa. Fu lì che lo conobbi e cominciammo il nostro percorso insieme. Frequentammo assieme prima un corso preparatorio in ossequio alla riforma scolastica, che ci consentì di poterci iscrivere all’Istituto Professionale per l’Agricoltura. Dopo una parentesi di un anno trascorso a Rispescia (GR), in cui conseguimmo il Diploma di Esperto Coltivatore, ritornammo a Formia per frequentare l’anno di formazione in Esperto Floricoltore – Giardiniere. Nella primavera del 1965 la scuola di Formia organizzò un viaggio di istruzione a Napoli. Accompagnati dal Prof. Vitaliano Craia, visitammo a Napoli i vivai del Comune, la Villa Comunale e l’Orto Botanico. Fu in quella circostanza che il Prof. Craia ebbe un colloquio con il Prof. Aldo Merola, allora direttore dell’Istituto di Botanica e Orto Botanico, nel corso del quale individuarono alcune modalità di inserimento al lavoro di giovani giardinieri della Scuola di Formia. Ricordo sempre che le richieste del prof. Merola vertevano non tanto sulle capacità fisiche, quanto sull’amore per le piante. Il Prof. Craia ripeteva spesso le sue parole: “ a me interessa che questi giovani che mi manderete abbiano la vocazione per le piante”, indicando chiaramente il tipo di formazione richiesta per poter essere inseriti nell’Orto Botanico. Questa affermazione ha certamente influito sulla scelta dei ragazzi da parte dei responsabili della Scuola. Sia Gioacchino sia il sottoscritto, fummo scelti per essere mandati a lavorare all’Orto Botanico dell’Università di Napoli. La * Margherita di Savoia (Barletta) 1 agosto 1948 - Casamicciola Terme 7 agosto 2011.

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Gioacchino Vallariello in Messico (2007)

nostra avventura comune, dopo l’esperienza scolastica, continuò a Napoli sotto la comune guida del Prof. Merola. La seconda parte degli anni sessanta è stata il periodo sicuramente più bello e intenso sia nel lavoro, sia nel consolidamento della nostra amicizia in quanto abbiamo vissuto insieme l’adattamento all’ambiente lavorativo e al rapporto speciale che il Prof. Merola aveva scelto in modo particolare di avere con noi due. Va qui ricordato che quelli furono gli anni dei primi interventi di rinnovamento del giardino botanico che presentava ancora le ferite dei danni provocati dalla Seconda Guerra Mondiale. L’intento innovativo del Prof. Merola partiva proprio dalla formazione professionale. Il suo impegno di poter ottenere per tutti gli Orti Universitari personale giardiniere di ruolo resta nella storia di queste istituzioni. Certamente il Maestro diede molto sull’attaccamento al lavoro e sull’ onestà professionale, infatti nel 1966 Merola portò Gioacchino e me a Genova, per la prima edizione di Euroflora, poi a Sanremo, Ventimiglia e in Costa Azzurra per visitare vivai e giardini. A Sanremo eravamo curiosi dei luoghi del Festival, così il Professore ci portò a visita-

re il Casinò, poi davanti ad un chiassoso bar ci consegnò un bel pugno di monete per alimentare il Jukebox. Questo viaggio in seguito, influì sulla necessità di proseguire gli studi e dare un’impronta scientifica sulla conoscenza riguardo il mondo delle piante. La prima parte della vita di Gioacchino, dedicata all’Orto Botanico, può essere riassunta nella ricerca continua sulla conoscenza di piante nuove, della loro ecologia, del loro modo di essere coltivate, sviluppando la capacità di essere un tecnico esperto, così da applicare le sue competenze alle diverse esigenze dell’istituto, seguendo fedelmente le indicazioni del Maestro. Competenze ovviamente acquisite sul campo e frutto di ampi confronti e ricerche bibliografiche. Stimolato dal Prof. Merola e con impegno personale, fu così che Gioacchino nel 1973 (?) conseguì il Diploma di Perito Agrario. Gioacchino come uomo era riservato, dava le sue confidenze solo a chi gli esprimeva massima fiducia, il nostro rapporto è stato sempre intenso e comune, per un certo periodo abbiamo anche vissuto nella medesima pensione di via Foria. Alcuni aneddoti di vita non fanno al-


tro che esaltare la ricchezza acquisita nella vita in comune. Quando il Prof. Merola volle realizzare un “angolo cucina” riservato a noi che eravamo giovani e che venivamo da fuori, si venne a creare una solidarietà umana incomparabile perché le occasioni di parlare e confrontarci aumentarono notevolmente. Mi piace ricordare un giorno di sciopero generale del 1969, in cui fummo costretti a non poter entrare nell’Orto, così per la prima volta ci potemmo permettere una tranquilla passeggiata verso il centro della città. Nella Galleria Umberto I, ci sedemmo a bere un caffè e a leggere il giornale, quando una arzilla signora ci indicò con l’indice dicendo: “ecco cosa vogliono fare i giovani d’oggi…” prendemmo questo fatto con filosofia perché eravamo abbastanza coscienti della bontà dei nostri comportamenti in quanto non eravamo certamente abitudinari della Galleria. Il periodo del servizio militare ci separò, successivamente abbiamo condiviso le vicissitudini sopraggiunte della scomparsa del Prof. Merola il 9 novembre del 1980 e del terribile sisma del giorno 23. Nel 1978 si sposò e circa 10 anni dopo si trasferì ad Ischia (NA), isola che ha sempre amato poiché ricca di piante rare ed endemiche. Ha lavorato per Ischia e ha pubblicato vari ar-

La voglia di vivere di una tamerice di Gioacchino Vallariello * Ad Ischia Ponte, nel piazzale delle alghe, in via Pontano e lungo la strada che costeggia la spiaggia della Mandra, i padri dei nostri padri decisero di utilizzare come alberatura stradale le Tamerici (Tamarix gallica L. – Famiglia delle Tamaricaceae). Questa specie è molto resistente ai venti marini, alla salsedine ed alla forte siccità; molto decorativa: quando fiorisce emana un gradevole profumo, ha rami elastici e crescita contenuta che non invade i balconi e le finestre delle case, non sporca i marciapiedi con i propri frutti, infine non è pericolosa per i cittadini che transitano a piedi o con autoveicoli, poiché non produce frutti che possano provocare cadute accidentali o danni agli autoveicoli. Al contrario, si provi ad immaginare cosa può succedere ad un pedone che transiti su di un marciapiede invaso dai frutti di olivo o di carrubo o, peggio ancora, a chi passeggiando tranquillamente venga all’improvviso colpito sulla testa da una pigna piovuta dal cielo. Nel punto dove confluiscono via Seminario e via Pontano è stato recentemente abbattuto un grosso esemplare ultracentenario di Tamerice. Esso ha visto passare sotto la sua ombra almeno tre generazioni di isolani e turisti. L’albero aveva un grosso tronco danneggiato in un passato alquanto remoto, da cause accidentali diverse, alle quali successivamente si sono aggiunti marciume del legno e * Articolo scritto, ma rimasto inedito, all’epoca della riferita circostanza negli anni in cui cominciarono a prevalere altre idee di sviluppo e di progresso.

ticoli molto interessanti dal punto di vista scientifico proprio sugli endemismi ischitani. Desidero soffermarmi ora, appunto su un aspetto poco conosciuto a molti della professionalità di Gioacchino, quello riguardante il suo speciale rapporto con il mondo delle piante. La sua conoscenza del mondo vegetale era completa, soprattutto per la botanica tropicale nei suoi aspetti etnobotanici. Gioacchino, sotto la direzione del Direttore Prof. Paolo De Luca ha svolto varie missioni, tra cui New York, Cuba, Messico e Marocco. Con l’aiuto della figlia di Gioacchino, Roberta Vallariello, la quale ha seguito le stesse passioni del padre per la botanica e lavora nella sezione di Biologia Vegetale, situata nell’Orto Botanico, a stretto contatto con alcuni dei collaboratori di Gioacchino, ho raccolto alcune testimonianze che vorrei inserire in questa nota.

Giancarlo Sibilio, giovane a cui Gioacchino era molto legato professionalmente, racconta di un viaggio fatto con lui in Messico. - Gioacchino Vallariello ha speso molto del suo tempo in viaggi. Alcuni dei quali incentrati in Messico, Paese del quale aveva approfondito aspetti etnobotanici documentacarie che avevano provocato un parziale svuotamento del tronco. Tuttavia, ciò non aveva compromesso la stabilità dell’albero, tanto è vero che per decenni ha continuato a fiorire ed è stato regolarmente potato. L’albero, che voleva vivere ad ogni costo, ha progressivamente attuato alcune tecniche di autodifesa isolando il marciume e la carie del legno e generando nuovi tessuti lungo il tronco danneggiato. La formazione di calli di cicatrizzazione non solo aveva salvato la pianta dai danni subiti, ma aveva anche progressivamente cominciato un reintegro tessutale della cavità del tronco. Come se non bastasse, la Tamerice ha dato un’ulteriore forte dimostrazione della volontà di vivere. Dopo la formazione dei calli cicatriziali, ha iniziato a produrre cellule differenziate che, anziché dare origine a tessuto del tronco, hanno formato una piccola radice nella parte alta del fusto. Con il passare degli anni la radice ha attraversato l’albero raggiungendo il suolo; conquistato il terreno, la radice si è ispessita raggiungendo le dimensioni di un giovane tronco con funzioni non solo di nutrimento ma anche di indubbio sostegno per la stabilità della pianta, come una sorta di pilastro. Questa è la forte vitalità che la Tamerice di Ischia Ponte ha tenacemente dimostrato da quando fu piantata sul bordo di un marciapiede alla fine del 1800. È probabile che l’albero sia stato abbattuto per le esigenze di viabilità urbana, forse perché l’ampiezza del marciapiede era divenuta insufficiente. Ma la domanda che nasce più semplice e spontanea a tutti coloro che con buon senso ed amore vivono l’isola d’Ischia è: Perché non si è considerata la possibilità di coniugare le esigenze urbanistiche, allargando il marciapiede, con la salvaguardia della Tamerice?

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Gioacchino Vallariello su una spiaggia del Marocco (2009) campiona Ipomoea imperati (Vahl) Griseb

Gioacchino Vallariello in Messico (2007) In foto al centro con il prof. Vasquez Torres alla sua destra e il collega Giancarlo Sibilio a sinistra

Gioacchino Vallariello in Messico (2007)

ti in pubblicazioni e congressi. Del viaggio in Messico, di cui posso parlare, perché ebbi la fortuna di poterlo accompagnare, posso dire che ebbe luogo nell’ottobre del 2007 e durò circa due settimane. Durante questo viaggio in particolare Gioacchino, su incarico del Prof. Paolo De Luca direttore dell’Orto Botanico di Napoli, verificò lo stato di alcune piante native delle foreste tropicali del Messico tenute in vivo in un vivaio di Catemaco (Stato di Veracruz). Tali piante erano state scelte 12

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in una missione precedente. In particolare in compagnia del Professore Mario Vazquez ne verificò le condizioni e quando possibile le identificò scientificamente. Compì inoltre dei sopralluoghi in alcuni ambienti di foresta e di mangrovieto per raccogliere semi e campioni e prendere nota delle caratteristiche dell’ambiente che si sarebbe dovuto realizzare nella nuova serra dell’Orto Botanico di Napoli. In collaborazione con Adela Smith, inoltre, tenne un seminario presso la comunità locale di agricoltori, sulla salvaguardia e moltiplicazione degli helechi, felci arboree, usate dai contadini del luogo come semplici supporti per orchidee. Gioacchino Vallariello illustrò invece il loro valore ecologico, la possibilità di utilizzare queste piante proficuamente a scopo commerciale e naturalmente le modalità di moltiplicazione al fine di salvaguardare l’ambiente naturale. Durante il viaggio non mancò di ricercare manufatti di natura etnobotanica presso Veracruz, Città del Messico ed altri piccoli centri. Ricordo delle cucelle in legno di mangrovia acquistate presso un barbiere nella multietnica cittadina di Alvarado a sud di Veracruz. Le cucelle, così come altri manufatti, furono donati al Museo di Paleobotanica ed Etnobotanica dell’Orto Botanico di Napoli. Ahimè posso solo raccontare di questo unico viaggio con lui, tuttavia ricorderò sempre la sua grande disponibilità nello svelarmi i segreti per la corretta cura e gestione delle piante dell’Orto, regalandomi preziosi frammenti di storia e sempre con il suo grande e coinvolgente sorriso. – Questa è solo una delle tante missioni che ha svolto per l’Orto Botanico di Napoli. Il Prof. Paolo De Luca ricorda con un sorriso di quando in Messico Gioacchino era ospite presso la famiglia del Prof. Vazquez Torres, ed era trattato con grande familiarità. Una notte aveva molta sete e bevve tutta l’acqua contenuta in una bottiglia posta su un mobile; il giorno seguente la moglie del professore, Luz Marie più volte lo chiamò “Gioacchino benedetto”. Incuriosito chiese il perché di questo nome; gli fu risposto che aveva bevuto, nella notte, un litro di acqua benedetta! Sempre il Prof. De Luca afferma che Gioacchino Vallariello, durante i numerosi viaggi in Messico, oltre a numerosissime piante vive portò prestigioso materiale di etnobotanica. Portò tutto quel che riguardava la produzione di tequila, portò cocciniglie secche, utilizzate come materiale tintorio; portò un cappello fatto a metà, acquistato da un anziano signore che lo stava preparando e che non capì il perché di questo acquisto. Gioacchino Vallariello fece due spedizioni nel Marocco Atlantico, nel 2002 e nel 2009; dove tra l’altro raccolse in due stazioni numerosi campioni di Ipomoea imperati, la pianta ormai estinta dalla sua Ischia. Appassionato studioso di materiale museale ha notevolmente contribuito all’arricchimento del museo presente all’interno dell’Orto Botanico. Sicuramente questi interessi hanno occupato intensamente l’ultima parte della sua attività professionale che, ahimé, ha coinciso poi praticamente con la fine della sua vita. La gioventù si può dire che l’abbiamo vissuta insieme ed


insieme abbiamo sognato il nostro futuro che si è concretizzato in un crescendo umano e professionale frutto di sacrifici ma soprattutto della scuola di vita trasmessa dal Maestro. Certamente questo piccolo scritto non è assolutamente esaustivo di ciò che doverosamente occorre scrivere per Gioacchino, comunque esso viene dal cuore in quanto l’aspetto umano di ognuno di noi deve prevalere sul resto. Nel caso di Gioacchino si può senz’altro precisare che sia l’aspetto umano sia quello tecnico-scientifico della sua persona, producevano un giusto equilibrio basato sulla saggezza, frutto dell’esperienza di una vita. Esperienza che ha condiviso successivamente e per circa 30 anni con il Prof. Paolo De Luca, direttore dell’Orto Botanico dopo il Prof. Merola, ricca di eventi e successi che ho avuto modo di osservare dall’Orto Botanico di Cagliari dove mi ero nel frattempo trasferito. Ad un anno esatto dalla sua prematura scomparsa torna in mente la sua figura di uomo serio e appassionato del lavoro, dando l’impressione di non affaticarsi affatto tanto era la sua passione. Proprio come la possedeva il suo indimenticabile Maestro da cui ha saputo ereditare le migliori virtù. Tra le persone di Ischia che hanno conosciuto Gioacchino, cito l’agronomo Francesco Mattera , che mi ha fatto pervenire la sua testimonianza tramite Roberta: - Ho avuto l’onore ed il grande piacere di conoscere e frequentare Gioacchino Vallariello , e di apprezzarne le grandi doti umane e la notevole sobrietà di comportamento, che ho sperimentato nelle purtroppo scarse occasioni di contatto reciproco che abbiamo avute. Infatti ho conosciuto tardi questa splendida persona, e di questo non ho, purtroppo, che da rammaricarmi. Tuttavia sin da subito ho avuto modo di percepire la sua immensa passione per il mondo vegetale e di toccare con mano la sua profonda conoscenza della flora dell’isola d’Ischia. È stato un punto di riferimento importantissimo nella identificazione di piante a me sconosciute, o delle quali avevo bisogno di una conferma sulla loro esatta collocazione sistematica. La sua disponibilità era totale ed entusiasta, specialmente con chi condivideva la sua stessa passione. Sovente abbiamo avuto discussioni molto interessanti sugli aspetti fitosociologici ed ecologici della nostra isola. In qualche occasione mi ha confidato il suo rammarico per iniziative di basso respiro intraprese da enti o persone niente affatto amanti della natura, e da cui aveva per tempo preso le distanze. Ho presto realizzato, quando era in vita, che la flora dell’isola d’Ischia era tutta intera custodita nella sua testa! Era il depositario di una conoscenza costruita con pazienza in anni ed anni di lavoro e studi naturalistici certosini. Per questo si era da subito guadagnato la mia ammirazione incondizionata. Ricordo con emozione il ritorno dalle sue missioni all’estero per conto dell’Orto Botanico di Napoli: mi faceva partecipe dell’esperienza raccontandomi particolari di assoluto interesse e non mancava mai di portarmi un ricordo prezioso di quei suoi viaggi. Il rammarico ed il dolore per la perdita di un amico sincero è, oggi, mitigato dalla consapevolezza che l’uomo Gioacchino ha lasciato a tutti noi un’eredità immensa di conoscenze, ma soprattutto di coerenza, serietà e attaccamento ai valori fondamentali della vita e dell’amicizia. Per l’amore che ha dimostrato per la nostra isola, Gioacchino è stato ed è anco-

Formia (1964) - Gruppo in una serra In alto da sinistra Fois e Vallariello

ra un figlio adottivo di Ischia a cui tutti gli ischitani devono essere idealmente e perennemente grati -. Testimonianza di Antonino e Vincenzo Italiano La proverbiale flemma di Gioacchino Vallariello vacillò quando l’ottusità del responsabile del verde pubblico del Comune di Ischia, per far largo ai cartelloni pubblicitari, fece tagliare la tamerice che da più di cento anni troneggiava all’incrocio tra via Seminario e via Pontano. Allora Gioacchino scrisse un articolo (rimasto inedito), per educare i giovani al rispetto del verde pubblico. Tagliare inutilmente un albero, per Gioacchino, era come tagliargli un dito, perché il suo spirito era ed è immanente nella flora d’Ischia e contribuire alla scomparsa di una essenza è l’azione più scellerata che si possa commettere. Alcuni anni fa, in collaborazione con il Centro Studi Isola d’Ischia, Gioacchino ripiantumò tre piantine di Kochia saxicola sul primo scoglio di Sant’Anna, verso il Castello, e ci raccomandò di accudirle per un certo tempo, finchè non avessero attecchito. Il progetto era di reinserire nel luogo originario, dove era stata scoperta e descritta per la prima volta dal botanico Gussone nel 1855, una pianta rarissima. I semi di questa pianta, dopo la scomparsa dagli scogli di Sant’Anna, erano stati raccolti a Strombolicchio da Gioacchino e fatti riprodurre nelle serre dell’Orto Botanico di Napoli. Gioacchino era una persona squisita con una sensibilità botanica eccezionale. Mentre andavamo agli scogli con la barca per ripiantare la Kochia, Gioacchino ci disse “Accostiamoci al castello, voglio controllare una cosa”, e ancora poco dopo, “tutto bene, ci sono ancora e sono numerose”. Si trattava delle piante di Aloe vera, nate spontanee e selvatiche sul lato sud del Castello, che lui aveva individuato da anni e nessuno sapeva che ci fossero. L’anno scorso una delle tre piantine di Kochia ripiantumate, quasi contemporaneamente alla scomparsa di Gioacchino, è seccata, le altre due vanno avanti e noi quando sentiamo la mancanza di Vallariello andiamo sullo scoglio ad innaffiare le piantine rimaste e a salutare lo spirito di Gioacchino. Pino Fois Il 21 settembre 2012 all’Osservatorio Geofisico 1885 di Casamicciola Terme ricordo di Gioacchino Vallariello, in collaborazione con il Centro Studi dell’isola d’Ischia.

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Da Le anfore greco italiche di Ischia: archeologia e archeometria

Appunti sull’economia del Golfo di Napoli in età ellenistica:

i dati delle anfore greco italiche antiche di Gloria Olcese

C. van der Mersch ha sostenuto a ragione che l’archeologia del territorio non ha fornito fino ad ora molti dati espliciti sul mondo del vino campano tra IV e III secolo a.C. Allo stesso modo J. P. Morel e A. Tchernia hanno sottolineato che alcuni aspetti legati alla produzione del vino nella Campania del III secolo a.C. non sono chiari, in particolare l’identità dei produttori, i vettori commerciali e il ruolo giocato da Roma1. Lo studio della cultura materiale di Ischia e il confronto con quella di Napoli, anche se solo agli inizi, con l’ausilio di analisi di laboratorio, offrono dati preliminari sulla produzione e sul commercio del vino del Golfo di Napoli e sulle prime fasi della espansione economica romana nel Mediterraneo occidentale. Le anfore greco italiche antiche, oggetto di questo studio, in particolare, costituiscono un indicatore importante della situazione economica e commerciale tra la fine del IV e il III secolo a.C., momento in cui Roma si affaccia al meridione ed estende il controllo a Neapolis e al Golfo, in funzione anche di un equilibrio nel Tirreno. In questa fase, Neapolis, che trae vantaggio dall’alleanza con Roma in seguito al foedus aequum del 326 a.C, vede notevolmente incrementati i suoi rapporti commerciali con l’esterno, come è rilevabile anche dalla monetazione e dall’intensificarsi dell’attività della zecca napoletana2. Alcuni risultati della ricerca effettuata a Ischia sono riassunti nelle pagine che seguono sotto forma di appunti preliminari, in attesa che approfondimenti ulteriori ne consentano una interpretazione esaustiva e con l’auspicio che gli argomenti trattati possano essere ripresi e sviluppati dagli specialisti dei diversi settori. Da questo studio infatti sono nate altre domande che presuppongono ulteriori approfondimenti e nuove indagini non limitate alla interpretazione dei dati della cultura materiale.

1. Anfore greco italiche a Ischia e nel Golfo

Nonostante le zone coinvolte nella produzione di vino nell’Italia tirrenica siano molte e, a ragione, si sia cercato Per un riesame della problematica, van der Mersch 2001,189 con la bibliografia relativa (nota 327); diversi spunti interessanti si trovano nei numerosi lavori di J-P. Morel e A. Tchernia, a titolo di esempio Morel 1986 con i riferimenti alla situazione e all’economia di Neapolis e con la bibliografia precedente. Per motivi di brevità non è possibile ricordare tutta la vasta bibliografia sul Golfo di Napoli e sulle problematiche economiche in epoca ellenistica a cui molti studiosi, tra cui il Lepore, lo Johannowski, il Cassola e, più recentemente, lo Zevi, il Mele e il De Caro hanno apportato contributi fondamentali. 2 Per la storia economica e sociale di Neapolis, Lepore 1952, id. in Storia di Napoli I. Per la monetazione di Neapolis, Cantilena et al. 1986. 1

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negli ultimi anni di metterle in luce, il peso della Campania e, in particolare, del Golfo di Napoli, quale area di origine di anfore greco italiche - ma soprattutto di vino di qualità - che hanno circolato ad ampio raggio, emerge sempre più chiaramente già tra la fine del IV secolo a. C. e nella prima metà del III. Proprio il Golfo di Napoli rappresenta nel corso dei secoli un’enclave unica nel suo genere, favorita dalle condizioni naturali, dalla fecondità della terra, dalla posizione logistica delle sue isole, dalla forte tradizione artigianale, fin dai tempi della colonizzazione. Pithecusa, in modo particolare, conosciuta per la sua fertilità, è al centro di intensissime correnti emporiche, a ragione definita “la porta che immetteva nella via dei ricchi traffici del Tirreno”3. L’eukarpia di Ischia è ricordata dalle fonti antiche4 e nell’isola ha avuto un peso importante la produzione vinicola continuata fino ad epoche recenti, per lo meno fino agli anni ‘40 del ‘900. La produzione di anfore è attestata sull’isola fin dalle epoche più antiche e l’ampliamento della ricerca alle strutture legate alla produzione del vino sull’isola sta facendo emergere dati nuovi5. Non è azzardato supporre che a Ischia siano state prodotte continuativamente anfore, dall’età arcaica fino all’epoca tardo antica, anche se con alcuni momenti di interruzione6. Più in generale, nel golfo di Napoli, sono stati fabbricati tutti i tipi di anfore greco italiche, dal tipo II al VI7 e la produzione è stata forse incrementata, a partire dalla seconda metà del IV secolo a.C, dalla diffusione della vite aminea8. A Napoli, la vite era coltivata sulle colline della città e le tradizioni vinicole del Golfo, probabilmente risalenti alla colonizzazione euboica, come attestano il culto di Dioniso e l’onomastica legata al vino, erano rimaste vive e presenti9. Nel IV e nel III secolo a.C. le colture arbustive specializzate si erano diffuse non solo nell’area costiera della Campania ma anche nel Beneventano e nella zona del Volturno10. Il rapporto tra Ischia e Napoli è emerso con chiarezza dallo Raviola 1995, p. 122. StraboneV, IV. 9; Mele 1986 e 2000. 5 Si veda a questo proposito il capitolo II. 6 Mancano per ora attestazioni delle greco italiche tipo II. Non è neppure ben chiaro se sia stato prodotto il tipo VI. 7 Per la produzione di anfore di tipo MGS II a Napoli, Febbraro, Giampaola, Atlante c.s., Tagliamonte 2010 (in questo caso si tratta di un’anfora tipo II con un’iscrizione prima della cottura, rinvenuta a Vico Equense e attribuita all’area di Pompei e, meno probabilmente, a Pontecagnano). 8 Mele 1986, pp. 360-361; voce Aminaea, in RE I, II, pp. 1835-1837. 9 Mele 1986, pp. 360-361; Mele 2000. 10 Cerchiai 1995, p. 201. Produzioni vinicole sono segnalate dall’età tardo arcaica nel territorio di Stabiae e dell’altura del Deserto di S. Agata dei due Golfi nella penisola sorrentina, Cerchiai 1995, p. 137. 3 4


Le anfore greco italiche di Ischia: archeologia e archeometria - Artigianato ed economia nel Golfo di Napoli di Gloria Olcese

Edizioni Quasar di Severino Tognon srl, Roma – Contributi di Stefania Giunta, Ioannis Iliopoulos, Valerio Thirion Merle e Giuseppe Montana – Presentazione di Stefano De Caro e prefazione di André Tchernia – Dedicato a don Pietro Monti, rettore del Santuario di S. Restituta in Lacco Ameno e direttore degli omonimi Scavi e Museo – In copertina: I vigneti di Monte Vico. pag. 478. Lo studio fa parte di un progetto di ricerca più ampio relativo al quartiere artigianale sito sotto la Chiesa di Santa Restituta di Lacco Ameno d’Ischia e ai suoi reperti. All’area archeologica di Santa Restituta, scoperta e indagata dal Rettore della Basilica Don Pietro Monti, è dedicato un volume che sarà pubblicato a breve e in cui verrà preso in considerazione il tema della produzione ceramica a Ischia nel corso dei secoli, argomento ricco di bibliografia e solo parzialmente toccato in questo lavoro. Il volume è strutturato in nove capitoli, a cui si aggiungono i cataloghi. Il primo presenta gli obiettivi, le difficolà e i limiti di una ricerca. Il secondo capitolo è dedicato al vino di Ischia, che costituiva probabilmente il contenuto delle anfore greco italiche, e alle strutture legate al mondo del vino sull’isola. Il terzo è incentrato sulla tipologia delle greco italiche di Ischia/Golfo di Napoli. Il quarto capitolo tratta dei bolli in greco sulle greco italiche di Ischia e il quinto è un catalogo ragionato di alcuni bolli e della loro circolazione. Il capitolo sesto comprende i dati archeometrici, chimici e mineralogici e i contributi dei colleghi, V. Thirion Merle, G. Montana e I. Iliopoulos. I capitoli settimo e ottavo sono un tentativo di ricostruzione della circolazione delle anfore greco italiche di Ischia/Golfo di Napoli; essi comprendono anche i dati preliminari sulle analisi di laboratorio di siti siciliani. L’ultimo capitolo (IX) riassume i risultati ottenuti e contiene un primo tentativo di interpretazione dei dati in chiave storico-economica: di questo pubblichiamo, per gentile concessione dell’autrice, alcuni paragrafi. studio delle ceramiche di Ischia e testimonia a favore di un legame tra i due centri. La ricerca in corso chiarirà meglio se la prima fase della produzione, relativa alle greco italiche antiche tipo III e IV, individuata nelle fornaci di Santa Restituta, interessi anche le officine di Napoli, come sembrerebbero testimoniare alcuni scarti trovati recentemente durante gli scavi della Metropolitana11. Dai nuovi studi emergeranno forse altri elementi per chiarire ulteriormente i rapporti amministrativi ed economici esistenti tra Napoli e Ischia tra IV e III secolo a.C.

2. Il quartiere artigianale di Santa Restituta e le greco italiche Il quartiere artigianale di Santa Restituta a Lacco Ameno, esistente già dall’epoca della colonizzazione, viene rinnovato e ampliato, probabilmente nella seconda metà del IV secolo a.C, con la creazione di nuove fornaci per la fabbricazione di ceramiche, laterizi e anfore12. La posizione delle fornaci, nei pressi di una baia protetta 11 12

In corso di studio da parte di L. Pugliese e S. Febbraro. Notizie di riassetto urbano in Campania alla fine del IV secolo riguardano

e non lontano dal mare e dalle colline in cui si coltivava la vite, non distante neanche dalle zone di approvvigionamento dell’argilla, corrisponde a uno “schema” logistico produttivo già riscontrato, sempre in epoca ellenistica, anche in altre aree, ad esempio in alcune isole della Grecia13 . Le anfore greco italiche sono prevalenti nell’area di Santa Restituta e i frammenti diagnostici appartengono ai tipi III, IV, V e VI14. La maggior parte dei reperti è costituita però da anse frammentarie bollate, spesso non riconducibili a tipi precisi; un aiuto determinante è venuto dai confronti con i materiali di altri siti, in cui quegli stessi bolli sono impressi su anfore di tipologia riconoscibile15. Le anfore sono bollate con bolli in tra l’altro la Valle del Sarno e Pompei (De Caro 1986); quest’ultima entra a far parte delle civitates foederatae del popolo romano. I nuovi scavi hanno permesso di portare alla luce alcune fornaci di laterizi al di sotto della Casa dei Cubicoli, la cui produzione è finalizzata alla realizzazione della copertura delle case (Pesando 2010, p. 244 con bibliografia precedente). 13 Per la situazione di Rodi (ma anche di Thasos e Cnido), Empereur, Picon 1986, pp. 124-125; Picon, Garlan 1986. 14 Come si è già detto, le condizioni in cui è avvenuto lo scavo negli anni ‘50 del secolo scorso non hanno permesso di acquisire dati nuovi a proposito della cronologia delle anfore greco italiche. 15 Un esempio riguarda il bollo ZΩ, ampiamente documentato a Ischia ma

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greco: in alcuni casi sono gli stessi documentati a Neapolis16 e in altri siti del Mediterraneo (Aleria, Gela e Sicilia punica, Nord Africa), oltre che sul relitto Filicudi F, recuperato nelle acque delle isole Eolie17. Da approfondire è la ricerca su alcuni bolli comuni al patrimonio italico, ad esempio ΛOYKIOY, ΓNAI[O]Y, CIBIΩ; va accertato se appartengano a personaggi oschi oppure latini che scrivevano in greco. Questi bolli potrebbero indicare infatti l’avvenuto ingresso dei Romani nel “sistema di produzione” greco del Golfo di Napoli.

3. Ischia e/o Napoli? I dati di laboratorio La presenza di anfore simili a Ischia e a Napoli, talora con gli stessi bolli, ha aperto la via ad un confronto ancora in corso, in base a criteri archeologici e di laboratorio18. Si tratta di anfore prodotte in tutti e due i siti? Oppure le anfore di un sito hanno raggiunto anche l’altro? Non si sa molto dei rapporti tra l’isola e Napoli in questo periodo e non è certo questa la sede per riprendere la discussione sull’appartenenza, generalmente ammessa, di Ischia a Napoli, e sulle eventuali conseguenze amministrative di tale legame. Le analisi di laboratorio, chimiche e mineralogiche, effettuate in più riprese dagli anni ‘90, hanno permesso di conoscere le composizioni delle anfore rinvenute a Ischia e a Napoli che sono distinguibili da quelle di altre aree geografiche della stessa Campania (non si confondono ad esempio con quelle della zona del Vesuvio o della Campania settentrionale interna)19. Le analisi chimiche sulle anfore di Ischia rivelano l’esistenza di gruppi e sottogruppi che rappresentano la produzione di più officine. Uno di essi, il gruppo D, è attribuito a Ischia, in base a criteri di laboratorio e archeologici. Gli altri insiemi chimici, definiti E ed F20, che potrebbero comprendere il materiale di più officine, contengono i campioni di anfore di Napoli (scavi della Metropolitana) e di altre località del Mediterraneo, la maggior parte delle anfore di scarico Gosetti e pochi campioni da Santa Restituta. Sulla base dei soli dati delle analisi chimiche gli insiemi E ed F non sono attribuibili ad una località precisa del Golfo di Napoli. Se ai dati chimici si aggiungono però le evidenze archeologiche (i contenitori sono stati rinvenuti in un’area - Piazza Nicola Amore - interpretata da chi ha condotto lo scavo come sede di attività produttive)21 e i risultati delle analisi mineralogisolo su anse frammentarie, che è stato però possibile ricollegare all’anfora tipo IV grazie ad un esemplare intero del carico del Filicudi F (capitoli III, VII). 16 Si vedano i capitoli IV e V. 17 Si tratta di un carico intero di anfore di tipo IV con bolli che corr|spondono in parte a quelli di Ischia e Neapolis, si veda il capitolo VII. 18 Il materiale di Napoli proviene dai recenti scavi della Metropolitana, più volte citati nel corso di questo lavoro e per i quali si rimanda a Giampaola 2009 e a Febbraro, Giampaola 2009. Per quanto riguarda le analisi sui materiali di Neapolis, per ora sono state effettuate 14 analisi chimiche e 7 mineralogiche sulle anfore, grazie alla disponibilità di D. Giampaola, S. Febbraro e L. Pugliese, con cui era stato avviato un progetto di studio e di confronto (Febbraro et al. c.s.a.b.) 19 Picon 988, p. 255. 20 Non si tratta di veri e propri gruppi, si veda in proposito il testo della Thirion Merle nel capitolo VI. 21 Nell’area non sono state individuate strutture appartenenti a fornaci ma un significativo numero di scarti, Febbraro, Giampaola 2009.

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Gli scavi sotto la chiesa di S. Restituta in Lacco Ameno

che riassunte di seguito, è possibile ipotizzare con più forza che l’insieme chimico E - F rappresenti la produzione di Neapolis e/o di altre località del Golfo. Fondamentale è stato l’apporto delle analisi mineralogiche che hanno favorito il collegamento dei gruppi chimici alle possibili aree di origine e hanno permesso l’attribuzione alla Campania e al Golfo dì Napoli di alcune anfore rinvenute nei siti di consumo e sui relitti. Le composizioni mineralogiche delle anfore che cadono negli insiemi chimici E/F sono analoghe a quelle del materiale di Ischia ma il degrassante ha granulometria differente22. L’analisi mineralogica ha portato alla suddivisione delle anfore rinvenute a Ischia, a Napoli e in altri centri, in quattro gruppi petrografici maggiori23, di cui il primo certamente attribuibile a Ischia. Il II e il III sono simili tra loro dal punto di vista della composizione mentre presentano differenze tessiturali; poiché il sottogruppo IIa comprende uno scarto di fornace rinvenuto a Napoli, si potrebbe ipotizzare che si tratti di ceramiche prodotte a Neapolis, se pur con le riserve già espresse24. Il gruppo IV ha una composizione simile ai gruppi II e III ma è probabilmente da attribuire ad un’altra area che non è né Ischia né Napoli, ma si colloca nel Golfo e potrebbe, ma non è certo, essere Cuma25. La gran parte dei campioni dei relitti delle isole Eolie sono stati assegnati ai gruppi II e III, riportabili più genericamente al Golfo di Napoli, pochi al I (che corrisponde alla produzione individuata a Ischia). In base alle prime analisi, quindi, le anfore che hanno circolato, più che da Ischia, da cui provengono alcuni contenitori bollati rinvenuti anche in Sicilia tra il IV e il III secolo a.C, potrebbero essere riportabili genericamente al Golfo di Napoli e, forse, a Napoli stessa, anche se rimane aperto il quesito della provenienza dell’argilla utilizzata. I dati geologici ci dicono che a Ischia sono documentate argille compatibili con quelle di alcuni gruppi mineralogici individuati analizzando le anfore; la mancanza di studi approfon22 Nei materiali degli insiemi E/F è più fine e di altra dimensione rispetto a quello di Ischia. 23 Si veda il testo di I. Iliopoulos nel capitolo VI. 24 Si veda a questo proposito il capitolo VI.1.4. 25 Si veda il testo di I. Iliopoulos nel cap. VI. L’attribuzione a Cuma dei campioni bollati Trebio Loisio è proposta in base al confronto con ceramica da cucina rinvenuta in quel sito e in base ai dati mineralogici della bibliografia (Grifa et al. 2009).


diti sulle argille, però, impedisce per ora di avere un quadro completo delle materie prime disponibili sull’isola, dove potrebbero esistere giacimenti di argilla utilizzati in antico ma diversi da quelli a cui i ceramisti hanno attinto per fabbricare le anfore rinvenute nelle fornaci di Santa Restituta. Per contro, la situazione geologica di Napoli non depone a favore di una produzione locale di anfore come quelle sottoposte ad analisi, fabbricate con argille sedimentarie26. I rinvenimenti di scarichi di ceramica a vernice nera nell’area di Corso Umberto e Vico San Marcellino e quelli di ceramica tardo antica e alto medievale in Piazza Nicola Amore, dove sono stati recuperati anche scarti di anfore greco italiche del tipo più recente, documentano, però, l’attività di officine, probabilmente operanti nell’area compresa tra le fortificazioni di Neapolis e il mare, attività che si è protratta nel tempo27. Non sappiamo quindi con quali materie prime le anfore di Napoli siano state fabbricate. L’ipotesi di un trasporto di argille da Ischia a Napoli, formulata in passato e documentata in epoche più recenti - nel Cinquecento, ad esempio -28 è possibile ma non può essere verificata attraverso studi di laboratorio29.

4. La bollatura delle anfore greco italiche rinvenute a Ischia Di grande interesse è la documentazione epigrafica delle anfore di Ischia che ci informa sulla organizzazione della produzione e sulla realtà economica e sociale dell’isola in epoca ellenistica. Le conoscenze sulla bollatura di questo periodo sono molto più limitate di quelle già acquisite in Grecia dove il fenomeno sembra assumere significati diversi da centro a centro30. Proprio gli studi effettuati in numerosi siti greci di età ellenistica hanno fornito i primi spunti per l’interpretazione della bollatura nel Golfo di Napoli, con ipotesi preliminari che andranno verificate e approfondite da ricerche future. Non sappiamo quando sia incominciata la bollatura delle anfore greco italiche a Ischia e, più in generale, in Campania31: nell’area delle fornaci sono attestati bolli sui tipi III, III/IV e IV e, quindi, dalla seconda metà del IV e nei primi decenni del III a.C. Ne sono stati rinvenuti oltre trecento che riportano nomi greci (alcuni di probabile origine ionico-euboica) e oschi, scritti in greco. Pare evidente che la pratica della bollatura sia da collegare al commercio del vino, esportato via mare. In alcuni casi i nomi sono troncati progressivamente, fenomeno legato forse alla organizzazione interna della produzione, il cui significato preciso ancora sfugge32. Alcune anfore di Napoli e dei relitti eoliani, in base alle analisi mineralogiche, sembrerebbero essere realizzate con la mescolanza di argille diverse (comunicazione Iliopoulos). 27 Febbraro et al. c.s. a, b; Febbraro, Giampaola 2009; Carsana et al. 2007, studio relativo alla produzione ceramica in epoca tardo antica e altomedievale che si aggiunge a quelli del Morel su Napoli. 28 Buchner1994, p. 22. 29 Si veda a questo proposito il capitolo VI. 30 Garlan 1993, p. 184. 31 Le anfore di epoca arcaica rinvenute a Ischia non sono bollate (Di Sandro 1986); un’iscrizione incisa prima della cottura compare su un’anfora MGSII da Vico Equense, Tagliamonte 2010. 32 Si veda il capitolo IV, par. IV. 5. 26

Talvolta i nomi impressi sui bolli delle anfore sono gli stessi che compaiono sui laterizi, in qualche caso preceduti dall’abbreviazione ∆H; non è chiaro se si tratti di una produzione ceramica e/o laterizia “statale” o destinata allo stato, a seconda di come viene interpretata l’abbreviazione33. Lettere libere o monogrammi impressi sulle anfore di Ischia sembrano, in alcuni casi, corrispondere a quelli che compaiono sulle monete di Neapolis del IV e III secolo a.C. Se non è una coincidenza dovuta a omonimie, come è possibile, si potrebbe trattare di riferimenti agli stessi personaggi pubblici, forse magistrati. Se così fosse, il fenomeno potrebbe essere la spia di un sistema produttivo organizzato e di una serie di scelte orientate a esercitare un controllo sui contenitori e sulla produttività del territorio e anche sul commercio dei prodotti di qualità, come il vino; oppure potrebbe essere il risultato di una misura atta a fornire una garanzia di quantità e/o del contenuto, come proposto da alcuni studiosi34. Il dibattito in questo campo è molto animato e, purtroppo, i dati a disposizione per Ischia e per il Golfo non sono così espliciti da consentire di stabilire quale delle due ipotesi sia più vicina alla realtà. La motivazione per cui si bollano le anfore greco italiche non è conosciuta e si inserisce in un più ampio dibattito sulla bollatura delle anfore in genere, procedimento giustificato da fattori diversi, a seconda delle aree geografiche e del periodo36, in via ipotetica si potrebbe pensare ad un fenomeno causato da circostanze analoghe a quelle che hanno portato, in epoca precedente, alla bollatura delle anfore di Chio nel 430 a.C, forse in relazione alla legge ateniese dei pesi e delle misure36. La situazione di Thasos37 (411/410 a.C.) ci informa sull’esistenza di norme fiscali e di documenti legislativi tesi a regolare la produzione e il commercio del vino dell’isola e che riguardavano: 1) un regime di tipo fiscale che prevedeva delle imposte sulla produzione del vino 2) la protezione dei produttori di vino nei confronti dei mercanti 3) il mantenimento di un controllo rigoroso sulla costa e sulle acque territoriali. Per l’isola greca è stata ipotizzata l’esistenza, forse sempre a fini fiscali, anche di altre leggi che avrebbero coinvolto la produzione dei recipienti. Poiché l’inizio - o l’incremento - della bollatura a Ischia (e a Napoli?) sembra coincidere a grandi linee con la stipula del foedus tra Romani e Neapolitani del 326 a.C, potrebbe esserci un collegamento tra i due avvenimenti, così come ipotizzato per la coniazione delle monete napoletane, nello stesso periodo38. Si veda il capitolo IV; Garlan 2001; Raviola 1995, p. 118; Small 2006, in particolare p. 192. 34 In alcuni casi le sigle, il cui significato non è chiaro, potrebbero essere indicazioni di capacità. Si veda a tal proposito il capitolo IV 35 Garlan 2000, con bibliografia precedente. 36 Garlan 2000, p. 169. 37 Garlan, Introduction (www.archweb.cimec.ro); Garlan 2000 p. 171;Salviat 1986. 38 L’ipotesi è della Breglia 1952b ripresa più recentemente in Cantilena et al. 1986; si veda in proposito il capitolo IV. 33

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Ci si chiede quindi- ma siamo sempre nel campo delle ipotesi - se il foedus tra Romani e Neapolitani del 326 a.C, con l’apertura a nuove opportunità mercantili, non abbia determinato tra le sue ricadute una riorganizzazione (a fini fiscali?) con forme di controllo e/o di garanzia anche per i contenitori e/o per le derrate prodotte, come avvenne per le monete. Se così fosse, si comprenderebbe meglio il fenomeno di “accensione” a catena di attività produttive e artigianali concernenti ceramica e metalli, con l’organizzazione (o riorganizzazione) delle officine ceramiche e della zecca napoletana già all’indomani del patto del 326 a.C. Non mancano altrove esempi in tal senso in epoca più recente: il foedus stipulato nel 229 a.C. tra Atene e Roma, per esempio, ha comportato la riorganizzazione delle miniere e della coniazione delle monete ad Atene39. Per quanto riguarda la bollatura delle anfore, la Grace ha supposto ad esempio che l’apparizione di sigle (che indicano quelli che l’autrice definisce “duoviri” sui bolli di Cnido) sia da collegare all’apparato della tassazione e alla riorganizzazione della provincia romana d’Asia alla fine del II e all’inizio del I secolo a.C.40 L’indagine effettuata ha solo sfiorato questa e altre tematiche importanti che meritano ulteriori approfondimenti già in corso.

5. Le anfore greco italiche: una traccia della situazione produttiva di Ischia e del Golfo di Napoli in età ellenistica L’economia del vino, soprattutto quello di qualità, può essere alla base di grandi profitti e necessita di regole, controlli di interventi statali, talora di “protezionismo” e di misure fiscali41, come lo studio del vino greco, ad esempio quello di Thasos, ha dimostrato42: sull’isola, ma anche in altri centri che erano al contempo città portuali e produttrici di vino esisteva dal V secolo a.C. una classe di viticoltori, proprietari o affittuari, con insediamenti equipaggiati per la produzione, e un’altra di commercianti, con il capitale, dedicati al commercio marittimo43. I dati più utili alla ricostruzione di un “sistema produttivo” vengono dallo studio delle strutture di produzione e della cultura materiale, e dall’indagine sui bolli; inoltre, dall’utilizzo incrociato di dati epigrafici, archeologici e archeometrici. La situazione di Ischia emerge con chiarezza, quella di Napoli è in corso di studio da parte della Soprintendenza competente. Dai dati disponibili, passibili di modifiche anPer le immagini, www.snible.org/Coins/hn/Attica.html, Athenian Coins of the “New Style”; Thompson 1961, p. 32 e seguenti; sulle monete di argento di Atene del “New Style” compaiono due magistrati annuali (il primo rappresentato da un monogramma) uniti a simboli e, talora, al nome di un terzo magistrato. La presenza di alcune lettere è stata messa in collegamento con il mese dell’anno lunare in cui le monete sono state coniate. 40 Grace, Savvatianou 1970, p. 322; Grace 1971. 41 Salviat 1986, p. 183 e seguenti descrive gli interventi tesi a tutelare il vino di Thasos che, secondo l’Autore, beneficiava probabilmente di franchigia, mentre altri vini, ad esempio quelli delle regioni costiere della Tracia non potevano probabilmente essere imbarcati sulle imbarcazioni di Thasos. 42 Salviat 1986, p. 181. L’articolo illustra il caso di Thasos e alcune leggi riportate dalle fonti scritte. 43 Salviat 1986, p. 182 e nota 66. 39

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che a breve termine grazie ai risultati delle indagini sui reperti degli scavi della Metropolitana, si evidenzia la presenza, nei due siti, di anfore greco italiche dalle caratteristiche simili (tipi IV, V e VI - queste ultime in percentuale molto modesta a Pithecusa e decisamente predominanti a Neapolis, dove sono documentati anche scarti di fornace). Per quanto il confronto dei reperti dei due siti sia stato effettuato solo preliminarmente44, alcuni bolli sembrano essere attestati sia a Ischia che a Napoli, taluni in percentuale maggiore e con una varietà di matrici più evidente in un sito piuttosto che nell’altro. La continuazione delle indagini di laboratorio contribuirà a mettere in luce più chiaramente le caratteristiche delle anfore eventualmente prodotte a Neapolis45 e si potrà anche verificare l’esistenza di un “sistema” produttivo “istituzionale” analogo e parallelo nei due siti, dipendente da consuetudini/ regole comuni e che faceva riferimento agli stessi personaggi, forse pubblici. Tale realtà potrebbe essere simile a quella descritta per alcune isole greche in età ellenistica, Rodi, ad esempio; gli studi di Empereur e Picon hanno dimostrato, grazie all’utilizzo di analisi di laboratorio, che in più siti dell’isola e anche della terraferma (la cosiddetta “Perea”), o ancora nei territori integrati sottoposti “istituzionalmente” a Rodi, venivano prodotte anfore dalle caratteristiche morfologiche comuni (ad esempio le anfore con orlo “a champignon” o le Dressel 4), destinate a contenere il prodotto al centro del sistema economico comune, cioè il vino rodio46. L’esempio dell’ “economia insulare” di Thasos alla fine del V secolo a.C, inoltre, è stato scelto dal Raviola per descrivere il rapporto tra Neapolis e Pithecusa47: Thasos è una polis che controlla i traffici commerciali nella zona compresa tra l’isola e la terraferma, imponendo delle tasse alle merci e alle imbarcazioni di passaggio e vietando di introdurre vino straniero tra il monte Athos e il capo Pacheio, con misure protezionistiche48. Pithecusa, situata su una rotta mercantile da secoli molto frequentata, è, probabilmente in modo non dissimile da Thasos, l’esempio di “un’economia insulare” basata anche sui commerci. L’isola è forse in età ellenistica, come lo era stata fin dalla seconda metà del V secolo a.C, la peraia di Neapolis, a cui offre il potenziale per il decollo economico49; l’organizzazione produttiva dell’isola e quella della terraferma, che ruotano anche intorno alla produzione del vino, sembrano, in definitiva, coincidere. I recenti studi di G. Finkielsztejn sulle anfore e sui bolli di età ellenistica in Grecia, infine, offrono interessanti spunti di riflessione che meritano di essere approfonditi da ricerche Grazie alla disponibilità delle colleghe Giampaola, Febbraro e Pugliese. È il caso del gruppo mineralogico II, si veda il testo di I. Iliopoulos, capitolo VI, par. VI.4. 46 Empereur, Picon 1986, p. 112 e seguenti; Empereur, Tuna 1989, pp. 287292. 47 Raviola 1995, p. 340, pp. 120 e seguenti. 48 Raviola 1995, p. 123 e, in particolare, nota 75; per Thasos, Salviat 1986, p. 183; Garlan 1999 b con bibliografia. 49 Raviola 1995, p. 122- 124 in cui vengono chiariti i termini del confronto e le differenze dal momento che nel caso di Napoli e Ischia è la terraferma a costituire il centro amministrativo di riferimento. Per condividere questa tesi bisogna accettare che nel periodo considerato, IV/III secolo a.C, Ischia appartenesse a Napoli, a questo proposito si veda la nota 28 del capitolo I. 44 45


future50. L’Autore ha evidenziato come esistesse nello spirito dei Greci di età ellenistica una relazione tra l’ambito della coniazione delle monete, dei pesi e delle misure e quello della fabbricazione delle anfore (attraverso la forma e il bollo), in quanto espressioni di garanzia da parte della città responsabile. Nel mondo greco si faceva riferimento a campioni di misura (étalons) sui sekomata, sui pesi ed è ipotizzabile che si ragionasse allo stesso modo anche per le anfore, utilizzate forse da più città che formavano una koiné e commerciavano insieme51. Un esempio di riferimento è offerto dalle anfore con orlo triangolare o a champignon fabbricate nel sud est dell’Egeo tra IV e III secolo a.C52 L’adozione di una stessa forma di anfora da parte di più centri di produzione di una regione poteva costituire un segno di riconoscimento della scelta condivisa di un dato “campione” di volume da parte dei membri della comunità53; questo accordo era forse il risultato di una politica comune nelle relazioni commerciali nel Mediterraneo tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C. Non è forse un caso se, anche nel Golfo di Napoli, viene adottata l’anfora greco italica alla fine del IV/inizi del III secolo a C., anfora che, pur con specificità morfologiche, assomiglia a quella à lèvre en “champignon” greca. La scelta delle anfore tipo IV e V da parte di più centri di produzione del Golfo (come le analisi sembrano indicare) potrebbe quindi rappresentare - ma va verificato - il segno di riconoscimento dell’adozione di recipienti simili in una stessa area.

6. Centri di produzione in Campania e in alcune aree nel Tirreno meridionale54 Le indagini effettuate ad Ischia andrebbero allargate anche ad altri siti del Golfo, ad esempio alla penisola sorrentina, a Pompei e all’area di Cuma55, per individuare eventuali produzioni locali. Ulteriori ricerche sarebbero necessarie anche nella zona compresa tra il Lazio meridionale e la Campania settentrionale, nell’area di Capua e a Piscinola56 (nella zona di Sessa Aurunca), ad esempio. Le prime analisi di laboratorio effettuate sulle anfore di alcuni siti57 hanno permesso di stabilire che le composizioni mineralogiche delle greco italiche sono differenti da quelle delle anfore di Ischia e del Golfo di Napoli; come era prevedibile, esistevano altri centri di produzione sia nella Campania settentrionale interna sia nel Lazio meridionale, di cui attualmente si sa poco o nulla. Questi primi dati lasciano ipotizzare produzioni locali di anfore da collegare forse al L’argomento è trattato nel capitolo IV. Garlan 2000, pp. 76-78; Finkielsztejn 2006, p. 28. 52 Finkielsztejn ricorda a questo proposito gli studi di Empereur, Picon e Lawall. 53 Finkielsztejn 2002 e 2006. 54 II paragrafo contiene solo qualche indicazione preliminare su dati emersi nel corso della ricerca, senza alcuna pretesa di esaustività. 55 A Sorrento la produzione di anfore è documentata in epoca successiva dalla presenza di scarti di Dr. 2/4, Russo 1999; Olcese, Atlante.c.s.; a Cuma si conosce la fabbricazione di ceramiche da cucina e di altri contenitori, grazie anche ad analisi di laboratorio, Grifa et al. 2009. 56 Si veda il capitolo VIII, par.VIII 2. 57 Nell’ambito del progetto Immensa Aequora, www.immensaaequora.org. 50 51

vino della zona58. Molto più a sud, siti di produzione erano probabilmente attivi anche in Calabria: nota è la produzione di Locri, Centocamere59. C. van der Mersch ha incluso Hipponion tra i centri di produzione delle anfore greco italiche: l’anfora greco italica tipo IV di Hipponion è infatti ritratta anche sulle monete del periodo 330/220 a.C.60 Un primo controllo diretto di questo contenitore61 ha permesso di stabilire che non si tratta di un’anfora greco italica del tipo IV “canonico”; il puntale è diverso da quello delle anfore campane, ad esempio, e fa pensare piuttosto ad anfore prodotte in Grecia oppure a imitazioni locali delle stesse; l’impasto, inoltre, è differente da quello delle produzioni del Golfo. Per quanto riguarda i centri di produzione della Sicilia, l’assenza di studi mirati impedisce di fare il punto preciso della situazione della fabbricazione delle greco italiche62. Alcuni erano probabilmente collocati nella parte meridionale dell’isola: uno di essi era Selinunte, dove una rapida ricognizione nei magazzini63 ha permesso di individuare, tra i materiali dell’Acropoli, alcuni scarti di fornace di greco italiche; numerosi sono i frammenti dei tipi IV e V di modulo piccolo, il cui impasto di colore chiaro è distinguibile da quelli campani ed è apparentemente molto simile a quello di alcuni contenitori esposti nel Baglio del Viaggiatore. Il fatto che la produzione siciliana non sia stata ancora evidenziata con chiarezza potrebbe essere dovuto ad una lacuna degli studi ma potrebbe anche derivare dal fatto che la produzione di vino era in questo periodo ancora “irrilevante”, come l’ha definita il Manganaro in rapporto al vino importato, quello rodio, ad esempio 64. A Gala sono documentate anfore greco italiche campane (Golfo di Napoli), come è emerso da questa stessa ricerca. Alcune delle anfore greco italiche di Camarina hanno un impasto differente da quelli campani, come è stato confermato dalle prime analisi mineralogiche effettuate65; sempre a Camarina sono documentate però anfore e bolli di importazione dalla Campania. Indagini mirate meritano alcune zone dell’Etruria meridionale in cui sono attestate greco italiche antiche, ad esempio la zona di Pyrgi/Caere e, forse, anche l’area di Tarquinia66.

Gloria Olcese

Le anfore di Piscinola, che ho potuto vedere grazie alla cortesia delle dottoresse Ruggi d’Aragona e De Filippis, sono in corso di studio da parte di A. De Filippis. 59 Barra Bagnasco 1995, p. 78, con bibliografia precedente. 60 Van der Mersch 1994, p. 75; Enotri e Brettii in Magna Grecia, p. 23 61 Esposto nel Museo di Vibo Valentia e che ho potuto vedere grazie alla cortesia e alla disponibilità delle dottoresse A.M. Rotella e M.T. lannelli. 62 Le notizie preliminari relative alla Sicilia (raccolte nei capitoli VII e VIII) sono il risultato di una prima serie di controlli effettuati a partire dall’anno 2002 in più magazzini di siti archeologici dell’isola, con lo scopo di individuare il materiale di origine campana. 63 Grazie alla collaborazione della Soprintendenza Archeologica di Trapani. 64 Manganaro 1980, pp. 428-429. 65 Si tratta di impasti rossi con una superficie beige chiaro, tendente talora al verde chiaro. 66 Dati ottenuti nell’ambito del progetto Immensa Aequora. 58

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Presso la sua casa natale alla Piazzetta Mezzavia

Una targa in ricordo di Eduardo Ciannelli attore teatrale e cinematografico

Il 20 ottobre 2005 con delibera n. 921 la Giunta Comunale di Lacco Ameno, vista anche l’istanza del Signor Luigi Iacono dell’1.9.2005 (prot. n. 11076), deliberava di intitolare “Piazzetta Eduardo Ciannelli”, antistante la casa natale dello stesso2, la già detta Piazzetta Mezzavia; determinazione supportata dalla vita di Eduardo con fondamento nella sua personalità composita e poliedrica con notevole successo mediante il canto e la recitazione, oltre che nella sua attività nel campo dell’arte cinematografica e teatrale. Benché nel 2005 fosse reso “immediatamente eseguibile” il provvedimento, soltanto nell’ultimo mese di luglio di quest’anno 2012, ha ricevuto attuazione, anche se è stata modificata in parte quella decisione, poiché si è passati alla semplice apposizione di una targa in ricordo: Eduardo Ciannelli (1888-1969) attore teatrale e cinematografico in questa casa nacque il 30 agosto 1888 – Il Comune di Lacco Ameno a ricordo pose – Lacco Ameno 25 aprile 2007. Compare qui un’altra data possibile in cui forse si doveva procedere alla manifestazione, poi ancora una volta rinviata, visto che i tempi della politica non sono spesso quelli delle idee, e soltanto adesso curata in primis dalla nipote e con la partecipazione delle persone del posto. Nell’occasione è stato anche presentato il video “Un ischitano a Hollywood, Eduardo Ciannelli” che descrive l’avventura umana e professionale di un ischitano di altri tempi dall’Italia all’America, da Broadway a Hollywood, dal gangster movie ai film d’autore, un protagonista e un testimone della storia del cinema, con l’isola nel cuore. Il video, curato da Marco Bizzarro e Salvatore Ronga con Caterina e Paolo Ciannelli, è visibile al sito: http://vimeo.com/6597857. Interrogato in proposito, il sig. Luigi Iacono ha detto di aver conosciuto Eduardo Ciannelli non certo per le 1 Sindaco: Domenico De Siano; assessori: Carmine Monti, Agostino Polito, Giovangiuseppe Zavota, Pascale Giacomo, Restituta Irace, Calise Carmine. 2 La famiglia alternava la propria residenza tra Napoli ed Ischia. L’autunno e l’inverno a Napoli, in una casa a Monte di Dio; primavera ed estate nell’isola, dove i Ciannelli avevano vari interessi. Tra l’altro, la proprietà delle Terme di Santa Restituta a Lacco Ameno. Quella che era un’attività professionale di Nicola Ciannelli diventava per i suoi figli (quattro maschi, di cui Eduardo era il più piccolo, e una femmina, arrivata per ultima) l’occasione per una prolungata, invidiabile vacanza. Fosse nato in inverno, Eduardo sarebbe dunque stato napoletano: il caso, o il mistero che presiede agli eventi d’amore, volle invece che fosse ischitano.

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strade di Lacco Ameno, ma proprio in America, sua terra di adozione e di successo: «Quella volta… agli inizi degli anni ’50, quando ero imbarcato sul piroscafo Nereide della Società Italia, arrivati a San Pedro della California, mi sono recato a terra alla VI strada per fare l’acquisto di una incerata per il tavolo da cucina (mia moglie mi aveva raccomandato di portargliela al ritorno). Sono entrato nel primo supermercato (dal nome americano 5 e 10), dove le commesse, tutte donne, non mi capivano nel mio slang italo-americano. Ad un certo punto mentre le commesse sorridevano, si avvicinò un’altra commessa a chiedermi in italiano cosa volessi. Mentre procedevo all’acquisto, la signorina mi ha chiesto se fossi di Napoli, ho risposto che ero dell’isola d’Ischia, al che mi ha detto che anche lei era dell’isola d’Ischia, di Lacco Ameno; a questo punto le ho detto che anch’io ero di Lacco Ameno ed ho chiesto chi fossero i suoi parenti. La ragazza si chiamava Concetta Calise ed era figlia di Michele Calise e nipote di Maria Salva Monti, molto amica di mia madre, e mi chiese di aspettarla fuori all’uscita del supermercato perché mi avrebbe portato a casa sua per salutare i suoi parenti. Arrivati a casa Maria Salva mi ha fatto festa per il piacere di vedermi a San Pedro della California, abbiamo cenato e dopo Michele mi ha voluto accompagnare in macchina a Long Beach dove eravamo ormeggiati col Nereide. Il viaggio è continuato fino all’Alaska per caricare radici di alberi da scaricare a Genova, al ritorno ci siamo ancora fermati a San Pedro ed io sono andato a salutare Maria Salva.


Appena arrivato, dopo la solita festa, mi hanno organizzato una visita ad un’altra famiglia di Lacco che si trovava a San Pedro: i Taliercio (pesce d’oro). Ci siamo recati all’ufficio della federazione del porto di cui un Taliercio, Girardengo, era presidente. Mentre eravamo in ufficio è venuto il padre di Girardengo (commerciante di agrumi proveniente dalla Florida) al quale il figlio mi ha presentato come paesano e, mentre gli spiegavo chi fossi (alla fine lui era stato amico di mio padre), è entrato Eduardo Ciannelli che è stato molto gentile ed affettuoso con me. Successivamente sono venuto a Lacco ed incontrando per la strada don Luigi Ciannelli, fratello di Eduardo, gli ho raccontato dell’incontro ed allora mi ha pregato di portare dei quadri con vedute di Lacco Ameno al fratello in un mio successivo viaggio. I quadri con vedute di Monte Vico, del Fungo e della spiaggia di San Montano sono stati consegnati durante un incontro a casa dei Taliercio a San Pedro. Ho sempre portato nella memoria quegli incontri e quando, qualche anno fa, si è parlato di intestare delle strade a personalità lacchesi, ho pensato che il “Piazzone” antistante il palazzo Ciannelli poteva portare il nome di Eduardo Ciannelli a ricordo dei giovani che non lo hanno conosciuto, ma lo possono vedere in tanti film ed a memoria delle future generazioni. La figura e l’attività di Eduardo Ciannelli fu ricordata a Lacco Ameno nel 1984 in occasione del Premio Ischia per autori cinematografici italiani (31 maggio – 1 giugno 1984): ne tracciò il profilo Guido Cincotti con un ampio reportage3, dal titolo: Eduardo Ciannelli, Ischia – Broadway – Hollywood e ritorno. La famiglia Ciannelli - Nel n. 2/2005 de La Rassegna d’Ischia, Giovanni Castagna, ricordando il centenario dell’inaugurazione delle Terme Regina Isabella, riportava alcune notizie e testimonianze in merito alla figura di Nicola Ciannelli, che in parte riportiamo in questa nota (l’articolo integrale si può trovare nell’arAlcuni momenti della manifestazione e presentazione in foto di alcuni momenti della vita di E. Ciannelli

3 Testo riportato in La Rassegna d’Ischia n. 1/1995 e visibile anche sul sito www.ischiainsula.eu (sezione Pagine d’autore).

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chivio de La Rassegna d’Ischia sul sito: - www.larassegnadischia.it nell’anno 2005): «Nel 1905 venivano inaugurate le Terme della Regina Isabella ad opera di Nicola Ciannelli, almeno come appare dal manoscritto di un abbozzo di articolo, redatto sicuramente dallo stesso Ciannelli e datato «ottobre 1907»: «Una quarta industria, sorta appena due anni indietro e ancora giovane è quella balneo-termaleminerale. Il Lacco possiede uno stabilimento che può gareggiare con i più rinomati d’Europa, giacché fornito di quanto di meglio può richiedere la balneo-terapia: camerini spaziosi ed aerati, vasche di cristallo, sala per doccie, per inalazione, per polverizzazione, per irrigazione, per arenazione. Lo Stabilimento si addimanda: Regina Isabella dal nome delle sue acque che sono le più radio-attive del mondo, possedendo 372 unità elettrostatiche, superando di quasi tre volte quelle di Baden Baden e Gastein che finora avevano fama di essere le più radio-attive». Napoletano di origine, lacchese per elezione, come si definisce, Nicola Ciannelli comprò dal Comune di Lacco Ameno l’ex giardino dei Padri Carmelitani, annesso al loro convento di Santa Restituta, e nel 1898 iniziò la costruzione dello stabilimento. «I sogni e le aspettative sono grandi. I risultati e i guadagni limitati», scrive Pasquale Polito. Nel 1907, Ciannelli addebita la non riuscita completa del suo progetto sia all’incomprensione e al mancato sostegno da parte dell’amministrazione comunale, sia alla mancanza di strutture adeguate, villini e pensioni, capaci di accogliere i forestieri ed anche a mancati collegamenti diretti con Napoli, per cui esige lo sbarco dei vapori della società napoletana di navigazione a Lacco Ameno, «uno degli scali più sicuri dell’Isola». Aveva esperienza personale delle difficoltà per recarsi a Napoli e ritornare, lui che con la sua famiglia faceva spesso la spola tra la metropoli e l’Isola, da dove ripartiva ogni fine estate. In un carnet, la moglie, Caterina Nesbitt, annotava quello che si doveva lasciare a Lacco e ciò che si doveva imbarcare per Napoli, un elenco a parte comportava tutte le cose del «caro Nicolino». Comunque, facendo astrazione delle difficoltà iniziali, che sono proprie di ogni nuova iniziativa, la fortuna non fu dalla sua parte: scoppio della prima guerra mondiale e l’arresto, quindi, delle correnti turistiche, la febbre spagnola, poi, che a Lacco Ameno, per fare un esempio, fece 49 vittime (30 donne e 19 maschi) dal 13 ottobre al 24 dicembre 1918, per cui Ciannelli si vide costretto a vendere al ragioniere Arcangelo Mastrolillo nel 1919. Morì, due anni dopo, il 19 aprile 1921 all’età di 62 anni. La moglie Caterina, figlia di Nathaniel e di Luisa Gauban, morì, anche a Lacco Ameno, il 13 ottobre 1929, all’età di 86 anni.

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Presentazione in foto di alcuni momenti della vita di E. Ciannelli


Uno scrittore russo ad Ischia nel 1829

Stepan Ševyrëv A cura di Michail Talalay Traduzione dal russo di Alessandra Romano

Per la prima volta si presenta al pubblico italiano una brillante ma dimenticata figura dell’Ottocento europeo: Stepan Ševyrёv. Lo scrittore nacque il 30 ottobre del 1806 nell’antica città di Saratov, sul Volga e, concluso un prestigioso college a Mosca, prese servizio al Ministero degli Affari Esteri. A questo periodo risalgono le sue prime opere letterarie: versi, racconti e saggi critici. Il lavoro statale lo annoiava e, giovane e preparato qual era, accettò l’invito della principessa Zinaida Volkonskaja - figlia dell’inviato russo a Torino il principe Belosel’skij-Belozerskij e che poi si stabilirà definitivamente a Roma - a diventare il tutore di suo figlio e partire per un Grand Tour all’estero. Il Grand Tour del giovane principe e del suo istruttore durò quasi 4 anni, dal 1829 al 1832, trascorsi principalmente in Italia e Svizzera. Quasi all’inizio stesso del viaggio, nel 1829, Ševyrёv soggiornò un mese ad Ischia: all’isola sono dedicate le pagine dei Diari qui pubblicate. Al suo ritorno a Mosca divenne prima docente universitario e, dopo aver discusso una tesi sulla “Teoria della poesia nel suo sviluppo storico, presso i popoli antichi e moderni” (1836), salì al grado di professore ordinario. Tra il 1838 e il 1840 Ševyrёv visse ancora all’estero, partecipando alle lezioni dell’Istituto Archeologico di Roma, seguendone corsi a Berlino, Monaco, Parigi, Londra, lavorando in biblioteche, incontrando scienziati europei. Gli fu assegnato il titolo di Dottore in Filosofia all’Università di Parigi, fu eletto membro scelto della Società Artistica di Atene e della Società Filologica di Zagabria. Al ritorno riprese il posto all’Università di Mosca e fu nominato Preside della Facoltà di Filosofia. Nel 1847 il noto filologo divenne membro dell’Accademia Russa di Scienze. Ševyrёv era soprattutto vicino al grande scrittore Nikolaj Gogol’, leggeva le bozze delle sue opere, stabiliva rapporti con i librai, guidava le sue operazioni finanziarie. Dopo la morte di Gogol’ Ševyrёv prese parte attiva all’analisi delle sue carte e si adoperò per la pubblicazione postuma delle opere. Lo stesso Gogol’

Stepan Ševyrëv

scrisse di Ševyrёv: “Quest’uomo si distingue a Mosca per la sua finezza intellettuale e in lui maturano cose positive per la Russia”. Ma il destino volle diversamente. Nel 1857, quando a una riunione del Consiglio della Società d’Arte di Mosca uno dei suoi membri, il conte Bobrinsky, si scagliò contro lo status quo in Russia, il temperamento patriottico di Ševyrёv emerse bruscamente. Durante il litigio Ševyrev ruppe una costola al conte (!), quindi fu licenziato dall’Università e poco dopo lasciò la Russia per sempre. Morì a Parigi il 20 maggio 1864, a 57 anni. Il suo lavoro è stato dimenticato nel corso del XX secolo poiché un rappresentante del pensiero conservatore nella Russia sovietica non poteva venire ristampato. A Ischia Ševyrёv trascorse un mese nell’estate 1829, quando aveva solo 23 anni. In quel periodo terminò il suo primo romanzo Vadim La Rassegna d’Ischia n. 5/2012

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sul Medioevo russo; il finale di questo importante lavoro trova posto nel Diario. Le fresche sensazioni della gioventù si riflettono nei versi sul mare, le montagne, la natura di Ischia. Ma già allora gli era congeniale la ricerca filologica e infatti riportò osservazioni sull’antropologia ischitana e sviluppò riflessioni sulle traduzioni della poesia clas-

Stepan Ševyrёv

- Diario ischitano

31 luglio [1829], venerdì. Monsieur D’Evant, al quale ho consegnato la lettera con Vadim e tanto altro, si è recato a Napoli. Quindi la invierà domani, 1° agosto.

31 luglio. Ho ricevuto lettere dalla cara zia, da Verstovskij, Mel’gunov e Pogodin. Ricevere lettere qui mi provoca una sensazione così intensa, mi riporta così vividamente in patria, tra i miei cari, che non lo so descrivere. 30 luglio. Stasera siamo stati nei pressi della chiesa in rovina. La vegetazione qui è più ricca, l’aria più luminosa, e ci sono più alberi. Qui si apre una vista strepitosa: l’intero golfo di Napoli, i confini di Procida, Miseno, Pozzuoli, i canali che li dividono, l’abbraccio voluttuoso del mare, il Vesuvio, Castellammare, Sorrento. Un’inquadratura magnifica! 26 luglio, domenica. Mi sono svegliato presto e ho visto sorgere il sole. Un eccellente Claude Lorrain! Il sole sorge sulla Solfatara! Il mare sembra d’argento, l’intera volta celeste è coperta da un giallo rosato, le montagne tra le nebbie. Il bagliore del sole che risorge non è paragonabile a niente. Il mare a poco a poco si fa blu, striato… 30 luglio. Abbiamo visto, passeggiando, il tramonto, che per la terza volta vedo sul mare. Che spettacolo! Sembrava un vaso antico. Un po’ alla volta prima una palla, poi un pantheon, una cupola e alla fine un cappello di papa. 26 luglio. Domenica. Siamo andati sugli asini a Lago [Lacco Ameno, NdT]. È uno dei migliori posti di Ischia. Poco distante dalla riva c’è una roccia tra le acque che per la sua forma viene chiamata “fungo”. Non ci può essere niente di più piacevole del guardare le onde del mare, la sera, che si infrangono a riva o sugli scogli del litorale. La gente qui è spaventosamente accattona. Non vi avvicinate se non volete che vi si chieda “date mi qualcosa”: è un’abitudine napoletana. Abbiamo incontrato un povero stolto. Era semi-nudo. Vive perennemente per strada e non conosce casa. Si chiama Ieronimo [Geronimo]. Sembra un perfetto negro totalmente annerito 24

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sica latina (Virgilio) e il legame di questa col territorio partenopeo. I Diari dimenticati di Ševyrёv sono stati stampati in Russia recentemente, nel 2006. Questa è la prima traduzione in italiano. Michail Talalay

dal sole. Tutti qui sono scuri. Raramente vedi volti più chiari. Il colorito olivastro è tipico degli italiani. Infatti Raffaello, pittore nazionale, il colore lo ha preso dal paesaggio umano. Alcuni osano tradurre scrittori nazionali come, ad esempio, l’autore de Il campo di Wallenstein [Friedrich Schiller] ecc., e non osano tradurre Virgilio, scrittore altrettanto nazionale. Nei suoi versi si riflette tutta la natura napoletana. Dove la trovi da noi quella vegetazione che vedi a Napoli? Tra il nostro fieno non ce n’è. E dove trovare un termine per la sua “Georgica”? Ad Ischia non ci sono per niente insetti velenosi né tarantole né vipere. Ci sono serpenti, ma così piccoli e docili che si possono prendere in mano e legarseli al collo. L’abate, il nostro padrone di casa, ci raccontava che una volta portarono del legno dall’altra costa e in qualche modo un serpente si intrufolò. Lo morse, ma non risultò nocivo. I serpenti, attraversato il mare, perdono la loro tipicità. È l’effetto del freddo. Anche la gente qui non possiede il veleno della collera italiana soprattutto napoletana. Sono docili. L’altro lato dell’isola è più prolifico. Tutta la montagna, fin sopra la cima, è disseminata di vigneti terrazzati. Il monte di San Nicola è il ‘San Pietro’ di Ischia. È visibile da ogni parte. Ha due cime, una verde, l’altra sembra sabbiosa, ma è di creta. Le montagne hanno un profilo molto affilato. La terra qui non possiede le forme voluttuose della Toscana né quelle tranquille di Weimar, le rocce sono tutte stratificate. La terra a fatica gode del mare voluttuoso, ma è pur vero che la terra che guarda il mare porta in grembo vigneti e tante altre ricchezze. Ad essa è estranea la sterilità degli altri paesi costieri. Dalle strade della città di Ischia si vedono colate laviche sulla montagna e tracce di terribili devastazioni, una scena gloriosa per Vadim. Ai due lati dell’isola ci sono due città: dalla parte di Napoli Ischia la cui fortezza sulla roccia l’ha voluta la natura. Dall’altro lato Forio, una cittadina deserta che una volta abbiamo raggiunto in barca. Da qui si vedono ancora delle isole, su una delle quali furono rinchiusi i carbonari napoletani


ma non severamente. Avevano diritto a usufruire di tutto purché non mettessero piede fuori dall’isola. C’è una profezia sull’isola, raccontata da un beato (Beato Giovanni Giuseppe della Croce), secondo la quale un giorno il vulcano esploderà di nuovo e l’isola di Ischia sprofonderà in mare: ecco il finale per i miei ultimi innamorati. Il corpo di questo beato riposa a Napoli. Durante i terremoti gli abitanti hanno molta paura. In generale la gente qui è molto superstiziosa. Temono stregoni e fattucchiere. Di una persona dal volto assai brutto si dice che prima fosse stato un lupo. E di facce spaventose qui ce n’è tante. Tra le altre cose il domestico di casa nostra è sporco, sciatto e ha il soprannome spaventoso di Bruto ma allo stesso tempo è servizievole, un bravo ragazzo. I contadini, o meglio i ciucciari (da “ciuccio“, “asino“), quando parlano fra di loro lo fanno imprecando e amano terribilmente gesticolare come nel balletto napoletano. Murat, si dice, ha fatto un grande favore ai napoletani. Il Re di Napoli è molto malato, vecchio e brutto di per sé. E tutta la famiglia, a giudicare dai ritratti, è come lui. Le tasse sono piuttosto alte e si estendono a tutto. Ce lo ha detto il padrone di casa. Qui c’è una specie di piccolo fico che cresce d’inverno, la profiga [“profico”, NdT]. Vengono appesi agli alberi di fico vero e proprio e se ne nutrono le mosche. I paesani ritengono che così nasca un fico migliore. L’inverno qui quasi non c’è. Al posto della neve la pioggia. Solo San Nicola si copre di neve per un po’. La neve la si prende da lì o da Castellammare. A volte ci sono tempeste marine ma a luglio tutto il cielo è pulito. Le nuvole sono rare e sorprendentemente leggere e ariose. Vi si intravede il ‘manto di Persefone’. Mercoledì 29 luglio abbiamo visto un fulmine in lontananza che ci ha ricordato una nostra tempesta estiva. Ieri 30 luglio ho visto una nuvoletta sul sole che sembrava una mosca. 31 luglio. Mi prometto di leggere a Napoli le Georgiche di Virgilio e oggi stesso comincio. E pure il sesto canto dell’Eneide. 1 agosto, sabato. Monsieur D’Evant ha inviato la mia lettera a Mosca con Vadim e tanto altro.

dalla roccia, e una chiesa più che discreta per un posto simile. In montagna cresce una moltitudine di ginestra fragrante. Vi pascolano capre e pecore. Abbiamo bevuto latte di capra, munto lì stesso: un nettare. 3 agosto, lunedì. Per l’ora di pranzo ho finito Vadim. Parte per Mosca sabato 8 Agosto. 5 agosto, mercoledì. Siamo stati nella torre costruita da Alfonso [I d‘Aragona, NdT] Da lì c’è una veduta magnifica dell’isola: una piccola isola indiana. Quanti fichi d’India e aloe! Che natura rigogliosa! Ma non possiede una grazia, una vita estetica, è rude. Criticano i traduttori delle opere nazionali (popolari) di prendersi per impegno l’impossibile. Ma intanto io non ho mai sentito che hanno criticato un traduttore delle Georgiche virgiliane. Ma dove prendere nella nostra lingua una tale quantità di piante succose menzionate da Virgilio? Dopotutto è un autore nazionale. E in quale grande poeta non si riflettono il suo paesaggio e il suo popolo? Raffaello è altrettanto nazionale. Guardate i suoi colori, sono quelli della sua gente. 6 Agosto. Vicia [Veccia, una leguminosa, NdT] habitat delle gru. Lolius Tribulus medica, un’erba per cavalli. Lupinus, lupino, da lupo, fagiolo di lupo. Sempre a Virgilio appartiene l’idea che dopo le piante occorre piantare verdure per far riposare la terra. Lino, avena e papavero seccano i campi. Infidum marmor, falso marmo (il mare). Hordeum, orzo, Faselu, fagiolo, Linum, lino, Avena, avena, Papaver, papavero, Trisicea, grano. E le formiche fanno passaggi stretti Litigiosità dalle fitte ali Teniua nec lanae per coelum vellera ferri Chi le ha viste a Napoli capirà tutto il senso di questo paragone con le nuvole. Liquefacta saxa, espressione che ha senso sul Vesuvio - Corylus, nocciolo - Arundo, canna Assai notevole che nel terzo canto delle Georgiche, parlando delle colture, Virgilio ricordi le fatiche di Ercole. 7 agosto, venerdì. Ecco cosa è affisso a casa dei no-

2 agosto. Siamo stati di mattina al monte San Nicola, l’albero maestro dell’isola di Ischia. Da qui c’è una vista che spazia da un lato su monti e isole di Napoli e dall’altro sulla distesa marina. Si vede tutta l’isola, coi suoi villaggi, le rocce e i terrazzamenti. Là, nel rifugio ospitale di tre eremiti ci siamo imbattuti nell’alba. Ed essa ci ha rivelato i vecchi vulcani, due dei quali ai lati dell’isola, e il più importante al centro. Questo monte si chiama Epomeo. Vi è un corridoio tutto scavato La Rassegna d’Ischia n. 5/2012

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stri padroni, nella camera inferiore dove si scende dalla terrazza. È un mezzo di prevenzione contro i terremoti. Ci dice il Cardinal Baronio che nel 528 la città di Antiochia rovinata da Terramoti, Tuoni e Saette: restarano soltanto salvi coloro che nelle finestre, o porte teneano parole. + ristus, Nobiscum + State + Sanctus Deus + Sanctus fortis + Sanctus Immortalis + L’olivo e il limone non abbandonano le foglie sulla terra. 8 agosto. La parte occidentale dell’isola è incomparabilmente più rigogliosa di quella orientale. Qui c’è una moltitudine di fichi d’India e aloe che danno davvero l’idea dell’India. I fiori d’aloe si sviluppano su steli enormi e assumono una forma di lampadario. E sempre là ho visto gli alberi dai frutti che da noi si chiamano “baccelli di Tsargrad” [Costantinopoli]. Qui lo chiamano “carrubo“. I suoi frutti li mangiano i cavalli. A Lago (Lacco)ci sono le acque di San Lorenzo e i bagni di vapore. Dalla terra di queste terme cresce un’erba strana piuttosto secca. La valle San Montano è molto bella, con una ricca vegetazione. La frutta di Ischia per la gran parte viene da lì. Lì nella torre ho mangiato i frutti del fico d’India che noi chiamiamo “albero centenario“. All’esterno è ricoperto di una buccia verde, dentro è giallo e al gusto il succo dovrebbe essere dolce, quando è maturo. Io l’ho mangiato acerbo! E se ne mangi troppi possono portare al vomito. Da Forio abbiamo goduto di una gran bella veduta, una grande verde valle di vigneti che dà sul mare. Il monte San Nicola, coi suoi vigneti terrazzati, è disegnato in modo splendido. Bella la chiesa di Forio sul mare. Oggi Monsieur D’Evant ha inviato la mia lettera col quarto atto di Vadim. 9 agosto. Ci prepariamo a lasciare Ischia. Ho scritto Peterburg. Stasera per la prima volta sono stato sulla Sentinella. C’è un panorama eccezionale: che monti dorati, tutto il loro anfiteatro col Vesuvio e il mare chiuso nel loro abbraccio, e le isole. 10 agosto, lunedì. Il mare stamattina verso le 12 era eccezionale. Si è formato in mezzo all’acqua come un cerchio bianco. Il mare cambia spesso colore. Di solito è blu scuro, con chiazze verdi. Sulla parte più vicina alla riva ci sono macchie scure, diverse dalle verdi. Di mattina, quando è calmo, le isole appaiono tutte bianche e sul mare si stendono sentieri lucenti. Li hanno tracciati sicuramente degli spiriti di notte, o dei tritoni, pattinando sulle onde. A volte queste chiazze sono veramente tante e quando è piatto sembrano un fiume 26

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sfociato nel mare. Venerdì c’è stato un forte vento, quasi una tempesta. Il mare si è scurito e tutte le chiazze si sono raccolte sullo stesso lato. Quando comincia ad agitarsi le onde creano una schiuma bianca che in un attimo è visibile fin da lontano. 12 agosto, mercoledì. Stamattina alle 7 siamo partiti da Ischia. I padroni di casa sembravano molto commossi per la partenza. Ma pare che questa sensibilità fosse più che altro apparente. Nunziola, la figlia della padrona, mi ha chiesto di farle un regalo. Le richieste qui non significano niente, quindi il rifiuto non offende. Al molo ci siamo andati in asino. Ragazzini e ragazzine gridavano per strada “bajono” e “grano!“ <?> Da lontano si vedeva benissimo il Vesuvio. Nuvole basse lo avvolgevano ai piedi, cosicché la cima e il monte Somma sembravano sospesi in aria. Messici in barca ci siamo diretti a Miliscola passando vicino Procida. Lo chiamano tragitto ‘secco’ (per terra). Qui ci aspettava una carrozza. Ischia l’ho lasciata con un sentimento di gratitudine, perché qui ho vissuto un periodo tranquillo e industrioso, sono stato bene. La natura ogni giorno mi ha nutrito di nuove bellissime impressioni. La vicinanza del mare è stata una bellissima novità e qui ho appreso il carattere del mio amico. Il mare ha rinfrescato le nostre occupazioni: freschezza indispensabile per quella mentale. A Roma non l’ho avuta. Qui ho terminato Vadim, ho scritto due drammi, ne ho letti tanti. Qui col principe ho finito il Faust, due atti del Piccolomini, tutta l’aritmetica, la metà di un canto di Virgilio, traduzione e trascrizione di Vaudeville, tra le tante cose. Siamo stati qui un mese esatto. Siamo passati accanto al ‘Mar Morto’ [Lago Miseno, NdT] presso il quale c’erano i ‘Campi Elisi’. Questo lago, prima unito al mare, fungeva da molo, ma adesso necessita di una pulizia per non infettare l’aria dei paraggi. Siamo andati vicino ai colombari: sono i resti delle tombe, poste abitualmente dai romani lungo le grandi strade. A un miglio dal Mar Morto abbiamo visto il lago Fusaro, l’antico Acheronte. Adesso qui si coltivano ostriche, si macerano lino e zafferano. Questo è la ‘promenade’ degli italiani nel mese di settembre e in inverno. Il posto in sé non ha niente di speciale ma da lontano si ammirano Ischia, Procida e tutto il resto. Da lì abbiamo proseguito per una strada piuttosto scomoda, lungo un vigneto. La vite qui è coltivata all’altezza degli alberi, lasciandola arrampicare su pali o enormi pioppi. Sembrano i giardini di Firenze, ma qui è più folto. Abbiamo visto i resti dell’anfiteatro di Cuma, completamente invaso dalla vegetazione e siamo usciti per l’Arco Felice, la porta dell’antica Cuma: un’opera meravigliosa. È la più grande porta antica. Poi siamo


saliti più in alto: una veduta meravigliosa sul verde lago d’Averno, racchiuso nella cornice delle montagne ricoperte di cespugli e boschetti. Da qui sono visibili tutte le attrazioni del luogo: di fronte la grotta e sulla sinistra il Tempio di Diana. Questo luogo conserva ancora tracce di quell’atmosfera cupa che ispirò i poeti dell’antichità. Lontani si vedono Capo Miseno, Baia e Pozzuoli. Costeggiando Baia e la villa di Cicerone, dove si vedono solo le misere rovine, abbiamo raggiunto Pozzuoli e da lì, lungo le rocce che si frantumano crollando in mare, la grotta di Posillipo. La strada da Cuma che abbiamo seguito portava a Roma attraverso la grotta di Posillipo, e la tomba di Virgilio - che per sua volontà e per ordine di Augusto fu seppellito nella sua amata Partenope, nella casa dove villeggiava il ricco Pollione - si trovava su questa strada. Ora c’è una strada che passa attraverso la galleria di Posillipo che deve la sua esistenza alla pietra vulcanica e alla sua conformazione funzionale all’edilizia. Questa via è sempre illuminata. Uscendo da essa sulla destra si vedono dei cunicoli scavati a questo scopo. Appena esci, se guardi indietro sulla cima della roccia, sotto gli alberi spioventi vedi la tomba di Virgilio, un’apertura nella grotta. Siamo usciti davanti a Palazzo Satriano.

Testimonianze Martin Wolf Premio Ischia di gionalismo 20121 (…) Tutto è stato straordinario nei nostri tre giorni ad Ischia: l’ospitalità, il calore, l’eleganza dell’albergo e la bellezza dell’isola. Si è trattato di una meravigliosa ed indimenticabile pausa nella mia vita frenetica. Inoltre questa è una parte dell’Italia che non conosco molto bene, infatti noi abbiamo un appartamento in Liguria, perciò le impressioni sono state nuove e di conseguenza molto ricche. A parte il premio, quali sono stati i momenti più vividi del nostro soggiorno? Direi che sono stati due. La visita al museo di Villa Arbusto per vedere la Coppa di Nestore che era stata ritrovata negli scavi di Pithekoussai. Prima di studiare economia, avevo studiato lingue classiche all’Università di Oxford. Come tutte le cose che si fanno prima di raggiungere i ventuno anni, il ricordo della lettura dell’Iliade è ancora fresco. Il pensiero che l’iscrizione euboica sulla coppa è l’antenata dell’alfabeto latino che è poi l’alfabeto di tutte le lingue europee è stato molto emozionante. Mi sono ricordato ancora che non solo la Grecia, ma anche 1 Dal sito www.premioischia.it

Fatta colazione e riposatici, alle 6 siamo andati a vedere i manufatti di lava e corallo che rivelano il poco gusto dei napoletani e abbiamo pranzato ottimamente all’Albergo Reale. Di sera al San Carlino. Ma ancora prima abbiamo visto nei pressi del molo una commedia di burattini dove si era riunita una gran folla. Non lontano da qui, proprio sul molo, quasi tutti i giorni per due ore ci sono letture popolari. La folla di lazzaroni si raccoglie intorno al lettore che racconta loro in dialetto napoletano Ariosto o Tasso. Essi partecipano vivamente alle sofferenze e alle imprese dell’eroe e quando il destino e la lira gli si mostrano avversi allora imprecano con le peggiori parole. A volte si ascoltano storie raccontate da uno di loro. Al San Carlino davano uno stupido dramma, Il diavolo sotto il letto. Ci sono molte farse assurde e stupidaggini. 13 agosto, giovedì. Per quasi tutta la mattinata sono andato per via Toledo, ho pranzato all’Albergo del Giglio, di sera sono stato a teatro e ho provato una grande stanchezza. 14 agosto, venerdì. Stamane mi sono svegliato ammalato. La testa terribilmente pesante, un bruciore agli occhi e lo stomaco scombussolato. *** le colonie greche dell’Italia meridionale, conosciute come Magna Graecia, sono le progenitrici della nostra comune civiltà europea. L’altro momento clou è stata la visita ai giardini “La Mortella” creati da Susana Walton insieme all’architetto inglese Russell Page. I giardini in sé sono una creazione magica. Ma Sir William Walton stesso significa molto per me, soprattutto per la musica indimenticabile che ha composto per il film Enrico V diretto ed interpretato da Laurence Oliver nel 1944. Mio padre era un drammaturgo e amava Shakespeare. Questo fu il primo film di una commedia di Shakespeare che io abbia visto. Naturalmente è stato un grande successo artistico, non ultimo per la sua musica grandiosa. Vedere la casa dei Walton mi ha riportato alla memoria mio padre e la mia iniziazione alle opere del grande drammaturgo. Sono grato agli organizzatori del premio, soprattutto alla famiglia Valentino, alla giuria che mi ha assegnato il premio e a tutti coloro che hanno reso il nostro soggiorno ad Ischia un’esperienza magica, in particolare a Lesley Morton. La vita offre raramente esperienze più gradevoli che l’essere festeggiato in un luogo magico. Il Premio Ischia mi ha regalato questa esperienza. Non lo dimenticherò. * La Rassegna d’Ischia n. 5/2012

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Rassegna Libri

Il signorino

di Federico Montesanti

Calabria Letteraria Editrice, 2010 di Ilia Delizia Il 16 giugno u.s. si è tenuta nella Biblioteca Antoniana d’Ischia, a cura dei proff.ri Ilia Delizia e Francesco Rispoli, organizzatori della manifestazione, la presentazione del volume Il signorino, opera prima di Federico Montesanti, medico, geriatra, che vive e lavora a Verona nell’Azienda Ospedaliera di quella città. L’evento, al di là dell’interesse per un’opera di grande sensibilità narrativa, ha associato anche l’emozione di un dolce ricordo, in quanto la sua realizzazione è avvenuta nel nome di una persona a noi molto cara, l’architetto Floriano Hettner, cui l’autore di questo saggio è legato per affetti familiari e per condivisione di ideali. Infatti Federico Montesanti è consigliere di Amministrazione della Fondazione Ferramonti di Tarsia, un’iniziativa umanitaria nata per trasformare il ricordo traumatico di un campo di internamento in un luogo di amicizia tra i popoli, per la cui

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realizzazione profuse molte energie e tanta passione proprio Floriano Hettner, che ebbe la disavventura di sperimentare, in tenera età, i risvolti dolorosi delle leggi razziali. Anche di questa esperienza Montesanti ha saputo fare tesoro nel suo saggio restituendo in uno dei capitoli la storia personale e familiare di Floriano in una pagina di toccante narrazione. Per rendere più stringente questo aspetto, abbiamo voluto coinvolgere Salvatore Ronga, prezioso talento di teatro della nostra isola, nella lettura dei brani relativi agli eventi che riguardano l’esperienza di Floriano Hettner, con grande coinvolgimento del pubblico presente. Ma al di là del particolare, il libro

di Federico Montesanti esprime interessi e obiettivi più vasti ruotando intorno alla figura di un rampollo di una famiglia aristocratica e possidente, don Giulio Barca, della regione del Marchesato, terra che dalla marina di Crotone si introduce nell’altopiano della Sila, da cui Federico Montesanti proviene e di cui gli sta a cuore trasmettere memoria. Difatti, nonostante la narrazioni ruoti intorno alla figura di don Giulio, è l’ambiente geografico, familiare e sociale in cui l’aristocrazia dei Barca esercita la propria azione ad avere un ruolo da protagonista. Pertanto, Il signorino, più che la biografia romanzata di un singolo, è la vicenda molto più articolata e complessa di un casato che vive ed opera nei feudi di proprietà. Sebbene la narrazione abbia come contesto un luogo

Un affresco di paesaggi di Francesco Rispoli

Un affresco di paesaggi dell’anima. Potrebbe definirsi così il libro di Federico

Montesanti. Un libro che mette in luce storie “minori” ma, forse proprio per questo, più interessanti e più prossime ad un sentire che appartiene alla nostra memoria collettiva. Un libro che percorre il ritmo lento della lunga durata di paesaggi di un tempo non lontano eppure al riparo delle vorticose accelerazioni dei cambiamenti attuali. Un’atmosfera di nostalgia pervade le pagine di Federico e, allo stesso tempo, un sentimento di gratitudine. Un viaggio nelle radici in cui si riconoscono figure che ne hanno segnato la personalità ed il carattere. Una famiglia estesa in cui, in una sorta di sovrapposizione del tempo, si riconoscono anche visi a noi noti, come quello di Floriano Hettner, padre di Clelia, la moglie di Federico, e tra gli amici miei più cari. Il racconto di una esperienza di vita, insomma. Per comprendere, però, il senso dell’esperienza, anche in questo caso è opportuno «rifarsi alla lingua tedesca e alla differenza che essa conosce tra Erlebnis ed Erfahrung (…). Nell’idea di Erlebnis sta tipicamente un’impronta di immediatezza: essa deriva dal verbo Erleben, che propriamente significa essere in vita (Leben) mentre una cosa succede. Erfahrung proviene invece da Erfahren: passare attraverso. Nella sua nozione è implicita una certa idea di movimento, ed essa intende sia il movimento stesso, sia il suo risultato» (P. Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, 1994). In questa seconda accezione l’esperienza è il processo con cui attraversiamo la vita. Vorrei dedicare tre letture “amiche” al mio amico Federico in questa occasione, in qualche modo per restare nell’atmosfera dei suoi paesaggi. La prima è tratta dal libro di Claudio Magris L’infinito viaggiare (2005): «Ci sono luoghi che affascinano perché sembrano radicalmente diversi e altri che incantano perché, già la prima volta, risultano familiari, quasi un luogo natio. Conoscere è spesso, platonicamente, riconoscere, è l’emergere di qualcosa magari ignorato sino a quell’attimo ma accolto come proprio. Per vedere un luogo occorre rivederlo. Il noto e il familiare, continuamente riscoperti e arric-


individuato e specifico che ci viene presentato con le sue peculiarità ambientali e patrimoniali, - come il palazzo di Rocca Severina, i possedimenti di Madama Giovanna, la tenuta montana di Carlo Magno queste sono vivificate dalla presenza di chi vi abita: le persone di famiglia e quanti vi ruotano intorno, ospiti, fattori, mugnai, guardiani, donne tutto-fare, fino agli armenti, ai greggi, e quant’altro costituisce la realtà viva di un feudo attivo. Anzi, l’accumulo di presenze in luoghi specifici determina nell’autore del libro una sedimentazione di memorie, di ricordi che valgono a sottolineare come siano i luoghi a trattenere la

storia delle persone. I ricordi e le immagini che Federico Montesanti mette in essere sono come trasfigurati dal trascorrere del tempo e dal distillarsi dei sentimenti. Ed è proprio per l’urgenza di non disperdere la memoria di persone, cose, luoghi che gli sono appartenuti e di cui si sente parte, nonostante la sua vita si svolga altrove, o forse proprio per questo, che Federico Montesanti mette per un momento da parte la sua professione di medico per proporsi come narratore di ricordi, di emozioni, personali e familiari. E a questo risultato perviene grazie ad una prosa scorrevole, garbata, delicata che si articola per sovrapposi-

chiti, sono la premessa dell’incontro, della seduzione e dell’avventura (…); il viaggio più affascinante è un ritorno, un’odissea, e i luoghi del percorso consueto, i microcosmi quotidiani attraversati da tanti anni, sono una sfida ulissiaca. Perché cavalcate per queste terre? chiede nella famosa ballata di Rilke l’alfiere al marchese che procede al suo fianco. Per ritornare risponde l’altro». La seconda è un piccolo brano dei Quattro quartetti di Eliot (…) noi non cesseremo l’esplorazione e la fine di tutto il nostro esplorare sarà giungere là onde partimmo e conoscere il posto per la prima volta. La terza è la celeberrima Itaca di Konstantinos Kavafis Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga fertile in avventure e in esperienze. (…). Devi augurarti che la strada sia lunga che i mattini d’estate siano tanti quando nei porti - finalmente e con che gioia toccherai terra tu per la prima volta: negli empori fenici indugia e acquista madreperle coralli ebano e ambre tutta merce fina, anche aromi penetranti d’ogni sorta, più aromi inebrianti che puoi, va in molte città egizie impara una quantità di cose dai dotti.

Sempre devi avere in mente Itaca - raggiungerla sia il pensiero costante. Soprattutto, non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio metta piede sull’isola, tu, ricco

zione di cellule narrative autonome, senza concedersi alle deformazioni di una descrizione meticolosa ed ossessiva degli accadimenti che avrebbe inquinato il racconto poetico. Piuttosto è l’ineffabile libertà con cui enuncia ed interrompe ogni avvenimento narrato l’elemento di fascino del racconto di Montesanti. Difatti, dalla lettura de Il signorino si coglie più la propensione per un linguaggio capace di rievocare suggestioni ed emozioni di luoghi, di persone, di avvenimenti, che non la volontà di descriverli analiticamente: l’istinto letterario, poi, trasforma gli avvenimenti narrati in armonia di immagini.

dei tesori accumulati per strada senza aspettarti ricchezze da Itaca. Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo in viaggio: che cos’altro ti aspetti? E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare. Così è possibile stringere in un unico nodo esperienza, memoria e identità ed avanzare l’idea di un pensiero rivolto alla memoria, una sorta di pensiero grato, una capacità di intelligenza e di sentimento ad un tempo. E vorrei farlo partendo da una riflessione di Enzo Paci: «La pietà verso il passato è la condizione di verità del presente». (E. Paci, Fondamenti di una sintesi filosofica, 1951). La pietà verso il passato qui è la pietas dei latini, l’andenken – l’attenzione devota – di cui parla Heidegger in una lingua, quella tedesca, in cui, come in quella inglese, le radici del pensare e del ringraziare sono le medesime (denken, danken; to think, to thank), così come per i nostri conoscenza e ri-conoscenza, indicando una sorta di pensiero grato, che si mostra ancor più nel ricordare, che coinvolge il cuore e risuona anche nel francese savoir par coeur e nell’inglese know by heart che traducono sapere a memoria. C’è un paradosso, in conclusione. Libri come quelli di Federico sembrano parlarci di ciò che non siamo più. Quel che cerchiamo, infatti, nella religiosa accumulazione delle testimonianze, delle immagini, di tutti i segni visibili di ciò che fu, è la nostra differenza e nell’apparire di questa differenza l’improvvisa constatazione di una introvabile identità: la decifrazione di ciò che noi siamo alla luce di ciò che non siamo più. * La Rassegna d’Ischia n. 5/2012

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Luigi Einaudi Un economista nella vita pubblica

di Giovanni Farese

Editore Rubbettino, Collana Storie. di Giuseppe Mazzella

Mario Capanna nel suo libro “Coscienza Globale” (Baldini Castoldi 2006) scrive che «è stato calcolato che negli ultimi due-tre decenni sono state prodotte e diffuse più notizie che in tutti i cinquemila anni precedenti» e commenta che «l’effetto determinato (solo in apparenza paradossale) è che all’aumento di notizie corrisponde una diminuzione della conoscenza. Siamo informati di più ma sappiamo di meno». Capanna chiama tutto questo un «bombardamento quotidiano» di notizie che diviene una «triturazione informativa» che porta alla «distruzione della memoria storica». L’osservazione è da condividere. Anzi c’è da aggiungere che un bombardamento quotidiano di notizie e di opinioni attraverso i potenti nuovi mezzi di comunicazione – come le catene televisive e quelle di quotidiani e settimanali – ha ferito a morte il buon giornalismo, perché televisioni e giornali sono diventati strumenti per campagne di stampa tese ad “infangare” le persone e le idee che queste portano avanti. Questo bombardamento di notizie – in tempo di sfrenato consumismo, di globalizzazione economica dove il modello capitalistico dello sviluppo vince in tutto il mondo con il tramonto definitivo del comunismo – non fa riflettere sull’applicazione sociale dello sviluppo, così il “liberismo” viene propagandato come la sola soluzione per la cosiddetta “crescita”, la sola via per la salvezza dei sistemi economici. Come se non avesse – anche il liberismo – una funzione “sociale” in grado di competere con il socialismo ed il comunismo sul terreno della giustizia sociale.

Giovanni Farese insegna storia 30

La Rassegna d’Ischia n. 5/2012

economica alla LUISS Guido Carli di Roma ed è Managing Editor del Journal of European Economic History ed ha dato alle stampe per i tipi di Rubbettino Editore una dettagliata biografia di Luigi Einaudi (18741961), il grande economista che fu il primo Presidente della Repubblica pur dichiarando di aver votato per la monarchia al referendum del 2 giugno 1946, che fu giornalista del Corriere della Sera e pioniere del giornalismo economico, che fu sempre liberale pur essendo profondamente cattolico. Il libro di Farese, Luigi Einaudi un economista nella vita pubblica, ripercorre le principali tappe della vita di Einaudi ed a 60 anni dalla morte diventano attuali non solo il suo pensiero ma lo svolgimento della sua stessa vita pubblica. Come lui e dopo di lui gli economisti sono saliti al vertice del Paese come ministri, parlamentari, capi di governo. Dal racconto della sua vita emerge una vera concezione liberale della vita civile e del modello di sviluppo, una convinzione profonda che non c’è alternativa allo sviluppo del mercato per il benessere collettivo anche dei lavoratori. Farese segue passo per passo con una puntigliosa documentazione tutto l’impegno pubblico di Einaudi e lo confronta con gli antagonisti come Ernesto Rossi ed altri, dei quali Farese traccia anche i profili affinché l’esame del pensiero e della vita di Einaudi sia il più preciso possibile con il metodo rigoroso della studioso di Storia Economica. Farese ammira nel suo complesso la classe dirigente liberale e cattolica che ha costruito l’Italia del secondo dopoguerra. Condivide l’alleanza tra liberali e cattolici e sottolinea che De Gasperi, Einaudi, Menichella, Vanoni «hanno avuto tutti una visione comune; senza crescita non

vi può essere giustizia sociale, non vi può essere libertà«. Questa classe dirigente ha creduto nei programmi: il mantenimento dell’IRI, la gestione del Piano Marshall, il piano Ina-casa, il varo della Cassa per il Mezzogiorno, la partecipazione ai consessi europei e internazionali. Visto con gli occhi di oggi sembra un programma di un partito o movimento di estrema sinistra!!! Il pensiero liberale di Einaudi è in perfetta coerenza con il suo stile di vita di studioso e di servitore dello Stato e nel tempo di oggi questo stile dovrebbe essere preso ad esempio per un ritorno alla Politica basato sui contenuti e bandendo la demagogia, sia quella di destra che quella di sinistra. Dalla lettura di questo libro emerge la necessità di “ritornare al Novecento” nel terreno delle ideologie politiche ed economiche per fare sintesi del processo della Storia. Einaudi è stato il primo sostenitore degli Stati Uniti d’Europa e forse oggi l’acceleratore della Storia per l’Italia va messo proprio su questo progetto dando un’anima al capitalismo finanziario con un liberalismo capace di unificarsi con il socialismo, come sognava Carlo Rosselli.

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Roma – Musei Capitolini – Mostra Lux in arcana. L’Archivio Segreto Vaticano si rivela. 29 febbraio – 9 settembre 2012

Il Grande Custode della Memoria di Ernesta Mazzella Nelle splendide sale dei Musei Capitolini di Roma ha sede la mostra-evento organizzata dall’Archivio Segreto Vaticano dal titolo “Lux in arcana - L’Archivio Segreto Vaticano si rivela”. L’esposizione è stata ideata dalla prestigiosa Istituzione Vaticana per celebrare il IV Centenario dalla fondazione dell’Archivio ad opera di papa Paolo V nel 1612. Il progetto culturale è di altissimo livello, un evento veramente unico ed irripetibile. Per la prima volta nella storia cento documenti, conservati gelosamente da secoli nell’Archivio dei papi, hanno lasciato le Mura leonine per essere esposti sul Colle Capitolino, tradizionale sede del governo di Roma. Questa sede non è affatto estranea alla Santa Sede e al Pontefice Romano; li unisce un antico legame stretto nella persona del pontefice Francesco Della Rovere, Sisto IV, grande mecenate rinascimentale, il quale donò nel 1471 al popolo romano la Lupa bronzea insieme ad altri tesori archeologici, con l’ordine che fossero conservati nel Palazzo dei Conservatori in Campidoglio. Con queste opere, dunque, sorse il nucleo degli attuali Musei Capitolini. Sempre al papa Sisto IV si deve la fondazione della Biblioteca Apostolica Vaticana nel 1475. In alcune sue sale, dette secretae o Biblioteca secreta, il Papa fece custodire diplomi, privilegi

Lettera di Michelangelo Buonarroti a Cristoforo Spiriti vescovo di Cesena

Un vistoso sigillo d’oro di Filippo di Spagna Omaggio feudale del sovrano a Paolo IV

Bolla d’oro di Clemente VII per l’incoronazione di Carlo V

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e molti altri documenti dei pontefici suoi predecessori, prima che fossero trasferiti nello Scrinium Ferratum di Castel Sant’Angelo, antica sede dell’archivio, dopo che il primo prefetto della Biblioteca, il Platina, ne avesse eseguito una copia autentica. Il titolo della mostra è molto suggestivo. “Lux in arcana – luce nei recessi”, la luce deve illuminare la realtà. Permette di fare distinzione in un contesto nebuloso, ed è grazie ad essa che possiamo conoscere l’Archivio Segreto Vaticano, l’Archivio dei papi. In questo luogo è custodita la storia di dodici secoli. Sorge spontanea la domanda: cosa significa Archivio Segreto? Significa archivio privato (dalla parola latina secretum). I documenti in esso conservati occupano la superficie di ben ottantacinque chilometri di scaffali; sono numerosissimi, milioni, divisi in più di seicentocinquanta fondi archivistici. Essi sono importantissimi e costituiscono le fonti della storia. Il Prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano, Sua Ecc.za Mons. Sergio Pagano, scrive: «L’archivio Segreto Vaticano costituisce davvero per la stragrande maggioranza delle persone un arcano, una realtà misteriosa perché sconosciuta». La mostra, quindi, «intende far luce sulla realtà di questa antichissima Istituzione, sulla sua natura, i suoi contenuti, la sua attività». L’itinerario della visita si snoda in due sezioni allestite nelle sale del Palazzo dei Conservatori e del Palazzo Clementino-Caffarrelli. Sono presentati diversi documenti provenienti da vari continenti: Asia, Africa, America, Europa; realizzati con diversi supporti scrittori: carta, pergamena, seta, corteccia di betulla; la loro datazione ripercorre l’arco di dodici secoli di storia, dall’VIII al XX secolo d.C. Nella meravigliosa cornice della sala degli Orazi e Curiazi dei Musei è allestita la prima sezione che prende il titolo “Il Custode della Memoria”. I documenti esposti arrivano da ogni parte del mondo: dalla Cina all’antica Persia, dall’impero mongolo al Marocco, dalla Russia alle Americhe; «indiani d’America, imperatori Ming, khan mongoli, califfi islamici, papi e imperatori, nobili, cavalieri, giudici, santi ed eretici, regine e cortigiane rivivono in questi antichi documenti su cui hanno scritto di proprio pugno, vergando con l’inchiostro carte e pergamene, cortecce d’albero e panni di seta, imprimendo la cera calda con i propri anelli o con metalliche matrici sigillari». Tutti sono molto interessanti e nel contempo sprigionano grande emozione in chi li ammira. Tra i tanti documenti esposti vi è una particolare lettera scritta su seta. La scrive l’imperatrice vedova Wang, convertita al cristianesimo dal gesuita Wolfgang Andreas Koffler, battezzata con il nome cristiano di Elena (Lieh-na); insieme a lei abbracciarono la nuova fede diversi membri della dinastia Ming. Il giorno 11° della 10a luna del quarto anno di regno dell’imperatore Yongli, ovvero il 4 novembre 1650 del nostro calendario, fu assediata la città di Canton dai Manciù. L’imperatrice, preoccupata per le sorti dell’Impero, scrisse una lettera al papa Innocenzo X, nella quale professava la sua fede cattolica e supplicava le preghiere del pontefice a Dio per la vittoria del suo popolo, i Ming, contro i Manciù. La lettera fu scritta su un lungo drappo di seta, avvolto e conservato in una custodia di bambù, decorata con il simbolo imperiale del dragone. Nel 1655 Innocenzo X morì, il successore Alessandro VII rispose alla lettera dell’imperatri32

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ce Elena di Cina con un breve del 18 dicembre 1655. L’anno seguente il gesuita Michal Piotz Boym partì da Lisbona per consegnare la lettera all’imperatrice. Egli non sapeva che l’imperatrice nell’estate 1651 era morta a Thianrou. Il documento e la sua storia sono interessanti per molti aspetti. La sessione raccoglie molti documenti preziosi e di diversa tipologia, brevi, registri ecc. Sono esposti gli atti del processo di Galileo Galilei, il grande libro mastro della famiglia Borghese, il preziosissimo Salvacondotto di Abaqa, il kham di Persia, per gli ambasciatori papali, il quale costituisce il più antico documento cartaceo in lingua mongola. Tra questi vi sono delle lettere interessanti e preziose; solo per citarne qualcuna: la lettera in pergamena del califfo Abu-Hafs ‘Umar al-Murtada scritta al pontefice Innocenzo IV il 10 giugno 1250; quella dello zar Aleskej I Romanov a Clemente X l’11 ottobre 1672; la lettera di Michelangelo Buonarroti scritta nel 1550 all’amico e mecenate Cristoforo Spiriti, vescovo di Cesena e futuro patriarca di Gerusalemme. L’Artista, trovandosi in gravi difficoltà economiche e preoccupato anche della sorte dei suoi collaboratori, fu costretto a ricorrere all’aiuto dell’amico. Il Buonarroti nel 1547 venne nominato da Paolo III sovraintendente alla Fabbrica della basilica di San Pietro assumendo l’incarico che in precedenza era stato svolto da Antonio da Sangallo. Purtroppo il papa Farnese morì nel 1549 ed i lavori in San Pietro vennero interrotti con decreto dei responsabili della Fabbrica. La vicenda trovò soluzione con l’elezione di Giulio III e la conferma al Buonarroti dei lavori nella Fabbrica di San Pietro. L’esposizione prosegue nelle sale del Palazzo dei Conservatori con sette approfondimenti tematici, i quali permettono al visitatore di accostarsi a personaggi di grande notorietà, a storie curiose ed interessanti che raccontano le secolari vicende umane. La sezione dal titolo “Tiara e Corona” raccoglie documenti inerenti il secolare conflitto tra il potere spirituale e potere temporale. Scontri drammatici, affermazione di supremazia, trattati diplomatici che offrono grande impatto emotivo a chi li ammira per la loro rara bellezza come il Privilegium di Ottone I realizzato con pergamena purpurea, scrittura carolina con lettere in oro, del 13 febbraio 962; il concordato di Worms tra l’imperatore Enrico V e Callisto II; la Bolla d’oro di Clemente VII per l’incoronazione di Carlo V. La sezione “Nel segreto del conclave” è formata da documenti che spiegano l’evoluzione storica di questa assemblea riservata ai soli cardinali per eleggere il nuovo pontefice. Extra omnes! Fuori tutti. I cardinali entrano in conclave ove eleggeranno il successore di Pietro. Il termine conclave proviene dal latino “cum clave”, ovvero “chiuso con la chiave”; indica sia il luogo ove si riuniscono i cardinali per eleggere il papa, sia l’assemblea stessa. L’origine del nome sembra che risalga ad un episodio occorso nel 1270 durante il conclave tenutosi a Viterbo, quando le autorità cittadine rinchiusero i cardinali elettori nella sala grande del palazzo papale, presidiandone l’uscita e in seguito scoperchiandone il tetto, per costringere i porporati, dopo una lunga attesa di ben due anni e più, a procedere senza ulteriori indugi all’elezione del nuovo papa. Sin dal 1492, con poche eccezioni, dovute a particolari contingenze storico-politiche o ecclesiastiche il rito dell’elezione, di primaria importanza per la Cristianità, si svolge tra le meravigliose mura della


Cappella Sistina. Particolarmente interessanti tra i documenti esposti sono i registri e i volumi, redatti in nome del Sacro Collegio, che conservano, a volte, i fogli di scrutinio dell’elezione papale. I documenti della sezione “La riflessione e il dialogo” all’interno e all’esterno della Chiesa, formano la traccia del lungo cammino a partire dai severi canoni del Concilio di Trento per arrivare ai recenti decreti del Vaticano II. Una grande riflessione che la Chiesa compie su se stessa nel tempo e nelle decisive fasi storiche del proprio cammino, verso la progressiva apertura al confronto con altre confessioni cristiane e altre religioni. Particolarmente suggestiva la sezione dedicata alle “Sante, regine e cortigiane”; accoglie nove documenti di donne celebri e una bolla papale sulla “Donna vestita di sole”, la Vergine Maria. La proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione avvenne con la bolla Ineffabilis Deus, dell’8 dicembre 1854, di Pio IX che sancì come dogma di fede l’Immacolata Concezione di Maria. Il documento è un fascicolo pergamenaceo con sigillo pendente da cordone di seta gialla e rossa. Si continua con Bernardette Soubirous, l’umile veggente di Massabielle; alla figlia del papa Lucrezia Borgia, tra le figure femminili più conosciute e controverse del Rinascimento italiano, è esposta una sua lettera indirizzata al padre, Alessandro VI; le sante mistiche: Francesca Romana e Teresa d’Ávila. Sono esposte le lettere di Maria Stuart e Maria Antonietta scritte in momenti particolari della loro vita, dalle quali emergono stati d’animo intimi e sofferenti, la lettera di Elisabetta d’Austria, Sissi, scritta al pontefice Pio IX e in fine, gli atti dell’abdicazione di Cristina di Svezia. Non poteva mancare la sezione “Eretici, crociati e cavalieri”, nella quale è esposto il documento più impressionante: il lungo rotolo pergamenaceo di circa 60 metri lineari, il processo ai templari di Francia, scritto dal 12 novembre 1310 al 5 giugno 1311; la scomunica di Martin Lutero, il sommario del processo di Giordano Bruno, gli statuti contro gli eretici di Gregorio IX. Alcuni dei documenti esposti in questa sezione rappresentano momenti determinanti della repressione dell’eresia religiosa, della difesa del Santo Sepolcro, delle guerre contro l’avanzata turca; senza dubbio sono forse i più coinvolgenti per la loro forza evocativa. Proseguendo si incontra la sezione dedicata a “Scienziati, filosofi e inventori”. In questa sezione sono raccolti i documenti di grandi nomi come Niccolò Copernico, canonico di Frombork, Voltaire, Erasmo di Rotterdam; oltre ad altri documenti molto curiosi, ad esempio la singolare macchina per volare creata dal sacerdote brasiliano Bartolomeu Lourenço de Gusmão. Sono illustrati momenti interessanti del rapporto fra la Chiesa e la cultura filosofica e scientifica, inteso anche come promozione e valorizzazione della cultura da parte del Papato. Per finire, nella sezione “L’oro e l’inchiostro” sono esposti manoscritti e codici miniati nell’Archivio. La maggior parte di essi dal contenuto strettamente documentario, furono redatti con raffinata cura da copisti esperti che li arricchirono di pregevoli decorazioni, in grado di suscitare ammirazione e meraviglia. Nella seconda sezione della Mostra è allestita la sezione dedicata ai sigilli che prende il titolo “I segni del potere”. Tra i quattro documenti esposti, colpisce per maestosità e bellezza un diploma del 1° ottobre 1555 di Filippo di Spagna con sigillo d’oro massiccio del peso di 800 gram-

mi. Particolare il Transunto di Lione di papa Innocenzo IV del 13 luglio 1245; si tratta di una pergamena, con 26 sigilli di cera bruna, bolla di piombo, un sigillo in cera verde e 12 sigilli deperditi. In occasione della mostra, la Segreteria di Stato di Sua Santità ha concesso di esporre alcuni documenti del “periodo chiuso”, tratti dal suo archivio storico: si tratta delle Carte della Commissione Soccorsi relative alla Seconda Guerra mondiale; tra questi la relazione del nunzio apostolico in Italia, monsignor Francesco Borgongini-Duca, riguardo il campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia, aperto nel giugno 1940, uno dei più importanti d’Italia; il fascicolo cartaceo contenente il dettagliato eccidio delle “Fosse Ardeatine”; la lettera di Alfredo Cucco, vicesegretario del Partito Nazionale Fascista, inviata al cardinale Luigi Maglione, segretario di stato di Sua Santità, nella quale include due macabre fotografie a testimonianza dei “misfatti” degli Alleati, il raid aereo su Roma: il bombardamento del quartiere di san Lorenzo; solo per citarne alcuni. In esse rivivono storie di persone e di luoghi sullo sfondo dei più noti e tragici eventi di quel periodo: storie di prigionieri politici e partigiani, ma anche di famiglie drammaticamente segnate dalle violenze della repressione; ferite inferte alla città di Roma come al Vaticano dal fuoco dei due schieramenti contrapposti. Unico esempio tratto dall’Ufficio Informazioni Vaticano, aperto alla consultazione dal 2004 per volontà di Giovanni Paolo II, decisione rilevante se si considera che il fondo abbraccia un periodo cronologico che oltrepassa di gran lunga il 1939, l’anno cioè oltre il quale non è attualmente consentita la consultazione dei documenti vaticani, in quanto appartenenti al cosiddetto “periodo chiuso”, è la lettera che rievoca l’angosciosa ricerca di Rosa ed Edith Stein da parte di un parente; le due sorelle furono trasferite nel campo di concentramento di Auschwitz, ove trovarono la morte nelle camere a gas il 9 agosto 1942, il Papa nel 1987 beatificò Edith Stein. Il documento fa parte del fondo dell’Ufficio Informazioni Vaticano per i Prigionieri di Guerra, il quale raccoglie milioni di richieste di aiuto indirizzate a Pio XII per la ricerca dei prigionieri e dei dispersi. In questa sezione viene illustrata attraverso mezzi multimediali l’intera attività dell’Istituzione Vaticana, la quale si sviluppa, come si è potuto constatare, principalmente in due direzioni: la tutela dell’enorme e prezioso patrimonio documentario, che è la memoria millenaria della Chiesa, e la sua valorizzazione. Il visitatore viene accompagnato virtualmente alla scoperta dell’Archivio Segreto Vaticano grazie ai video ad alta definizione. La mostra permette di conoscere l’universalità e la ricchezza del patrimonio archivistico che da secoli l’Archivio Segreto Vaticano custodisce. Una mirabile sintesi dell’Archivio fu espressa da papa Paolo VI in un celebre discorso del 1963: «I nostri brani di carta sono echi e vestigia […] del passaggio del Signore Gesù nel mondo. Ed ecco che, allora, l’avere il culto di queste carte, dei documenti, degli archivi, vuol dire, di riflesso, avere il culto di Cristo, avere il senso della Chiesa, dare a noi stessi, dare a chi verrà la storia del passaggio, del transitus Domini nel mondo».

Ernesta Mazzella

Foto tratte dal catalogo della mostra, Lux in arcana, Editori Palombi.

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Colligite fragmenta, ne pereant

Fonti archivistiche per la storia dell’isola d’Ischia A cura di Agostino Di Lustro La Ecclesia seu Confrateria de Santa Maria de Loreto de Forio tra XVI e XVII secolo e altri fatti coevi

Luoghi sacri del territorio dell’Università di Barano : Moropano - I

Del toponimo “Barano” abbiamo trattato già altra volta1; ora dobbiamo trattare dei luoghi sacri esistenti sul territorio partendo sempre dalla “Platea” del vescovo Innico df’Avalos del 15982. Nell’ambito del territorio di Barano una posizione a sé è mantenuta però dal casale di Moropano il cui toponimo è molto più antico di quello di Barano ed ha costituito, certamente, un villaggio medioevale di antichissima formazione. Infatti «nella odierna Buonopane, la matrice di riferimento medioevale è riconoscibile in quel minuto tessuto di penetrazione viaria che, dall’attuale strada statale, si articola nelle Vie Candiano, Buttavento, Terone, Ritola, Vado Michele»3. Inoltre «nell’area archeologica di Toccaneto si è potuto constatare che l’antico villaggio romano sopravvisse fin dopo il periodo bizantino. A chiarire qualche incertezza, almeno per il materiale archeologico raccolto in situ4, valgono alcuni frammenti di ceramica paleocristiana, appartenenti alla sigillata D, dal IV-VII secolo d. C.; in particolare le tegole, impiegate sulle coperture delle abitazioni, sono facilmente distinguibili, per grandezza e formato, da quelle ellenistiche-romane. A conferma della continuità storica del villaggio, vale il ritrovamento della “ceramica a vetrina pesante” dell’VIII e IX secolo, e di quella ”a vetrina leggera“ dal colore lattiginoso dell’XI1) Cfr. A. Di Lustro, Consistenza numerica del clero a Serrara, Barano e Testaccio tra XVI e XVII secolo, in La Rassegna d’Ischia, anno XXXII, n. 6 novembre – dicembre 2011. 2) Come abbiamo già detto nelle precedenti puntate di questa ricerca, si tratta della prima relazione ad limina del vescovo alla S. Congregazione del Concilio, conservata nell’Archivio della stessa (A.C.C.) e pubblicata per intero da P. Lopez, Ischia e Pozzuoli due diocesi nell’età della controriforma, Napoli Adriano Gallina Editore 1991, pp. 209-223. 3) I. Delizia, Ischia l’identità negata, Napoli Edizioni Scientifiche Italiane, 1987, p. 112. 4) Ricordo con vera nostalgia la gita «archeologica» di Pasquetta dei primissimi anni settanta con D. Pietro Monti in cerca di cocci tra i pianori e le parracine di Toccaneto, compresa l’ottima e abbondante colazione preparata dallo stesso D. Pietro. Andammo via sull’inbrunire, mentre sul sagrato della chiesa di S. Giovanni Battista si svolgeva la “Ndrezzata”, all’inizio della processione della Madonna della Porta. Ricordo che la scampagnata «fuori porta» fu molto proficua perché riuscimmo a mettere da parte moltissimi cocci di ceramica sigillata. Questa fu la prima di una lunga serie di «passeggiate archeologiche» con D. Pietro in tante altre località dell’Isola: Noia, Torre di S. Angelo, Aiemmita, Grotte di Mavone ecc.

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XII secolo. Soltanto da quest’ultima data comincia il declino dell’insediamento, fino alla totale estinzione»5. Il Monti, inoltre, sottolinea il legame tra l’antico insediamento di Toccaneto con il villaggio di Moropano dal quale nel 1268 furono chiamati da Carlo I d’Angiò ben undici uomini a testimoniare sui fatti che si erano verificati presso il Castello d’Ischia nell’agosto di quell’anno, quando i ghibellini, che appoggiavano Corradino di Svevia, insieme con alcuni vascelli pisani, ancorarono trentacinque galee nella spiaggia presso il Castello d’Ischia e, con metodi molto sbrigativi, costrinsero gli abitanti a sottomettersi e sostituire le insegne angioine con quelle del pretendente Corradino6. «Né meno importante appare la denominazione di un terreno, situato in prossimità della zona archeologica e riportato nella toponomastica locale, sotto il nome di “Munastero“; l’accenno a questo nuovo importante elemento ci autorizza piuttosto a crederlo. Certo i monaci Benedettini, venendo a Ischia per avviare la conquista morale e religiosa della popolazione, dispersa tra sperduti casali, e trovandovi in quello condizioni necessarie per una più valida espansione evangelica, cercarono di stabilirsi presso i nuclei umani più nutriti ed accoglienti; se non si fecero sfuggire il casale di Toccaneto, fu perché tra il VI-VII secolo si presentava molto consistente. Posti fra cielo e terra, lontano dalla vista scrutatrice dei pirati, i Benedettini potettero sviluppare promettenti opere. Ad essi potremmo assegnare il sopravvissuto toponimo, di sapore monastico. ”Chiano S. Paolo”, che si trova nelle pertinenze di Toccaneto; quivi i monaci, arando i fertili terrazzi, pregando nel recinto della solitaria cella, trovarono di che bearsi»7. Al di là di tutte le ipotesi che possiamo fare alla luce delle testimonianze topografiche, non sono pervenute fino a noi testimonianze documentarie dirette circa la presenza nella zona di Moropano di monasteri benedettini. Abbiamo visto che il toponimo Moropano è attestato a 5) P. Monti, Ischia archeologia e storia, Napoli Linotipografia Fratelli Porzio 1980, p. 782. 6) A. Lauro, La chiesa e il convento degli Agostiniani nel borgo di Celsa vicino al Castello d’Ischia, in Ricerche Contributi e Memorie, atti del Centro di Studi su l’Isola d’Ischia, relativi al periodo 1944-1970, Napoli Tipografia Amodio 1971, p.603. Il testo della deposizione si trova in Codice diplomatico del regno di Carlo I e II dal 1265 al 1309 per Giuseppe del Giudice, Napoli Stamperia della Regia Università vol. II parte I 1863, pp. 170-174. 7) P. Monti. op. cit. pp. 782-83.


partire dal 1268. Esso compare ancora una volta due anni dopo quando nell’elenco dei casali dell’isola d’Ischia tassati da Carlo I d’Angiò, i casali di «Murpano et Eramo» vengono tassati con sei once d’oro8. Nel 1308-1310 il toponimo diventa «Mulpana» in riferimento a un «Petrus de Mulpano»9. Nel 1486 il papa Innocenzo VIII emette una bolla con la quale dà mandato al canonico napoletano Matteo Marzano da Sorrento di confermare nel possesso della «parrocchialis ecclesie Sancti Iohannis Baptiste ville Merapane Isclane dioecesis» vacata per la morte di Giacomo de Parade, il sacerdote Bencivenga de Marino oriundo di Sarno, sanando l’irregolarità da lui contratta nella presa di possesso della parrocchia per difetto di età, e per questo contestato da Carlo de Valle, come era stato disposto dal vescovo Giovanni de Cicho10. Il toponimo si trasforma ancora e diventa «Moropano» in un documento del 15 settembre 1524 quando in un atto del notar Giovanni Battista Funerio11 citato dalla «Platea corrente» del convento agostiniano di Santa Maria della Scala di Celsa si parla di un possedimento di due tomola e mezzo ubicato «nelle pertinenze del predetto casale di Fontana dove si dice Cantinaro seu la Schiappa di Santa Maria giusta li beni d’Agostino Caruso redditizii a Santa Croce di panza, di Venuto e Bose Matarese redditizij della parrocchia di San Giovanni di Moropano…. Del predetto Nardo Corso redditizij all’ospedale di S. Luca»12. Nel 1550 diviene «Morepane» in un documento con il quale D. Sebastiano Lubrano di Procida, «rectore et beneficiato cappelle Sancte Agate constructe in janua civitatis Ischie» dà a «Tommaso de ascia Casalis forigij…. Quandam terram sterile campense capacitatis modiorum duorum in circa, sitam et positam in pertinentiarum forigij et proprie ubi dicitur lo monte juxta bona parrocchialis ecclesie Sancti Joannis de morepane juxta bona beneficiorum dominis Michaelis Cosse, et fratrum iuxta viam publicam13». Il vescovo d’Avalos presenta un’altra dizione del nome dell’attuale Buonopane e ci fornisce altre notizie interessanti. Egli scrive nella sua Platea: «Nel casale di Maropane vi è la Parrocchia di S. Giovanni Evangelista14, si pos8) I Registri della cancelleria Angioina ricostruiti da Riccardo Filangieri con la collaborazione degli Archivisti Napoletani, III Napoli presso l’Accademia MCLI, p. 285. 9) Rationes Decimarum, Campania, C. del Vaticano 1942, p. 267. 10) La bolla si trova in Archivio Segreto Vaticano (A.S.V.) Reg. lat. 858 fol. 207 v-808 r. Una copia in Archivio Storico Diocesano di Ischia ( A.D.I.), carte Lauro Agostino da cui prendiamo la notizia. 11) Di questo notaio conosciamo atti rogati tra il 1507 (A.D.I. Processus pro Rev.do D. Francisco Ferrigno Monticelli Beneficiato contra nonnullis eius censuarios et debitores, 1708 f. 97 v.) e il 2 luglio 1550 (Corporazioni Religiose Soppresse- C.R.S.- in Archivio di Stato di Napoli –A.S.N.- fascio 119, ff. nn.). Esiste ancora una sua pergamena originale del 9 agosto 1519 in C.R.S. fascio 114 K 1. Nel secolo XVIII i protocolli degli atti da lui rogati erano conservati presso i figli del notar Aniello Attanasio di Ischia (A.D.I., Platea Corrente di Santa Maria della Scala – P.C. - f. 97). 12) Cfr. In A.D.I. P.C. f. 385. 13) A.D.I. , 1603 Processus originalis pro Rectoriis Sancte Marie Charitatis de domo Turris Sancte Agate, Agnete et Sancti Christofani cum eorum debitoribus, ff. 19-21. 14) Qui il vescovo incorre in un piccolo errore perché la parrocchia

sede per D. Felice Aceto, è jus patronato delli Mellusi, non vi è peso d’oglio per il Santissimo Sacramento, per essere loco solitario; si ci dice la messa tutte le feste, et il suo dì la messa e vespro cantato, et altri pesi di visita, rende docati 5215». Questa annotazione ci consente di sottolineare qualche aspetto interessante sulle vicende di questa chiesa nel corso del secolo XVI. La parrocchia, afferma il d’Avalos, è di patronato dei Mellusi. Infatti il vescovo Agostino Pastineo il 9 ottobre 1537 emana una bolla con la quale concede il diritto di patronato su questa parrocchia al patrizio isclano Giacomo Antonio Mellusio e suoi eredi e successori in perpetuo. Questi dota la parrocchia di alcuni beni personali così descritti: «cuiusdam petii terre posite ad Cufa partem arbustatam, et parte nemorosi iuxta alia bona tui Iacobi Antonij Mellusi, Andree Sciacchi, et aliorum de domo Cossam, viam per quam itur ad dictam terram, et alios fines ac etiam cuiusdam alterius loci cum domibus piscina et orto fructuoso diversis fructibus positi in Casalis barani iuxta bona lucretie de Scala, iuxta bona Joannis Thome Mellosij tui fratris, viam publicam, et alios fines, ipsamque instaurate et reparate proprijs sumptibus promisisti». Con la stessa bolla il vescovo unisce alcuni benefici semplici «campestribus ruralibus seu simplicibus dello strappato, Socchivo seu lo Cuotto16et di Fiume Giordamo cum ditta parrocchiali ecclesia Sancti Joannis Baptiste Moropane et annexa facimus, damus, donamus, concedimus et elargimur et gratiose assignamus in jus patronatus laicorum tibi Iacobo Antonio Mellosio, et tuis heredibus, et successoribus in perpetuum et infinitus presentandi Cappellanum et Cappellanos, rectorem et rectores in dicta parrocchiali ecclesia et ennexis beneficiis tenearis toties quoties casus vacationis occurrerit». Furono presenti alla pubblicazione di questa bolla «datum et annotatum Iscle in domibus nostris solite residentie… donno Iacobo Mellosio Archidiacono Isclano magnifico Aloisio Perteso, magnifico Ioanne Dominico pastineo, et donno Dionisio Salibene». L’atto fu rogato dal not. G. Battista Funerio «de civitate Iscle publicus, Regia et Apostolica potestate, Curieque episcopalis Isclane attor notarius et scriba»17. La famiglia Mellusi conservò il diritto di patronato sulla parrocchia fino al 1692 quando passò alla famiglia Cervera18 che lo conservò fin verso la metà del secolo XIX. Infatti negli atti della seconda visita pastorale del vescovo Giuseppe d’Amante del 1825-26 è ancora detta di patronato della di Moropane è stata sempre intitolata a S. Giovanni il Battista e non all’Evangelista. 15) P. Lopez, op. cit. p. 213. 16) Che io sappia, è la prima volta che ci imbattiamo in questi toponimi. Succhivo lo conosciamo però già prima di questa data nel 1518 ( P.C. f. 328). 17) L’originale in pergamena non esiste più, ma nell’A.D.I. si conserva una copia cartacea del notar Giovan Vincenzo di Manso, un notaio del quale non ho alcuna notizia. 18) A.D.I. Notamento degli atti beneficiali della città e diocesi d’Ischia, f. 88 : «Moropani 1537 Bulla funtationis Parocchialis Ecclesie Sancti Joannis Baptiste cum jurepatronatus favore Familie Mellusi, nec non acta appropriationis juris patronatus predicti in favorem familie Cervera in anno 1692 folia scripta n. 10».Questi atti sono andati perduti.

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famiglia Cervera19. Quelli della visita del vescovo Felice Romano del 1855 stranamente non fanno alcun cenno alla parrocchia di S. Giovanni Battista20 , mentre nelle risposte date al questionario sulla parrocchia per quella di Francesco di Nicola del 1873-74, il parroco Pasquale Taliercio afferma ben due volte che la parrocchia «tra le più antiche della diocesi… è di libera collazione, ed ha mantenuto costantemente la sua antica estensione» e che sulla chiesa «non v’ha dritto di patronato alcuno»21. Quando e perché sia cessato questo diritto di patronato non è documentato. Dalla Platea del vescovo d’Avalos veniamo a sapere che a Moropano, come nella parrocchia del Lacco, non si conserva il Santissimo Sacramento non per «suspettione de Turchi», come a Lacco, che ha la chiesa parrocchiale dell’Annunziata presso il mare. A «Maropane», invece, che si trova in alto in condizioni di difesa più sicure, la parrocchia «non ha peso d’oglio per il Santissimo Sacramento, per essere loco solitario». Ma se il casale già nel periodo angioino viene tassato come gli altri dell’Isola, tre secoli dopo dovrebbe aver raggiunto un numero di anime di una certa consistenza. Già più volte mi sono interessato, anche se non in modo organico, dell’entità della popolazione dell’isola d’Ischia nei secoli XVI e XVII22, per cui è noto che solo per il casale di Forio, grazie alla presenza di alcuni stati d’anime nell’archivio parrocchiale di S. Vito, noi abbiamo notizie sicure sulla consistenza demografica dello stesso casale tra il 1596 e il 1620. Per il resto abbiamo solo pochi dati che riguardano le parrocchie del Castello23. Le motivazioni di questa mancanza di popolazione non le conosciamo, ma vorrei qui riportare un documento che, sebbene posteriore di circa sessant’anni rispetto alla Platea del d’Avalos, e quindi scaturito da una situazione completamente diversa, certamente drammatica e sconvolgente come la peste del 1656, pone dei quesiti ai quali non ancora abbiamo risposto, ma sui quali andiamo indagando, con una certa difficoltà, a causa della situazione nella quale versano oggi alcune istituzioni di ricerca presenti a Napoli e nella Campania. Riporto integralmente il seguente documento.

19) A.D.I. Acta Sanctae Visitationis Generalis nempe localis, realis et personalis huius civitatis, totiusque hujus Isclanae Dioecesis habita ab Illustrissimo et Reverendissimo Domino Ioseph d’Amante Episcopo Isclano 1820, f. 24. 20) A.D.I. Atti della Visita pastorale del vescovo Felice Romano del 1855. 21) A.D.I. Atti della Visita Pastorale di Francesco di Nicola 187374, ff. 184 e 185. 22) Su questo argomento si possono consultare le mie ricerche dal titolo: I marinai di Celsa e la loro chiesa dello Spirito Santo in Ischia, Forio, Tipografia Puntostampa 2003 pp. 23-29; Ecclesia Mater Insulana la cattedrale d’Ischia dalle origini ai nostri giorni, Forio, Tipografia Puntostampa 2010, p. 93 e ss. Si tenga presente lo studio di Dora Niola Buchenr: Ischia studio geografico, Napoli, Istituto Universitario di Geografia 1965 pp. 49 e ss. 23) Sugli stati delle anime della parrocchia di S. Vito di Forio, cfr. A. Di Lustro, Incremento demografico di Forio tra il 1596 e il 1620, in La Rassegna storica dei Comuni, anno IV n. 4, luglioagosto 1972.

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Archivio di Stato di Napoli Decretorum del Collaterale, Fascio 1368 f. 140 v. Magnifici viri ci è stato presentato memoriale Magnifico Illustrissimo et Eccellentissimo Signore Ioliano di Costanzo deputato del Regimento del Casale moropano della Fedelissima Città d’Ischia Onofrio laurenzo Giulio Cesare Domenico et fabio di Costanzo Bartorlomeo balestriero et ambrosio malfitano poveri bracciali, et particolari di detto casale supplicando esponeno a V. S. come per il prossimo passato morbo di peste in detto casale son morte da cento sissanta persone, et sono remasti essi poveri supplicanti con alcuni figliolini unitemente con detti supplicanti sono venti persone, et alcune poche donne tra piccole et grande, il quale casale, e poderoso de territori fruttiferi et seminatorij et non possono arrivare a governare ne anco la vigesima parte, in dies vieneno ad essere molestati per la Corte di detta Città ad istanza delli padroni affittatori e venditori censuarij et altri creditori di detti territorij senza considerazione alcuna nelle loro robbe di casa et persone per le quale cause non possono praticare, et vando fuggendo, et si moreno di fame et quello che e peggio per causa di detti creditori non possano andare alle guardie notturne per servitio regio, per difesa d’inimici, et resteranno inquisiti criminalmente per tanto per le viscere di Nostro Signore Giesù Cristo supplicano Vostra Eccellenza restar servita e f. 141 r. concederli moratoria di tempo o vero concederli dilatione non sian molestati perinsino a tanto sarà provissa generale e che detti creditori si paghino sopra li medesimi territorij, et si contentano se li pigliano per apprezzo da tanti non obstante sian calati di prezzo più dela mittà che valevano prima in gravissimo danno di essi poveri supplicanti bracciali, et non siano molestati ne sopra loro beni mobili ne di persona acciò non si morino di strapazzamenti di carcere ne di fame et non si disabiti a fatto detto casale et il tutto lo riceveranno a gratia ut Deus. Al Collateral Consiglio en 5 de Maijo de 1657 manzolo (?) et inteso per noi detto memoriale ci e parso fare la presente con la quale nce dicemo et ordinamo che del esposto riesso per li supplicantine debbiate fare relatione a noi acciò quella havuta, et vista possiamo procedere al di più che il parerà conveniente che tale è nostra volontà Datum Neapoli die 31 mensis Maij 1657. El Conde de Castrillo D. Coppola sec. Sebastianus Al Magnifico Capitano della Città d’Isca che del esposto nel quinterno memoriale per li supplicanti ne faccia relatione a Vostra Eccellenza ad finem providendi ut supra.

Questo documento va studiato a fondo perché ci presenta la situazione, drammatica, di un casale dell’isola d’Ischia all’indomani della peste del 1656 e va inserito nel contesto della situazione generale dell’Isola in quel periodo di tempo. Ai fini della presentazione dei documenti che stiamo trascrivendo, colpisce la nostra attenzione il riferimento alla popolazione presente nel casale. Se a causa della peste sono morte centosessanta persone e ora ne sono superstiti i sette «particolari» che sottoscrivono il documento «con


alcuni figliolini» e «essi supplicanti sono vinti persone, et alcune poche donne» possiamo calcolare che siano sopravvissuti alla peste circa cinquanta persone, mentre la popolazione esistente a Moropano prima della peste possiamo calcolarla in circa duecento persone. Questo non è un numero molto elevato, ma neppure molto esiguo. Riferendosi a circa sessant’anni prima della peste, possiamo supporre che al tempo della Platea d’Avalos la popolazione di Moropano potesse ascendere a circa centocinquanta unità. Il vescovo afferma «essere loco solitario» probabilmente perché la popolazione viveva in case sparse, per cui la chiesa parrocchiale veniva a trovarsi circondata solo da poche abitazioni. Sulla popolazione di Moropano non abbiamo altre notizie fino alla relazione ad limina di Nicola Antonio Schiaffinati del 1° dicembre 1741 nella quale il vescovo afferma che «incole ad numerum 387 ascendunt, inter quos quinque sacerdotes, subdiaconus unus, et unus clericus»24. Ciò significa che in appena ottantaquattro anni la popolazione è aumentata di circa duecentocinquanta unità, con una media annua di oltre venticinque unità. Questi dati però non corrispondono a quelli che il parroco Domenico Fumo riferisce nel 1740 ai Deputati dell’Università di Barano Pietro di Meglio e Gennaro di Scala, incaricati di raccogliere i dati circa la popolazione di ogni centro abitato dell’Isola per «potersi procedere all’apprezzo» delle proprietà del Marchese del Vasto presenti sull’Isola dopo la sua cacciata. Infatti il parroco riferisce il 28 agosto 1740 che a Moropano vi sono anime 422 di cui 125 (sic!) maschi da comunione e 120 (sic!) femmine da comunione25. In primo luogo il totale delle anime presentato dalle due fonti documentarie presenta una differenza di meno 35 unità nella seconda fonte rispetto alla prima. Inoltre è impossibile che la cifra data dal vescovo Schiaffinati si riferisca alle anime da comunione perché queste dovrebbero essere solo 245, mentre quelle non da comunione ben 197. Il divario si accresce enormemente se confrontiamo comunque queste due cifre con il numero delle anime che troviamo indicato nella relazione ad limina del vescovo Felice Amato. Questi presenta a Roma la sua relazione ad limina il 12 aprile 1747, quindi solo qualche anno dopo le altre due fonti documentarie, e tra gli «oppida» dell’Isola assegna a Moropano ben 808 anime26. In soli sette o otto anni si sarebbe verificato un incremento demografico di circa 400 anime: sembra piuttosto impossibile. Comunque, è interessante a questo punto che i miei venticinque lettori mi perdonino questa ulteriore digressione, veramente macroscopica, per fare un raffronto fra queste tre fonti documentarie e se presento in un quadro sinottico i dati che si ricavano dai tre documenti. Da questo quadro sinottico di tutta l’Isola possiamo subito osservare che tra i dati forniti nel 1740 dai Processi della Sommaria e quelli del vescovo Schiaffinati presentati nella relazione ad limina dell’anno successivo, si rileva, 24) Cfr. la relazione ad limina sopra citata. 25) A.S.N. Processi della Sommaria, Pandetta II, fascio 16 fascicolo 4 ff. 44. 26) Cfr. la relazione ad limina del vescovo Felice Amato del 1747.

nel breve volgere di un anno, un calo di ben 1138 unità, mentre nella relazione del 1747 notiamo nella popolazione di Moropano un incremento di 386 unità nel breve volgere di appena sei anni. Dalle cifre riportate nella relazione del vescovo Felice Amato del 1747 notiamo che il dato generale dell’intera Isola è di 16.415 unità. Rispetto alla cifra generale del vescovo Schiaffinati nel 1741, rileviamo che questa presenta 1138 unità in meno rispetto all’anno precedente, mentre quella del 1747 ne presenta 474 in più. Se poi confrontiamo il dato generale del 1740 e quello del 1747, notiamo che nel giro di sei anni appena si sarebbe verificato un incremento di ben 1.612, sempre a livello dell’intera Isola, e di appena 474 unità rispetto al 1740. A noi qui interessa però maggiormente rileggere con maggiori dettagli le cifre attribuite da queste tre fonti alla parrocchia di S. Giovanni Battista di Moropano. Il documento della Sommaria del 1740 ci informa che il 28 agosto di quell’anno il parroco di Moropano D. Domenico Fumo ha enumerato nella sua parrocchia anime 422 (sic!) di cui 125 (sic !) maschi da comunione e 120 (sic!) donne da comunione27 per un totale però di 245 (sic!) anime da comunione per cui dovremmo avere una popolazione di ben 177 persone in età da uno a quindici anni. Queste cifre, che sembrano poco verosimili, sono riportate sia dai responsabili della Università di Barano che dal parroco di Moropano. Nel giro di un anno però la popolazione si sarebbe assottigliata di ben 35 unità, come risulta dalla relazione del vescovo Nicola Antonio Schiaffinati, per poi aumentare di ben 386 unità nel 1747, cioè nel giro di appena sei anni, con un incremento medio annuo di oltre sessanta unità. Questo aspetto è certamente da approfondire attraverso l’acquisizione di altri documenti perché non possediamo più i libri dei battezzati del periodo per verificare l’attendibilità di certi dati numerici. Altro aspetto importante che scaturisce dal documento del Collaterale del 1657, è la situazione economica e sociale del villaggio di Moropano che è abitato da contadini o, per meglio dire, da braccianti che debbono lavorare terre non proprie e sottostare a duri balzelli da parte dei proprietari. La manodopera è molto esigua per cui i braccianti non riescono a far fronte alle istanze di padroni, affittatori e altri creditori. Questo causa grave disagio ai poveri braccianti che, non potendo far fronte alle tante esigenze e angherie, spesso sono costretti a fuggire per evitare conseguenze gravi anche per la propria esistenza. Si verifica, in altri termini, ciò che già alla fine del sec. XVI aveva prodotto una grave crisi economica che aveva costretto parecchi abitanti dell’Isola a fuggire se non altro per evitare di essere carcerati da creditori e gabellieri. Allora ci fu anche la rivolta dei «massari»29 che erano venuti a trovarsi in una situazione ancora più dframmatica30. I «deputati» di Moropano, inol27) Processi della Sommaria, loco citato. 28) Cfr. A. Di Lustro, Gli archivi dell’isola d’Ischia, in Ricerche Contributi e Memorie, vol. II, Napoli Tipografia A. Cortese 1984, pp. 136-137. 29) A.S.N. Collaterale, Partium fascio 37 ff. 60 e ss. 30) Su questo problema mi sono soffermato brevemente in: Ec-

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Quadro sinottico con i dati ricavati dai tre documenti Parrocchia

Processi della Sommaria Pandetta II, fascio 1614 anno 1740

Relazione ad limina del vescovo N.A. Schiaffinati anno 1741

Relazione ad limina del vescovo Felice Amato anni 1747

A - ISCHIA Cattedrale S. Biagio S.Barbara S. Nicola S. Vito di Celsa S. Domenico Totale per la Città d’Ischia

- - - - - - 2.550

6 53 44 - 1.622 722 2447

70 2.000 700 2770

B - CASAMICCIOLA S. Maria Maddalena

2.156

2.179

1.160

960

949

1.070

2.523 3.500 602 6.625

- - 590 5.708

* 6.100

426 759 1185

458 737 1195

855 900 1755

C - LACCO SS. Annunziata

D - FORIO S. Vito S .Sebastiano S. Leonardo Totale per Forio

E - FONTANA S. Maria La Sacra S. Maria del Carmine Totale per Fontana

F - BARANO S. Giovanni Battista 422 387 S. Sebastiano 1.263 1.223 S. Giorgio 780 670 Totale per Barano 2.465 2.280

Totale assoluto

15.941

14.803

820 6.920

808 1.010 922 2.740 16.415

* Dato unico per le due parrocchie di S. Vito e S. Sebastiano Molte volte i dati di alcune parrocchie non sono riportati.

tre, mettono in evidenza che essi sono braccianti e quindi debbono far fronte anche alle richieste dei proprietari dei terreni da loro coltivati. Infatti se diamo solo uno sguardo fugace a questo aspetto, ci rendiamo conto che la maggior parte del territorio appartiene a diversi enti ecclesiastici e a famiglie proprietarie di vasti appezzamenti presenti in diverse parti dell’Isola. A dimostrazione di ciò, vorrei citare solo qualche documento. Nicola de Manso della città paga al convento di S. Maria della Scala di Celsa sei ducati di censo all’anno su un appezzamento di terreno di moggia due e mezzo ubicato a «Moripana a la Croce… arbustata e vitata di viti greche e latine con altri alberi fruttiferi presso i beni di Bartolomeo Migliaccio, Vincenzo Sensala, via publica libera e il solo censo detto….. la vende» con atto del not. Giulio Cesare Rongione31 del 6 agosto 1576 clesia Maior Insulana la cattedrale d’Ischia dalle origini ai nostri giorni, cit. p. 94 e ss. 31) Del notar Giulio Cesare Rongione, oltre questo atto, ne conosco un altro del 20 luglio dello stesso anno che si trova citato in C.R.S. fascio 90 bis f. 22 v. Un altro del 14 agosto 1569 l’ho trovato transuntato dal notar Dionisio di Nacèra nel fascio I-III-33 f. 2 v. dell’Archivio della Basilica di S. Maria di Loreto a Forio.

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«al magnifico Geronimo di meglio con tutti i pesi con un censo di ducati tredici da dare ogn’anno al detto Nicola di Manso e detto di Meglio alias lanxa cominciare a pagarli al prossimo 1° novembre 1577». Se non dovesse pagare, Nicola può riprendersi il fondo. Questo atto costituiva la pergamena n. 166 dell’Archivio del Convento. In un anno non indicato dal documento, Giuseppe e Pasquale di Costanzo pagano al convento dei frati Conventuali di S. Maria delle Grazie, o dell’Arena del borgo di Celsa, ducati cinque di censo, per capitale di ducati 50 sopra un territorio ubicato a Moropano «al luogo detto Cola Caputo» di moggia due circa piantato a viti con «comprensorio di case terragne»32,. Oltre la chiesa parrocchiale di S. Giovanni Battista, Moropano non ha avuto mai, e non ha ancora oggi, altro luogo di culto.

Agostino Di Lustro

32) A.S.N., C.R.S. fascio 90 bis f. 265 v.


Le “due Italie” L’unificazione

La questione meridionale * V La questione demaniale La questione demaniale è «la vera questione sociale dell’Italia meridionale» (Fortunato), «fomite di liti e di incertezze assai dannose nei titoli stessi del possesso privato, sorgente inesausta di sommosse popolari in quasi tutti i Comuni del Mezzogiorno» (Fortunato). Problema sociale che ha dato origine ai più aspri e violenti contrasti tra contadini e proprietari terrieri. Importante manifestazione del carattere “anacronistico” della lotta di classe nel Mezzogiorno, derivante dalla generale arretratezza di un ambiente sociale in cui la formazione della proprietà privata borghese non è stata mai accettata come un fatto compiuto e definitivo. «Caso forse unico nella storia dell’Occidente europeo, dove la privatizzazione delle terre pubbliche e la liberazione di una parte dei beni ecclesiastici e feudali, punto di partenza di radicali ammodernamenti dei rapporti produttivi, si sono verificate avvantaggiando più o meno largamente i ceti contadini (Francia, Belgio) o la borghesia e la stessa aristocrazia (Inghilterra, Germania), ma senza lasciare in nessun caso le conseguenze che hanno invece lasciato nell’Italia meridionale» (Villari). Dalla matrice feudale erano sorte: - la grande borghesia agraria - i piccoli contadini senza terra o con poca terra. Nel settecento poi troviamo: - possessi feudali ed ecclesiastici - piccolissima proprietà contadina - proprietà dei borghesi - grandi proprietà comunali - terre comuni.

* Da una tesi di laurea dell’anno accademico 1965/66.

Nel corso del decennio francese l’eversione della feudalità con il conseguente concetto dell’individualismo agrario e la dissoluzione di vincoli feudali e l’abolizione del regime comunitario delle terre e degli usi civici, avevano fatto balenare la speranza di ripartizione dei demani comunali tra i contadini più poveri. Ma questa disposizione, ispirantesi al concetto borghese della proprietà e tendente alla formazione di una piccola borghesia rurale, aveva sapore paternalistico e non rispecchiava la reale situazione e i rapporti di forze nelle campagne meridionali. Le condizioni stesse del suolo spesso impedivano che al latifondo potesse sostituirsi un ceto vitale di piccoli e medi proprietari. E di conseguenza si ebbe che, mentre si consolidava la grossa borghesia fondiaria, con l’acquisto di terre ecclesiastiche feudali demaniali e con l’assorbimento dell’antica nobiltà, privata dei privilegi giurisdizionali, il proletariato agricolo si moltiplicava anche a causa del naturale incremento demografico. Possibilità di assorbire tale crescente massa proletaria poteva aversi con lo sviluppo dell’agricoltura; ma il sistema di produzione restava sostanzialmente legato agli stessi fattori del secolo precedente ed immutati rimanevano i rapporti sociali, e si facevano più dure le condizioni di vita e di lavoro della popolazione contadina. «La borghesia agraria meridionale mostra limitate capacità rinnovatrici. Essa ha saputo consolidare e aumentare la sua proprietà, ma,tranne casi isolati, a quale funzione di rinnovamento e di progresso ha adempiuto nelle campagne del Mezzogiorno? Quali rapporti sociali ha sostituito a quelli del periodo feudale? Non è necessario richiamarsi alla situazione delle campagne francesi dopo la Rivoluzione e alle grandi trasformazioni dell’agricoltura inglese; basti pensare soltanto al Piemonte, alla

Lombardia, alla Toscana» (Villani). Crebbe così il contrasto nelle campagne, conservando per molti aspetti carattere tradizionale: rivendicazione degli usi civici e dei demani comunali, il cui processo di privatizzazione era andato tutto a favore e a vantaggio dei “galantuomini”. «Le origini storiche della borghesia meridionale, l’esser nata e l’esser cresciuta all’ombra del feudo, l’aver avuto in retaggio, senza lotte drammatiche e rivoluzionarie, l’eredità feudale, ne limitarono lo slancio, non le consentirono di diventare una classe pienamente egemone che sapesse offrire ed anche imporre prospettive e soluzioni di rapido e sicuro sviluppo. Deve aggiungersi la componente politica, che per un verso risultava dalla stessa situazione sociale, per l’altro contribuiva a fissare ed aggravare i termini di un contrasto che appariva insanabile. La sollevazione popolare e sanfedista del 1799, il brigantaggio nel decennio francese, le agitazioni contadine del ‘20/21, le più recenti occupazioni di terre e i larghi movimenti rurali e cittadini nel 1848 erano ricordi vivi e temuti dalla borghesia fondiaria e intellettuale e sottolineavano la precarietà di una situazione, l’instabilità di un equilibrio minacciato ad ogni crisi. Nei ceti medi e borghesi cresceva la diffidenza per la monarchia che coscientemente o intuitivamente profittava dei contrasti sociali per mantenersi arbitra e per non cedere alle istanze costituzionali» (Villani). Risentimenti e odi ne scaturirono tra i galantuomini e il ceto eontadino; una frattura che doveva rivelarsi ancora più profonda dopo la caduta della monarchia borbonica. La classe dirigente napoletana, interprete delle esigenze della locale borghesia terriera, alla vigilia della unificazione, mentre da una parte faceva opposizione ad ogni tentativo rivoluzionario che avrebbe potuto scatenare la reazione borbonica e popolare, dava incondizionato appoggio e favore all’annessione, nella speranza di protezione. Ma anche le speranze dei contadini assicurarono il successo di Garibaldi; «contadini e proprietari, popolo minuto e borghesia, operai e professionisti, per motivi diversi e talora opposti associarono al nome di Garibaldi l’idea della La Rassegna d’Ischia n. 5/2012

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liberazione: affrancamento delle servitù per gli uni, restaurazione dell’ordine per gli altri» (De Marco). Equivoco che non poteva durare a lungo, destinato a dissolversi e a creare inevitabili disillusioni; «le aspirazioni delle masse contadine e proletarie cozzavano contro la necessità della borghesia meridionale e nazionale di portare a compimento il proprio processo di sviluppo, consistente per la prima secondo una linea tradizionale, nel completare l’assorbimento delle terre ecclesiastiche e demaniali, per la seconda nell’allargamento del mercato e nell’industrializzazione» (Villani). E l’insoluto problema demaniale costituì e divenne un potente strumento di agitazione delle masse contadine, nel miraggio della rivendicazione delle terre e della ripresa della lotta per la terra.

Le “tre malattie” dell’Italia meridionale Alla “base delle sue tristi condizioni economiche, morali e intellettuali, l’Italia meridionale presenta tre “malattie” secondo il Salvemini: due di origine legata al 1860 e l’altra di origine antica e tutta speciale del Mezzogiorno. La prima malattia, che del resto non costituisce un privilegio del solo meridione, è quella dello «Stato accentratore, divoratore, distruttore; dello Stato che spende i nove decimi delle sue entrate per pagare gli interessi dei suoi debiti e mantenere gli impegni derivanti da una politica estera dissennata» (Salvemini). La seconda malattia è l’oppressione economica cui è rimasta assoggettata l’Italia meridionale, dopo l’avvenuta unificazione. La spedizione di Garibaldi venne ad assumere l’aspetto di una vera e propria conquista. Il Napoletano e la Sicilia, entrati nell’Italia una senza debiti, furono costretti a pagare i debiti dei settentrionali; la confisca dei beni ecclesiastici a vantaggio delle finanze dell’Italia una sottrasse all’Italia meridionale enormi capitali. Al che non fece riscontro quella serie di provvedimenti e di opere pubbliche che sarebbe stato lecito attendersi, sicché si disse che il meridione, alla avanguardia nel dare, fu invece alla retroguardia nel ricevere. E a ragione forse si potrebbe ricordare quanto diceva l’ultimo dei 40

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Borboni, in fuga da Napoli a Gaeta: «io perdo il regno, ma a voi i Piemontesi lasceranno solo gli occhi per piangere». La terza malattia, propria del Mezzogiorno e conseguenza della sua storia, è la struttura sociale semifeudale che «di fronte a quella borghese dell’Italia settentrionale è un anacronismo; che mantiene il latifondo con tutte le sue disastrose conseguenze economiche, morali, politiche; che impedisce la formazione di una borghesia con idee e intendimenti moderni; che permette solo la esistenza di una nobiltà fondiaria, ingorda, violenta, prepotente, absenteista; di una piccola borghesia affamata, desiderosa di imitare le classi superiori, assillata dai nuovi bisogni sviluppantisi col progredire della civiltà, spinta al mal fare dalla necessità di guadagnarsi il pane in un paese dove la ricchezza confluisce nelle mani di pochi; e finalmente di un enorme proletariato oppresso, disprezzato da tutti, privo di qualunque diritto, servo nella sostanza se non nella forma» (Salvemini).

Le classi sociali I grandi proprietari meridionali, i latifondisti, i feudatari continuano quel dominio che per otto secoli hanno mantenuto illeso, pur attraverso tanti mutamenti di regime. Le cose sono rimaste sempre sullo stesso piano e allo stesso punto. In effetti nell’Italia meridionale tutti i rivolgimenti sono avvenuti per cause esterne: Durazzeschi, Angioini, Aragonesi, Francesi, Spagnoli, Austriaci, Borbonici, Napoleonici, Italiani, ma soprattutto la mancanza di una borghesia non ha reso possibii rivoluzioni moderne. E i grandi proprietari che seppero volgersi dalla parte dei padroni nuovi, allorché nel 1860 fu fatta l’Italia una non agirono diversamente dal solito. «In un attimo diventarono tutti liberali e sabaudisti; e furono nominati senatori, consiglieri di stato, entrarono con le loro mogli nelle casa civili e militari dei nuovi regnanti, si fecero eleggere deputati, si adattarono insomma al nuovo ambiente; e così quella che gli ingenui credettero rivoluzione, non fu se non una corbellatura» (Salvemini). Soprattutto per quanto riguarda la Sicilia, troviamo nell’indagine che vi

svolse il Sonnino la testimonianza che l’affrettata vendita degli antichi beni ecclesiastici avocati dallo Stato invece di operare in senso evolutivo favorendo il rafforzamento della piccola e media proprietà coltivatrice, si rivolse in un ingrandimento delle già vaste estensioni dei maggiori possidenti, i soli in grado di pagare a contanti le terre. «La proprietà è nella maggior parte della Sicilia ancora pochissimo divisa; segnatamente nella parte interna e meridionale dell’isola manca una vera classe di proprietari piccoli e medi e si salta invece d’un tratto dal grande proprietario che possiede più migliaia di ettari al piccolo censuario di poche terre. La censuazione dell’asse ecclesiastico ha modificato pochissimo queste condizioni della proprietà, giacché l’immensa maggioranza di quelle terre è passata tale e quale nelle mani dei grandi proprietari» (Sonnino)» Nelle regioni occupate dal latifondo vi è una classe di persone cui si diede il nome di “borghesia” e che comprendeva gli intermediari fra i proprietari e i coltivatori, gli speculatori cioè che prendendo a gabella il latifondo dai proprietari lo cedono a piccoli lotti ai coltivatori intascando la differenza fra il fitto pagato ad essi dai coltivatori e quello pagato da essi ai proprietari. Non mancano i contadini piccoli proprietari, con il pezzetto di terra coltivato dalle proprie mani; scontenti sì delle troppe tasse e imposte, ostili contro le istituzioni, ma senza grandi aspirazioni, per nulla interessati alla politica. Vi è poi la piccola borghesia cittadina: piccoli esercenti, i padroni delle manifatture, i professionisti delle piccole città, gli impiegati, persone con gli interessi principali in città. Tale la situazione di questa popolazione piccolo-borghese nel meridione? questa non può essere assorbita dalle industrie e dal commercio, che quasi non esistono; non può dedicarsi tutta alla piccola industria e al commercio locale, perché la famiglia non ha capitali bastanti per tutti i figli; non vuole scendere ai mestieri manuali, perché sarebbe grave disdoro pel «figlio di buona famigliai fare il calzolaio o il bracciante; non resta allora che prendere la via degli studi per diventare professionista o impiegato» (Salvemini).


E la lotta per l’esistenza diventa difficile quando poi ci si ritrova ad aver seguito in tanti la stessa strada nel miraggio dello stesso impiego. Numericamente maggiore è nell’Italia meridionale il proletariato rurale, misero e povero, ma gravato di tasse e imposte. «In queste province d’Italia dove più viva si era mantenuta la tradizione medioevale, e specialmente nella Sicilia dove l’ordinamento feudale durò intero e rigoglioso fino al 1812, 1’abolizione del diritto del sistema feudale non produsse nessuna rivoluzione sociale, appunto perchè i feudi, all’infuori delle sole terre che erano state regolarmente date in enfiteusi, furono lasciati in libera proprietà agli antichi baroni: onde al legame tra il coltivatore e il suolo, che prima era costituito dalla stessa servitù feudale, non si sostituì come altrove l’altro vincolo della proprietà, ma invece quel legame fu semplicemente rotto, e il contadino si trovò libero in diritto, senza doveri ma anche senza diritti, e quindi ridotto di fatto a maggiore schiavitù di prima per effetto della propria miseria. Si deplora in generale che la Rivoluzione francese non abbia fatto sentire il suo soffio vivificatore in Sicilia, e il pensiero è giusto, ma quel che è quasi più ancora da deplorarsi è che la Sicilia abbia iniziato le sue riforme liberali sotto l’influenza inglese in un momento in cui in tutta Europa risorgeva più potente lo spirito di reazione, e il medioevo sembrava dover rivivere. L’atmosfera era già viziata quando i petti siciliani si allargarono ai primi respiri di libertà e le maggiori riforme civili furono introdotte nell’isola per opera di un Borbone, in tempo di completa reazione. Che meraviglia dunque se le oppressioni di classe su classe si mantennero! se nel 1860 vi trovammo, con leggi moderne, costumi e tradizioni medioevali» (Sonnino). In un ambiente dalle strade inesistenti, dal commercio scarso, dalle condizioni generali disastrose, facile si rivelò la possibilità di sopravvivenza del carattere feudale; l’ineguaglianza delle sostanze era grande, quasi assente invece l’idea dell’eguaglianza di tutti di fronte alla legge, «Era un mondo dominato dallo spirito della Controriforma, in cui il clero

esercitava una forte influenza su di una popolazione di servi bigotti e la gente apprendeva soltanto in Chiesa alcune scarse norme morali e cognizioni politiche ed evitava di mandare a scuola i propri figli. Le condizioni di vita e di lavoro spingevano costantemente i contadini al limite della rivolta e nessun rivolgimento politico aveva luogo senza che essi si levassero a trarne profitto in insurrezioni di aberrante crudeltà» (Mack Smith). Questi contadini però in tutte le loro rivoluzioni non erano riusciti ad ottenere nulla di positivo, sopraffatti sempre dagli interessi dei grandi proprietari terrieri. Già nel 1860 al successo dell’invasione di Garibaldi contribuirono sommosse contadine causate dalla disoccupazione e jacqueries anarchiche che avevano provocato e costretto alla fuga l’atterrita polizia borbonica. Ma più tardi Garibaldi, ritenendo più utile l’appoggio dei proprietari terrieri piuttosto che quello dei contadini, mutò politica. E ai contadini rimase la nuova delusione che Garibaldi non era un ribelle al loro fianco, ma il rappresentante di un nuovo e ancor più oppressivo governo. Fu così che un movimento iniziato dalla rivolta dei contadini contro i proprietari terrieri finì a fianco di questi ultimi contro i loro contadini. Il problema dei rapporti tra coltivatori e proprietari costituisce l’aspetto decisivo della questione sociale nel Mezzogiorno, ma soprattutto il fondamento storico della questione siciliana. Problema peraltro non da studiare soltanto e circoscrivere nell’ambito regionale, nella contrapposizione tra Nord e Sud, ma nella visione unitaria, nazionale, nella compenetrazione tra la realtà politica generale e quella regionale. «L’arretratezza del Mezzogiorno non è un fenomeno circoscritto e isolato e la questione meridionale è insieme causa e conseguenza dei limiti dello sviluppo dello Stato» n popolo minuto rappresentò per troppo tempo ben poca cosa ai fini del movimento nazionale. sicché nessuno pensava di conquistarsene le simpatie. Di riforme sociali non si parlò molto, si attuò meno. Pure “per inserirsi intimamente nella vita e nella coscienza italiana, il Risorgimento politico aveva bisogno di una ulteriore rivoluzione sociale, una rivoluzione che

fosse in grado di attirare al governo le simpatie popolari e convincere la classe dirigente che le riforme sociali potevano costituire un mezzo di stabilità politica. Affinché il processo di unificazione potesse essere completato era necessario condurre il popolo minuto in seno alla grande corrente della vita nazionale. Era questa una lezione che andava imparata, e la riluttanza ad impararla doveva imporre all’Italia nei 90 anni seguenti delle prove terribili» (Smith).

Teorie e posizioni Le ricerche intorno alle cause determinanti il problema meridionale hanno spesso ricevuto impulso dalle imperanti dottrine filosofiche. Soprattutto allorché fu sfatata la leggenda della inesauribile ricchezza e feracità della terra meridionale, scaturì la illazione di un deciso pessimismo su tutto il Mezzogiorno. Miserie e infelicità di esso divennero traduzione storica di dati naturali e non contingenti, quali la struttura del suolo, il clima, la posizione geografica, e di naturali e immutabili attitudini delle popolazioni meridionali. Contribuivano appunto a caratterizzare siffatte posizioni la delusione per l’improvvisa scoperta che il Mezzogiorno era in realtà una terra arida, sterile, ingrata, malarica, irrimediabilmente povera, e ancora la «delusione dei primi scarsi risultati nella risoluzione dei gravi problemi meridionali (apertisi nel corso della sua storia) e che l’unificazione italiana sembrava aggravare, e principalmente l’imperante naturalismo e positivismo, alla quale inferiore concezione quegli osservatori e indagatori, economisti, agronomi, uomini politici, quantunque si professassero non filosofi, non poterono sottrarsi» (Croce). Era il tempo delle cause naturali e da tale piano prospettico ci si volse alla convinzione di un Mezzogiorno condannato dalla geografia. L’Italia meridionale vale assai poco: diffusa prevalenza di formazioni geologiche impermeabili e forte acclività di gran parte dei bacini idrografici; maggiormente prevalenti le argille e le marne; torrenti i fiumi, franose le pendici, devastati i boschi secolari, il clima tale da mantenere stazionaria e arretrata La Rassegna d’Ischia n. 5/2012

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l’agricoltura: «naturalmente povero il Mezzogiorno, che ragioni fisiche rendono inferiore al resto della penisola» (Fortunato)« Il colore della pelle, la bassa statura, il regime alimentare, l’indolenza, la sessualità eccessiva, l’omicidio ed altre caratteristiche fisiche e morali che contraddistinguono i meridionali: tutto riportato ad un solo fattore determinante e cioè al clima. La mancanza di comunicazioni, la decadenza dell’agricoltura, la mancanza di centri urbani e l’assenza dell’industrialismo: conseguenza della natura del suolo. E la conclusione diventava che sempre per la sola diversità d’ambiente geografico, l’Italia del sud sarebbe stata d’una civiltà inferiore a quella del nord. Contro tale pessimismo, soprattutto geografico, si levò il Maranelli, sostenendo che il mondo fisico condiziona sì le forme di vita umana, ma non le determina in modo assoluto, non le impone ferreamente e ineluttabilmente; che la terra, il cielo, il clima, le acque sono strumenti in mano dell’uomo, il quale ne è sollecitato a condursi in un certo modo, ma che egli può maneggiare con una certa indipendenza e volgere a risultati diversi, secondo le interferenze di eventi e di fattori politici, economici o d’altro genere. Si ricorse anche all’altra causa, non meno naturale, la razza, i caratteri atavici, cui si riportava l’inferiorità del Mezzogiorno e del suo popolo in molti campi della vita sociale; inferiorità considerata di conseguenza necessaria, immutabile e immanente. Carattere del popolo e fisionomia razziale che deriverebbero dalla «graduale stratificazione di costumi, mode, morali, abitudini, di cui potrebbe essersi perduta perfino la memoria, e che però senza che ce ne accorgiamo operano e vivono ancora», come la teoria psicanalitica «fa derivare la nostra vita attuale, e cioè il carattere dell’individuo, dalla inconsapevole memoria delle esigenze della prima infanzia, accumulate e come stratificate negli anni» (Titone). . Comunque l’interpretazione razzistica veniva nettamente respinta dal Colajanni «niente clima! niente razza! esclama Filippo Turati, a proposito dei mali morali del Mezzogiorno e della Sicilia (Critica sociale,15 aprile). Ed 42

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è quanto vado gridando da circa venti anni contro la scuola che si dice positiva ed è solamente metafisica, la quale vorrebbe condannare metà dell’Italia ad una fatale e perpetua inferiorità. Niente clima! niente razza! posso anche oggi fieramente ripetere di fronte alle audaci asserzioni del Pullé che nel Mezzogiorno e nelle isole si è divertito a trovare i caratteri somatici - in blocco e nei singoli casi - della delinquenza; che l’analfabetismo del Mezzogiorno e delle isole sinanco attribuisce alla razza; che interpretando cervelloticamente le cifre, che egli stesso riporta, il numero degli illegittimi mette in rapporto all’analfabetismo e alla criminalità» (Colajanni). Il fattore economico venne esplicitamente considerato decisivo nella vita e nei destini del povero Mezzogiorno e ad esso si accoppiò l’influenza non meno energica e più continuata del fattore politico. Questo aveva eliminato la giustizia nei rapporti sociali, educato al servilismo; e alla prepotenza, arrestato ogni sviluppo della cultura intellettuale, rinforzato o creato in conseguenza l’influenza del fattore economico. Si trattava quindi di distruggere il vecchio mondo feudale meridionale, operare profondamente sul piano sociale ed economico nel senso di vaste trasformazioni strutturali a carattere sociale. Viceversa che cosa si era avuto? «Ai mali economici del Mezzogiorno e della Sicilia, i fratelli del Settentrione hanno provveduto considerando tali regioni quali una colonia popolata di barbari, una colonia dove vi era soltanto un buon mercato pei loro prodotti industriali. Ai mali politici, intellettuali e morali della Sicilia e del Mezzogiorno, i fratelli del Settentrione hanno prov-

veduto guardandoli altezzosamente, trattandone gli abitanti brutalmente e sprezzantemente» (Colajanni). La preoccupazione di determinare una causa causarum, una causa fondamentale cui riportare tutte le altre, portò alla formulazione di varie terre, cosiddette geografiche, antropologiche, sociologiche, storiche del problema meridionale. Ma né la razza, né il clima, né il malgoverno passato e presente, isolatamente, possono spiegare appieno il problema meridionale; ogni ricerca tendente a dimostrare l’una o l’altra di queste tesi unilaterali, sarà sempre empirica. E non di rado, ponendo l’uno o l’altro fattore a base del complesso problema, si rischia di interpretare come causa ciò che è effetto d’uno o più fatti costituenti il problema stesso e viceversa. «Clima, ubertosità o avarizia di terreno, salubrità o insalubrità, posizione geografica, disposizioni etniche, strade e mancanza di strade, spostamenti di linee commerciali, e simili, sono tutte cose importanti, se considerate come condizioni o materia o strumenti tra cui e su cui e con cui si travaglia lo sforzo spirituale, che deve formare sempre il punto centrale della considerazione; ma tutte prive di importanza prese per sé, fuori del centro, inerti e incapaci di condurre ad alcuna conclusione. Ciascuna di esse infatti può (e questa è cosa nota) diventare, secondo i casi, forza o debolezza; la povertà ingenerare vigore e ardimento o per contrario sfiducia e abbattimento, la ricchezza corruttela e migliore sanità; il medesimo clima (come diceva Hegel) accogliere indifferente le opere degli Elleni e l’«ozio dei Turchi» (Croce).

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Bibliografia Colajanni N., Passo riportato in “Nuova Antologia della questione meridionale” di B. Caizzi. Croce B., Storia del Regno di Napoli, Bari 1958. De Marco D., Il crollo del Regno delle Due Sicilie. Fortunato G., Antologia dei suoi scritti, Bari 1948. Salvemini G., Scritti sulla questione meridionale. Smith Mack, Storia d’Italia dal 1861 al 1958. Sonnino S., I contadini in Sicilia. Titone V., Origini della questione meridionale. Villani P., Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Baria 1962. Villari R., Il Sud nella storia d’Italia, Bari 1961.

FINE - Altre parti sono state pubblicate nei numeri: n. 6/2011 – nn. 1, 3, 4/2012


Nel piazzale antistante la Basilica di Superga

Il monumento al re Umberto I (1844-1900) con il nome ISCHIA sul plinto della colonna Nel piazzale antistante la Basilica di Superga si trova un

monumento dedicato alla memoria del Re Umberto I di Savoia, ucciso il 29 luglio 1900 a Monza dall’anarchico Gaetano Bresci. Il monumento, commissionato dal figlio Vittorio Emanuele III nel 1902, è opera dello scultore milanese Tancredi Pozzi e consiste in una colonna corinzia di granito con un capitello in bronzo sulla quale si trova un’aquila trafitta da una freccia, con chiaro intento allegorico alla morte del sovrano. Alla base della colonna la statua di un guerriero celtico simboleggia la città di Torino e punta una mano verso il cielo e la spada verso uno scudo di Savoia. Sulle facce del plinto, alla base della colonna, si leggono ISCHIA e BUSCA-NAPOLI, in riferimento alle pubbliche sventure cui il Re era sempre puntuale partecipare: così il richiamo al terremoto che il 28 luglio 1883 sconvolse Casamicciola e alle visite a Busca, in provincia di Cuneo, il 26 agosto 1884, e a Napoli dall’8 al 12 settembre successivi, per portare conforto e aiuti alle popolazioni colpite dall’epidemia di colera. Riferimenti che si trovano citati anche nel libro di Onorato Roux dal titolo “La prima regina d’Italia” del 1901, per ricordare che più volte Margherita di Savoia trepidò per la vita di Umberto. Quando, il 28 luglio 1883, il terremoto distrusse, in quindici secondi, Casamicciola e danneggiò grandemente Forio e Lacco Ameno, e si sparse la notizia che le vittime del disastro ascendevano a più centinaia e le persone rimaste senza tetto a più migliaia, il Re corse a soccorrere i superstiti dell’isola d’Ischia. La Regina, sapendo che indubbiamente Egli, come in tante e tante altre occasioni, si sarebbe esposto ai pericoli, tremò per Lui, allorché Le pervenne la notizia che Umberto, a chi voleva distorglielo dal camminare fra le rovine, aveva detto: - Voglio veder tutto; debbo veder tutto. Quando il Re, seguendo sempre l’impulso del suo cuore generoso, manifestò, nell’estate del 1884, la volontà di partire per Busca colpita dal colera, la Regina, pur trepidando per la vita di Umberto, ebbe la forza di non dissuaderlo, ed additò l’esempio paterno al piccolo Vittorio Emanuele, affinchè sapesse, anch’Egli, che i re debbono trovarsi sempre dove i popoli soffrono. Il carattere di Umberto si può riassumere in una parola: «Coraggio». Il cuore di Margherita di Savoia fu provato, di nuovo, quando il Re, non ancora rimesso dalle forti emozioni avute nelle dolorose visite fatte ai lazzaretti di Busca, il 7 settembre di quell’anno, stesso, partì per Napoli, dove il colera infieriva. Invitato ad onorare di sua presenza le corse di Pordenone, Egli aveva risposto al sindaco di quella città: - A Pordenone si fa festa, a Napoli si muore; vado a Napoli. Umberto.

Tale telegramma accrebbe i timori della Regina, che vide nella risoluzione presa dal Re una nuova sfida, coraggiosamente da Lui lanciata alla morte, e commosse gl’Italiani che presentirono gli atti di abnegazione e di carità che Egli avrebbe compiuti in Napoli. Ugo Pesci, nella biografia del «Re martire», nega ad Umberto la paternità del telegramma. Il quale si legge nel n. 220 della «Gazzetta Ufficiale del Regno» in data del 9 settembre 1884, dove nella «Parte ufficiale» si narra pure, comprovando le parole del Re, che lungo il viaggio, dovunque il treno si fermava, le popolazioni avevano salutato l’Augusto Sovrano, che correva là «dove si moriva». *.


Raffaele Iacono

un universo poetico dove la memoria è prefigurazione L’arte di Raffaele Iacono sfugge allo sterile incasellamento delle categorie critiche per un’autonomia, formale e di pensiero, tanto perentoria quanto inclusiva di esperienze. Tra organicità e astrazione, il suo universo poetico, così come esso emerge nel corso di una ricerca incessante, eppure sempre condotta sul filo di un’intima coerenza, è l’espressione di un’eccedenza misurata che affiora sul supporto, leggero e resistente come solo la carta sa esserlo. Concrezioni materiche si frantumano in pulviscoli iridescenti, per poi rapprendersi in grumi di colore e comporsi in filamenti che scuotono la luce o si avvitano nelle profondità del buio. Se è vero, come scrive Erwin Panofsky nel suo celebre saggio sulla prospettiva come forma simbolica, richiamando un assunto del filosofo Proclo, che “Lo spazio non è altro che la luce più sottile”, si comprende il mistero di un’intuizione spaziale che non si affida alla costruzione prospettica, ma a una vertiginosa metamorfosi che germina segni. Sono fossili di un’inquietante vividezza, emersi da recessi ancestrali, e per questo sottratti all’esclusività del vissuto personale, o figure, proiettate al di qua di età prossime, che nel tendere all’equilibrio, mostrano, nell’esasperazione del gesto che le ha prodotte, le tracce dell’icasticità sacrale in cui la forma è destinata a frenarsi. È forse in questa meditata ambiguità di senso il segreto di un mondo, dove la memoria sa farsi prefigurazione (Salvatore Ronga).


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