Numero Dodici

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Una semplicitĂ complessa

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Una conferenza di Carrilho da Graça

La conferenza di lunedĂŹ 14 luglio dell’architetto portoghese JoĂŁo LuĂ­s Carrilho da Graça ha aperto l’ultima settimana di workshop. Non piĂš dialoghi, ma una presentazione di progetti, per approfondire la personalitĂ di uno dei protagonisti del panorama contemporaneo. Il primo dei progetti presentati, il teatro/auditorium di Poitiers, si pone in un contesto particolare, in un’area sopraelevata chiusa tra il centro storico e la stazione ferroviaria, in cui la grande scala dei nuovi edifici va a confrontarsi con la scala urbana piĂš minuta dell’adiacente centro storico. Su di una grande piattaforma calcarea, il cui materiale si rapporta e dialoga con la pietra della montagna situata dall’altra parte della valle, sono collocate “due scatoleâ€? stereometriche. La disposizione dei manufatti in questo luogo in realtĂ poco adatto ad accogliere detti volumi, coincide (anche se non intenzionalmente) con la pianta dei resti romani

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portati alla luce solo dopo che la proposta progettuale era stata formulata. Questo rinvenimento ha quindi rafforzato l’idea di collocare l’auditorium e il teatro secondo l’orientamento scelto. Le due sale hanno rispettivamente una capienza di 1100 e 700 posti; tra i due edifici si apre un patio dedicato al “lavoro artisticoâ€? che, oltre a costituire uno spazio-filtro, è utilizzabile anche per spettacoli all’aperto. L’involucro esterno delle due “scatoleâ€? risulta quasi trasparente, grazie ad un sistema che consente di proiettare sia opere d’arte sia annunci pubblicitari. I continui cambi di luce, le pulsazioni cromatiche, sembrano dare vita all’edificio stesso. Anche il colore (in questo caso il giallo: ÂŤmi piacciono i colori forti!Âť sostiene Carrilho) assume una notevole rilevanza. Inteso come ÂŤseconda possibilitĂ di espressione in architetturaÂť, offre la possibilitĂ di mutare negli anni l’aspetto esterno degli edifici.

Internamente, grande rilievo è stato dato alle soluzioni acustiche dell’auditorium. Il pubblico è disposto lungo un piano orizzontale, in modo da evitare una frammentazione del suono che porterebbe inevitabilmente ad una sua diffusione imperfetta. L’intero ambiente è pensato come una “grande barcaâ€?, rivestita interamente in legno, per ribadire una radicale omogeneitĂ nell’uso della materia. Le pareti, cosĂŹ come il soffitto, sono realizzati con pannelli incastrati senza l’utilizzo di chiodi, quasi si fosse trattato di dare forma a uno strumento musicale. Tutti questi accorgimenti sono volti a rendere al meglio il modello acustico che consente di diffondere le vibrazioni attraverso il corpo di ciascun spettatore, come parte dell’orchestra stessa. La medesima attenzione nei confronti della diffusione sonora è stata posta nel progetto per la Casa da musica a Lisbona. L’edificio, chiuso verso l’esterno,

data la vicinanza con una strada piuttosto rumorosa, si apre verso il cortile interno che consente maggiore libertĂ di espressione progettuale. Gli spazi interni sono articolati su due livelli, a seconda degli strumenti che devono ospitare. Ăˆ importante sottolineare come ciascuna delle sale da musica sia completamente insonorizzata e trattata in modo da esaltare al meglio le qualitĂ acustiche. A tale scopo, tutti gli impianti, le tubazioni, i condotti dell’aria sono collocati nei corridoi distributivi, per evitare interferenze sonore. Il sistema adoperato nell’auditorium è lo stesso utilizzato per il progetto di Poitier: interamente in legno ÂŤcomposto, poco costosoÂť: vi è una continuitĂ materica tra palcoscenico, platea e soffitto. Le finestre poste agli angoli dell’edificio si aprono sul panorama dei dintorni di Lisbona, mantenendo cosĂŹ uno stretto rapporto tra cittĂ e nuova architettura.

L’importanza del sito appare particolarmente evidente nel progetto per la Chiesa di Sant’Antonio, dove gli affioramenti della roccia presenti sul luogo sono stati resi ancora piÚ evidenti, in modo da diventare parte integrante del progetto stesso. L’edificio ha uno sviluppo prevalentemente orizzontale e un assetto semplice, sottolineato anche dall’arredo interno; in modo particolare per quanto riguarda l’altare, una semplice tavola come quella di Mies van der Rohe. La presenza di spazi vetrati lungo i lati della chiesa consente di mettere in relazione la platea interna con l’intorno, cosa che risulta particolarmente evidente nell’area retrostante l’altare: al di sotto di una parete leggera, che sembra fluttuare grazie ad un sapiente gioco di luci, una grande vetrata si apre lasciando libera la vista verso la roccia. L’ultimo progetto presentato, non ancora realizzato, sviluppa il tema di un edificio residenziale

nella periferia di Lisbona, in una zona definita da Carrilho particolarmente “brutta e degradataâ€?, nei pressi dell’aeroporto. Questa area è oggetto di un piano di riqualificazione che prevede anche interventi di Alvaro Siza e Eduardo Souto de Moura. Il complesso racchiude in un singolo edificio una serie di abitazioni monofamiliari a patio, ispirate dal progetto per l’Immeuble Villas di Le Corbusier. Si tratta di un sistema semplice, che tuttavia offre svariate possibilitĂ di aggregazione rispecchiate in modo evidente nel prospetto. I lavori di Carrilho da Graça, nella loro apparente innocenza nascondono una notevole complessitĂ spaziale, dimostrando come la semplicitĂ in architettura sia anche la cosa piĂš difficile da realizzare. Less is more diceva Mies. Letizia Ferrari

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Riconoscersi come comunità Intervista al Preside Giancarlo Carnevale

La formula dei workshop è arrivata alla settima edizione. Ci sono molti punti di forza, e questo è indubbio. Vede anche degli elementi di debolezza, delle questioni da ripensare? Ciò che funziona è la quantità. Questa produce una sorta di contagio, un’energia che circola anche tra i docenti, una sorta di spirito di emulazione, di sano antagonismo, perché siamo tutti nello stesso luogo, a un medesimo tempo. I primi workshop riusciti hanno indotto studenti e docenti a parlarne, bene, ad altri studenti e altri docenti. Il che ha creato delle aspettative prima in Italia e poi all’estero. Ci arrivano proposte di partecipazione da punti anche remoti del mondo. Il tutto, unito al fatto che i laboratori si svolgono a Venezia, rende l’evento unico nel panorama mondiale. Fu un’intuizione di Carlo Magnani, che all’epoca la realizzò con i fondi sociali europei: si finanziò così non un’offerta didattica straordinaria, ma un’offerta strutturata. Quest’anno sono venuti meno, ma l’Ateneo ha messo ugualmente a disposizione delle risorse. Il resto è stato sopperito dall’intervento di alcuni sponsor. Uno dei punti deboli riguarda una questione puramente burocratica: gli studenti del terzo anno non ricevono un voto al termine delle tre settimane del loro laboratorio. Questo pone i ragazzi più grandi in una condizione di maggiore cinismo, per così dire. Poi naturalmente dipende dai singoli, c’è chi comunque si impegna. Un ulteriore punto, non so dire se di forza o meno, è la durata. I grandi nomi che riesci a far gravitare attorno ai workshop non stanno fermi tre settimane, a meno che non vengano da un altro continente. Alle volte si recano in altri continenti... Sì, succede, come accadde a Zenghelis l’anno scorso. Forse con due settimane si riuscirebbe a ovviare a questo problema. È vero tuttavia che tre settimane sono un tempo unico. È una di quelle cose che permette di arrivare a livelli all’inizio impensabili, che dà modo agli studenti di assimilare un metodo nuovo. I punti di debolezza che lamentiamo sono ad esempio la chiusura delle sedi alle sette e mezza di sera, che cerchiamo sempre di posticipare. Non c’è una continuità con soluzioni estere, che rimangono però di élite, dove i ragazzi ad esempio hanno le chiavi degli edifici dell’università. Poi c’è un’altra questione, congenita alla realtà di Venezia: gli studenti sono quasi tutti pendolari.

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Riferendosi probabilmente all’ultimo periodo, perché il panorama degli studenti, geograficamente parlando, è molto mutato da dieciquindici anni a questa parte. È cresciuta la componente regionale, è venuta meno parte di quella eterogeneità che era un elemento di ricchezza, che faceva parte integrante dell’essere studente a Venezia, all’Iuav. Infatti siamo incalzati da altre sedi, Trieste, Udine, Ferrara. Va anche ricordato che mentre prima l’Iuav era l’università dei grandi numeri, adesso che abbiamo ridotto a 600 per anno il numero d’ingresso degli studenti, le case occupate a Venezia sono divenute meno, rispetto ai 10.000 studenti che avevamo, ma questo non ha apportato un apprezzabile vantaggio. Un altro elemento negativo è che non tutti e trenta i workshop sono sullo stesso livello. Accade quindi che nel sorteggio, perché grosso modo si tratta di un’assegnazione random, gli studenti più avvertiti cerchino degli escamotage per frequentare il workshop desiderato. Questo crea delle differenze che, anche se patologiche, tuttavia non hanno mai causato problemi veri. C’è stato una sorta di flusso naturale: gli studenti meno impegnati sono andati verso corsi che reputavano meno impegnativi. Workshop, diceva, è unità di luogo e unità di azione, a Venezia. Alcuni laboratori propongono, in assoluta indipendenza, temi analoghi: colonizzazioni effimere della laguna, edifici galleggianti, offrendo ipotesi di lettura della città. C’è un rapporto possibile tra la “forma-workshop” e il potenziale di indagine sulla città (sulle nuove forme di città) che offre e la realtà di Venezia? È il suggerimento/critica che ci rivolse Massimo Cacciari. Aveva percepito la grande quantità di lavoro intellettuale, di energie, di impegno culturale che erano in gioco, e da amministratore ci chiese perché non indagare questioni, tematiche sensibili legate alla specificità veneziana. Credo che questo sia possibile in corsi che durano sei mesi, credo sia possibile con le lauree, con i tirocini (avendo a disposizione 200 ore moltiplicate per alcune migliaia di studenti si potrebbero formare dei laboratori che analizzino e studino i fenomeni patologici della città), ma quelli impegnati in questi giorni sono ragazzi del triennio che lavorano tre settimane, in un clima a volte un po’ festoso. Non è qui che li formiamo, non è da queste occasioni

che possiamo trarre indicazioni spendibili all’esterno. Semmai queste sono occasioni di aggancio con l’esterno, ed è quello che stiamo facendo cercando sponsorizzazioni, ma anche governando un interessante fenomeno che potremmo definire di passaparola: si fanno avanti piccoli comuni e industrie proponendo temi e questioni specifiche. Questi experimenta trovano così un riscontro in ambiti che sono al di fuori del panorama universitario. L’obiettivo non è di considerare i workshop come laboratori al servizio della città; semmai possono essere il veicolo per promuovere contatti con la città, invitando le istituzioni a vedere con quanta passione lavorino i ragazzi, e mostrando questo “alveare operoso” che offre la vivificante impressione di trovarsi in una grande scuola. Chiunque venga da fuori è molto colpito da tutto questo. L’utilità non è di affrontare un tema e studiarlo, l’utilità e scoprirsi come comunità. I ragazzi particolarmente interessati e bravi dopo un qualche tempo scoprono altri, studenti come loro, altrettanto interessati e bravi. Si creano le occasioni per fare triangolare le diverse esperienze, si formano piccoli studi, formazioni, gruppi che si ri-conoscono e terminata l’esperienza del laboratorio non si perdono di vista. Lo shock dell’internazionalizzazione è un altro degli aspetti positivi: questi ragazzi spesso continuano a vivere nelle condizioni in cui hanno affrontato il liceo, in piccoli centri, frequentando gli stessi amici, non fanno vita di facoltà, a sera salgono sul treno e tornano a casa. Queste sono le uniche vere occasioni in cui questa comunità si scopre tale. La densità e le unità di azione e di tempo giocano in questo senso. Gli studenti entrano in contatto con altre scuole. Lo shock è salutare anche in questo senso: si acquisisce una sorta di modestia, non siamo sempre noi dell’Iuav ad avere ragione, ci si rende conto che esistono altre realtà con cui confrontarsi. Funzionano bene i dialoghi, i dibattiti serali. Non sono frequentatissimi però costringono gli studenti a verificare che a volte ci sono scarti, questioni di nicchia che meritano di essere approfondite. A proposito di questo. Ci sono contributi che non appartengono tout court alla disciplina architettonica. In questa edizione sono il risultato delle iniziative di singoli docenti che invitano ospiti. È possibile pensare a una istituzionalizzazione di que-

sti contributi esterni, aprendo ad altre discipline, un po’ sulla scorta di quanto avviene con la Scuola di dottorato, in cui si smette di parlare solo tra dottorandi della medesima disciplina e ci si apre all’altro da sé? È un’occasione buona, almeno durante la prima settimana, per arricchire la formula. Mi preme sottolineare un aspetto: quest’anno si è chiarito che i workshop sono realmente interdisciplinari: arrivano contributi dalle aree più diverse, dalle arti figurative, ci sono sconfinamenti in territori quali l’analisi urbana. Ci sono cinque urbanisti coinvolti quest’anno. Una delle questioni su cui stiamo lavorando è una convergenza con Arti e design, per ora sperimentale viste le diverse quantità in campo. Se si potessero formare altri workshop misti, sul modello di quello che costituisce la redazione del quotidiano, troveremmo anche delle ragioni in più per esplorare culture e discipline che sono contigue. Così come vorremmo allungare il periodo della mostra. Pensare che tutto si bruci nello spazio di due giorni dopo tutto questo impegno è quasi frustrante. Chiamare le altre istituzioni è stato quest’anno uno degli obiettivi. Siamo in attesa di una conferma da parte della Biennale, verranno esponenti del mondo della politica, così come Monique Vaute. È in forse la presenza di Achille Bonito Oliva. Lo scopo è quello di dare grande visibilità nazionale all’evento, far sì che esca dai circuiti della stampa cittadina. E poi, si possono considerare da un lato gli esperimenti che si conducono come interni ai laboratori, dall’altro si può tentare di moltiplicare le offerte comuni, i dialoghi, i dibattiti, facendo diventare il tutto una sorta di festival dell’architettura, un’offerta articolata che può venire colta per intero o solo in parte. Secondo quali criteri vengono cooptati i docenti? La formula originaria ha subito diverse modifiche. C’è una sorta di core rappresentato dagli otto docenti dell’Iuav. Quest’anno si è introdotta la formula del gemellaggio: un workshop tenuto da due titolari. All’inizio erano eccezioni, adesso sta diventando una sorta di regola. La scelta parte dagli otto docenti interni...Poi ci sono docenti nazionali e internazionali. Quelli nazionali dovrebbero derivare in parte dalle istituzioni, dagli atenei con cui dialoghiamo; quest’anno è molto presente Genova, con tre docenti, perché sede di una impor-

tante scuola di paesaggio. Sono presenti due docenti di Reggio Calabria, dove c’è un’altra interessante scuola dedicata al paesaggio. Poi ci sono i giovani emergenti, di area veneta. Inoltre uno dei criteri di base è che il corpus dei docenti sia intergenerazionale; questo aspetto riguarda sia l’ambito nazionale che quello internazionale, sia i docenti strutturati che quelli non strutturati. Abbiamo dei “testimoni” (quest’anno Semerani e Rykwert, l’anno scorso erano Porro, Branzi, Zenghelis), poi la generazione di mezzo e infine i più giovani. Ci devono essere alcuni, per così dire, grandi nomi. Per generare dei centri di gravità. Intorno al “grande nome” arrivano altre personalità. È un’alchimia complessa che tende a formare una rete di relazioni. Stiamo cercando anche di inserire gli studenti nel quadro degli scambi internazionali. Alla fine di questo percorso non c’è un gruppo che sceglie; è soprattutto una responsabilità della presidenza. In molti casi arrivano suggerimenti e segnalazioni da colleghi, però è stata sempre riconosciuta alla presidenza una sorta di regia. Capita che qualcuno rinunci. Quest’anno ad esempio avremmo voluto Alvariño Siza. Cerchiamo infine di stabilire un turn-over, ogni docente non può essere titolare di un workshop per più di due volte. L’atmosfera complessiva sembra ricordare quella, vissuta dalla maggior parte di noi solo attraverso il racconto, propria dello Iuav di molti anni fa, dove docenti e studenti lavoravano a stretto contatto, dove si scoprivano affinità che sfociavano in sodalizi duraturi, e che sono uno dei portati della scuola di Venezia. È un’immagine illusoria? Si ricrea un’atmosfera di scuola. Il fare, il progettare permettono quella comunicazione didattica che apparteneva a un altro tempo, ma il tutto nasce anche da una buona disposizione degli studenti. Tutti li lodano, perché gli studenti sono nelle condizioni ideali, vogliono dare il meglio di sé, sono educati. Nelle scuole americane, i cui numeri sono molto più modesti, spesso i ragazzi si pongono nei confronti del lavoro in modo infantile. I nostri hanno un atteggiamento di grande diligenza, di disponibilità all’ascolto. Questa buona disposizione, unita a quella dei docenti, permette un’illusione virtuosa, che dura lo spazio delle tre settimane ma è improponibile come metodo perché il segreto risiede nella unicità. Se provassimo a dare ai corsi un’analoga

struttura intensiva io sono sicuro che in breve ci sarebbe una saturazione. Mentre invece, come diceva Borges, è nell’attesa dell’epifania che risiede il fatto estetico. Ecco, questa attesa nei confronti del docente che arriva, il docente stesso che viene investito di doti taumaturgiche...proprio perché si sente sciamano dà il meglio di sé. Allora queste buone disposizioni d’animo creano una grande intensità di rapporti. Dal punto di vista didattico in questo caso è più importante la forma del contenuto. È possibile che qualche studente cresca anche molto, ma penso che maturi nel senso che si scopre appassionato. Siamo noi docenti strutturati che abbiamo comunque l’onere della formazione, gli altri vengono ad animare questa kermesse, agitano le acque e forniscono ai ragazzi questo shock salutare, però guai a caricare il tutto di un eccesso di responsabilità formativa. È più la forma che la sostanza, un po’ casuale, affidata al momento, ed è giusto che sia così. Sarebbe interessante indagare, chiedere a quelli che hanno fatto i workshop due anni fa cosa hanno imparato. Io penso che lo studente abbia appreso soprattutto a stare sul progetto assieme agli altri. Viene restituito alla scuola più incuriosito, più aperto al confronto? Più disinvolto, anche nei confronti delle tecniche. I ragazzi prendono confidenza con le tecniche espressive dell’architettura grazie a questa grande varietà di formulazioni e processi creativi. Sono settori che normalmente non fanno parte della didattica ufficiale. Un auspicio per chiudere? Forse gli studenti dovrebbero essere più intraprendenti, potrebbero proporre dei nomi per la titolarità dei workshop; se ci fosse nell’organizzazione una presenza studentesca maggiore, strutturata, questo potrebbe essere utile. C’è una grande dispersione. Sarebbe interessante che si stabilisse un legame virtuoso con le altre forze culturali presenti nella città. Più considerazione per quello che succede, ma quello che succede va quasi bene così. Alcuni dicono che questa esperienza si stia sfilacciando, ma non credo sia vero. Niente crisi del settimo anno? Mi pare che si stia crescendo, quindi no, direi di no. Massimiliano Botti

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Prendiamola con filosofia Intervista ad Aldo Tommasin, Direttore amministrativo dell’Iuav Che cosa significa il periodo dei workshop per la scuola? Lo trovo uno dei momenti più importanti dell’intera didattica. Ovviamente a questo si accompagna uno sforzo logistico non indifferente. La dimensione del laboratorio ha insito in sé un fattore caos, basti pensare che circa 1800 persone sono state coinvolte nelle attività di questi giorni; è necessario garantire dei servizi efficienti e che siano rispettate le norme sulla sicurezza. È questo il compito principale di un direttore amministrativo. Quest’anno è stato migliore degli scorsi anche dal punto di vista delle rimostranze: solitamente ricevevo nei primi giorni migliaia di chiamate perché qualcosa non andava mentre quest’anno non è stato così. Abbiamo anche avuto meno problemi per esempio per quanto riguarda l’organizzazione degli spazi: grazie all’apertura dei magazzini Ligabue la distribuzione degli studenti è stata più semplice. È singolare la figura di un direttore amministrativo laureato in filosofia. Com’è aiutato da questa sua particolare estrazione culturale? Non è così insolito come si pensa. Molti emeriti personaggi con il mio stesso ruolo hanno una for-

mazione filosofica. Forse può divenire addirittura una risorsa, in quanto non si tratta di affrontare problemi funzionali o di mera ingegneria istituzionale, ma soprattutto della gestione delle risorse umane. Come già detto bisogna produrre servizi per le persone. E questo capitale umano di cui si parla è offerto dagli studenti, mentre il capitale della ricerca deve essere garantito dai professori. Io penso sia più importante rendere la fase d’apprendimento oggetto principale di particolari attenzioni da parte del corpo amministrativo, anche rispetto alle esigenze della docenza. Il problema è che in questo paese non ci si rende conto di quanto l’istruzione, e intendo tutta l’istruzione, dalle scuole inferiori all’università, sia un investimento fondamentale, forse il più importante di tutti. È un investimento a lungo termine, non mostra immediati vantaggi, come invece fa la ricerca. La nuova legge Tremonti opera un taglio da un miliardo di euro all’istruzione e, se ci si prende la briga di consultare le liste elettorali delle elezioni appena passate, si può notare la carenza di punti a favore di questo settore. In un panorama europeo e mondiale dove nella didattica si

compiono grandissimi passi qualitativi il rischio è di restare indietro in maniera irreparabile. Quali sono le risorse e quali le debolezze di quest’ateneo rispetto ad altri? Ciò che la legge sull’autonomia del 1989 ha evidenziato è che non esiste un modello unico d’ateneo. Ognuno è differente secondo la sua evocazione scientifica ed il suo contesto territoriale. Il tema dell’Iuav è quello del progetto, che poi si può declinare in varie maniere, sia dal punto di vista urbanistico sia da quello del design, per esempio. Questo aspetto può rappresentare sia un valore sia una debolezza. Il fatto di essere un’università non molto grande è negativo se si viene economicamente comparati ad atenei maggiori, è positivo in quanto si lavora in un ambiente più omogeneo, più intimo, dove il confronto è alla base di una didattica proficua. È importante e si cercherà di insistere su un’aggregazione ed una comunicazione tra i vari corsi di laurea per poter creare un vero e proprio bene associativo. Francesco Leoni

Come sta? Quella di oggi è un’intervista dai risvolti interessanti e inaspettati.

Tutti noi conosciamo quel fantomatico mondo di gadget targati Iuav, che acquistiamo e poi esponiamo con orgoglio per le calli veneziane; la borsa in tessuto e l’agendina con il logo a quattro lettere sono sicuramente un must del buon studente di architettura. Tutti noi conosciamo (frequentiamo e di tanto in tanto, ahimè, malediciamo) il fantomatico sito internet della facoltà, con i suoi celebri quadrati che ci indirizzano verso la notizia del giorno e che, talvolta, lo studente svogliato o in cerca di ispirazione scorre anche solo per trarre un piccolo giovamento dal cambio d’immagine al passaggio del cursore del mouse. Quello che la stragrande maggioranza degli studenti ignora è che dietro a tutto questo non c’è un signore di mezza età, senza capelli, con gli occhiali spessi mezzo centimetro seduto ad una scrivania in una stanzetta buia dei sotterranei Iuav (semmai esistessero). Con una notevole dose di sforzo fisico e con l’aria che piano dopo piano si fa sempre più rarefatta si arriva all’Ufficio Comunicazione e Stampa, Comesta per gli amici, un attico bianco e luminoso, con de-

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gli immensi iMac che troneggiano sulle varie scrivanie. Il reparto comunicazione nasce ufficialmente nel lontano 1994, in risposta alla necessità dell’ateneo di divulgare e diffondere il proprio operato, la propria storia e quant’altro fosse necessario rendere pubblico. Il costante mutamento della mentalità, della società, dell’università in genere nel corso degli anni ha profondamente modificato i compiti di quest’ufficio tramutandolo in ciò che attualmente è. Due delle responsabili, Maria Zaghini e Cecilia Gualazzini, ci parlano con grande entusiasmo del lavoro che svolgono, di come questo sia cambiato nel corso degli anni, e quello che traspare è la forte passione che nutrono verso di esso. L’ufficio si occupa di tantissimi aspetti della facoltà, che noi studenti nemmeno immaginiamo: sito internet, newsletter, rassegna stampa quotidiana, manifesti, oggettistica varia sono solo una piccola parte di ciò che viene sfornato da questa officina creativa. Ci viene mostrata l’intera gamma delle agendine, dalla primissima edizione fino a quella blu targata

08, e i «Giornali d’Ateneo», una pubblicazione aperiodica legata a temi ed eventi emergenti, di cui ben pochi studenti conoscono l’esistenza, per via di una distribuzione non sempre indirizzata specificatamente al pubblico studentesco. Alle pareti spiccano i manifesti delle inaugurazioni dei vari anni accademici, ogni oggetto sugli scaffali è un pezzo di design che merita attenzione, il clima è disteso e sereno. Una visita, insomma, che ci ha lasciati piacevolmente sorpresi per la gentilezza e disponibilità dimostrataci, e per la grandissima quantità di notizie, informazioni e opportunità che questo servizio ci mette ogni giorno a disposizione, e che molto spesso non sfruttiamo a sufficienza. Invito pertanto gli studenti a visitare quella casellina in basso a sinistra sul sito internet dell’Iuav chiamata Newsletter, o a comunicare con l’indirizzo comesta@iuav.it. Dario Breggiè

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Alenia+Unindustria cercano Iuav Sono circa le 15.00: il Preside di Facoltà attende con una piccola delegazione redazionale i responsabili di Superjet Alenia e Paola Mainardi, responsabile Formazione Unindustria Venezia davanti alla portineria del Cotonificio di S. Marta. La labirintica Venezia miete ancora una volta le sue vittime e gli ospiti giungono, puntuali, mezz’ora dopo. Il tempo di un caffè per le presentazioni e il Preside è pronto a mostrare agli ospiti la “grande macchina” dei workshop a S. Marta e magazzini Ligabue. Qual è il motivo che spinge queste personalità, così apparentemente distanti dall’architettura, all’Iuav? Alenia Aeronautica è una società controllata da Finmeccanica S.p.A., rappresenta la maggiore realtà industriale italiana in campo aeronautico ed è tra i più avanzati complessi mondiali nel suo settore. La società è impegnata nella progettazione, realizzazione, trasformazione e assistenza di una vasta

gamma di velivoli e sistemi aeronautici civili e militari, per la maggior parte opera in collaborazione con le più importanti industrie mondiali del settore. Con nostra grande (e compiaciuta) sorpresa scopriamo che il motivo della loro visita è coinvolgere gli studenti universitari nel comparto dell’aviazione commerciale, dove la società svolge un ruolo centrale.Abituati, come siamo, a fare noi i sopralluoghi, diventare protagonisti della loro perlustrazione suscita sorpresa: i ragazzi li osservano furtivamente, ci domandano sottovoce chi siano, si scambiano commenti, cercano di carpire stralci di discorsi e scambi di battute tra professori e ospiti. La speranza della delegazione sembra quella di integrare le loro esigenze ai metodi propri di un workshop Iuav, e di introdurre nel mondo dell’industria aeronautica la figura di giovani architetti, in qualità di interior designer di una

nuova gamma di jet privati “su misura”. I ragazzi si troveranno a lavorare in team composti da ingegneri, fisici e tecnici specializzati per dare vita ad un prodotto di grande qualità tecnologica ed estetica, suscettibile di volta in volta di rispondere alle singole esigenze dei committenti. Gli ospiti sembrano davvero interessati, e abbiamo strappato loro la “promessa” di tornare per la mostra finale. A tutti i giovani designer: state allerta! Mariaelena De Dominici Caterina Mendolicchio

Percorsi cromatici a Venezia OSRAM illumina il workshop Accossato-Trentin Venezia si scolpisce attraverso le proprie dicotomie fino a renderle, nei loro esempi più eccezionali, elementi fortemente preponderanti. Questa è la città di strada Nuova, del ponte di Rialto, di piazza San Marco, la città delle architetture eclatanti. Ma non è forse vero che si tratta anche e soprattutto della città dei veneziani? Di Castello, Cannaregio, Dorsoduro? Il continuo flusso turistico, un fenomeno violento e spesso incontrollabile, non sembra interessato a certe aree. Ciononostante costringe Venezia a vivere in una situazione di difficile convivenza fra turisti e cittadini. In questo contesto, da una semplice analisi, ci si accorge di come il visitatore medio prenda d’assalto i pochi spazi ritenuti “caratteristici”. Risalta agli occhi

come tali luoghi, spesso riconoscibili in grandi “vuoti urbani”, di giorno si inondino di luce, lasciando “in ombra” la fitta rete di calli, campielli e canali inesplorati. Tale contrapposizione si è rivelata una delle possibili chiavi di lettura del progettare a Venezia. Si è compreso come nella città lagunare la luce finisca con il segnalare mete “usuali” quali la stazione, il percorso lungo strada Nuova o piazza San Marco e, di conseguenza, come sia importante fare in modo che durante la notte essa venga distribuita in tutta la città, a segnare un’unica “area pedonale” veneziana. L’intento di alcuni dei lavori degli studenti del workshop consiste, quindi, nel portare anche a Santa Marta, a Castello, a Cannaregio la luce come forza espressiva.

Di tale forza, suggerita dal tema del workshop, ci ha parlato questa mattina Gianluca Filippi in aula 2.2 del magazzino 6, mostrandoci le potenzialità che potrebbe assumere un progetto che sfrutti le qualità comunicative della luce. La Ditta Osram di Treviso, di cui Filippi è Application Engineer Lighting Management Systems, ha offerto la propria disponibilità al laboratorio per affiancarsi agli architetti Accosato e Trentin nella guida di tutti quei progetti che sfruttano la luce come elemento fondamentale d’intervento. OSRAM, che conta quarantotto siti produttivi sparsi in tutto il mondo, si occupa dal 1919 del settore dell’illuminazione e la sua attività (interessata al general lighting, all’elettronica, al campo automobilistico), punta

al recupero e alla riqualificazione delle strutture architettoniche attraverso l’utilizzo della luce. Filippi ha spiegato come dispositivi elettronici, apparecchi illuminanti che si servono di protocolli RGB, EASY, o DMX, consentano agli edifici di «cambiare letteralmente la propria pelle». Il pannello LED, grazie al colore ed alla versatilità delle forme, permette innumerevoli possibilità compositive, capaci di conferire carattere ad un luogo e di trasformarlo in un elemento urbano significativo. A Venezia (città che vista di notte dall’aereo risulta la città più buia del mondo) la coesistenza di contesti diversi, turistici, popolari e periferici, potrebbe, in quest’ottica, essere integrata in un unico sistema. La luce potrebbe segnare dei percor-

si lungo tracciati oggi ancora bui, trasformandosi in una chiara connessione fra le “isole” che costituiscono la maglia cittadina (è il caso ad esempio dei Tolentini e di Santa Marta). Un progetto di questo tipo non può essere tradotto esclusivamente seguendo una logica di arredo urbano. Il suo significato è invece più propriamente collegato all’idea di forma urbana: a prescindere dall’utilizzo delle tecniche illuminanti, il suo intento è quello di definire e trasformare degli spazi, rendendoli in grado di sostenere i flussi tipici della città e di diffondere in maniera capillare la corrente di visitatori, da integrare in modo costruttivo, nei luoghi della quotidianità veneziana. Gianluca Filippi aiuterà gli studenti a rendere realizzabili le loro idee

progettuali, a far rivivere le architetture scelte per mezzo della luce dinamica, in una costante trasformazione cromatica: giorno per giorno, ora per ora, secondo per secondo. La ditta OSRAM in più fornirà dei materiali utili per illuminare lo spazio che accoglierà la mostra finale del workshop. L’aula fungerà da “luogo di interscambio” e verrà trasformata anch’essa attraverso l’utilizzo di dispositivi luminosi: neon, fari, pannelli colorati. Un risultato che non bisognerebbe assolutamente perdere. Nicoletta Petralla

Collaborazione Iuav-Osram Workshop 08 La partecipazione al Workshop 08 è iniziata quasi per caso, infatti i primi contatti avuti con la facoltà di Venezia sono stati in merito ad un progetto che Osram dovrà realizzare nello stabilimento di Treviso. Con questi presupposti, Osram ha cercato un contatto con la facoltà finalizzato ad un supporto architettonico/artistico riguardante la realizzazione dello ShowRoom. Dal primo incontro avuto in presidenza con il prof. Carnevale e l’arch. Giani siamo venuti a conoscenza dell’imminente partenza del workshop 08. L’occasione per un primo confronto è stata ritenuta interessante dal Dott. Dreier (manager BS-LMS Osram) il quale ha concesso subito l’autorizzazione per l’avvio alla partecipazione a questo Workshop 08. Con gli architetti Accossato, Trentin e Tronchin, si è instaurato fin dall’inizio un buon rapporto di collaborazione finalizzato ad uno scambio di idee reciproco per realizzare l’illuminazione dell’aula per la mostra conclusiva. L’attività

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è proseguita con un incontro in sede dove ho potuto mostrare la realtà di Osram a Treviso. Dopo aver presentato agli studenti alcune realizzazioni illuminotecniche da parte di Osram sono stati scelti cinque progetti dove la luce è complementare al progetto architettonico. Quest’occasione rappresenta, a mio avviso, un primo confronto tra due realtà che, se pur così diverse tra loro, possono interagire in uno scambio proficuo di idee ed informazioni tecniche finalizzate al buon esito di progetti. Gianluca Filippi Application Engineer Lighting Management Systems Osram LMS-TV OSRAM Spa

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Mali 2008: Occasions for learning Una lezione di Peter Rich e Giovanni Vio dalle geometrie sconosciute che, per reazione, restano inutilizzate. Le foto di Giovanni Vio ci portano lungo il Niger per poi spingersi a sud della grande ansa formata da questo a conoscere l’etnia dei Dogon. I loro villaggi di fango sembrano nascere spontaneamente dal terreno tra vertiginosi sentieri. Grazie all’inaccessibilità del loro territorio i Dogon sono riusciti, nel corso dei secoli, a conservare le antiche tradizioni. le moschee, affascinanti quanto difficili da visitare all’interno, come quella di Djenne e di Sebi, assomigliano a dei termitai, con le impalcature a vista che non vengono mai tolte per facilitare la manutenzione. Rich e Vio, grazie a permessi speciali, hanno potuto visitarle e sono rimasti a lungo per comprenderne la distribuzione e la morfologia. L’auspicio di Peter Rich e Giovanni Vio è che la testimonianza di questo viaggio diventi una pubblicazione, come segno tangibile di impegno sociale nei confronti delle popolazioni del Mali. Elena Zadra

Foto di Giovanni Vio

propria sensibilità. Nell’immergersi in queste realtà è indispensabile, infatti, non avere preconcetti e mantenere un atteggiamento umile e rispettoso. Il Mali si trova alle porte dell’Africa nera ed è strettamente legato al deserto, presente nella maggior parte del suo territorio. Caratteristica del luogo è anche la polvere che filtra la visione del paesaggio. La conferenza consiste prevalentemente in una proiezione di foto e disegni; la descrizione delle immagini in inglese viene a tratti interrotta dalla traduzione di Vio. Rich ricorda quanto sia rischioso lo studio a distanza di un territorio e come ciò causi spesso dei seri danni agli abitanti. Fondamentale è immedesimarsi nelle condizioni della gente, che ha bisogno di soluzioni semplici come risposta a problemi seri, quindi progettare edifici tenendo sempre a mente gli usi, i costumi e i materiali del luogo. La contaminazione dell’occidente ha creato nei villaggi un disorientamento; gli abitanti si trovano costretti a subire la presenza di architetture

Foto di Giovanni Vio

Mercoledì 9 luglio in Auditorium a Santa Marta ha luogo Occasions for learning, lezione tenuta da Peter Rich e Giovanni Vio. I due architetti colgono l’occasione di renderci partecipi del bellissimo viaggio che hanno intrapreso in Mali. L’esplorazione è durata venti giorni, durante il mese di febbraio 2008. Il titolo della conferenza, Occasions for learning ovvero, Occasioni per imparare, spiega Giovanni Vio, è tratto da un romanzo, Occasione d’amore del 1963, di Nadine Gordimer, voce femminile di lingua inglese della letteratura sudafricana. Questa lezione vuole farci cogliere la differenza tra un viaggio turistico e un viaggio intrapreso da architetti, affascinati dai luoghi, che vogliono esplorare e conoscere una realtà differente. Quando è un sudafricano, Peter Rich, ad organizzare il viaggio, guardare il Mali attraverso i suoi occhi diventa ancor più interessante. I viaggiatori, come in un pellegrinaggio, devono muoversi lentamente e imparare a conoscere gli spazi adattando ad essi la

Docente virtuale vs docente reale Marco Casamonti in diretta dalla Cina Aula D del Cotonificio, venerdì 11 luglio, l’atmosfera tra i clandestini del professor Marco Casamonti è divertente, densa di curiosità, ma anche di scetticismo e titubanza; un brusio fatto di commenti e risatine riempie l’aula. La lavagna, solitamente nera, è ora bianca, ora blu, si proietta qualcosa. Una webcam staziona sul mini-tower del server dell’aula. Radunati attorno alla cattedra gli assistenti cominciano a salutare quasi commossi i colleghi apparsi sullo schermo, che si sono collegati direttamente da Pechino, per inaugurare una “modernissima” e virtuale revisione on-line. Gli studenti che non si sono aggiunti agli assistenti davanti al maxi-schermo, sono sotto i tavoli a incollare e tagliare e si pongono quesiti esistenziali…Ma sarà davvero in Cina? O è al mare? «Ah però c’è coso, c’è PanPan là dietro!», forse allora è tutto vero? Intanto dall’altra parte della webcam (il collegamento è stabilito via Skype) appaiono tavole di esecu-

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tivi, rendering di case orizzontali, uno studio bianco e degli occhi neri a mandorla, degli schermi di computer: Ma non sarà che giocano a mahjong o altri solitari? Ad ogni modo alla fine Marco Casamonti si presenta, dall’altro capo del mondo. Parla di “Eco House” e sostenibilità, di energia pulita e di no-oil, poi l’assistente di stanza a Venezia muove il braccio e la webcam fornisce al docente virtuale una prospettiva a volo d’uccello dell’aula e degli studenti. Che miracoli la tecnologia! «Si ma quella webcam fa schifo! Non si vede niente!». Made in China… Roberta Boncompagni

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“Sostenibilità” riciclata Un dialogo tra Dustin Tusnovics e Wolfgang Winter

ArteNatura al workshop Cibic

T Che cosa pensa dei workshop e dei risultati che ha visto? W Le difficoltà specifiche che riscontriamo nei ragazzi del primo e del secondo anno consistono nell’indirizzarli verso il modo più corretto per lavorare al progetto. La maggior parte di loro non ha alcuna base; in generale sono molto motivati, ma spesso non sanno, per esempio, che materiali usare e come realizzare le loro idee. Da ciò che ho osservato qui cercano di trovare soluzioni, sono curiosi, disciplinati e, se gli fornisci un consiglio per il progetto, lo prendono in considerazione con serietà, non dicono: «questa è la mia idea e voglio fare così». T Per quanto riguarda la questione strutturale in un progetto socialmente sostenibile, abbiamo cercato di lavorare con il legno. Ci sono delle concrete possibilità che il legno sia un materiale sostenibile socialmente, o avremmo dovuto considerare la questione da altri punti di vista? Lei ha una grande esperienza riguardo questo materiale; dato il tema ne avrebbe usato un altro? W No, penso che almeno questo genere di compito debba essere risolto con strutture “a scheletro” ad esempio con “travi e pilastri” di legno. Non sono convinto che avreste dovuto costruire case con muri prefabbricati o muri massicci di legno. La struttura principale dovrebbe essere a telaio, ma non può essere di acciaio, in quanto troppo complicata e probabilmente troppo costosa. L’acciaio non è il giusto materiale, è troppo high-tech per un’architettura sostenibile. T Quello del legno come materiale da costruzione è un tema che lei ha affrontato anche a Vienna. Vi ha dedicato un master. Direbbe agli studenti di Venezia di

Nella giornata di venerdì 11 luglio è stato ospite al workshop di Aldo Cibic Emanuele Montibeller, fondatore e direttore creativo di Arte Sella (www. artesella.it), un’incredibile esperienza tra arte e natura che si svolge all’aperto nei prati, nei boschi della Val di Sella. Questa manifestazione internazionale di arte contemporanea ha dato vita al progetto di un ideale percorso chiamato ArteNatura, lungo il quale il visitatore può vedere le opere e allo stesso tempo godere delle particolarità ambientali del luogo, e che si pone non solo come esposizione ma anche e soprattutto come processo creativo: l’opera è seguita giorno per giorno nel suo crescere e l’intervento dell’artista deve esprimere il rapporto con la natura basato sul rispetto, traendo da essa ispirazione e stimolo.

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essere più interessati alle strutture di legno? E cosa ne pensa di agevolare la collaborazione tra le università di Venezia e Vienna? W Guardando la mappa dell’Europa, nonostante le differenze tra le iniziali “V” e “W”, la lontananza non è così grande. Si tratta di culture completamente differenti ma è una grande occasione per gli studenti viennesi arrivare a Venezia anche solo per vedere la città. Penso inoltre che, legate al tema della sostenibilità, ci siano la questione della manutenzione degli edifici esistenti e l’integrazione di nuove soluzioni. T O di materiali. W Abbiamo bisogno di mescolare le strutture. Questo può essere molto interessante. Sono stato a visitare l’Arsenale, con i suoi pavimenti di legno ben visibili, e così via...amo la consapevolezza che il legno sia un materiale utile e probabilmente c’è un approccio pragmatico nel “doing and selling”. T Gli studenti viennesi lavorerebbero molto bene assieme agli studenti Iuav, come fanno in estate durante il workshop. Le piace Venezia? È la sua prima volta qui o in questa specifica parte della città? W Venezia è una città unica e affascinante e sono sicuro che ci siano temi e problemi molto interessanti e difficili da risolvere in maniera integrata. Grazie a questi spunti ingegneri e architetti sono in grado di trovare soluzioni impegnative per far fronte a richieste impegnative. T: Lei è anche spesso in viaggio: è stato ultimamente in Giappone, è arrivato questa mattina da

Vienna, sarà a Trieste domani. Quali sono le sue prossime tappe? I suoi spostamenti sono sempre volti a nuovi studi sul legno? W Diciamo che...non deve necessariamente essere tutto costruito con il legno, però penso seriamente che costruiamo troppo con il cemento armato e il legno in questo modo viene messo da parte, così come l’acciaio. Perciò dovremmo progettare strutture più leggere e flessibili, in un certo senso più intelligenti, meno pesanti. Ciò non significa non costruire più in cemento, un materiale basilare comunque molto importante. Funziona come il latte in polvere, mescolato con l’acqua si ottiene istantaneamente il risultato: il cemento è perfetto da questo punto di vista, solo che spesso è usato in contesti in cui un altro materiale sarebbe più indicato. T Lei ha parlato dell’utilità di capire il ciclo vitale dell’albero e del legno, per quanto riguarda il suo uso negli edifici. Cosa si può fare per diffondere questa conoscenza? W Si può insegnare agli studenti questo genere di consapevolezza nei confronti di un materiale così in sintonia con l’ambiente, puoi mostrare loro come usarlo e come sceglierlo nel processo progettuale. T Non ha usato la parola “sostenibilità” . W Questo termine è usato così generalmente e in ogni contesto...Chiunque oggi si dichiara sostenibile anche quando utilizza il cemento, l’alluminio, le materie plastiche...Bisogna puntare sulle risorse rinnovabili, su una grande flessibilità di materiali e sulla rapidità del loro riciclo dopo l’uso.

Elena Verga

Mariaelena De Dominici e Laura Scala

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Trendsetter

Le collane di Marina e lo specchio di Adalberto Marina Montuori possiede delle collane notevoli. A volte sono il risultato di una ricerca fortunata (un importatore indiano a Brescia, per dirne una), altre sono il prodotto di un assemblaggio autoriale. Marina prende oggetti e li mette in relazione, compiendo operazioni che potremmo definire dadaiste. Adalberto Dias re-inventa oggetti d’uso comune montando frammenti di mondi diversi: tra le altre cose ha immaginato uno specchio di vetro e filo di ferro che sconcerta per facilità di concezione – la cosiddetta immaginazione dell’ovvio – e apparente fragilità. Usa scarti della lavorazione di legni pregiati per ottenere, con un intelligente sistema di tagli progressivi, sinuosi appoggi per casseruole roventi. Il libro di Vladimir Archipov Design del popolo (ISBN, 2007) ci mostra il “design senza designer” trattando di utensili necessari, ma non disponibili sul mercato dell’allora Unione Sovietica, ottenuti dalla forzata collaborazione di oggetti concepiti per scopi diversi e cannibalizzati, che portano in dote una straordinaria qualità straniante. Qualità non cercata dagli anonimi autori, mossi com’erano da ragioni di pura soddisfazione funzionale. Il Chiat/Day/Mojo Building a Venice di Frank Ghery e Claes Oldenburg rappresenta l’architettura elencale più spudorata del genere: un brano di razionalismo anni ‘30 in salsa californiana accanto a un intrico di volumi rivestiti di rame accanto a un binocolo. Uno dei tanti modi per fare architettura è l’assemblaggio eterogeneo. L’eterogeneità non è un valore in sé, da cui la necessità di operare delle scelte, la necessità di una composizione (non palese) anche di elementi apparentemente incompatibili. Come frammenti accuratamente disposti lungo il filo di una collana.

[red.]

Glossario M

OLESKINE “Sono andato in Patagonia”. Così recitava il telegramma inviato al Sunday Times Magazine negli anni settanta dal loro consulente e critico d’arte e d’architettura Bruce Chatwin, che dopo aver visto la mappa della Patagonia disegnata dall’architetto novantatreenne Eileen Gray, durante un intervista alla stessa, aveva deciso di partire immediatamente per il Sud America. Gli appunti presi durante il suo viaggio gli permisero di scrivere In Patagonia (1977), libro che consacrò la sua fama di scrittore di viaggi. E, come già Hemingway, Van Gogh, Picasso prima di lui, scrisse tutto sul suo fido Moleskine. Questo quadernetto, il cui design e la cui fama l’hanno reso oggetto di culto, è una presenza ricorrente nelle aule della nostra università. Le sue caratteristiche? Copertina nera, spigoli arrotondati, tasca interna ed elastico di chiusura. Sono prodotti in Italia e costano il doppio di un normale taccuino. Ma saranno veramente così funzionali e comodi o vengono comprati dagli studenti (e magari anche dai professori) per apparire

alternativi, viaggiatori, intellettuali? Moda o sostanza? Alla fine l’architettura si riduce anche a questo.

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OTTATE Come se non fossero bastate le nottate durante i semestri a scoraggiare gli aspiranti architetti, a quanto pare la stanchezza non spaventa noi impavidi studenti che non vogliamo rinunciare al sapore delle feste, delle birre, dello “spriss”, del bianchetto, del rossetto, del cicchetto, dell’oliva, del trancio di pizza, del kebab e qualunque cosa si possa masticare, arrivati ad un certo livello, anzi arrivati -a livello-! Lo studio ci rallenta i riflessi, il mouse ci fa venire i crampi, e le gambe si vanno atrofizzando, ma la voglia di festa MAI!

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RE PICCOLE chi sostiene di non averne mai fatte durante tutto l’anno accademico non può essere sincero! Qual è la prima cosa che ci dicono appena varcata la soglia di questo luogo? “Gli architetti non dormono. Gli. architetti. NON. DORMONO.” Ecco,

basta, fine, the end, il nostro destino è stato segnato. Di giorno leoni…di notte anche, e per forza! Per non parlare del workshop: dalla seconda settimana si comincia con i primi dolori. Non sarebbe male avanzare qualche proposta di stipendio. Giusto qualcosina, così, senza impegno…dopotutto, non credete che ce la meritiamo?

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LASTICO A che scala? Con cosa? Per quando? Ma si devono far le foto? E gli omini? Oddio, e come lo porto? Lo studente di architettura, tagliato il primo pezzo di balsa o cartonlegno, o dopo aver per la prima volta dissanguato il proprio piccolo credito e non solo quello (pensate al fantastico e affilato cutter e capirete) per un modello di studio (perché poi va fatto quello “bello”), si rende conto che non farà mai più la strada da casa alla facoltà, dalla facoltà a casa, senza il simpatico ingombro di decine e decine di euro di materiali per plastici. Chi in canson, chi in cartonlegno o cartonsandwich, qualunque studentel-

lo una volta iscrittosi a questa facoltà dovrà portare, in qualunque modo e posizione, una scomoda croce… magari di balsa.

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UELLI CHE_ QUELLI DI_ QUELLI…QUASI cominciamo con l’accettare il dato di fatto che l’università a volte crea delle categorie: sapreste riconoscere tutti, ammettetelo, quali sono in mezzo a voi quegli studenti che si siedono sempre in prima fila, quelli che vanno ogni sera in biblioteca, quelli che prendono sempre 30 e quelli a cui invece non glie ne frega niente, quelli che dopo lezione sono già in campo e quelli che prima dell’una non tornano a casa. Ognuno arriva a riconoscersi in una categoria e così tutti finiamo con l’appartenere a qualcosa: noi siamo quelli di architettura, quelli di Santa Marta, quelli delle borsette nere “Iuav” e delle cartelline grandi come una casa, quelli del cartonlegno, della Vinavil e della colla Uhu, quelli delle notti insonni e dei deliri notturni davanti al plastico. Noi siamo quelli che sono QUASI ARCHITETTI.

Abstract n. 11 1 “Ciudad del Acontecimiento” In Rome with Carlos Campos On Saturday 12th of July Carlos Campos took his students to Rome, they visited the Pantheon and admired its magic during the evening. 2 Workshop Tagliabue The peculiarity of this workshop is that the students are required to make a video summarizing their project. Besides this the student are happy with the workshop as they found a perfect “balance” with their groups which makes them work well. 2 Workshop Tamaro – Semerani This workshop was chosen mainly for the professors’ notoriety. Nonetheless they all liked the theme and worked well without pressures within each group. 3 Workshop Tosi First year students of this workshop had difficulties with the theme in the beginning as they were used to deal with smaller scales. They think this experience will be helpful for their future studies. 3 Workshop Thermes There are different opinions concerning the choice of this workshop, but students seem to have selected it as their teacher is internationally known and wanted to

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learn more about her works. 4 Workshop Tusnovics Students explain how they like their workshop and the theme (sustainability) is very interesting. They understand the professor even when he speaks in English and say he is very available and helps all students in an equal way. 4 Building a Better World: South African projects Dustin Tusnovics conference Professor Tusnivics tells us about the projects he built with his students from Salzburg and African volunteers in South Africa. Helping poor people is an incredible experience, and together with Peter Rich they relate the changes of society and how the Africans are willing of recuperating their identity. 5 Eureka! Professor Dainese’s worshop floating test All the students went in to the canal in front of our university with the professor to experiment their models. They had to project floating houses and tested which ones would float or not. 5 Workshop Rich – Vio The students explain how it is difficult to finish a four months course in three weeks. The positive aspect of

this workshop is Rich’s constant presence. They also tell ushow they enjoy dealing with a different mentality. 5 When Siviero built a bridge between engineers and architects Enzo Siviero was invited to give a lecture at Giovanni Campeol’s workshop to help the students understand the complexity of their project and the infrastructure problems they have to take into consideration. 6 Maurizio and Gabriele They tell us how, in the past years, workshops students ruined and messed up classrooms and corridors. At the end of workshop 2005 lots got drunk and a girl landed up in hospital. However, it’s getting better and better every year and this year students seem to be more respectful of the school utilities. 7 Seekers of traces Once theatrical events were held in the “Campi”. The memory of these events are an occasion for students to learn more about our customs and venetian tradition. Elena Stellin

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UNA SOCIETÀ DI FONC IÈRE DES RÉG IONS

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