Associazione Kwizera Onlus
Si ringrazia la Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca per il contributo alla realizzazione del presente volume.
Kwizera Rwanda Si ringrazia inoltre:
© 2011 Associazione Kwizera Onlus Ogni riproduzione e/o diffusione parziale o totale in qualsiasi modalità è proibita senza preventivo consenso da parte di “Associazione Kwizera Onlus”. II Edizione Gennaio 2013
a cura di Martino Ghilotti
Impaginazione, stampa, progetto grafico: Conceptio srl Piano di Coreglia - LU www.conceptio.it - info@conceptio.it - Tel. 0583 77377 Kwizera - Rwanda
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Prefazione
Nel decennale della fondazione dell’Associazione Kwizera Onlus, dedichiamo questo libro a tutti coloro che, in questi anni, ci hanno seguito con simpatia e sostenuto con grande vicinanza nell’attività svolta a favore della popolazione del Rwanda. Perché il tutto non si riducesse a una semplice elencazione, seppur doverosa nei confronti dei tanti benefattori, delle realizzazioni portate a termine nel periodo, abbiamo cercato di tratteggiare, senza alcuna pretesa di completezza, un sintetico quadro del contesto sociale in cui il lavoro associativo è andato concretizzandosi. Rimane in noi la segreta speranza di riuscire a condividere con i lettori parte delle esperienze vissute dai vari volontari che negli anni si sono succeduti nelle missioni nel paese delle mille colline. In questo senso, crediamo che al di là della limitatezza delle parole scritte, saranno le numerose fotografie che corredano il volume a far rivivere, almeno in parte, la realtà con cui siamo venuti a contatto. In particolare, non poche di queste fotografie, che danno voce a quella variegata umanità fatta di bambini, uomini, donne e anziani, hanno la capacità di veicolare, nel loro disarmante realismo, le forti emozioni che hanno permeato gli autori di quegli scatti. Quei luoghi, quelle immagini, quella gente ti entrano dentro fino al profondo del cuore, tanto da poter dire che quel viaggio ti ha segnato la vita e, da allora, tutto prende una visione nuova. Ecco, se queste pagine riuscissero a far giungere al lettore l’eco lontana di queste sensazioni, avrebbero raggiunto il loro scopo. Avremmo la certezza che l’attività dell’Associazione a favore delle persone, le cui vite e i cui volti, squarciando il velo dell’anonimato, hanno fatto il loro ingresso, con pudore e discrezione, nelle nostre case, proseguirà anche per il prossimo decennio, potendo contare su tante persone partecipi del loro destino.
“Ad un mondo migliore si contribuisce soltanto facendo il bene adesso ed in prima persona, con passione e ovunque ce ne sia la possibilità”. Benedetto XVI: Deus caritas est
Franco Simonini Presidente dell’Associazione Kwizera Onlus
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Introduzione
Rwanda. La pace possibile Un racconto dell’orrore. Un milione di persone massacrate in meno di tre mesi. Corpi sgozzati e decapitati a colpi di machete. Crani e schiene spezzate a bastonate. Un’ecatombe di donne bambini, uomini, anziani, ragazzi. Di chiunque non riusciva a fuggire alla furia omicida dei soldati, delle milizie paramilitari, ma anche dei vicini di casa incitati dalle radio e dalle autorità a partecipare al genocidio, eliminando chiunque appartenesse all’etnia tutsi. Per diverse settimane, le descrizioni che nell’estate del 1994 giungevano in Europa su quanto stava succedendo in Rwanda lasciarono incredulo il mondo. Purtroppo erano vere.
Per gentile concessione degli autori, riprendiamo ampi stralci del capitolo dedicato al Rwanda, all’interno del libro Miracolo Africano Edizioni Il Sole 24 Ore - 2010, in cui vengono riletti con taglio giornalistico gli ultimi vent’anni di storia rwandese, dalla guerra civile alla ricostruzione del paese. Allo stato dei fatti, si tratta di una rivisitazione che, nelle sue linee generali, è largamente accettata a livello internazionale, anche se non da tutti condivisa, in primis dagli sconfitti della guerra civile. Per pervenire a una ricostruzione storica, che superi l’inevitabile e contingente prospettiva dei vincitori, ci vorrà un profondo lavoro degli storici che sappiano indagare le dinamiche, anche sotterranee, di quanto accaduto in Rwanda. Solo allora, dopo un percorso che richiederà molto tempo, lo sappiamo bene noi italiani che non abbiamo ancora totalmente chiuso i conti con il nostro secondo dopoguerra, la riconciliazione potrà trovare alimento anche dalla condivisione della lettura della propria storia. Lo chiedono le centinaia di migliaia di vittime, tutte indistintamente rwandesi.
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Dal genocidio a Davos Quindici anni dopo sorge il dubbio di aver sbagliato indirizzo. Eppure è proprio la stessa nazione quella che oggi viene descritta, nelle valutazioni degli organismi internazionali, come uno degli Stati emergenti dell’Africa. “Il paese che piace ai chief executive” titola, nel 2007, la rivista americana Fortune citando una lista di commenti elogiativi dei manager di grandi aziende statunitensi dell’informatica e telecomunicazioni (Google, Terracom, Alltel), del settore agroalimentare (Costa, Starbuck), della grande distribuzione (Columbia Sportsware) delle costruzioni (Bechtel) che hanno iniziato a operare e in parte anche a investire nel Paese delle mille colline. “Il clima per fare affari è decisamente positivo” conferma la Banca Mondiale che nel 2010 colloca il Rwanda al quarto posto in Africa nella graduatoria “Doing business”. Graduatoria che tiene conto (con criteri misurabili ‘oggettivamente’) dei tempi burocratici per aprire società e pagare le tasse, della trasparenza legislativa, della efficacia delle leggi, della libertà di esercizio delle attività economiche. Nel Continente, il Paese è preceduto solo da Sudafrica, Mauritius, Bostwana e Namibia. Tutti Paradisi fiscali tranne il primo. Il Rwanda non lo è. Nel mondo si classifica al sessantasettesimo posto della classifica. Noi italiani siamo più indietro: settantottesimi. Chi atterra all’aeroporto di Kigali è avvertito; niente sacchetti in plastica. Inquinano l’ambiente. “Il Rwanda è uno dei pochi Paesi in Africa ad avere un sistema giudiziario indipendente, ha un basso livello di corruzione e comunque c’è un serio impegno delle Istituzioni a combatterla, le elezioni si svolgono correttamente, il 50% dei parlamentari sono donne, gli abitanti hanno accesso a giornali e radio liberi e indipendenti. Le carenze non sono nel quadro istituzionale ma, semmai, nell’adeguata disponibilità di competenze e di risorse umane qualificate”. Sono alcune delle considerazioni riportate dai funzionari di Bruxelles in occasione dell’esame periodico a cui vengono sottoposti gli Stati che beneficiano di aiuti comunitari. Quando, nel gennaio 2009, a Davos si apre l’edizione annuale del Forum dove i ‘granpag. 6
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il regime rwandese, appoggiato da Francia, Belgio e dal Congo del generale Mobutu, riesce a contenere l’RPF che comunque assume il controllo di alcune aree nel Nord del Paese vicino all’Uganda. Ci sono successivi tentativi di invasione seguiti da negoziati di mediazione che si tengono in Tanzania, nella città di Arusha. Alla fine un compromesso viene raggiunto. L’RPF verrà invitato a far parte del Governo. L’accordo è siglato dal presidente Juvenal Habyarimana. A Kigali, capitale del Rwanda, si instaura un nuovo Esecutivo in cui sono largamente rappresentati i partiti moderati che cercano una conciliazione nazionale. Lo sviluppo può cominciare. Dopo una serie di cambiamenti diventa primo ministro Dismas Nsensiyaremye, un hutu moderato. Eccellente ingegnere chimico, il premier avvia nel paese un nuovo sistema di credito cooperativo: premessa indispensabile per creare lavoro e investimenti anche da parte dei piccoli coltivatori, commercianti, artigiani.
di’ dell’economia si trovano per tracciare il futuro della globalizzazione, il presidente rwandese Paul Kagame viene invitato a salire in cattedra: “Spiegaci come avete fatto il miracolo?”La risposta (che è anche una richiesta): “Con gli investimenti che ci dovete portare voi.”. Sì, ma c’è anche altro. La pacificazione avviata nel Rwanda, quale che sia il giudizio che si vuole dare su Kagame (a essere diplomatici può venire definito come un “tipo deciso…”), e l’esito finale (che dipenderà dalla capacità di estendere e consolidare lo sviluppo economico) è stato un capolavoro di politica. Quella vera. Decisa a fare i conti col sangue, l’umiliazione, la vendetta, l’ingiustizia e di trovare ugualmente una via d’uscita. Bloccando il circolo infernale della violenza. Fisico asciutto, orecchie a sventola, Paul Kagame a due anni è già un mini-esule. Uno dei tanti. Suo padre per timore delle conseguenze dei pogrom in atto nel Paese contro l’etnia tutsi, si è rifugiato con la famiglia in Uganda assieme ad altre decine di migliaia di persone. Altri (la maggior parte) hanno trovato rifugio in Congo, nel Burundi, in Tanzania, qualcuno anche in Kenya. In Uganda Paul riesce a frequentare la scuola secondaria dove si inizia alla politica. Ancora ragazzo si arruola nell’esercito di liberazione di Museveni. Kagame lo segue assieme ad altri giovani rwandesi. Il loro vero obiettivo non è tanto liberare l’Uganda, quanto di porre le premesse per combattere in Rwanda: lì vogliono tornare. Fanno parte del Movimento nazionale di Resistenza (NRA) di Museveni, ma contemporaneamente, all’interno, fondano un’entità separata, il Fronte Patriottico Rwandese (RPF). La collaborazione prosegue anche quando Museveni riesce a conquistare il potere. I “rwandesi” e l’RPF sono ormai parte organica del suo esercito. Qualche volta imboscano un po’ di armi e per questo motivo, talora, il capo si arrabbia. Ma poi lascia perdere: Museveni ha lo sguardo lungo e nella regione dei Grandi Laghi sa che c’è una stratificazione di conflitti irrisolti che trascendono i confini del suo Paese. Ha bisogno di alleati e Kagame e l’RPF saranno i primi della lista [...]. Il suo eroe preferito [di Kagame] è Che Guevara. Eppure, per gli intrecci della politica, il futuro leader rwandese, dopo gli anni di guerriglia al seguito di Museveni, viene addestrato militarmente negli Stati Uniti. Washington infatti finanzia e appoggia sia Museveni che i suoi alleati: sono in gioco interessi economici e nella Regione dei Grandi Laghi gli americani, interessati alle immense ricchezze del Congo, si confrontano con le ex potenze coloniali, Belgio e Francia, che invece appoggiano i dittatori della regione. Tornato in Africa dopo l’esperienza americana, Kagame diventa uno dei capi del Fronte Patriottico Rwandese (RPF). E’ ormai giunto il momento di tentare il rientro e l’instaurazione di un nuovo Governo a Kigali. La prima avanzata avviene nel 1990 ma Kwizera - Rwanda
La trama estremista Ma gli estremisti rwandesi, che finora hanno appoggiato Habyarimana, sono contrari a qualsiasi mediazione e hanno già provveduto a preparare la vendetta. Che sarà terribile. Il Presidente ne è perfettamente consapevole ma cerca di mantenersi in bilico. Verso il mondo esterno, gli alleati francesi, belgi, la comunità internazionale, Habyarimana ha bisogno di mostrare un volto ragionevole e aperto al compromesso politico. All’interno lascia spazio libero a chi incita all’odio razziale. Sono sia l’esercito che i paramilitari dell’Interhamwe Mpuza Mugambe. Un supporto decisivo è fornito dagli apparati di propaganda. Da mesi è scesa sul sentiero di guerra la Radio delle Mille Colline che, tra un brano rock e uno di musica congolese, invita i giovani hutu ad armarsi contro gli sfruttatori tutsi: - “Schiacciateli come topi!” Nel frattempo, il Governo di Kigali provvede a controllare che nelle carte di identità sia ben identificato chi è hutu e chi è tutsi. La mediazione internazionale è fragile. Il responsabile delle operazioni di mantenimento della pace dell’ONU e futuro segretario generale, Kofi Annan, blocca il generale canadese Romeo Dallaire, capo del contingente ONU in Rwanda che, in una serie di comunicazioni successive, lo avverte che si sta preparando un massacro. In particolare gli impedisce di sequestrare un carico di armi e munizioni provenienti da tutte le parti del mondo: Israele, Belgio, Francia, Israele, Gran Bretagna. Armi sbarcate da un aereo militare francese e destinate alla fazione dell’esercito che fa direttamente capo al presidente Habyarimana. Non farà tempo a usarle. La sera del 6 aprile 1994 due missili lanciati nelle vicinanze dell’aeroporto di Kigali colpiscono la cabina e il timone di coda dell’aereo su cui il Presidente sta atterrando in compagnia del leader del Burundi, Cyprien Ntaryamira. pag. 8
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elettrica rwandese. Ma dietro le quinte, a tirare le fila del nuovo è Paul Kagame, che assume la carica di ‘vicepresidente’ pur mantenendo il comando delle Forze Armate impegnate nella guerra che nel frattempo si è trasferita in Congo. Dopo qualche anno, quando la situazione interna e quella militare si stabilizzano, Kagame congeda Bizimunbgu, e si fa nominare presidente. Nel 2003 legalizza la sua posizione con un’elezione che viene generalmente considerata come ‘regolare’.
Chi ha lanciato gli ordigni? La vicenda non è mai stata interamente chiarita. Ma la ricostruzione più credibile, dalle testimonianze raccolte negli anni successivi, è quella di un’azione preparata dall’ala più oltranzista dei movimenti hutu. E’ anche la più verosimile: rischiavano di restare tagliati fuori dagli accordi di Arusha. (1) Uccidi! L’episodio offre il preteso per scatenare il massacro che Dallaire temeva. L’esercito rwandese e le milizie paramilitari utilizzano i mitra e i fucili. Alla popolazione vengono distribuiti migliaia di machete importati dalla Cina. Il primo ministro Dismas Nsensiyaremye viene uccisa dalla guardia presidenziale di Habyarimana a cui i soldati delle Nazioni Unite (belgi e ghanesi) consegnano le armi. Questo non li salverà da una fine atroce. Dallaire chiede rinforzi. Ritiene che una forza di interposizione di 5mila uomini possa essere sufficiente a evitare il massacro o per lo meno a creare un corridoio di fuga per i tutsi che cercano di fuggire. Ma gli Stati Uniti e il presidente Clinton si oppongono, nonostante l’avvertimento lanciato dalla CIA in un rapporto ufficiale nel quale si sosteneva che il fallimento dell’accordo di Arusha avrebbe provocato un massacro. I pochi soldati ghanesi, belgi e tunisini del contingente Onu mostrano determinazione e coraggio. Quelli del Bangladesh si rivelano un disastro. A questo punto non ci sono più freni. C’è chi parla oggi di ottocentomila morti, chi di oltre un milione. I veri numeri non li sapremo mai ma il senso dell’operazione è inequivocabile: si tratta di genocidio, di pulizia etnica. Tutta la popolazione hutu viene incoraggiata a partecipare anche se il bersaglio è spesso un vicino di casa con cui, in precedenza, non sono mai esistiti motivi di tensione. Chi fa resistenza subisce minacce e intimidazioni. Ci sono vicende terribili, da tragedia greca. Persone costrette ad ammazzare con le proprie mani mogli e figli, perché dell’altra etnia. E se alla fine qualcuno tenta di opporsi o di fermare il massacro, fa la stessa fine delle vittime. Nelle statistiche delle persone uccise figurano decine di migliaia di hutu che hanno fatto resistenza, anche solo passiva, contro l’eccidio.
Democrazia sulla carta In realtà la gestione Kagame, soprattutto nei primi anni, è tutto fuorché un modello di democrazia. Con gli oppositori, usa la mano pesante. Uno dei primi a farne le spese è lo stesso Bizimungu. In crescente dissenso con il leader per l’intolleranza mostrata nei confronti di ogni opposizione interna, tenta di formare un proprio movimento, il partito per il rinnovamento democratico (PRD). Ma viene immediatamente incarcerato per una serie di presunti reati: appropriazione indebita, formazione di milizia armata. A cui si aggiunge l’accusa passepartout con cui Kagame provvede a eliminare tutti gli avversari e gli oppositori più temibili: istigazione alle divisioni etniche. Un analogo trattamento è riservato alla stampa. Bonaventure Bizumuremyi, editore di Umuseso, e Charles Kabonero proprietario di Umuvugizi, unici giornali che si permettono, in alcuni casi, di criticare il Governo e i suoi rappresentanti, diventano oggetto di continue minacce da parte di squadristi armati e polizia. Vengono anche multati ripetutamente, con accuse pretestuose. Riconciliazione e verità Kagame ha in mano il Governo e l’esercito, ma il Paese è da ricostruire e il compito sembra sovrumano. Si pone, innanzitutto un problema di pacificazione tra la popolazione. Centinaia di migliaia di normali cittadini hutu sono fuggiti assieme ai leader e alle milizie che hanno scatenato il massacro. Temono la vendetta dei tutsi anche se Kagame li invita a ritornare. Ha avvertito i suoi che non tollererà ritorsioni individuali. Per chi sgarra c’è l’esecuzione immediata. I profughi esitano. Prevale la paura del castigo. In cambio centinaia di migliaia di tutsi che erano fuggiti negli anni precedenti in Congo, Tanzania, Uganda tornano nel Paese dove sono rimasti anche 1,3 milioni di ragazzi senza genitori. Uccisi durante le stragi successive. E’ quasi un terzo della popolazione giovanile di tutto il Rwanda. Sono questi i maggiori problemi. D’ora in poi uomini e donne, vittime ed esecutori materiali di assassini e violenze dovranno attingere acqua alla stessa fontana, entrare negli stessi negozi, partecipare alle medesime cerimonie, mandare i figli nella stessa
L’ascesa di Kagame I macellai che hanno scatenato i massacri si appoggiano sul terrore, sono capaci di uccidere gente inerme, ma non hanno alcuna consistenza militare. Avviene così che in poche settimane, appoggiato dall’Uganda, l’RPF riesce a rientrare nel Paese e a conquistare la capitale. Si forma un governo di coalizione a cui partecipa quello che resta dei partiti ‘moderati’. A dirigerlo viene chiamato Pasteur Bizimungu, un hutu, ex presidente della società Kwizera - Rwanda
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La costruzione dello Stato Probabilmente l’intero sistema non avrebbe funzionato se, in parallelo, il Governo non fosse riuscito ad avviare quello che era mancato per troppo tempo: lo sviluppo economico e la costruzione dello Stato. Il rimorso per il mancato intervento delle Nazioni Unite e per il ritardo con cui l’America e l’Europa si sono accorte che a Kigali stava avvenendo un genocidio, fanno piovere sul Paese una buona dose di aiuti internazionali. Che questa volta però, non vengono sprecati. Il Rwanda ci mette anche del suo e diventa uno dei pochissimi Stati in Africa dove si pagano le tasse. Nel corso degli anni diventa così possibile riempire le scuole, che oggi sono gratuite e obbligatorie per nove anni. Tre quarti della popolazione è ormai protetto da un’assicurazione sanitaria per prestazioni elementari. Due terzi ha accesso all’acqua. Kagame come Museveni, gestisce il potere in modo autoritario, ma il risultato in Rwanda è molto diverso. Il presidente mantiene un polso ferreo nella lotta alla corruzione. Sa anche che per ottenere risultati credibili in questo campo, occorre pagare i funzionari dello Stato in modo adeguato. In cambio, evita di gonfiarne il numero. Lancia un segnale eloquente eliminando le auto di Stato. Attua un forte decentramento amministrativo articolato su trenta distretti. Il Paese gli crede. E lo rispetta ancora. Riccardo Barlaam e Massimo Di Nola (dal libro Miracolo Africano – edizioni Il Sole 24 Ore)
scuola. Vivere fianco a fianco, affacciati sullo stesso cortile. Com’è possibile? Bisognerebbe trovare le parole adatte per dare una spiegazione di quanto accaduto. Per riconoscersi in un principio di verità condiviso. Ma su quali basi? La riapertura del ciclo delle vendette appare inevitabile. Impossibile ricorrere alla giustizia ordinaria anche perché, come spiegherà più tardi lo stesso Kagame, non si sarebbe mai riusciti a processare e incarcerare tutti coloro che avevano commesso un omicidio. Non ci sarebbero stati né i giudici né le prigioni sufficienti. In pratica, non ci sarebbe stato più un Paese da governare. Per questo, appena insediato, il neopresidente punta tutte le sue carte su un vasto progetto di riconciliazione, anche se sono in pochi a dargli credito. Missione impossibile? Il suo Governo decide di fare una distinzione: chi ha organizzato e pianificato il massacro sarà giudicato da tribunali ordinari. Ed è così che decine di dirigenti politici, alti funzionari, leader locali e ministri vengono accusati e arrestati. Per gli altri partecipanti alle violenze, il Governo decide di recuperare dei tribunali che in qualche modo già esistevano. Si chiamano Gacacas e sono composti da leader e capifamiglia locali che tradizionalmente hanno il compito di giudicare su delitti e questioni minori: furti, dissidi familiari. Le sedute avvengono in pubblico. Quando c’è un colpevole, questi confessa e il tribunale in genere decide una compensazione. Nelle nuova versione le Gacacas vengono rafforzate nei loro poteri. Hanno la possibilità (a differenza degli analoghi tribunali di riconciliazione sudafricani) di punire e infliggere ammende o lavori sostitutivi. Si mettono così all’opera diecimila corti giudicanti che il Paese non si sarebbe mai potuto permettere se avesse dovuto appoggiarsi su funzionari stipendiati e strutture statali. Certo, il risultato non è sempre omogeneo. Impossibile evitare casi di giudici parziali o corrotti. Le vendette filtrano. Non mancano episodi di intimidazione e le uccisioni di testimoni o di membri delle Gacacas. Il sistema delle compensazioni è insoddisfacente: lo sfacelo del Paese ha colpito anche i colpevoli che raramente hanno beni o mezzi per ripagare le vittime. Difficile anche ristabilire i diritti di proprietà. Ulteriori tensioni sorgono quando cominciano a uscire dalle prigioni coloro che sono stati giudicati dai tribunali normali. L’impianto generale però tiene: le Gacacas consentono - talora meglio dei tribunali regolari - di stabilire una verità che alcuni potranno non riconoscere ma che può essere generalmente condivisa. Le critiche restano. Le divisioni anche: difficile che hutu e tutsi, che ormai si riconoscono a vista, frequentino gli stessi posti. Tuttavia il risultato è inoppugnabile: il ciclo della vendetta è chiuso. Per tutti, parlare di etnia è tabù. Quando si accenna al tema il ritornello immediato è sempre lo stesso: non c’è differenza, io sono rwandese. Imposto forse, ma non è un risultato da poco.
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(1) Nota del curatore Per completezza va ricordato che è tuttora pendente presso la Giustizia francese un procedimento, instaurato dai parenti dei tre francesi membri dell’equipaggio deceduti nell’abbattimento dell’aereo, in cui il giudice istruttore francese ipotizza che mandanti ed esecutori dell’attentato debbano ricercarsi nei vertici del FPR, tanto da aver spiccato, nel novembre 2006, nove mandati d’arresto internazionali contro uomini politici e militari molto vicini all’attuale presidente rwandese. Tale iniziativa ha portato all’immediata rottura delle relazioni diplomatiche tra Francia e Rwanda ristabilitesi solo nel novembre 2009. pag. 12
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PARTE I Rwanda Appunti di viaggio Nota del curatore
Le foto e i testi che compongono questo lavoro tentano di accompagnare il lettore in un ideale viaggio alla scoperta di un piccolo paese africano, il Rwanda, e alla conoscenza dell’attività che qui, da un decennio , svolge l’Associazione Kwizera Onlus. I testi che concorrono a formare i diversi capitoli non sono che semplici appunti di viaggio che tentano di dare voce alle fotografie, tutte, salvo espressa specificazione, opera dei vari volontari che, negli anni, si sono susseguiti, nelle diverse missioni. All’interno dei diversi capitoli fanno la loro comparsa dei box contenenti brevi note a corredo del testo principale. Le note datate sono attinte dal blog Albe rwandesi (http://alberwandesi.blogspot.com), e appunto per questo denominate Post, essendo le rimanenti inedite. Nella sezione “Reportage” e “Dall’inviato” compaiono contributi personali e di terzi, già comparsi in passato sulla rivista dell’Associazione. Tutti i dati riportati a corredo delle informazioni sono stati raccolti, con la necessaria attenzione, presso fonti ufficiali e, ove possibile, fra loro incrociati; ci scusiamo tuttavia per gli eventuali errori che dovessero emergere.
PARTE I - Rwanda appunti di viaggio
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PARTE I - Rwanda appunti di viaggio
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In viaggio verso il Rwanda
E’ difficile trovare sulla cartina dell’Africa il minuscolo Rwanda, un paese grande quanto il nostro Piemonte con una densità abitativa di 406 abitanti per chilometro quadrato, la più alta dell’intero continente africano. Il vicino Congo, grande come l’intera Europa occidentale ha solo 29
Se vuoi sapere chi sono, se vuoi che t’insegni ciò che so, cessa momentaneamente di essere ciò che tu sei e dimentica ciò che tu sai. Tierno Bokar
abitanti per chilometro quadrato.
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United Nations-Rwanda, Map n.3717, Rev. 10 june 2008
Nome ufficiale: Ordinamento politico: Capitale: Superficie:
Republika y’u Rwanda Rep. presidenziale Kigali 26.340 Kmq
Popolazione: Densità: Crescita demografica annua: Religione:
10.573222 ab. censimento 2012 400 ab./Kmq 2,60% Catt. 56,5%, prot. 37%, musulmana 2%
PARTE I - In viaggio verso il Rwanda
Mortalità infantile: Aspettativa di vita: Ind. sviluppo umano: Moneta:
6,55% 58,02 anni 0,429 – 166°/ 187 stati Franco ruandese 1 Euro / 800 Frw circa PIL (PPA): 12,160 miliardi USD Popolazione urbana: 18% Pop. sotto soglia povertà: 60% Economia: Agricoltura, turismo
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i raggiunge il Rwanda, che si trova un centinaio di chilometri sotto l’equatore nell’emisfero sud, con l’aereo. Siamo, infatti, in pieno centro Africa, distanti migliaia di chilometri dall’Oceano Atlantico dalla parte del Congo e dall’Oceano Indiano dalla parte della Tanzania, senza che dai porti principali della costa vi siano collegamenti ferroviari, almeno fino ad oggi; solo ora si sta, infatti, progettando una linea ferroviaria che da Dar er Salam colleghi il Rwanda e il Burundi. Si va da Roma o Milano con la compagnia aerea etiopica, che impone però lo scalo di Addis Abeba, o più comodamente da Bruxelles con un volo diretto. Le nove ore di volo sono assicurate dalla compagnia belga Brussels Airlines (a un prezzo che varia tra 800 e 1200 euro circa a seconda dei periodi) che ha ereditato la tratta dall’ex compagnia di bandiera Sabena, approdata in Rwanda al seguito dell’amministrazione coloniale belga. Il Belgio ha infatti amministrato il Rwanda a partire dal 1916, a seguito dell’invasione dal Congo, e ufficialmente dal 1924 su mandato della Società delle Nazioni, subentrando alla Germania a cui il Rwanda, unitamente al Tanganika e al Burundi, era stato assegnato al congresso di Berlino del 1884/1885, dove le potenze europee si erano spartita l’Africa. L’amministrazione belga è cessata nel 1962, data dell’ indipendenza. I legami tra la vecchia potenza coloniale e la ex colonia permangono tuttora: un intreccio di rapporti economici e culturali è sopravvissuto alla proclamazione dell’indipendenza. Bruxelles è oggi sede di una foltissima colonia rwandese e punto di riferimento della nuova borghesia del paese africano. Ultimamente, a conferma dell’interesse che il Rwanda sta suscitando a livello internazionale, anche la compagnia olandese KLM ha inaugurato un volo diretto da Amsterdam a Kigali, la capitale rwandese. Si parte, fatte le vaccinazioni richieste a livello internazionale (febbre gialla), con la scorta necessaria di medicinali utili ad affrontare gli imprevisti di un paese equatoriale; nella sostanza, se si osservano le normali cautele che si devono usare in paesi africani nell’assumere cibi e soprattutto bibite e acqua, l’unico vero rischio è la malaria. Già prima di partire il Rwanda presenta il proprio biglietto da visita di paese sorprendentemente orientato alla modernizzazione, seppur all’interno di inevitabili contraddizioni: il visto d’ingresso necessario per entrare nel paese vi è recapitato direttamente a casa per email, dopo aver compilato un PARTE I - In viaggio verso il Rwanda
Prima di affrontare questo nostro viaggio alla conoscenza di una realtà diversa e lontana con la giusta prospettiva e senza essere fuorviati dagli occhiali della nostra cultura, giunge quanto mai opportuna questa raccomandazione di un saggio africano, Tierno Bokar, rivolta al viaggiatore che si avvicina all’Africa.
La nuova bandiera nazionale rwandese adottata nel 2001
Lo stemma della repubblica con il motto Unità, Lavoro, Patriottismo
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Dio passa la giornata altrove, ma alla sera rientra a dormire in Rwanda. Proverbio rwandese
form reperibile sul sito internet del ministero dell’immigrazione. Si arriva all’aeroporto della capitale Kigali alle 19 (stessa ora della nostra nei periodi di vigenza dell’ora legale). Appena sbarcati bisogna adempiere al pagamento della tassa d’ingresso, ridotta di recente a 30 dollari rispetto ai precedenti 60 e alla compilazione di un questionario in cui bisogna fornire tutte le informazioni del caso: cosa si viene a fare, dove si alloggia, chi sono i referenti locali. Prima di uscire dalla zona arrivi, ci si imbatte in cartelli che ricordano che in Rwanda non si possono utilizzare le borse di plastica, pena salatissime multe. Superati i controlli doganali, non particolarmente invasivi, ci si affaccia sul salone arrivi dove, se si viaggia in estate, si sarà accolti da un pullulare di cartelli esibiti da delegazioni di istituti, parrocchie, gruppi che attendono l’arrivo dei volontari. In effetti, nel periodo feriale la stragrande maggioranza dei viaggiatori è rappresentata da volontari in missione estiva. Lo si capisce dall’abbigliamento e dal numero e dalla dimensione delle valigie al seguito: troppe e troppo voluminose per il contenuto di una semplice vacanza. D’altra parte in Rwanda ci sono scarse occasioni di turismo, se si esclude il classico tour per visitare i gorilla di montagna dei monti Virunga. Nelle valigie, in aggiunta a quanto di stretta necessità personale, il bravo volontario c’inzeppa tutto ciò che può essere utile, una volta giunto a destinazione nelle comunità in cui andrà ad operare: si va dalle attrezzature informatiche al materiale scolastico, da capi di vestiario a qualche medicinale, peraltro non nelle quantità che sarebbe necessaria, stante il divieto introdotto dal governo d’importare medicinali se non passando dai canali ufficiali.
PARTE I - In viaggio verso il Rwanda
Post it In viaggio verso Kigali Il viaggio inizia con il trasferimento da Malpensa a Bruxelles. L’aereo è pieno, ben oltre la metà dei passeggeri è rappresentata da africani che fanno ritorno nel paese d’origine, sfruttando il periodo feriale italiano. La gran parte ha come destinazione Dakar, la capitale del Senegal. Sono tutti sovraccarichi di bagagli, tanto da sforare i pesi in franchigia con l’inevitabile discussione con l’addetta al check-in che rivendica il pagamento del peso in esubero. L’abbigliamento curato e il contorno di telefonini di ultima generazione e di qualche pacco regalo di prodotti informatici garantiscono sicuramente l’ammirazione e la riconoscenza di chi li sta attendendo in patria. Danno tutti la sensazione di nutrire un certo compiacimento, come di chi ce l’ha fatta, magari dopo essere arrivato su un barcone. A Bruxelles sul volo per Kigali la musica cambia. Anche questo volo è pieno: c’è una buona rappresentanza di volontari e folti gruppi di rwandesi e ugandesi, visto che il volo fa scalo anche a Entebbe-Kampala. I rwandesi sono rappresentati da giovani e intere famiglie, con bambini al seguito, facenti parte della foltissima colonia rwandese di Bruxelles e da rappresentanti della ricca borghesia di Kigali che hanno nella capitale belga il tradizionale punto di riferimento europeo per acquisti, studi e affari. Numerosi sono i giovani in carriera,in giacca e cravatta d’ordinanza che non disdegnano di mostrare il loro status, fatto di apparati informatici e stampa e pubblicazioni specialistiche, specchio del particolare attivismo in cui si trova l’economia rwandese da qualche anno a questa parte. Agosto 2009 pag. 18
Nelle valigie spesso trovano posto anche attrezzi da lavoro che servono per gli interventi sul campo, stante la difficoltà, specie nei villaggi, di disporre del necessario: spesso, infatti, reperire un cacciavite o una pinza diventa un problema. All’uscita dell’aeroporto t’accoglie il Rwanda, piccolo paese grande quanto il nostro Piemonte con i suoi 10,537 milioni di abitanti, con un tasso di crescita del 2,60% annuo e una densità di 400 abitanti per kmq, la più alta dell’intero continente africano, causa non secondaria dei problemi del piccolo Rwanda. E’ buio pesto già da tempo. Siamo all’equatore e quindi la giornata è di 12 ore di luce e 12 ore di buio, tutti i giorni dell’anno, con il sole che sorge verso le 6/6,30 e tramonta verso le 18,30, con l’immediata discesa delle tenebre, pur nell’alternarsi delle stagioni. La temperatura è decisamente gradevole; mediamente nel corso dell’anno la temperatura si aggira sui 20 gradi, con punte che non oltrepassano i 30 gradi, mentre alla sera e nelle ore notturne, soprattutto nelle zone montagnose, l’aria si fa più pungente e, se si fanno due passi dopo cena, ci si deve coprire adeguatamente. Arrivando ad agosto si è nel pieno della stagione secca, a cui fanno da corollario due stagioni delle piogge, da metà settembre a dicembre la piccola stagione delle piogge e da marzo a giugno la grande stagione delle piogge, e una piccola stagione del sole nei mesi di gennaio e febbraio. Un simile clima e la conformazione geografica fanno del Rwanda un paese ad alta vocazione agricola.
PARTE I - In viaggio verso il Rwanda
Alla sera, appena dopo le 18, improvvisa cala la notte, mentre al mattino il sole sorge verso le 6/6,30.
Post it Cena al Sole e Luna Per chi arriva a Kigali dall’ Italia è quasi d’obbligo la cena al Sole e Luna, punto d’incontro di un po’ tutti gli europei, e non solo, della capitale rwandese. Il gestore del Sole e Luna è un italiano di Vicenza, Dionigi. Venuto qui negli anni novanta come volontario vi ha messo radici: si è sposato con una giovane rwandese che gli ha dato due bei bambini. Dapprima ha gestito il punto di ristoro di cui la diocesi di Byumba dispone sul lago di Rwesero, in prossimità del piccolo seminario, poi si è trasferito a Kigali. Qui potendo già contare su quei clienti che dalla capitale si spingevano fin sul lago di Rwesero per gustare qualche buon piatto italiano, ha aperto, sulla strada che conduce all’aeroporto, appunto il Sole e Luna che gestisce con crescente successo, potendo annoverare una clientela numerosa e qualificata. Vi si mangiano delle ottime tilapie al forno(pesci di lago) e pizze, che nulla hanno da invidiare a quelle italiane. Per la verità, fatte le debite proporzioni, anche il prezzo non si discosta di molto da quelli italiani. Agosto 2009 pag. 19
Nell’ultimo tratto di volo, dopo aver sorvolato le immense distese desertiche, ci appare il verde
Reportage
del Rwanda, il paese delle mille colline. Al ritorno lo spettacolo sarà diverso. Partendo alla sera, l’Africa vi apparirà totalmente nera, rarissime sono, infatti, le luci delle città.
Quel volo per Kigali
Questa immagine di un continente avvolto nel buio più completo dice più di tanti trattati. L’Africa deve ancora decollare.
La prima volta che sentii parlare del Rwanda fu, come per molti, nella primavera del 1994 quando giunse a conclusione nella maniera più tragica la feroce guerra civile che, da anni, insanguinava il piccolo stato africano. Di quel periodo ricordo le immagini che venivano trasmesse dai network internazionali in cui si alternavano i corpi sfigurati dai colpi di machete, abbandonati sui cigli delle strade o trascinati dalle correnti dei fiumi, con le colonne di profughi che scappavano dagli orrori di simile carneficina. Proprio allora arrivarono in Italia tre di quei profughi: Cirillo, Paolo e Roberto, tre seminaristi sfuggiti a tale scempio grazie a un ponte aereo della Croce Rossa che da Kigali li portò in Italia. Ospitai per qualche giorno Cirillo e conobbi gli altri due. Tutti e tre tornarono ben presto ai propri studi in un collegio romano. I rapporti si mantennero nel tempo. Per anni le tragiche storie che i tre avevano alle spalle rimasero ammantate di una cortina mista di dolore, paura e pudore. Ordinati sacerdoti, don Cirillo e don Roberto rimasero in Italia, mentre don Paolo fece coraggiosamente ritorno in Rwanda. Altri seminaristi rwandesi vennero a studiare a Roma e proprio aderendo all’invito di uno di questi, Don Vicenzo, ad assistere alla sua ordinazione sacerdotale che si teneva in Rwanda, scaturì l’occasione per il primo viaggio africano. Così nell’agosto del 2003, con mia moglie Daniela partimmo per un viaggio che forse non poteva definirsi banalmente turistico, come passare una settimana a Malindi, ma che non era ancora alimentato dalla fiammella dell’impegno. Sul volo Bruxelles-Kigali successe qualcosa che nella sua banalità segnò, nel tempo, quel viaggio. Dopo oltre un’ora di volo, quando ci trovavamo sulla verticale di Roma, il responsabile di cabina annunciò che a causa di imprecisati problemi tecnici l’aereo doveva far rientro alla base. Un signore, seduto davanti a noi, che non aveva prestato attenzione all’annuncio, vedendo il trambusto creatosi tra i passeggeri si rivolse, con accento toscano, verso di noi per chiedere ragione dell’accaduto. Gli risposi che c’erano problemi tecnici e che dovevamo fare rientro a Bruxelles e che comunque l’hostess aveva tranquillizzato tutti escludendo che ci fossero rischi; aggiunsi “e noi facciamo finta di crederle”. Atterrammo felicemente a Bruxelles accompagnati sulla PARTE I - In viaggio verso il Rwanda
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PARTE I - In viaggio verso il Rwanda
pista da un imponente dispiego di autopompe dei vigili del fuoco. Finì tutto bene e, all’indomani, ripartimmo per Kigali. Nella fase di sbarco mi imbattei nuovamente nel signore del giorno prima, che si presentò come appartenente a un Gruppo missionario toscano che avrebbe passato qualche giorno nella diocesi di Byumba, impegnato nella realizzazione di non ricordo quale progetto. Era in perfetta tenuta da sbarco in Africa, con tanto di cappello in pelle da safari. Tra me e me, lo confesso, pensai ironicamente “ecco uno che vuol cambiare il mondo”! Nei giorni successivi non ebbi più modo di rivederlo. Con Daniela passammo in Rwanda una decina di giorni, sempre accompagnati da don Paolo impegnato a spiegarci quello che passava sotto i nostri occhi e, soprattutto, quello che non vedevamo. Al rientro tutto fu diverso. Nonostante le vaccinazioni e le pastiglie assunte, un virus insidioso s’insinua subdolamente in noi: l’interesse per quello che si è visto, la simpatia per la gente che si è incontrata, il tarlo per l’incolmabile sproporzione tra le necessità che ti vengono sbattute in faccia da una realtà dura e la pochezza del nostro impegno. Allora si comincia a smanettare su internet per raccogliere materiale di ogni tipo, per conoscere meglio questa realtà con cui ci si è scontrati. E’ qui che nelle videate che Google rilascia dopo aver digitato “Rwanda” che fa la sua comparsa il sito dell’Associazione Kwizera. Nel 2003 già vi sono illustrate le prime realizzazioni portate a termine e i progetti per l’immediato futuro. Parlando con Don Paolo scopro che sono “quelli di Lucca”, impegnati nella diocesi di Byumba. Dopo averli seguiti da lontano su internet nel progredire del loro impegno, che inanella via via realizzazioni sempre più importanti, finalmente in occasione di un soggiorno di Don Paolo a Barga si presenta l’occasione per fare la conoscenza di “quelli di Lucca”. Ci si trova alla sede dell’Associazione. Sulla porta dell’ufficio, unitamente a mia moglie, vengo accolto con un sorriso smagliante da quel signore del volo Bruxelles-Kigali. Ci riconosciamo subito, anche se Angelo è senza cappello da safari. Un abbraccio suggella l’incontro e dà inizio a una storia di amicizia e di collaborazione nel segno del Rwanda. pag. 21
Il paese delle mille colline
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l susseguirsi di colline perennemente verdi, che a perdita d’occhio delimitano l’orizzonte, intarsiate dai disegni dei campi che le mani laboriose dell’uomo hanno ricavato con fatica sui fianchi, punteggiate qua e là dai villaggi che disegnano le loro sagome sui crinali e segnate dal rosso mattone delle strade che le attraversano e poi il lento degradare verso un fondo valle ricoperto dalle coltivazioni o dalle acque placide di un lago: questo è il Rwanda, il paese delle mille colline. Un cuore verde che pulsa, adagiato su un altopiano racchiuso tra l’azzurro del lago Kivu, confine condiviso con il Congo, le vette dei monti Virunga al nord ovest e la savana tanzaniana all’est, mentre al sud degrada lentamente verso il Burundi. Si va dai 4500 metri di altitudine del vulcano Karisimbi, nel mezzo del Parco Virunga habitat dei gorilla di montagna, per arrivare ai 1000 metri delle regioni meridionali e della savana dell’est, dove esiste l’altro grande parco naturalistico dell’Akagera, sviluppatosi attorno al fiume Kagera che versa le proprie acque nel Lago Vittoria, concorrendo in tal modo a dar vita al Nilo. Un terzo parco si trova nella parte meridionale del paese: si tratta del Parco della Foresta di Nyungwe.
Foto colonna: squarci di paesaggi rwandesi
A sinistra: in lontananza i vulcani dei monti Virunga
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Dove due elefanti lottano tra di loro, sono le erbe che subiscono le conseguenze. Proverbio rwandese
L’alto numero di abitanti in proporzione al limitato territorio nazionale comporta un intenso sfruttamento di tutti i terreni disponibili. Per questo è difficile vedere terreni incolti. Le colline sono tutte coltivate, con campi ricavati anche su pendii impervi dove è difficile reggersi in piedi. L’estrema pendenza di alcune colline e la particolarità dei terreni, formati di uno strato di terra appoggiato su conformazioni rocciose, comportano fortissimi fenomeni erosivi, soprattutto nelle stagioni delle piogge, che fanno scivolare a valle la terra. I contadini rwandesi cercano di arginare il fenomeno con opere di terrazzamento, secondo tecniche particolari, che consentono la difesa del territorio e il presidio delle coltivazioni. Molte delle colline rwandesi sono venute ad assumere il caratteristico aspetto di enormi gradinate, quasi spalti di anfiteatri naturali, che salgono dal fondovalle fino a sfumare sulla cima. I fondovalle, spesso percorsi da piccoli corsi d’acqua, sono serpentoni di verde più intenso dove si alternano bananeti, presenti quasi ovunque, a campi dove si coltivano legumi , patate, mais,grano. Ma dove il verde è più intenso è nelle vallate dove sono presenti le piantagioni di the che si estendono come grandi laghi verdi.
Dei tre Parchi nazionali rwandesi, per ora, solo quello dei Monti Virunga è assurto a notorietà internazionale, tanto da richiamare annualmente migliaia di visitatori provenienti da tutto il mondo, che garantiscono l’afflusso di preziosa valuta per l’economia rwandese in via diretta, visto che il costo del biglietto per visitare i gorilla ammonta a 500 dollari, oltre a tutto l’indotto. Il Parco dell’Akagera ha visto ridursi il proprio territorio a seguito della continua ricerca di spazi da dedicare ai pascoli e ha subìto altresì una forte riduzione della presenza faunistica all’inizio degli anni novanta, quando il territorio divenne teatro di guerra con le conseguenze facilmente immaginabili. Pur essendo in fase di rilancio, al momento non c’è da aspettarsi di fare safari come quelli possibili nei paesi vicini come il Kenia e la Tanzania, si possono però vedere ippopotami, zebre, antilopi, giraffe ed elefanti. Il Parco della Foresta di Nyungwe, una foresta pluviale sempreverde ritenuta la più grande foresta dell’Africa orientale, ospita invece diverse specie di scimmie e oltre 150 di uccelli che ne fanno un vero paradiso per i patiti del bird watching. Oltre ai parchi, una visita meritano anche il lago Kivu e i tanti altri laghi che costellano il territorio rwandese.
Alcuni animali visibili nei parchi rwandesi
Sopra: colline terrazzate e piantagioni di the sul fondovalle Sotto: campi di grano sui terrazzamenti
A sinistra: la savana dell Parco dell’Akagera dove si trovano anche diverse piccoli laghi, regno incontrastato dei grandi e pacifici ippopotami. PARTE I - Il paese delle mille colline
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Chi vuole abbattere un toro temibile comincia con l’accarezzarlo. Proverbio rwandese
Post it Al lago Kivu Per arrivarci abbiamo attraversato tutta la zona di Ruhengeri, al nord ai piedi dei grandi vulcani. Abbiamo fatto così conoscenza di un Rwanda decisamente diverso rispetto a quello incontrato nella zona di Byumba. Le strade sono più ampie e curate, le case sono fatte con materiali migliori e hanno un aspetto più solido. La città di Ruhengeri, grazie anche ai flussi turistici richiamati dal vicino parco dei monti Virunga, si caratterizza come una città moderna. Numerosi sono gli alberghi, punto d’appoggio per i turisti in visita ai gorilla di montagna. La stessa campagna sembra meglio curata. A detta di qualche esponente locale tutto ciò è dovuto anche a una diversa indole delle popolazioni locali, ritenute più laboriose. Andando poi verso Gisenyi la situazione quasi migliora, fino a sorprenderti quando arrivi sul lago. Certi squarci , con la lussureggiante vegetazione equatoriale, le palazzine e le vere e proprie ville che si affacciano sul lago, richiamano atmosfere della Costa azzurra. Qui hanno il loro buen retiro le ricche famiglie dell’emergente borghesia rwandese. All’orizzonte, sull’altra sponda del lago, si staglia imponente la sagoma della grande città congolese di Goma. Il posto di frontiera è posizionato sulla strada che costeggia il lago, il Congo è pronto ad accogliervi e inghiottirvi nel suo cuore di tenebra. Il nord Kivu congolese è stato teatro, nell’ultimo quindicennio, di diversi atti di guerra con milioni di morti, nel silenzio dei media internazionali. La ricchezza mineraria del suo sottosuolo ne fa l’area più critica dell’intera Africa, su cui si concentrano gli appetiti dei paesi confinanti, il Rwanda in primis. Agosto 2009
La vera attrazione dei parchi rwandesi: i maestosi gorilla di montagna
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Dall’inviato Jambo Africa
Il lago Kivu, uno dei grandi laghi africani, si estende per 2700 chilometri quadrati di superficie (più di sette volte il lago di Garda). Dietro la bellezza dei suoi colori sgargianti nasconde un tesoro: i suoi fondali ricoprono un consistente giacimento di gas metano che il Rwanda si appresta a sfruttare con l’apporto di compagnie occidentali. I primi impianti di estrazione del gas metano sono già in funzione.
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Era il 1957 ed era il mio primo giorno in Africa. È grazie a mio marito, al suo lavoro ed al fatto che mi ha sempre voluta con sé che ho avuto l’opportunità di vivere in Africa un periodo “abbastanza” lungo della mia vita, anche se abbastanza non è la parola giusta quando si parla di questo Paese. Più passano gli anni, più mi rendo conto di quanto sono stata fortunata ad aver vissuto questa bella favola all’età di vent’anni. Arrivai a Dar Er Salam in nave e da lì un piccolo aereo mi portò nel cuore del Congo. Il primo impatto con l’Africa mi lasciò smarrita. Venivo da un bel Paese, l’Italia, ed ero abituata alle belle montagne verdi e rigogliose della mia Toscana, ma il verde che ora avevo davanti agli occhi era di color smeraldo scintillante in contrasto con un terreno rosso brillante. Lungo i sentieri di terra battuta, una dietro l’altra sfilavano, come in una passerella di moda, donne avvolte in tessuti sgargianti di mille colori. Portavano sopra la testa con estrema eleganza dei grandi cesti carichi di frutta, banane, verdure, una mano appoggiata sul fianco dava loro l’andatura corretta di piccole regine e poi quei fagottini legati stretti da un foulard dietro le spalle dal quale usciva fuori la testolina ricciuta di un neonato. Queste prime immagini africane sono rimaste per sempre impresse nella mente e nessun particolare è andato mai perduto. La prima notte poi mi resi conto che il silenzio in Africa non esiste. Le mille voci della foresta accompagnate da lontani tam-tam davano vita ad un’orchestra notturna che non ha uguali e la mattina dopo, quando ho aperto gli occhi ed ho visto l’alba illuminare il cielo, mi sono detta: “Ecco, sono atterrata nel Paradiso Terrestre,,Il giorno dopo sono partita per raggiungere mio marito nell’interno della foresta dove la nostra Società aveva allestito un campo base. La località prendeva il nome da un bellissimo torrente chiamato Luama. L’accampamento contava circa 500 persone fra donne bambini ed operai locali, che formavano squadre di lavoro guidate da 10 caposquadra Italiani. Io ero l’unica donna bianca dell’accampamento. Poco distanziata dal grande accampamento c’era la mia capanna, costruita abilmente dagli indigeni, le pareti erano di canna ed il tetto spiovente era tutto ricoperto da fasci di paglia, disposti in modo tale da non far passare l’acqua dei grandi acquazzoni… o quasi. Era dotata di un unico locale con al centro un’amaca dove dormivamo io e mio marito e fuori, sotto la tettoia, un piccolo tavolo da pranzo sopra il quale tenevo anche un fornellino a petrolio: la mia cucina. Non avevo né un armadio né un mobile, i pochi utensili che possedevo stavano accantonati per terra sopra cassette da bulloni vuote….. Non c’è niente di normale in Africa. I fiumi sono impetuosi, le piogge sono scroscianti.
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I temporali arrivano improvvisi, con violenza, preceduti da venti fortissimi che stendono a terra interi canneti di grossi bambù. In attesa del ritorno degli uomini io rimanevo tutto il giorno con le donne dell’accampamento. Queste, la mattina, con grandi brocche ben equilibrate sopra la testa ed i loro bambini più grandicelli attaccati alla gonna, si avviavano lentamente verso il fiume per prendere l’acqua. Formavano una lunga fila di figurine cinguettanti, sempre allegre e sorridenti. Io cominciai a seguirle ogni giorno ed insieme a loro lavavo gli indumenti nell’acqua del torrente. A volte le acque mi strappavano i panni dalle mani, ma loro erano sempre pronte ad aiutarmi. Questi episodi le divertivano molto, tanto che continuavano a raccontarli a tutti, scoppiando in allegre risate. Quanta paura avevo, questo lo ricordo bene, perché all’accampamento la notte era veramente nera. Non c’era corrente elettrica e spesso mancava anche il petrolio per le “lampade Coleman” in dotazione per ogni capanna. La lampada a petrolio illuminava solo per un corto raggio e poi formava tutto intorno delle lunghe lugubri ombre nere. Non ho mai incontrato animali feroci, ma sentivo i loro ruggiti non lontano dall’accampamento. Arrivavano anche i suoni dell’insistente litigioso gioco delle scimmie. Proprio queste sarebbero state la mia salvezza dalla solitudine, perché una sera mio marito mi portò a casa una piccola, bella, simpatica, dispettosa scimmietta, tutta per me. Mi stava sempre aggrappata dietro la testa, con le sue manine strette attorno alla mia fronte ed io non fui più sola. Oggi naturalmente l’Africa è diversa e forse è proprio questo il motivo per cui non desidero tornarci. Voglio ricordarla come l’ho conosciuta io. Vedendo le immagini in televisione, sentendo quello che racconta mio marito che tutt’oggi continua a visitarla, ho appreso che i sentieri che portavano alla Luama oggi sono strade asfaltate e l’accampamento dove abbiamo vissuto tante avventure non c’è più, perché è stato riconquistato dalla foresta. Kigali, dove di lì a poco più di un anno sarebbe nata mia figlia Daniela, che contava solo di una chiesetta, un ospedale, l’Hotel Vanver e qua e là qualche villetta stile coloniale, oggi è diventata una grande e bella città moderna dove ormai si trova di tutto, ma dove io non ritroverei più niente. I ricordi sono tanti e, scrivendo queste riflessioni, tornano impetuosi come un fiume. Non posso elencarli tutti, ma laggiù in Africa sono nati due dei miei tre figli. Sarò sempre grata a questa Terra per tutto quello che mi ha dato, per l’amore ricevuto e oggi posso dire che, se la mia vita ha avuto un senso, molto lo devo a Lei. Liana Marchi Baldi
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Kigali, la capitale
Questa panoramica di Kigali, scattata nel 2009 dalla strada che scende da Ruhengeri, è ormai vecchia, tale è la velocità con cui la sky line della capitale rwandese si modifica nel tempo. I palazzi in costruzione sono ormai ultimati e già ne sono avviati di nuovi.
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rima di muovere alla conoscenza dei villaggi della campagna rwandese, è d’obbligo fare la conoscenza di Kigali. La capitale è una città con forti connotazioni di modernità che rappresenta fedelmente l’anima del nuovo Rwanda, uscito dalla tragedia del 1994. L’attenzione all’innovazione, qualche volta addirittura alle mode, che mai ti aspetteresti in un paese africano, è un po’ un vezzo dell’amministrazione rwandese, molto attenta a coltivare, presso i media internazionali, l’immagine di paese fortemente orientato a bruciare le tappe per entrare nel consesso dei paesi sviluppati. Così il governo, cosciente che la capitale rappresenta il principale biglietto da visita del nuovo Rwanda, dedica una cura quasi maniacale alla sua immagine. Le strade sono curate e pulite, abbellite dove possibile da fiori e piante, i venditori ambulanti di oggetti per turisti sono stati tutti allontanati dal centro e raggruppati in una zona decentrata, denominata Villaggio degli artisti. E’ proibito aggirarsi a piedi scalzi e se, provenendo dalla campagna, la vostra jeep è impolverata, potreste trovare un poliziotto che vi invita ad essere più rispettosi del decoro della capitale. Certo, ci si può imbattere in qualche ragazzo di strada o ragazza madre con il proprio figlioletto, portato sul dorso alla maniera tradizionale delle donne africane, che vi chiederà una moneta, facendo attenzione a non farsi vedere da qualche solerte poliziotto, pronto a sanzionare un simile comportamento . La grande piazza centrale di Kigali
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PARTE I - Kigali, la capitale
Post it Un ostello a Kigali per i giovani Per chi arriva a Kigali è ora disponibile anche un ostello per la gioventù, lo Youth Hostel Rwanda, ben attrezzato e a prezzi accessibili. Con una spesa a partire da 12 euro si può disporre di un posto letto in camere a sei posti, con servizi e doccia e con tanto di accesso a internet WiFi. La struttura si trova nella zona di Kacyiru, tra il vecchio parlamento e il ministero della difesa in una via laterale del Boulevard de l’Umuganda, di fronte alla Torre Top Hotel. Oltre al posto letto si potrà avere il servizio di prima colazione e di buffet. La segnalazione è doverosa soprattutto alla luce del costo degli alberghi a Kigali che hanno spesso dei prezzi superiori a quelli delle capitali europee. I migliori arrivano a chiedere oltre 150 euro per notte fino ad arrivare a oltre 250 euro per una camera al Serena Hotel. I grandi alberghi possono beneficiare, soprattutto, del consistente flusso di partecipanti alle numerose riunioni congressuali di vario tipo che Kigali riesce ad attirare da tutto il continente africano, grazie al livello di sicurezza che può garantire, alla centralità del paese e alle strutture congressuali esistenti e in costruzione. Agosto 2010 pag. 31
Gli uomini mangiano e i cani pagano. I potenti spendono e i piccoli pagano il conto. Proverbio rwandese
Sopra: i classici negozietti Sotto: il grande Kigali Trade Center
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In genere, però, si incontrano persone che si muovono con una certa frenesia come di gente che abbia molto da fare. Molti sono gli uomini e le donne con abbigliamento ricercato di tipo europeo; sono i rappresentanti della nuova classe media rwandese, fatta di impiegati dell’amministrazione pubblica piuttosto che delle molte società del terziario, dalle banche alle società di servizi. La stragrande maggioranza delle donne porta, però, con orgoglio le vesti tradizionali dai colori sgargianti e dai disegni tipicamente africani. Fra queste, diverse sono le donne che quotidianamente arrivano in città dalla campagna per vendere frutta e verdura, che trasportano in grandi ceste che tengono, con naturalezza, in equilibrio sulla testa. Non manca qualche ragazzetto che vi offre la cartina geografica rwandese, piuttosto che i soliti oggetti che siamo abituati a vederci offrire dai nostri vu cumprà. La rete commerciale cittadina è fatta di numerosissimi negozi di ogni tipo, ricavati in spazi decisamente angusti. Non mancano però centri commerciali modernissimi, per una clientela d’un certo reddito, dove anche il più sofisticato dei visitatori stranieri può trovare quanto gli serve, e l’immancabile grande magazzino tenuto da cinesi, con prezzi decisamente più accessibili al rwandese medio. Tra i commercianti fanno la loro comparsa anche asiatici e africani dei paesi confinanti. Sulle vie cittadine, asfaltate nelle zone centrali e sterrate nelle zone periferiche, scorrazzano i
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mototaxi che con pochi franchi rwandesi vi portano da un capo all’altro della città, non prima di avervi fatto obbligatoriamente indossare il casco verde a protezione della testa. Numerosi sono anche i pulmini che fanno la spola verso il resto del paese. Nelle strade commerciali si incontrano camion di varie dimensioni che trasportano merci provenienti dalla campagna, per quanto riguarda le derrate alimentari, e dal lontanissimo porto di Dar es Salaam in Tanzania per tutto il resto, a cominciare dalla benzina che qui costa come da noi, a fronte di uno stipendio medio di un insegnante che va dai 40 a poco più di 150 euro, a seconda dei livelli. Fra le numerose automobili in circolazione, spiccano gli imponenti e modernissimi suv, modelli che in Europa non sono ancora in circolazione. Alla guida di queste vere vetrine ambulanti della ricca borghesia e dei maggiorenti del potere si trovano, per la stragrande maggioranza, donne. Qui le donne hanno un ruolo importante, basti pensare che il Rwanda è il paese con la più alta percentuale al mondo di donne parlamentari: costituzionalmente dovrebbero avere il 30% dei posti, in realtà sono donne oltre la metà dei componenti della camera dei deputati; anche dicasteri importanti sono ricoperti da donne, così come altri posti di rilievo nell’amministrazione pubblica.
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Non si costruisce una casa da soli. Proverbio rwandese
Secondo le autorità rwandesi, Kigali è il vero motore che deve muovere lo sviluppo dell’intero paese verso quei traguardi contenuti nell’ambizioso piano denominato Vision 2020. Uno dei grandi obiettivi è fare del Rwanda un hub a livello continentale per quanto attiene l’informatica; in questo senso si sta informatizzando tutto quanto è possibile informatizzare a livello di pubblica amministrazione: carte d’identità, patenti e certificati elettorali. Si stanno altresì creando le condizioni per richiamare gli investitori internazionali a costituire nuove imprese in Rwanda, dotando il paese delle condizioni favorevoli. Recentemente il Rwanda è stato dichiarato dalla Banca mondiale il paese che, a livello mondiale, ha effettuato il maggior numero di riforme tese a favorire il “fare impresa”, posizionandosi al 58esimo posto (Italia 80esima). Parallelamente c’è stato anche un certo sviluppo della ricettività che ha visto il sorgere di diversi moderni alberghi che sono andati ad affiancare il vecchio Hotel delle mille colline, conosciuto in tutto il mondo per essere stato il vero protagonista del film Hotel Rwanda. La catena di alberghi Hilton ha preannunciato investimenti per trenta milioni di dollari e presto arriverà anche la catena Marriott. Negli ultimi tempi sono arrivate diverse banche straniere, aprendo filiali ex novo o acquisendo imprese bancarie locali. L’arrivo delle banche è uno dei sintomi se non proprio di un’economia già decollata, sicuramente di un’economia cui si riconoscono forti prospettive di sviluppo. Gli sforzi messi in atto dal governo hanno dato i primi frutti, anche se l’economia rwandese non può contare, diversamente da molti altri paesi africani a partire dal vicino Congo, su particolari ricchezze naturali, se si esclude la recente scoperta di giacimenti di gas naturale sotto il lago Kivu.
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Post it L’impresa si apre on line Il grande sforzo d’informatizzazione dell’amministrazione pubblica e di diffusione delle tecnologie che consentano il collegamenti internet con le tecnologie wi fi in città e con la fibra ottica nel resto del paese ha prodotto i suoi primi effetti. I potenziali investitori interessati a costituire un’impresa in Rwanda lo potranno fare, comodamente da casa, utilizzando il nuovo servizio di registrazione online presso il Rwanda Development Board (RDB) .
Accedendo al sito del RDB si avranno tutte le informazioni necessarie per procedere alla compilazione dell’apposito form che darà avvio a tutte le pratiche per la costituzione di una nuova società. Dall’unica interfaccia verranno attivate, con un numero unico (TIN) che funge da codice impresa e da codice fiscale, la registrazione presso il Registro generale delle imprese, la registrazione come datore di lavoro al Fondo per la sicurezza sociale del Rwanda (SSFR) e come contribuente al Rwanda Revenue Authority (RRA), senza dimenticare la notifica delle attività di business per l’Istituto nazionale di statistica. I clienti riceveranno i certificati firmati dopo la presentazione online di tutti i documenti necessari e il pagamento tramite carta di credito/Visa degli oneri previsti. Giugno 2010 pag. 34
Kigali negli ultimi anni ha avuto un’esplosione della popolazione, passata da poche migliaia di abitanti negli anni cinquanta a 850.000 nel 2005 e a 1.135 milioni di oggi, con il conseguente intenso sviluppo urbanistico. Anche l’edilizia abitativa è oggetto di un forte trend di sviluppo che porta la città a dilatarsi, sempre alla ricerca di nuovi spazi su cui costruire, assorbendo nuovi terreni o procedendo a opere di riqualificazione. In tale frenetico sviluppo non mancano problemi di carattere sociale, come quelli conseguenti a certi espropri di terreni, forse un po’ sbrigativi, che hanno creato non poco malcontento. Peraltro, molti dei vecchi residenti cominciano a spostarsi nelle vicine campagne, dove trovano la possibilità di costruirsi una casetta dignitosa a prezzi decisamente più contenuti. Parallelamente, si accentua il processo di inurbamento, particolarmente intenso negli ultimi anni, che ha fatto saltare ogni previsione, creando non pochi problemi alle autorità cittadine, che si trovano ad avere la rete delle infrastrutture di servizio (scuole, strade, centri sanitari, abitazioni ecc) sottodimensionate. Si potrebbe dire che Kigali è vittima del suo stesso successo. Indubbiamente ci troviamo di fronte a una città che non ha nulla da invidiare anche a molte città europee, forse non a Zurigo come qualche giornalista fin troppo compiacente la ha paragonata. Quindi, ben si comprende il forte richiamo che la stessa esercita sulle popolazioni delle campagne, dove gli stili di vita cittadini e le opportunità offerte dalla capitale non sono ancora arrivati e, prevedibilmente, non arriveranno in tempi brevi. Sono particolarmente i giovani, attratti dal richiamo di possibili nuove opportunità di reddito e di un tenore di vita migliore, a ingrossare le fila dei nuovi arrivati.
Sopra: Kigali city tower che si candida a diventare il simbolo della skyline della capitale. Si tratta di una costruzione di 20 piani, posta al centro della città, capace di ospitare uffici, banche, negozi vari, un supermercato, una sala cinematografica oltre che spazi espositivi e quattro piani di parcheggi sotterranei. Un ristorante discoteca, posto all’ultimo piano e sul terrazzo, si candida a diventare il luogo più alla moda della città. A sinistra: una zona residenziale di nuova realizzazione PARTE I - Kigali, la capitale
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Reportage Monsieur Sina: una bella storia rwandese Tale fenomeno non manca di creare qualche risvolto negativo anche in termini di sicurezza, come lamentano le stesse autorità cittadine. Infatti, per la gran parte dei nuovi arrivati le delusioni saranno immediate; scopriranno a loro spese che la città non è in grado di offrire una risposta alle loro attese. Ben presto rimpiangeranno ciò che hanno lasciato: la solidarietà della comunità del villaggio e quanto può loro offrire la campagna che, con un po’ di buona volontà e voglia di fare, può ancora fornire risorse sufficienti per una vita dignitosa. Il fenomeno dell’inurbamento e il conseguente abbandono delle campagne è comune all’intero continente africano e in altri paesi sta assumendo connotazioni ben più gravi di quelle richiamate dalle autorità rwandesi. Si pensi che, nel vicino Kenia, le baraccopoli di Nairobi ospitano più di due milioni di abitanti, distribuiti su oltre 200 nuclei di cui il più consistente, quello di Kibera, ospita da solo quasi un milione di abitanti , avendone Nairobi oltre quattro milioni. Il fenomeno in Rwanda è fotografato da questi dati: su una popolazione complessiva che sfiora ormai gli 11 milioni, la popolazione urbana è passata dal 10 per cento nel 2000 al 18 per cento nel 2008, con previsioni di crescita anche per i prossimi anni. Parallelamente si è assistito a una diminuzione della popolazione agricola, scesa dal 90 per cento nel 2000 a ormai quasi il 75 per cento. Una veduta della periferia di Kigali
PARTE I - Kigali, la capitale
Post it Ma il Rwanda non è solo Kigali Dopo aver monopolizzato l’interesse dei media di tutto il mondo in occasione del tragico epilogo della guerra civile del 1994, il Rwanda ricompare di tanto in tanto sulla stampa; anche i grandi quotidiani italiani dedicano periodicamente pezzi al Rwanda. Ne esce sempre il solito ritratto, già scritto da tanti altri : strade ben curate, luce e acqua dappertutto, niente sacchetti di plastica, moderni progetti di edilizia residenziale, informatizzazione diffusa, parlamento con una maggioranza rosa e via di seguito. In una parola, quella che, tra addetti ai lavori, si direbbe una bella “marchetta”. Purtroppo, per molti giornalisti scrivere del Rwanda significa limitarsi a presentare i progressi della sua capitale: un pezzo veloce, infarcito delle solite note di colore, standosene comodamente sul terrazzo di uno dei nuovi alberghi della capitale, sorseggiando una fresca Primus, la birra locale. Se poi sei arrivato a Kigali a spese di una delle società di pubbliche relazioni che, dovendo curare l’immagine del nuovo Rwanda ogni tanto fanno arrivare in redazione inviti per un viaggio in Rwanda, ancora meglio; al giornale non avranno fatto difficoltà ad autorizzare il viaggio e la società di pubbliche relazioni potrà presentare la sua bella rassegna stampa al committente. Mai una volta che questi giornalisti escano dalla capitale e si spingano nel Rwanda delle campagne e delle colline, misurandosi con la dura e ben diversa realtà dei villaggi. Letto l’articolo che idea si potranno fare i lettori degli “stili” di vita degli altri otto milioni di rwandesi che vivono al di fuori della capitale e delle altre principali città del paese? Ottobre 2010 pag. 36
Cosa hanno in comune la boccetta di olio aromatizzato femminile; il signor Sina sposa una figlia del padre adotAkabanga, il succo concentrato di macacuja, il posto di tivo, consolidando così i suoi legami familiari. Alla morte ristoro di Nyarangarama sulla strada Kigali-Ruhengeri, del padre adottivo eredita la gestione dell’impresa di famidove in occasione della missione Kwizera 2009 si è tenuto glia che ben presto, dimostrando da subito di avere grandi il pranzo che fece seguito all’inaugurazione dell’acquedot- capacità, forte spirito imprenditoriale e indubbio fiuto per to di Kiruri? Queste e tante altre realtà sono riconducibili il business, riesce a diversificare nei vari settori che abbiaa uno dei principali gruppi agro-industriali del paese: Ur- mo visto all’inizio. Oggi il signor Sina è uno degli esponenwibutso. Visitandone il sito http://www.sina.co.rw/ si ha ti più rappresentativi dell’imprenditoria rwandese, conocon immediatezza la rappresentazione dei vari settori ri- sciuto anche all’estero dove spesso si reca per partecipare entranti nella sfera a fiere internad’azione di questo zionali, in cui, a gruppo industriavolte, i suoi prole. Si va dall’agrodotti ottengono alimentare (alqualche riconolevamenti di scimento. Il sito diverse specie anidel suo gruppo mali, produzione segnala che sono di succhi di frutta oltre quattrocene marmellate e di to i dipendenti altri prodotti alidiretti mentre la mentari) alla prosua produzione duzione di mateagroalimentare riali per l’edilizia è certificata ISO (mattoni, tegole), dal 2007. fino ai mobili, alla M o n s i e u r ristorazione, ai Gérard è una fitrasporti e al comgura indubbiamercio di svariate mente di rilievo merci. con la quale saDietro a questo rebbe intrigante conglomerato, di poter scambiaper sè interessan- Il signor Gerard Sina riceve un premio dal Presidente Paul Kagame in occasione della festa del re qualche imte nella sua arti- 1° maggio 2009 fonte http://www.flickr.com/photos/paulkagame/ pressione, magari colazione produttiva e nella sua filosofia industriale così davanti a un piatto fumante di umufa, bollito di capra o rappresentata sul sito “crescita, innovazione, impegno manzo, piatto tipico servito nel suo ristorante di Nyiranper la qualità dei nostri prodotti e servizi e il rispetto delle garama. Per ora accontentiamoci di essere suoi clienti; norme ambientali “, sta il signor Gérard Sina, la cui storia come i tanti autisti che percorrono la statale Kigalimerita di essere raccontata. Il signor Gérard era un ragaz- Ruhengeri, anche noi faremo tappa in quella specie di zo di strada di Kigali che fu adottato dal proprietario di un autogrill, aperto 24 ore su 24, che funge anche da quartier bar della capitale e di quello di Nyirangarama sulla strada generale del signor Sina. Per ora segnaliamo questo figlio per Ruhengeri. Da subito preferisce il lavoro alla scuola, del Rwanda che, partendo da umilissime origini, ha sapudedicandosi giovanissimo a seguire gli affari del padre to costruire una storia di successo che ci auguriamo possa adottivo, in particolare gestendo i camion di proprietà per proseguire nel tempo. trasporto merci. Il ragazzo è sveglio e ci sa fare. Come in L’auspicio non è retorico, tenuto conto che , da queste parogni storia di successo che si rispetti non manca il risvolto ti, a volte è difficile difendersi dagli appetiti dei potenti.
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Sulla strada verso i villaggi
F
uori Kigali vivono, in una situazione ben diversa da quella dei fortunati abitanti della capitale, oltre nove milioni di rwandesi, sparpagliati, per circa mezzo milione, tra una decina di città capoluogo e, per il resto, in migliaia di villaggi insediati sulle colline da cui è caratterizzato il Rwanda. Se Kigali può essere accostata con un po’ di forzatura a Zurigo, come recitava il titolo di un grande quotidiano italiano di qualche tempo fa, il Rwanda delle campagne non è ancora la Svizzera d’Africa, anche se nel passato, prima del 1994, lo si diceva. Almeno così riferiscono i rwandesi che conservano la memoria di allora. Per raggiungere le principali città esistono delle strade asfaltate, lungo le direttrici che portano ai paesi confinanti: Uganda, Congo, Burundi e Tanzania. Quasi tutte sono eredità dell’epoca coloniale o successivo dono di singole nazioni. Ci si muove dalla capitale utilizzando pulmini, da una decina di posti, che si irradiano su tutto il territorio, collegando le varie città esistenti. Autobus più capienti collegano Kigali con Kampala o Bujumbura, le capitali dell’Uganda e del Burundi. La velocità di crociera non è delle più elevate per i limiti di velocità abbastanza bassi vigenti sulle strade rwandesi, ma soprattutto per lo stato del fondo stradale disseminato di numerosissime buche che gli autisti devono cercare di evitare con un’andatura a zig zag, inframmezzata da improvvisi stop e frequenti invasioni della carreggiata contraria al senso di marcia. Ogni autista guida di conseguenza: bisogna conoscere ogni buca esistente per disegnare sulla strada le traiettorie migliori per preservare gli ammortizzatori del mezzo e le schiene dei viaggiatori.
Post it I segni della strada
Se viaggiando, comodamente seduti su un fuoristrada, vi accorgete che la persona che cammina sul ciglio della strada si volge verso di voi stendendo la mano, come chi da noi chiederebbe l’elemosina, sappiate che vi sta chiedendo semplicemente un passaggio. Se avete un posto, accoglietela a bordo;infatti, chissà da quanto tempo è già in marcia e quanti chilometri le restano ancora da percorrere. Se invece scorgete sulla carreggiata delle frasche messe di traverso l’una a breve distanza dall’altra, rallentate perché di lì a poco la carreggiata potrebbe essere occupata da un automezzo in panne o coinvolto in un incidente. PARTE I - Sulla strada verso i villaggi
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Piano piano, tale è il buon cammino. Proverbio rwandese
Questo stile di guida è reso possibile da un traffico, quasi sempre, piuttosto scarso. L’unico vero rischio è rappresentato dai grossi autocarri, carichi di benzina e altre merci provenienti dai porti della costa orientale, che s’incontrano sulle strade che conducono verso l’Uganda. Sulle arterie principali si affacciano di tanto in tanto agglomerati di case, con l’immancabile locale che funge da bar, come testimoniano le pubblicità della birra che occhieggiano dai cartelli smaltati appesi all’esterno. Talvolta una di queste case funge da mezzo pubblicitario: l’ultima arrivata fra le tre compagnie di telefonia mobile che operano in Rwanda ha personalizzato con il proprio colore, il blu, e il proprio logo numerose case poste sulle principali arterie. Negli spazi antistanti le case, si possono scorgere donne alle prese con qualche faccenda domestica, come la pulitura dei prodotti agricoli necessari per la preparazione dei pasti, uomini un po’ meno indaffarati, per non dire oziosi in attesa di non si sa che cosa, e immancabili frotte di bambini alle prese con i loro semplici giochi. Al passaggio delle macchine o dei fuoristrada, i bambini interrompono i loro giochi per ammassarsi sul ciglio della strada e salutare festosi i viaggiatori. Se a bordo vi scorgono dei bianchi, faranno seguire gli ampi gesti di saluto con un immancabile e squillante muzungu: il termine con cui in Rwanda si indica il bianco. Per il visitatore è una specie di battesimo: siete arrivati in Rwanda. Da lì in avanti, soprattutto nei villaggi, il termine muzungu vi verrà rivolto da ogni gruppo di bambini che incontrerete, quasi fosse una specie di saluto di benvenuto, immancabilmente seguito da amafaranga che significa “soldi”; il muzungu è il benvenuto, specie se con qualche dono al seguito.
Post it Muzungu, chi era costui? Quante volte ci siamo sentiti indirizzare l’epiteto muzungu dai ragazzini festanti dei villaggi rwandesi, magari accompagnati da un più ruffiano amafaranga, cioè “soldi”. Ma cosa significa il termine muzungu, (al plurale wazungu)? Genericamente è il termine con cui si definisce l’uomo bianco, in particolare l’europeo. L’ etimologia della parola deriva da una contrazione di parole che significa “colui che vaga senza meta” (dalle parole swahili zungu, zunguzungu, zunguka, zungusha, mzungukaji, Intenzionate ad andare in tondo) e fu coniato per descrivere gli esploratori europei e missionari arrivati in Africa orientale nel XVIII secolo. Un amico rwandese ci fornisce una spiegazione diversa e per certi versi decisamente più interessante che riferiamo così come ci è stata raccontata. Secondo questa versione, in Rwanda questo termine sarebbe stato coniato per definire i primi missionari giunti alla corte del mwami a Nyanza a inizio novecento, ma con un significato diverso da quello di “uomini senza meta”. Il muzungu, dal verbo kinyarwanda “kuzungura = “sostituire nel posto”, secondo questa versione, sarebbe colui che potrebbe mettere a repentaglio il potere dei notabili della corte regale sostituendoli nel loro posto, da noi si direbbe facendogli le scarpe. A sostegno di questa versione, denotante i timori dei maggiorenti locali verso questi missionari provenienti da fuori, c’è anche il comportamento assunto dagli stessi maggiorenti di corte. Dapprima invitarono le famiglie a non concedere il fuoco, conservato in ogni capanna, ai nuovi venuti. Quando i missionari dimostrarono di poter accendere il fuoco autonomamente senza aver bisogno che gli venisse trasferito dai residenti, si passò alle maniere forti, incendiando le capanne dove i missionari si erano installati. Quando i missionari si dotarono di abitazioni in muratura e ricoperte da lamiere atte a resistere al fuoco, a corte ci si rassegnò, non senza bollare però i nuovi venuti con il termine di muzungu denotante un malcelato timore che i nuovi venuti si potessero rivelare dei concorrenti insidiosi per i consiglieri di corte. Ottobre 2010
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Camminare fa vedere molte cose. Proverbio rwandese
Altra insidia che si può incontrare è rappresentata dai ponti; spesso uno o più tronchi, con cui sono costruiti, hanno ceduto e allora il passaggio si trasforma in una vera e propria gimkana. Su queste strade si possono incrociare, di tanto in tanto, jeep o camion, pulmini che collegano i vari villaggi o mototaxi. Molto più numerose sono le biciclette, il principale mezzo di trasporto nelle zone rurali, che fungono da taxi e da trasporto merci. Tutte le strade, indistintamente, da quella asfaltata all’ultimo dei sentieri, sono ininterrottamente percorse da un’umanità, la più varia che si possa immaginare, formata da donne, uomini e bambini. Anche di notte, la strada è animata; è facile incontrare persone che muovono i loro passi nel buio più fitto. Le persone procedono ai lati della strada, solitamente uno dietro l’altro, quasi un retaggio del passato quando si percorrevano solo stretti sentieri dove necessariamente bisognava procedere in fila indiana. Sulle strade si incontrano prevalentemente donne: ben curate nei loro vestiti tradizionali e con un incedere fiero quando sono in viaggio verso i centri principali per un adempimento amministrativo, una visita medica o una riunione; alle prese con ogni tipo di merce o di prodotti della terra che portano in capienti ceste poste sulla testa, nei giorni di mercato, quando di buon mattino si spostano nei villaggi vicini per vendere le proprie produzioni o per fare acquisti. Ci sono poi quelle, decisamente meno curate nel vestito, reduci dai lavori dei campi o alle prese con il trasporto dell’acqua nelle classiche taniche in plastica gialla; le accompagnano quasi sempre frotte di bambini. Gli uomini sono spesso alle prese con il trasporto su una bicicletta o sulle spalle di pesi più ingombranti; di frequente si tratta di un casco di banane, appena tagliato nel proprio bananeto con il machete che ancora stringono in una mano. Di tanto in tanto si possono incrociare delle capre condotte al pascolo da bambini, più raramente delle mucche. I bambini sono piuttosto frequenti; sono scolaretti, lo si capisce dalle divise che portano, in viaggio da o per la scuola o bimbetti non ancora scolarizzati, ricoperti al meglio con qualche povero indumento, che fanno della strada la base dei loro giochi. In tal caso, chi è alla guida del mezzo di trasporto deve procedere con molta attenzione e prudenza. Nell’entusiasmo che sempre accompagna il passaggio di un automezzo, specie se con un muzungu a bordo, i movimenti per liberare la carreggiata possono essere imprevedibili, con improvvisi cambi di direzione che non di rado portano qualche bambino ad attraversare all’ultimo momento la strada. Man mano che la presenza di bambini si fa più consistente, aumentano anche i segnali che ci stiamo avvicinando a un centro abitato. Siamo arrivati al villaggio.
Una volta vista Kigali, le altre città rwandesi non vi riserveranno particolari sorprese, anche perché, pur interessate dal processo di sviluppo che sta coinvolgendo il paese, sono ben lontane dal frenetico attivismo della capitale. Danno piuttosto la sensazione di sonnacchiosi centri amministrativi, incapaci anche di intercettare i flussi migratori provenienti dalla campagna che preferiscono puntare direttamente sulla capitale. Per raggiungere i villaggi è necessario abbandonare le strade asfaltate e percorrere le ampie strade in terra battuta, dal tipico color mattone, che s’irradiano attraverso le colline in una ramificata ragnatela che, attraverso successive diramazioni, consente di raggiungere anche il più sperduto agglomerato di case. Nei periodi secchi il fondo stradale sembra quasi levigato, salvo innalzare, al passaggio di un automezzo, cumuli di polvere rossastra che penetra anche all’interno delle autovetture per coprire tutto con una patina che nulla risparmia: le capigliature assumono così improbabili coloriture color rame. Qui, quando si resta in coda a un altro automezzo, il mangiare la polvere non è solo un modo di dire. Quando poi arriva il periodo delle piogge, le strade diventano un serpentone di fango che costringe i mezzi a un lento zig zagare fra le buche che nel frattempo si sono create, facendo molta attenzione a non impantanarsi in salita, piuttosto che scivolare come su una lastra di ghiaccio quando, una volta scollinato, inizia la discesa. Ogni tanto si trovano buche profonde, se non addirittura delle voragini, da cui spunta quale segnale di pericolo un tronco posto verticalmente. Difficili da vedere da lontano, di notte si trasformano in veri e propri trabocchetti, difficilmente evitabili da chi non conosce la strada. Il problema vero è che nessuno si preoccupa di ripararle, tanto che capita spesso di trovarsele davanti, più ampie, anche a un anno di distanza.
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Reportage Nyagahanga-Ngarama: andata e… ritorno Post it La bicicletta La bicicletta è di gran lunga il mezzo di trasporto più diffuso in Rwanda, soprattutto in campagna. Fa da mezzo di trasporto per le persone e per le merci. Lungo le strade sterrate che s’inerpicano sulle colline è frequente incontrare biciclette che fanno da taxi, con il passeggero accomodato sul sellino posto sulla ruota posteriore e il guidatore impegnato a
Sabato l’appuntamento era a Ngarama per procedere, nell’ambito del Progetto Mikan, all’assegnazione delle capre al Gruppo di quella parrocchia. Si era deciso, anche per l’assenza di Don Paolo e della sua jeep, di fare il percorso Nyagahanga-Ngarama, rigorosamente a piedi. All’andata tutto è proceduto per il meglio. Infatti, con un passo di marcia spedito in due ore e mezza si sono coperti i circa 12 km della distanza tra le due parrocchie con una certa scioltezza. Il percorso su strada sterrata comprendeva lo scavalcamento di una collina, l‘attraversamento
pigiare sui pedali nei tratti in cui la pendenza lo permette.
L’arrivo a Ngarama
Quando la salita si fa più dura si scende e si spinge, salvo poi recuperare quando si scollina e ci si tuffa in discese mozzafiato, anche quando la strada è sterrata. L’abilità dei guidatori è fuori discussione! Sui pochissimi tratti in asfalto sembrano ciclisti professionisti. Mancando, in Rwanda come in moltissimi altri paesi africani della fascia equatoriale, qualsiasi animale da soma (il cui mantenimento è ritenuto troppo oneroso in termini di alimentazione) la bicicletta è in pratica l’unico mezzo a disposizione degli abitanti dei villaggi per trasportare merci. E’ per questo che sulle strade s’incontrano biciclette stracariche di caschi di banane, di sacchi di fagioli o di farina, di casse di birra e di tanto altro. Le biciclette, caricate all’inverosimile, non possono più essere condotte dal guidatore ma solo spinte. A volte si vedono anche dei carichi molto particolari. Avete provato a contare quante galline ci sono sul sellino della bicicletta riportata qui a sinistra?
di un villaggio abitato esclusivamente da mussulmani, come si poteva dedurre dalle scritte di un apposito cartello di un programma d’aiuto di una fondazione islamica e dal tradizionale velo sul capo delle donne, e, infine, il passaggio in una pineta, dove ti aspettavi da un momento all‘altro d‘imbatterti in un fungo. Adempiuto al previsto impegno dell’avvio del gruppo del Progetto Mikan, ci si è concessi un veloce pranzo a base di brochette di capra, patate fritte, ananas e birra. Sul finire del pranzo un fortissimo temporale , oltre a obbligarci a prolungare i tempi di permanenza nel locale, rendeva le strade particolarmente scivolose tanto da farci escludere immediatamente la possibilità di utilizzare, per il ritorno, il pick up gentilmente messoci a disposizione dalla parrocchia di Ngarama. Incoerentemente con questa prima decisione ripiegavamo sul noleggio di uno di quei furgoni taxi che attraversano il paese in lungo e in largo su qualsiasi tipo di strada. Dopo aver contrattato il prezzo del viaggio prendevamo posto a bordo: sedili sconnessi, pezzi mancanti, odori intensi e non del tutto gradevoli. A bordo s’infilavano anche due passeggeri a noi sconosciuti, che tentavamo di far allontanare ritenendoli dei portoghesi. In qualche maniera il guidatore proprietario del taxi ci fece capire che dovevano restare a bordo.
Si parte con un caldo invito di Angelo al guidatore di andare molto buhoro buhoro..adagio, adagio. I primi 4 chilometri di strada pianeggiante filano via regolarmente, anche se tutti avvertiamo la debole tenuta di strada del mezzo su un fondo stradale decisamente scivoloso. Qualche scaramantico richiamo a ciò che potrebbe riservarci la discesa su Nyagahanga cerca di alleggerire la situazione. Appena la strada inizia a impennarsi il pulmino dà segni palesi di insubordinazione al suo autista, che per parte sua sembra avere un rapporto conflittuale con la frizione: le ruote posteriori girano a vuoto e il furgone ancheggia. Dopo un tratto di stop and go, a un certo punto il furgone si blocca e non c’è verso di farlo ripartire. A questo punto i due ospiti/portoghesi aprono il portellone e balzano a terra: sono gli spingitori. Cominciano a spingere sollecitando l’aiuto di qualche ragazzino che passa per strada: riescono a far ripartire il furgone. Va avanti così per tre volte, poi si rende necessario l’intervento anche dei bazungu: scendiamo e spingiamo. A questo punto si capisce che non si può andare avanti così. Si contratta lo scioglimento del contratto con l’autista che sembra sollevato dal non doversi sobbarcare un simile viaggio. Si prosegue a piedi. Mancano almeno un paio di chilometri allo scollinamento, sono quasi le sei e comincia a farsi sera. Il buio ci avvolge in cima alla collina, unitamente alla preghiera del muezzin che un altoparlante irradia da una piccola moschea dell’enclave musulmana che avevamo attraversato al mattino. Ancora dieci minuti ed è buio pesto: il meno imprevidente della compagnia cava da una delle tasche della cacciatora una provvidenziale pila che consente di intravedere, seppur faticosamente, dove si mettono i piedi. Si va avanti così per almeno tre chilometri in attesa che arrivi una macchina, chiamata dal vicario don Jean Nepomaceno, a recuperarci. La troveremo più avanti ferma in mezzo alla strada bloccata da un guasto in via di accertamento. La superiamo, sempre camminando con una certa attenzione per non incorrere in qualche fatale scivolata. Quando ormai siamo alle viste di Nyagahanga, veniamo raggiunti dalla macchina che doveva recuperarci, di cui avevano nel frattempo individuato e riparato il guasto. Per educazione, non possiamo fare a meno di salire a bordo, ma lo facciamo con lo spirito di chi si vede scippata una vittoria: ancora mezzo chilometro ed eravamo alla meta… a piedi alla faccia di tutti! Agosto 2009
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Al villaggio
L’insegna e i colori della compagnia telefonica Tigo caratterizzano molte abitazioni che si incontrano sulle strade rwandesi più trafficate.
Q
uando ai bordi delle strade sterrate che collegano i vari villaggi cominciano a fare la loro comparsa le prime case e poi, proseguendo, via via le case si fanno più frequenti e le persone che s’incontrano, specie bambini, diventano più numerose, siamo alle viste del villaggio. A volte si ha la sensazione di entrare in uno di quei villaggi tante volte visti nei film western del passato: un susseguirsi di case disposte ai lati della strada, di dimensioni abbastanza contenute, costruite in mattoni e con i tetti in lamiera, spesso dipinte con colori vivaci, dove la fan da padrone le varie gradazioni che vanno dal celeste al blu. Quasi tutto il villaggio si sviluppa ai bordi della strada principale, che diventa così il cuore pulsante della vita della comunità, su cui si affacciano le poche e minuscole attività commerciali presenti in ogni villaggio: un negozio con generi di prima necessità, un baretto, a volte un piccolo locale ristorante. Naturalmente il tutto dimensionato alla realtà locale. Sotto i portici, di cui sono dotate le tipiche case dei villaggi più importanti, è facile imbattersi in qualche artigiano alle prese con le proprie attività: una sarta o un sarto chini sulla propria macchina per cucire che lavorano tranquillamente tra il via vai dei passanti, piuttosto che qualche donna intenta a intrecciare cesti. I villaggi più popolosi possono avere anche uno sportello bancario. Ogni villaggio ha un presidio sanitario, gli edifici scolastici per il primo ciclo educativo e anche più di un luogo di culto; non è, infatti, infrequente imbattersi nello stesso villaggio con la chiesa cattolica, quella protestante, la sala del regno dei testimoni di Geova e, in certe zone, pure un locale adibito a moschea.
PARTE I - Al villaggio
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PARTE I - Al villaggio
Un negozio e una sarta al lavoro
Sotto: il villaggio di Nyagahanga
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Al di fuori dei villaggi, man mano che ci si inoltra nella campagna o ci si inerpica sulle colline, le case che s’incontrano denotano i segni di una povertà accentuata, fino ad arrivare a situazioni di grave degrado.
Colpisce che anche nei villaggi più sperduti ci si imbatta nell’insegna della rivendita delle ricariche telefoniche: il telefonino è arrivato anche in campagna, contagiando tutti, soprattutto i giovani. Il governo ha, infatti, privilegiato la diffusione della telefonia mobile piuttosto che portare la rete fissa sul territorio. In compenso, pochi sono i villaggi raggiunti dalle linee elettriche. La distribuzione dell’energia elettrica, al di fuori della capitale e delle restanti città, è uno dei problemi ancora da risolvere in Rwanda. Secondo le statistiche ufficiali la rete elettrica serve attualmente solo il 9,5 per cento della popolazione, percentuale significativamente analoga a quella dei rwandesi residenti nelle principali città. Il governo ha in progetto di portare tale percentuale al 16 per cento entro il 2012. La percentuale sembra seguire il trend del processo di urbanizzazione, lasciando praticamente esclusa gran parte della popolazione delle campagne, dove è oggettivamente molto oneroso creare l’infrastruttura distributiva dell’energia elettrica. D’altra parte, lo sviluppo socio economico delle zone rurali del paese non può prescindere dall’accesso all’elettricità distribuita, essendo ancora eccessivamente oneroso il ricorso a forme autonome di produzione elettrica proveniente dai pannelli solari, che possono al massimo risolvere il problema di singole realtà come scuole o uffici pubblici. Nei villaggi resta l’alternativa di qualche raro elettrogeneratore funzionante a gasolio, che deve però scontare l’altissimo prezzo del combustibile. Nelle case l’illuminazione è garantita con lampade a petrolio o con qualche candela. In realtà, al calar della sera sono veramente rare le luci che si accendono nei villaggi: può anche capitare di trovarsi ospiti in una casa a chiacchierare al buio senza vedere il proprio interlocutore in faccia.
PARTE I - Al villaggio
Post it
Post it
Il telefonino
By by Nyakatsi
Il più grande fenomeno tecnologico di massa dell’ultimo ventennio, ancor più del pc, è sicuramente il telefono mobile. La sua diffusione è stata rapida e ha interessato ogni latitudine del mondo. Anche in Rwanda il fenomeno ha contagiato ogni strato sociale, dalla capitale fino all’ultimo dei villaggi. Sono ormai oltre tre milioni gli utilizzatori del telefonino, distribuiti fra tre compagnie telefoniche a capitale straniero che operano nel paese. Le tariffe applicate, nonostante il ben diverso livello del costo della vita, non si discostano molto da quelle europee. Ma sono altri i segnali che denotano quanto il telefonino abbia fatto presa sul rwandese. Sette del mattino all’uscita di chiesa a Byumba: un ragazzino già impugna il proprio telefonino per messaggiare. Alla stessa ora due giorni dopo: interno chiesa di Nyagahanga, una suoneria telefonica interrompe l’atmosfera di raccoglimento con cui decine di fedeli seguono la Santa Messa. Sembrerebbe di trovarsi in una qualsiasi chiesa italiana in cui troppo spesso fedeli disattenti o maleducati lasciano accesso il proprio telefonino. Altro episodio. In viaggio verso Nyagahanga: improvvisamente, nel buio della notte rwandese, i fari della jeep inquadrano la sagoma barcollante di un uomo che avanza con fare incerto, impugnando in una mano una birra, rigorosamente da 72 cl, e nell’altra un telefonino acceso che gli serve come pila per illuminare i suoi incerti passi. Settembre 2010
Le abitazioni con tetti di paglia, ancora molto diffuse nei villaggi rwandesi e localmente conosciute come Nyakatsi, sono destinate presto a scomparire, o almeno a vedere il loro tetto sostituito da coperture in lamiera.
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Questo è quanto si propone una campagna governativa che le autorità locali stanno attuando con decisione su tutto il territorio. L’opera di sensibilizzazione incontra però qualche resistenza, anche perché l’onere per sostituire i tetti non è certo indifferente, anche se per i più bisognosi è prevista la fornitura da parte dello Stato delle lamiere necessarie. Il progetto, pur tra qualche inevitabile mugugno da parte degli abitanti delle campagne, prosegue comunque con decisione; anche perché per i responsabili amministrativi locali sembra questo uno dei progetti su cui saranno misurati nella loro attività. Così, localmente le autorità locali si danno da fare, spesso anche con metodi un po’ troppo sbrigativi che creano scontento, per sottoporre le case Nyakatsi a questa opera di “modernizzazione”. A sostegno del progetto si sta muovendo anche la Diaspora rwandese con una raccolta fondi denominata appunto “by by Nyakatsi”. Dicembre 2010 PARTE I - Al villaggio
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Il problema dell’acqua è fotografato nel rapporto annuale dell’ONU sullo sviluppo
Chi attinge l’acqua contro voglia, riempie sempre il secchio di acqua sporca.
umano che evidenzia come 35 rwandesi su
Proverbio rwandese
100 non abbiano accesso a una fonte d’acqua, collocandosi al 122 posto al mondo.
Nella vita domestica esiste anche il grave problema della disponibilità dell’acqua, il cui reperimento richiede spesso che si percorrano lunghe distanze per raggiungere una fontana o una sorgente, un pozzo o, quando non c’è di meglio, anche uno stagno con un’acqua non propriamente potabile. Questa incombenza era nel passato una prerogativa delle donne, che con pesanti brocche di argilla, portate sulla testa, provvedevano alla bisogna. Con l’introduzione della plastica, con cui si fanno taniche leggerissime e di diverse dimensioni, questo compito è passato ai ragazzi e ai bambini. Così sulle strade o ai posti di rifornimento si vedranno ragazzi alle prese con taniche di una certa dimensioni e trasportate spesso sulle biciclette, o bambini, con la loro bella baby tanica tutta gialla, che danno in questo modo il loro contributo all’economia familiare, liberando le mamme per altre incombenze domestiche. Oltre al disagio dovuto all’approvvigionamento, va sottolineato come troppo spesso si beva acqua inquinata che provoca inevitabili conseguenze sulla salute, soprattutto dei bambini. Si capisce così come tra gli interventi più ambiti, tra quelli promossi dalle organizzazioni internazionali e di volontariato, ci sia quello di costruire acquedotti per convogliare le acque dalle sorgenti o dai corsi d’acqua che scendono dalle colline fino ai villaggi. Spesso tocca invece pompare l’acqua dai pozzi per portarla in cima a una collina, come nel caso della città di Byumba che, trovandosi oltre i duemila metri d’altitudine, non ha disponibili sorgenti. Nei periodi delle piogge si raccolgono le acque piovane dai tetti e si convogliano in capienti cisterne di plastica nera creando così riserve d’acqua per uso domestico.
PARTE I - Al villaggio
A sinistra: una vecchia fontana pubblica presso cui si fa il pieno Sotto: una delle moderne fontane dell’acquedotto di Kiruri
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Nei villaggi le persone vivono di agricoltura, coltivando i campi del fondo valle o quelli ricavati, grazie ai terrazzamenti, sui fianchi delle colline Si coltivano fagioli, patate anche nella varietà dolce, verze, manioca, riso, sorgo, grano e diverse specie di frutta come ananas, papaia, avocado, manghi e maracuja. Nei terreni paludosi di fondo valle viene praticata la risicoltura. Diffusissimi sono i bananeti. La banana è la principale fonte dell’alimentazione degli abitanti dei villaggi; ci sono le banane dolci, che conosciamo, e il tipo che si cuoce in umido o si frigge e fa da contorno. Con la banana fatta fermentare si ottengono anche una birra e del vino. Si può dire che ogni famiglia, anche la più povera, disponga di qualche pianta di banano. Le uniche coltivazioni che garantiscono una produzione di un certo livello, che vada al di là della semplice agricoltura di sopravvivenza, sono il the e il caffè. Questi due prodotti hanno, infatti, uno sbocco nell’esportazione e rappresentano una voce significativa della bilancia commerciale rwandese. Il lavoro dei campi è prerogativa quasi esclusiva delle donne e dei ragazzi che imparano già da piccoli a cimentarsi con la terra.
Campi di patate dolci
Raccolta del the Sotto: fiore di banano e piante di papaia
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Chi vuol nutrire un ventre sazio rischia la rissa. Proverbio rwandese
Alla coltivazione dei campi si affianca l’allevamento: due mondi, quello degli agricoltori e degli allevatori, storicamente distinti e sempre in competizione, qualche volta anche con forme cruente, per disputarsi la disponibilità degli scarsi terreni rwandesi. L’allevamento principe è quello delle mucche; quelle rwandesi sono caratterizzate dalle grandi e bellissime corna ma da un’estrema scarsità di latte prodotto che non supera i tre litri al giorno. Recentemente, si è cominciato a introdurre nuove razze bovine, con una resa lattifera decisamente superiore a quella delle mucche autoctone. La mucca è un animale con un rilevante ruolo sociale nella storia rwandese. Il numero di mucche possedute era segno di ricchezza e un discrimine del ruolo sociale del proprietario. Nel passato, l’allevamento era una prerogativa quasi esclusiva delle famiglie pastorali tutsi, anche se l’allevamento non era precluso alle famiglie hutu, tradizionalmente dedite all’agricoltura, che anzi se riuscivano ad avere più di 10 mucche potevano aspirare ad essere cooptate nel gruppo detentore del potere. Nel periodo coloniale, il numero di mucche posseduto fu il parametro usato dai belgi per una sbrigativa attribuzione di appartenenza etnica (hutu, tutsi) in sede di censimento. Oltre alle mucche sono molto diffuse le capre, allevate solo per la loro carne, non producendo latte. Altri animali allevati nelle campagne sono i conigli e le galline, oltre che i maiali. La ricca vegetazione favorisce anche l’apicoltura, effettuata con
metodi tradizionali a cui, lentamente, si affiancano anche quelli moderni. I prodotti dell’agricoltura sono alla base della povera alimentazione degli abitanti delle campagne. Nei villaggi di norma si consuma un pranzo al giorno, alla sera, salvo se si va a lavorare nei campi, quando si consuma qualcosa anche a mezzogiorno. Un pranzo rwandese è fatto di riso, patate e verdure varie. Si cucina anche una polenta, dal colore grigiastro, con la farina di manioca. Sono però i fagioli e le banane, fritte o stufate, gli alimenti principali che compaiono nei piatti dei rwandesi. Si mangia carne, prevalentemente di capra, solo di rado e in occasione di grandi feste. Famosissimo piatto tradizionale rwandese è la brochette, spiedino di carne di capra che si consuma anche nei bar di villaggio, accompagnato da patate o banane fritte. In prossimità dei molti laghi esistenti nella terra delle mille colline, è possibile mangiare la tilapia, un ottimo pesce che viene servito al forno o alla brace. I rwandesi amano il cibo saporito e quindi vedrete spesso insaporire le portate con qualche goccia di un condimento particolare, l’Akabanga, una piccantissima soluzione di peperoncino giallo e olio. Un paio di gocce bastano per insaporire una zuppa; di più si rischia l’inferno in gola. Un discorso a parte merita il bere. Oltre alla bevanda ricavata dalla fermentazione della banana, si consuma una birra di sorgo fatta in casa. Quando c’è una festa oppure al bar, si beve dell’ottima birra tradizionale, imbottigliata in Rwanda su licenza europea.
Post it Cucina e lingua Giocando sull’assonanza tra due parole haricot (fagioli in francese) e ariko (però in Kinyarwanda)- si dice che in Rwanda non c’è pranzo senza haricot né un discorso senza ariko. Il calembour dà conto di una caratteristica del rwandese sempre attento a infarcire i propri discorsi con prudenti distinguo – l’immancabile ariko - così da non lasciar trasparire chiaramente la propria opinione.
Post it Agricoltura dirigistica Da un po’ di tempo viene segnalata con una certa preoccupazione un eccesso di dirigismo con cui le autorità rwandesi intervengono sull’agricoltura del paese. In particolare, vengono imposte agli agricoltori determinate coltivazioni, a seconda delle zone del paese, nel tentativo di superare una pura agricoltura di sussistenza, quale quella finora presente nelle campagne rwandesi. Le buone intenzioni delle autorità rischiano però di ledere fortemente l’autonomia delle famiglie, privandole dei raccolti, a partire dalle banane, su cui fin qui potevano contare, lavorando l’ appezzamento di terreno di cui quasi ogni famiglia dispone. PARTE I - Al villaggio
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PARTE I - Al villaggio
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Dall’inviato Due passi al mercato Il mercato è lo snodo dell’economia delle campagne. Qui vi si trova di tutto: dai prodotti agricoli, agli animali, alle attrezzature, a cianfrusaglie varie e a cose usate. Capita anche di vedere un volonteroso calzolaio itinerante che cerca, in qualche modo, di riparare vecchie scarpe ormai deformate dai tanti chilometri percorsi. Quando tutti i venditori hanno imbandito il proprio banchetto, magari un semplice telo steso per terra, il colpo d’occhio è veramente appagante: le merci esposte formano una tavolozza variegata di colori su cui aleggia, penetrante, un mix di odori. Come da noi, ogni villaggio ha il proprio giorno di mercato e la propria specializzazione; i villaggi più importanti hanno anche uno spazio coperto. Al mercato affluiscono persone da tutto il circondario per fare acquisti; da più lontano arrivano invece i venditori che si sobbarcano ore di cammino per poter esporre i propri prodotti nella speranza di poter racimolare un po’ di soldi. Per questo nei giorni di mercato le strade attorno al villaggio interessato sono particolarmente animate ben prima dell’alba fino al tardo pomeriggio, quando si fa ritorno a casa carichi di acquisti portati rigorosamente sulla testa o, per i più fortunati, a cavallo di una bicicletta.
PARTE I - Al villaggio
Ogni volta che mi reco in Rwanda non posso fare a meno, durante la permanenza, di visitare i mercati sparsi nei piccoli villaggi; questi rappresentano il principale punto di commercio e scambio di merci, ma sono anche, luogo di incontro per le tanto preziose relazioni umane. Uno dei mercati più belli e caratteristici che ho visitato in questi anni è quello di Byumba. Situato vicino alla stazione dei minibus il mercato è una vera e propria “isola” densa di colori, di odori forti e persistenti, ma anche di merci improbabili ed inaspettate. Puoi trovare di tutto, dalle bottiglie di plastica usate, ai barattoli d’olio bruciato chiamato “vidange” che viene utilizzato come vernice per rendere più resistenti al tempo le strutture costruite con il duro legno africano. Non mancano gli oggetti usati, come le pile, le scarpe, mentre i venditori di caramelle e sigarette sfanno i pacchetti e vendono i loro prodotti anche uno alla volta. Passeggiando tra le numerosissime bancarelle si resta stupiti della varietà di colori che animano le straordinarie rivendite. Tavoli pieni di frutta dagli inconsueti profumi si affiancano a banchi di pesce, dall’odore fastidioso e penetrante, che anche molti rwan- Veduta del mercato di Byumba desi evitano di mangiare. I venditori chiamano volentieri alla loro rivendita noi bianchi gridando: “muzungu nguino hano” (bianco vieni qui) convinti di poter strappare un buon affare e magari, approfittando della nostra inesperienza, affibbiarci qualche cosa difficile da piazzare. Ti chiedono un prezzo più alto, ma quando gli fai capire che non sei disposto a pagare in eccesso ti dicono: “angahe” che vuol dire (quanto offri) e dopo una breve trattativa ti chiedono il prezzo onesto. Sono cortesi, ti invitano a visionare la merce esposta, ma non sono insistenti, sperano che tu possa trovare qualche cosa che ti piace e riuscire così a chiudere l’affare e portare a casa qualche cosa per sfamare i numerosi bambini. Oltre
Scene dal mercato di Nyagahanga
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PARTE I - Al villaggio
alle piccole ma organizzate bancarelle, molte famiglie si recano al mercato per vendere quello che è avanzato della produzione familiare. È facile incontrare per la strada donne che si recano alle contrattazioni, accompagnate dai figli, per vendere magari un casco di banane, un po’ di manioca o di maracuja e perché no, un pollo o un piccolo capretto. Gli uomini invece portano, per destinare alla vendita, pesanti taniche di birra fatta in casa con le banane, chiamata uruguagua, o realizzata dalla lavorazione del sorgo, cereale molto utilizzato nella zona dei Grandi Laghi. Mentre passeggio curioso, tra le numerose bancarelle del popoloso mercato, poso lo sguardo su una originale vendita di stoffe che i Rwandesi chiamano “panie”. Vengono utilizzate per realizzare vestiti, ma le donne più povere se le avvolgono ai fianchi ed ecco fatta una bella sottana, mentre chi può permettersi di pagare il sarto riesce ad ottenere graziosi e variopinti indumenti. Seduta al centro della colorata bancarella, una ragazza sorride e mostra ai probabili acquirenti le numerose stoffe, preoccupandosi di sfilarle prontamente per dimostrare l’ottima qualità del tessuto e conquistare la vendita. Lo stand più sgradevole da visitare è dove si vendono le carni macellate: non esistono frigoriferi, le bestie squartate sono appese in bella vista, le mosche affollano la bancarella e si lanciano in picchiata come aerei da caccia in combattimento sui capretti dilaniati. L’odore è forte, il clima non aiuta la conservazione di prodotti delicati come la carne e i tempi di conservazione sarebbero brevissimi, della serie “visto e mangiato”, ma qui usa così e, o per amore o per forza, chi è così fortunato da potersi permettere un pezzo di carne, deve adattarsi anche a questo. Mi allontano velocemente dall’infausta visione e continuo a vagabondare curioso sotto gli sguardi sorridenti di commessi e acquirenti. Angelo Bertolucci
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La scuola
Q
La scuola di Kibali: un complesso di 28 aule scolastiche. E’ frequentata da 2.250 alunni, suddivisi su due turni giornalieri, uno mattutino e uno pomeridiano, e vi operano 34 insegnanti.
uasi ogni villaggio può contare su un centro scolastico, composto di uno o più edifici, spesso di costruzione recente quale risultato di un programma governativo volto alla realizzazione di nuove aule, e dall’immancabile pennone con la bandiera nazionale. Ogni edificio è composto da tre o più aule capaci di accogliere, sistemati in banchi da due o tre posti o su semplici panche, anche più di cinquanta alunni ciascuna. Infatti, il numero medio di una classe è estremamente elevato, aggirandosi a più di quaranta alunni. Spesso, in situazioni di particolare sovraffollamento, le lezioni si tengono anche all’aperto, all’ombra di un albero. Naturalmente, diversamente da quanto succede da noi, è previsto un solo insegnante per classe che si sobbarca, a volte, anche un doppio turno d’insegnamento; infatti, attualmente esiste un insegnante qualificato ogni 63 scolari. Gli insegnanti di scuola elementare percepiscono uno stipendio mensile che va da circa 50 fino a 140 euro, a seconda del grado di istruzione posseduto, dal diploma di scuola secondaria alla laurea. La nuova scuola di Kiruri realizzata nel 2010 da Kwizera
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Il futuro del Rwanda: secondo gli ultimi dati disponibili, il 41 per cento della popolazione ha meno di 15 anni di età.
L’anno scolastico inizia a gennaio e termina a settembre, con un breve periodo di vacanze ad agosto. Si va a scuola in divisa, anche nel più sperduto dei villaggi: i bambini prevalentemente in pantaloncini e camicetta color caki e le bambine in grembiulone bluette; in certe zone è previsto anche un maglioncino che varia di colore a seconda della scuola. In città, le divise sono un po’ più ricercate, in particolare in certe scuole private di Kigali. Maestre e maestri indossano un grembiule bianco. Gli scolari si presentano a scuola con materiale scolastico ridotto al minimo: una penna, un quaderno e una specie di sussidiario di una cinquantina di pagine, spesso condiviso con altri alunni, contenente nozioni di educazione civica, di geografia e altre di base. In realtà, se si assiste all’entrata in classe si scoprirà che diversi sono gli scolari che non hanno con sé alcunché. I programmi governativi prevedono un ciclo scolastico primario obbligatorio di sei anni, che dal 2009 si è arricchito di altri tre anni di istruzione secondaria post elementare. E’ abbastanza difficile dare conto del livello di formazione raggiunto da questi bambini al termine di questo ciclo scolastico obbligatorio. In compenso, è dato conoscere chi sono i bravi e i meno bravi di ogni classe. Curiosamente, infatti, le pagelle scolastiche rwandesi, oltre a riportare la consueta votazione nelle varie materie, riportano la graduatoria in cui lo scolaro si posiziona all’interno della propria classe. Purtroppo, l’obbligo scolastico non sempre è rispettato. Per molti bambini la distanza della scuola e le ore di cammino necessarie per raggiungerla sono motivi che scoraggiano la frequenza scolastica: per altro verso, le famiglie più disagiate a volte trattengono a casa i bambini più grandicelli per impegnarli nel lavoro dei campi o di casa.
PARTE I - La scuola
Post it La lingua inglese nella scuola
La decisione del governo rwandese di rendere obbligatorio l’uso dell’inglese nell’insegnamento scolastico di ogni ordine e grado a partire dall’anno scolastico 2010 è stata parzialmente rivista. L’iniziativa aveva suscitato non poche perplessità, compresa una presa di posizione del vescovo di Byumba, mons. Servilien Nzakamwita, che aveva sottolineato la difficoltà per gli studenti ad adattarsi a una simile scelta. Infatti, è stato ripristinato il Kinyarwanda come lingua d’insegnamento nella scuola materna e nei primi tre anni della scuola primaria, fermo restando l’insegnamento della lingua francese e inglese. Le motivazioni
Così, viaggiando nei villaggi, soprattutto nelle zone più isolate, capita frequentemente di incontrare bambini che palesemente non sono andati a scuola, mentre al di fuori delle scuole è facile imbattersi in bambini, con la loro bella divisa scolastica, che hanno tranquillamente bigiato o si sono semplicemente allontanati dalla loro classe sfuggendo al controllo dell’insegnante. Recenti dati ufficiali indicano nel 76 per cento il numero degli alunni che completano il ciclo scolastico di base, in miglioramento rispetto al 53 per cento del 2008. Dopo i primi sei anni, circa il 90 per cento degli alunni accede ai tre anni di scuola secondaria di base. Tali dati rappresentano una media che deve, molto probabilmente, scontare in positivo la piena scolarizzazione degli alunni che vivono nella capitale e nelle altre principali città; si comprende dunque come nelle campagne il fenomeno del mancato adempimento dell’obbligo scolastico assume connotazioni più marcate. Nei programmi governativi è previsto che l’accesso alla scuola primaria sia gratuito. In realtà tra costo delle divise e dello scarno materiale didattico, oltre al contributo annuo pari a circa tre euro, che comunque viene richiesto alle famiglie per sopperire alle carenze del finanziamento pubblico, l’onere per le famiglie è abbastanza significativo. Basti pensare che il compenso corrisposto ad un contadino per una giornata di lavoro non raggiunge un euro. Per certe famiglie, particolarmente povere, anche questo onere può risultare un disincentivo a mandare i propri figli a scuola. Kagera: asilo all’aperto
addotte, per quella che suona come una parziale marcia indietro rispetto alla precedente decisione, fanno riferimento a ricerche e a studi condotti, anche dall’Unesco, che hanno dimostrato come il bambino apprenda meglio se l’insegnamento avviene nella propria lingua madre. Secondo le autorità, la scelta di mantenere il Kinyarwanda, almeno all’inizio del percorso scolastico, ha lo scopo di preservare la cultura del Rwanda e di garantirne la sopravvivenza, anche perché molti giovani oggi hanno difficoltà a parlare o scrivere in Kinyarwanda. Febbraio 2011 pag. 58
PARTE I - La scuola
Post it Primi passi della scuola materna In Rwanda esistono attualmente oltre 2100 asili frequentati da circa il 13,3 per cento del milione di bambini in età per accedere alla scuola materna, dai tre ai sei anni, che secondo statistiche ufficiali vivono nel paese delle mille colline. Il servizio di scuola materna è assicurato da strutture per il 72 per cento gestite da privati, con un 9,9 per cento in mano allo stato e la quota residua gestita in partenariato pubblico-privato. Attualmente, sono in servizio oltre 4.300 insegnanti con un rapporto di un insegnante per ogni 33,5 bambini. Un rapporto che le autorità giudicano troppo alto e che andrebbe portato a un insegnante per non più di 25 bambini. Attualmente la gran parte degli asili esistenti sono nelle aree urbane, con scarsissima presenza nelle aree rurali. L’auspicio delle autorità rwandesi è che anche le famiglie residenti nelle aree rurali possano beneficiare di queste strutture di accoglienza. Pur prevista dal governo in ogni unità amministrativa, la scuola materna non è da questi finanziata e quindi il relativo onere rimane a carico dei genitori che intendono mandare i propri figli all’asilo. In pratica solo coloro che dispongono di mezzi adeguati possono mandare i figli alla scuola materna. Negli asili più organizzati si paga una retta che può andare dai 1500 ai 15.000 Frw al mese, a seconda del livello del servizio; nei villaggi i genitori si possono organizzare per trovare una custode che prenda in consegna i bambini per un costo decisamente inferiore (in un articolo dell’agenzia Syfia si parlava di 100 Frw al mese), con un servizio però proporzionale alla spesa: scuola all’aperto, seduti sull’erba, niente strutture, niente materiale didattico e, spesso, niente pasto di mezzogiorno. Ottobre 2009 pag. 59
Lettera a un neo laureato rwandese Al termine del primo ciclo scolastico obbligatorio di sei anni più tre, gli stuPost it denti possono accedere a un nuovo ciclo di tre anni, con diversi orientamenti Allo studio un servizio al cui termine si potrà accedere all’università. Le scuole secondarie superiori, nazionale per i neolaureati per cui è previsto un numero limitato di accessi annuali, sono tutte a paga- Il Ministero della Pubblica Istruzione rwanmento; quelle statali prevedono un costo trimestrale a carico delle famiglie dese sta studiando la possibilità di introdurre mediamente di circa 25.000 Frw pari a 30 euro circa, quelle private costi una forma obbligatoria di Servizio Nazionale per i neolaureati che rifiutano l’impegno decisamente superiori. E’ stato avviato di recente anche un ciclo di scuola professionale che nell’insegnamento, piuttosto che in ambito dovrebbe preparare i giovani a entrare nel mondo del lavoro; scel- sanitario o in altri settori pubblici, privileta quanto mai opportuna stante l’estrema difficoltà a reperite ope- giando un’attività professionale più remunerai specializzati nei diversi campi. A conclusione di dodici anni di stu- rata. Si pensa, in proposito, di rendere obbligatorio un periodo lavorativo in ambito dio e dopo aver superato l’esame finale, si può accedere all’università. pubblico prima di poter accedere alle libere La prima università istituita nel paese, per opera dei padri domenicani, è stata professioni. La misura in fase di studio mira l’Università Nazionale del Rwanda (NUR) attiva in Butare dal 1963, all’in- in particolare a far fronte alla grave carenza domani dell’indipendenza. di insegnanti, sia in termini quantitativi che A fronte dei circa 1.800 laureati sfornati dalla NUR nei primi trent’an- qualitativi, che sta penalizzando seriamente ni di attività, attualmente sono oltre sessantamila gli studenti universitari la scuola rwandese. Anche se la misura sembra rwandesi, senza contare quelli che preferiscono le più accreditate univer- improntata a un certo dirigismo, sembra consità ugandesi di Kampala o quelle francofone di Goma, nel vicino Congo. divisibile nello spirito, anche se dovesse riserLa popolazione universitaria è consistente, a testimonianza dell’aspirazione vare risvolti negativi, al momento, non evidenziabili. E’, infatti, sperimentata la scarsa di molti giovani, anche con una forte componente femminile, a conseguidisponibilità dei neo laureati a impegnarsi in re un titolo di studio come chiave di un futuro successo professionale. In attività di sviluppo a favore della loro gente, realtà, non sempre le attese degli studenti si concretizzano per il livello an- a fronte di remunerazioni allineate a quelle cora migliorabile dei corsi universitari e per la limitata domanda di lavoro degli insegnanti. Credendosi dei professioda parte di un’economia ancora prevalentemente agricola. Senza dimenti- nisti affermati, per il semplice possesso di un care anche la scarsa disponibilità dei giovani laureati a mettersi in gioco in diploma di laurea la cui valenza professionale esperienze lavorative che ritengono non all’altezza del loro titolo di studio. è tutta da dimostrare, rinunciano a esperienze Nel complesso, il sistema educativo rwandese, che assorbe circa il 18% del lavorative remunerate e professionalmente arbilancio statale, è atteso ancora da diverse sfide. Si va dal miglioramento qua- ricchenti, come quelle di lavorare con organizzazioni internazionali, per difendere questo litativo degli studi di ogni livello, alla diffusione delle strutture scolastiche nelpresunto status di affermati intellettuali. Il le campagne fino all’innalzamento delle scuole di villaggio a standard meno progetto del governo rwandese pare, quindi, lontani da quelli delle scuole cittadine, dove strutture, insegnanti e strumen- quanto mai opportuno, anche per ricordare tazione didattica sono decisamente diversi. Per esempio, nella capitale e in un qualche dovere di questi giovani rampanti altre città molti alunni sono stati dotati dal governo di lap top appositamente nei confronti della propria comunità, senza studiati per le realtà dei paesi in via di sviluppo. Non da ultimo, lo sforzo inoltre dimenticare i costi sostenuti dal bieducativo messo in campo dalle autorità dovrebbe anche riuscire a intaccare, lancio pubblico per concorrere a garantire il col tempo, l’alto livello del tasso di analfabetismo sopra i quindici anni di età, loro percorso formativo a livello universitario. Gennaio 2010 che si attesta attorno al 35%. PARTE I - La scuola
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Caro amico finalmente hai coronato il sogno tuo e dei tuoi genitori e hai conseguito l’agognata laurea. Ora davanti a te si spalanca la vita. Per cominciare, sarà necessario pensare a mettere a frutto quanto hai appreso nelle aule dell’università e cercare un lavoro che ti consenta di dare concretezza al sogno che condividi con quella compagna di studi con la quale tante volte hai discorso del futuro insieme. Costituire una famiglia, avere una tua dimora, mettere al mondo dei figli dando loro una vita dignitosa. Cercare un lavoro? Più facile a dirsi che a farsi. E’ la medesima cosa che dice il tuo giovane coetaneo italiano neolaureato in informatica, con alle spalle 18 anni di studio (5 alle elementari 3 alle scuole medie 5 al liceo e 5 (3+2) all’università) che appena conseguita la laurea si è sottoposto ad alcuni colloqui di lavoro per trovare un impiego. Purtroppo, forse anche causa la crisi economica che sta interessando un po’ tutto il mondo, non ha avuto la fortuna di trovare un impiego, neppure a tempo determinato. Si è dovuto accontentare di uno stage presso una banca per un compenso di 700 euro mensili. Tieni conto che il vicino di scrivania con cui lavora, dipendente a tempo indeterminato con titoli di studio inferiori, percepisce almeno 500 euro in più con tutti i benefit aggiuntivi (pensione, buoni pasto, mutua). Per darti un’idea, un professore laureato che insegna nelle scuole medie superiori percepisce uno stipendio netto di circa 1.500 euro. Il giovane neolaureto italiano spera che alla fine del periodo di stage, abbia avuto modo di dimostrare le proprie capacità e gli venga quindi offerta la possibilità di avere un contratto a tempo determinato che dopo un paio d’anni si potrà trasformare in un contratto a tempo indeterminato; a quel punto potrà dire di essersi sistemato.
PARTE I - La scuola
Perché ti dico tutto questo? Perché ho appreso che l’offerta di una borsa di studio annuale di 750.000 Franchi rwandesi (pari a più della metà dello stipendio annuo di un professore del tuo paese) che ti è stata offerta da una Onlus italiana, per usufruire delle tue prestazioni nel campo specifico dei tuoi studi, non ha incontrato il tuo interesse. Forse non hai ritenuto la cifra adeguata per una collaborazione che ti avrebbe visto impegnato nella gestione di progetti sul territorio, applicando le tue conoscenze professionali e acquisendo preziose esperienze confrontandoti con i volontari stranieri: uno scambio di conoscenze significative sicuramente utili per i tuoi impegni lavorativi futuri. Ti confesso candidamente che faccio fatica a comprendere questa tua scelta. Ritieni forse che non siano adeguatamente riconosciuti i tuoi studi? Che il lavoro che ti è proposto non sia consono allo status di neo laureato, in quanto rivolto verso i tuoi connazionali più bisognosi? Sei sicuro che i tuoi genitori, che con sacrificio ti hanno permesso di completare i tuoi studi, condividerebbero questa tua scelta? Certo, come per il tuo coetaneo italiano, l’ideale sarebbe di ottenere un posto sicuro e ben remunerato qui (vicino a casa) e subito. Sai però che ciò non è facilmente possibile né in Italia né in Rwanda. Allora forse è il caso di guardare con occhi diversi quella proposta: potrebbe essere l’inizio di un cammino professionale dove cominci a misurarti con le tue conoscenze sul campo, lavorando per la tua gente, con un riconoscimento economico tutt’altro che disprezzabile. Un caro saluto. Il tuo amico Muzungu
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La sanità
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ei villaggi la gente può rivolgersi per l’assistenza sanitaria agli appositi Centri di Sanità dove è possibile ottenere le prime cure, le medicine più comuni e contare sul consulto di un infermiere, più raramente di un medico. L’accesso alle cure sanitarie è coperto da una Assicurazione Sanitaria che garantisce visite mediche (pagando un ticket moderatore di circa 0,25 euro), medicine di base per le malattie comuni (malaria, dissenteria, influenza, medicazioni...) e l’80% dei costi di trasporto in ambulanza (con variazioni a seconda delle zone e delle possibilità dei centri) e di ospedalizzazione (a seconda dei casi e della durata della degenza). L’onere pro capite per questa assicurazione varia da 2500 a 7000 Frw, a seconda delle fasce di reddito. Poiché la quota da versare è per persona, è evidente che un nucleo familiare con un certo numero di figli si trova a sborsare importi che possono diventare abbastanza significativi: una famiglia con cinque figli si trova a dover sborsare 17.500 Frw, più o meno il salario mensile di un contadino che lavora a giornata nei campi per terzi. Nel Centro di Sanità, che è il presidio di base della sanità rwandese, si possono trovare anche alcuni posti letto per i ricoveri più urgenti e per le partorienti che devono obbligatoriamente attendere qui il lieto evento. In tutto il paese ci sono poco più di 400 di questi Centri, uno per ogni circa 30000 abitanti. Ci sono poi 42 ospedali di distretto con qualche attrezzatura in più, con un rapporto di un ospedale ogni 300.000 abitanti, e 5 ospedali di riferimento più completi. Naturalmente per avere cure adeguate, per competenza medica e per attrezzature ospedaliere, bisogna fare ricorso agli ospedali presenti nella capitale. Recentemente è stato realizzato, con fondi americani, anche un importante ospedale a Butaro nel nord rurale del Rwanda, dotato di 152 posti letto, di tre sale operatorie, di tecnologia digitale per “tele-medicina”, di un laboratorio avanzato e una unità neonatale di terapia intensiva.
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PARTE I - La sanità
Al Centro di Sanità di Bungwe
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Chi vuol vivere a lungo viva saggiamente. Proverbio rwandese
L’ospedale dovrebbe porsi come punto di riferimento per il sistema sanitario locale, a partire dagli operatori sanitari sparsi sul territorio circostante e dei centri di sanità esistenti. Anche in altri villaggi si è notato un certo attivismo dell’amministrazione rwandese a migliorare e ampliare le strutture sanitarie esistenti o a realizzarne di nuove. La sanità rwandese deve però fare il conto anche con una grave carenza di personale medico e paramedico; secondo i dati dell’OMS, l’organizzazione mondiale della sanità, vi è un medico ogni ventimila abitanti e un infermiere ogni tremila. Anche la disponibilità di medicine è spesso carente; così malattie che potrebbero essere efficacemente aggredite con adeguate cure rischiano di protrarsi nel tempo, diventando croniche, o evolvendo in forme anche fatali. Tra le malattie con cui quasi tutti i rwandesi devono fare i conti nel corso dell’anno c’è la malaria. Trasmessa per il tramite di punture di zanzara, la malaria è una delle principali cause di morte (circa il venti per cento dei decessi) e si manifesta con dei fortissimi mal di testa e stati febbrili. Purtroppo non ci sono ancora vaccini che possano mettere al riparo da questa malattia; non resta quindi che prendere le necessarie precauzioni per non essere punti dalle zanzare, come quella di dormire protetti da reti zanzariere, magari trattate con insetticidi. Il muzungu che si reca in Rwanda può immunizzarsi in via preventiva con medicinali appositi, che possono però essere assunti per periodi non troppo lunghi, se si vogliono evitare le conseguenze negative collaterali sul fegato. Gli stessi medicinali sono efficaci anche come terapia una volta che si dovesse contrarre l’infezione. La fascia più a rischio in termini sanitari è sicuramente quella infantile, non solo per la malaria, ma anche per tutte le altre patologie conseguenti alla scarsa igiene e al livello di nutrizione non sempre adeguato. Secondo dati ufficiali, quasi il quarantacinque per cento dei bambini rwandesi presenta, infatti, sintomi di malnutrizione a cui le autorità tentano di far fronte con apposite campagne di distribuzione di alimenti e di informazione di base in materia di alimentazione e di igiene che vengono condotte per il tramite dei Centri nutrizionali, molto diffusi nei villaggi più importanti. Anche se la malnutrizione non necessariamente porta direttamente alla morte, tuttavia espone il corpo indebolito dei bambini all’aggressione da parte di altre malattie, come diarrea , malaria e polmonite, contribuendo quindi a circa il 50 per cento dei decessi infantili. Il tasso di mortalità dei bambini sotto i 5 anni è decisamente migliorato nell’ultimo decennio, passando da 186 morti ogni 1.000 nati nel 2000 a PARTE I - La sanità
Post it L’ambulanza tradizionale Nelle zone rurali del Rwanda, capita a volte d’incontrare per strada quattro uomini che portano sulle spalle una specie di barella a forma di barca, fatta di materiale vegetale, su cui è riposta una persona, evidentemente bisognosa di cure, che viene trasportata al più vicino centro di sanità o ospedale.
Si tratta di un’ambulanza tradizionale, chiamata ingobyi, che continua a svolgere la propria funzione anche dopo l’introduzione delle autoambulanze, per la verità in numero abbastanza limitato e certo non sufficiente per coprire le reali necessità delle popolazioni sparpagliate nei villaggi delle campagne. E’ interessante sapere che l’utilizzo dell’ingobyi è basato su una specie di mutua di base, per cui gli abitanti del villaggio a fronte del versamento di una somma annuale di circa 200 Frw maturano il diritto di poter beneficiare del servizio in caso di bisogno; sono altresì previste penali per i morosi e costi per l’utilizzo dell’ambulanza tradizionale per chi non aderisce alla sottoscrizione. Il tutto è gestito da un incaricato di riconosciuta affidabilità. Il trasporto viene curato dai vicini di casa; se qualcuno si rifiuta o, furbescamente, si sottrae all’incombenza, è prevista un’ammenda di 1500 franchi che, in certi posti, può servire per una bevuta a ristoro della fatica di chi ha eseguito il trasporto. Aprile 2011 pag. 64
103 nel 2008. Molto rimane però ancora da fare per dare una reale prospettiva di vita a questi bambini, se si pensa che un neonato rwandese ha un’aspettativa di vita secondo i dati della Banca Mondiale riferiti al 2009, di circa 52 anni a fronte degli 82 di un bambino italiano. Nelle campagne sopravvive anche una medicina alternativa gestita da guaritori di villaggio, depositari di conoscenze tradizionali basate prevalentemente sulle cure a base di erbe. Nel vicino nord Kivu, veri maestri nell’uso delle erbe per fini curativi sono i batwa. I rimedi dei veri guaritori tradizionali sono anche riconosciuti dalla scienza e disponibili per la vendita in apposite farmacie autorizzate. Spesso però la figura del guaritore sfuma in quello dello stregone, con l’alone di magico che lo circonda. Di frequente si fa ricorso a questa figura, ancora ben presente nella realtà dei villaggi,
Post it L’aborto in Rwanda è illegale Capita abbastanza di frequente di leggere sulla stampa rwandese locale la notizia di arresti di donne che hanno fatto ricorso all’aborto. In compenso, nelle farmacie della capitale è però liberamente acquistabile la cosiddetta pillola del giorno dopo, dagli indubbi effetti abortivi. Di fronte a un simile scenario qualche commentatore locale comincia a sollevare il problema, sottolineando la palese contraddittorietà dell’attuale normativa in materia, perorando esplicitamente la liberalizzazione dell’aborto adducendo tutto l’armamentario classico dei casi lacrimevoli già usato dai promotori dell’aborto nelle legislazioni occidentali. E’ facile prevedere, quindi, che ben presto l’argomento approderà nelle sedi legislative competenti, trovandosi di fronte una strada spianata anche dalle sollecitazioni che vengono spesso dalle grandi ONG internazionali , in primis certe agenzie dell’ONU, per cui l’aborto è un semplice metodo per tenere sotto controllo lo sviluppo demografico nei paesi più poveri. La limitazione del numero di figli per ogni nucleo familiare è un argomento già presente nell’agenda governativa: in aggiunta alla tradizionale formazione familiare in materia di pianificazione delle nascite era stata di recente ipotizzata anche l’introduzione della vasectomia maschile, peraltro subito accantonata a seguito di una certa reazione popolare. Aprile 2011 PARTE I - La sanità
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Reportage Mortalità infantile e controllo delle nascite per farsi togliere presunti malocchi che hanno trovato concretizzazione in forme di malessere di cui un medico saprebbe ben diagnosticare l’origine e prescrivere la cura. Purtroppo le cure dello stregone sono molto spesso peggiori del male, non curando la malattia in essere o, peggio, dilatandone gli effetti negativi. E’ il caso spesso di certe cure somministrate ai bambini che provocano gravi stati di debilitazione, spesso fatali. Naturalmente anche questa specie di medicina alternativa ha i suoi costi: lo stregone sa farsi ben remunerare dai suoi pazienti per le “diagnosi” e per le conseguenti prescrizioni. Fanno ricorso allo stregone non solo coloro che sono ancora dediti ai culti animistici tradizionali ma anche i buoni cristiani. Lo raccontava un missionario che doveva sorbirsi le ironie dello stregone del villaggio che, incontrandolo nei giorni di festa, gli faceva tintinnare davanti al viso il sacchetto contenente monete, aggiungendo che erano frutto delle visite dei suoi parrocchiani. Oltre che guaritore di ogni tipo di malattia, lo stregone si attribuisce anche qualità che rientrano nell’area della vera e propria stregoneria con poteri, a detta di testimoni degni di fede, che possono impressionare. Sono probabilmente questi gli aspetti che attirano anche persone tutt’altro che sprovvedute come gli intellettuali, che non sembrano del tutto esenti dal fascino della stregoneria. Attenzione però a lasciarsi andare a qualche sorrisetto di compatimento; neppure in Italia i maghi sono degli sconosciuti.
Post it L’AIDS in Rwanda Il primo caso di HIV / AIDS in Rwanda è stato segnalato nel lontano 1983. Già tre anni dopo però, con un tasso d’infetti del 17,8 per cento tra le popolazioni urbane e dell’1,3 per cento tra le popolazioni rurali, il Rwanda diventa uno dei paesi africani più colpiti dall’HIV / AIDS. Le violenze nel corso della guerra civile del 1994 dilatano in maniera sensibile il diffondersi del contagio, tanto che nel 1996 una ricerca svolta sul territorio evidenziava un tasso di infezione del 27 per cento tra la popolazione urbana, del 13 per cento tra la popolazione dei centri semi-urbani, e del 6,9 per cento tra la popolazione rurale. Negli anni successivi il fenomeno si è andato attenuando tanto che nel 2005 si calcolava che circa il 3 per cento della popolazione rwandese, in età compresa tra i 15 ei 49 anni, fosse sieropositiva. Nel 2007 sono state poi conteggiati 7.800 morti per Aids. Secondo dati ufficiali del governo rwandese risulta che su un totale di 1.393.018 persone che si sono sottoposte a test nel paese nel 2010, almeno 34.239 sono risultate sieropositive, con un tasso di sieropositivà stimato in circa il 3,1 per cento, a fronte di un 5 per cento rilevato nell’Africa sub sahariana. Circa un terzo delle persone infette si trovano allo stadio di essere sottoposte a cure mediche, di queste attualmente hanno accesso alle cure antiretrovirali circa ottantamila persone, in maggioranza adulte, ma anche 6.679 bambini che vivono con l’HIV. Pur in presenza di un numero crescente di persone che hanno accettato di aderire su base volontaria al test HIV/ AIDS, esiste ancora una diffusa mancanza di conoscenza del problema, in particolare tra le donne in età fertile. Proprio la diffusione della conoscenza, unitamente alla promozione dell’astinenza, della fedeltà e del preservativo, è una delle componenti di base della strategia, cosiddetta E.A.B.C. messa in atto dalle autorità per prevenire la diffusione del virus.
Febbraio 2011. Il Ministro rwandese della Sanità, Dr. Richard Sezibera, ha reso pubblici alcuni dati circa i tassi di mortalità infantile esistenti nel paese. Secondo i dati ufficiali, dal 2000 al 2010 la situazione sarebbe decisamente migliorata. Il tasso di mortalità dei bambini sotto i 5 anni è sceso da 152 morti ogni 1.000 nati nel 2005 a 103 nel 2008, mentre il tasso di mortalità per i bambini sotto un anno è sceso da 86 morti ogni 1.000 nati nel 2005 a 62 nel 2008. Si è nel frattempo dimezzato il tasso di mortalità materna, passando da 750 puerpere morte su 100.000 nascite nel 2005 a 383 nel 2009. Ricordiamo che l’obiettivo posto dal Millennium Development Goal (MDG) 4 stabilisce l’obiettivo di ridurre entro il 2015 la mortalità infantile a 31 morti per ogni 1.000 nati. Riferendo al Senato questi dati, il Ministro della Sanità ha sottolineato come ci sia ancora molto lavoro da fare per migliorare la situazione; in particolare, ha auspicato che vengano puniti i colpevoli di certi rituali, causa non infrequente di morti infantili, che vengono ancora praticati sui neonati in certe comunità. Il Ministro della sanità, nella stessa audizione al senato, ha intrattenuto i senatori anche sulle iniziative che il governo intende perseguire per controllare la crescita della popolazione. Oltre alla diffusione dei consueti metodi contraccettivi, in primis i preservativi, il responsabile della sanità ha prospettato l’adozione della vasectomia maschile come uno dei metodi di pianificazione familiare, tanto da prevedere che circa 700.000 rwandesi faranno ricorso volontariamente a questa pratica nei prossimi tre anni. Contestualmente alla vasectomia sarebbe praticata anche la circoncisione, soprattutto per arginare la diffusione dell’HIV. La politica rwandese segue le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo la quale la vasectomia è uno dei metodi più sicuri ed efficaci di contraccezione, con significativi vantaggi rispetto alla sterilizzazione femminile quali: più bassi tassi di complicanze post-operatorie,
il tempo di recupero più breve, costi ridotti e maggiore coinvolgimento degli uomini nel processo decisionale riproduttivo. Secondo quanto sostenuto da rapporti sulla materia, il Rwanda sarebbe l’unico paese africano ad utilizzare la vasectomia senza bisturi. Secondo il Ministro, il 53 per cento delle famiglie rwandesi farebbe uso di metodi di pianificazione demografica, mentre l’obiettivo del governo sarebbe quello di raggiungere il 70 per cento entro il 2012. L’ipotesi avanzata dal Ministro circa il ricorso alla vasectomia ha però immediatamente suscitato un forte dibattito nella società rwandese, con qualcuno che ha paventato addirittura che l’uso di tale pratica potesse essere indirizzat0 verso un controllo demografico di una determinata componente etnica, che ha costretto le autorità a fare una prudente marcia indietro, smentendo che vi fosse alcun obiettivo di introdurre la vasectomia volontaria come metodo di pianificazione familiare. Il Segretario Permanente del Ministero, dottor Agnes Binagwaho, lo ha chiarito affermando: “Non ci sono dubbi, non c’è né l’obiettivo di realizzare 700.000 operazioni di vasectomia, né ce ne sarà mai uno. Sarebbe immorale e una violazione dei diritti umani assegnare obiettivi di questo tipo alle opzioni di pianificazione familiare”, aggiungendo che l’obiettivo di 700.000 operazioni di vasectomia sarebbe stato citato erroneamente in articoli di stampa. In realtà l’obiettivo del governo si riferiva a operazioni volontarie di circoncisione per proteggere gli uomini da infezione da HIV, da promuovere anche attraverso apposite campagne di sensibilizzazione, con la possibilità di arrivare in futuro anche a una circoncisione dei neonati. Non è dato sapere il motivo di questa marcia indietro del Ministero. Evidentemente sul problema della pianificazione familiare non è stata ancora maturata una linea definitiva in seno al governo, anche se certe ipotesi come quella della vasectomia sembrano urtare la sensibilità rwandese e suscitare qualche dubbio sulle reali finalità della pratica.
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La religione
La cattedrale di Byumba
L
a popolazione rwandese è per la stragrande maggioranza di fede cristiana, con circa il 56% che professa la religione cattolica e un altro 37% che aderisce alle principali confessioni protestanti, a volte anche semplici gruppi raccolti attorno a un pastore che si è fatto la sua piccola setta. Esiste anche una esigua minoranza di mussulmani, pari a circa il 2 per cento, concentrata a Kigali, dove esiste una grande moschea in centro, e in alcune enclave in certe zone del paese. Sono presenti anche i testimoni di Geova, come testimoniano le Sale del regno, particolarmente curate, che si trovano in diversi villaggi. Una consistente minoranza è ancora legata alla religione tradizionale, soprattutto nei villaggi, i cui riti e credenze esercitano ancora un certo fascino e anche attrazione sui fedeli delle altre religioni. La Chiesa cattolica è in Rwanda da oltre 100 anni, a partire dall’arrivo, il 2 febbraio 1900, dei primi missionari Padri Bianchi a Nyanza presso la corte del Mwami, il Re del Rwanda. Con il messaggio evangelico i missionari portarono la scrittura, che prima non esisteva, le prime scuole e le prime forme di assistenza sanitaria. Oggi la Chiesa cattolica è totalmente formata da un clero indigeno, grazie all’opera dei Padri Bianchi che favorirono appunto la crescita di un clero rwandese, a partire dai primi due sacerdoti di colore ordinati nell’ottobre del 1917. La presenza attuale di missionari occidentali è ormai limitata. Oltre al ruolo proprio, la Chiesa cattolica, ma altrettanto si può dire delle diverse professioni protestanti, riveste quello importante di promozione sociale con proprie scuole, centri di sanità, iniziative economiche: campi, allevamenti di animali, officine, laboratori di falegnameria, cooperative varie e iniziative di carattere finanziario.
Moschea
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Sopra: la croce della festa mondiale della gioventù nel suo peregrinare nelle parrocchie rwandesi
Sala del Regno
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La giustizia divina arriva senza fretta. Proverbio rwandese
Nelle campagne la Chiesa è presente con una struttura di parrocchie che presidiano territori estremamente ampi, comprendendo al proprio interno villaggi distanti anche tre ore di jeep dalla sede principale. I villaggi periferici, rispetto alla sede parrocchiale, sono organizzati come unità sottoparrocchiale e sono quasi sempre dotati di propria chiesetta, dove il sacerdote può arrivare anche solo una volta ogni 2 mesi. Un catechista, figura fondamentale nella realtà africana in generale, alla domenica presiede la celebrazione comunitaria della parola, provvedendo alla distribuzione dell’eucarestia, mantiene inoltre i collegamenti con il parroco facendone, in un certo senso, le veci. Solitamente il catechista è affiancato da organismi, espressione della comunità dei cristiani, che sovrintendono ai diversi aspetti della vita comunitaria. L’organizzazione della parrocchia prevede, oltre al parroco solitamente affiancato da un vicario, un discreto numero di altre persone impegnate nelle varie attività in cui si articola la vita parrocchiale. Oltre ai catechisti e agli altri laici che collaborano alla pastorale in senso stretto, vi sono , infatti, altri collaboratori impegnati in attività economico sociali che fanno capo alla parrocchia. Si va dalla coltivazione dei campi, di cui quasi tutte le parrocchie dispongono, fino all’allevamento di animali che concorrono a garantire il fabbisogno alimentare dei sacerdoti. Attorno alla parrocchia fioriscono spesso iniziative educative, dagli asili agli spazi ricreativi per i ragazzi, e assistenziali per anziani, orfani, handicappati, a cui si aggiunge la promozione di forme associative di tipo cooperativistico come laboratori di cucito, di maglieria o di artigianato locale. I collaboratori fissi, compresi i catechisti, vengono regolarmente retribuiti con stipendi abbastanza contenuti, nell’ordine di 20/30 euro mensili, in linea comunque con quelli di altri lavoratori, che rappresentano flussi significativi per l’asfittica economia locale dove girano veramente pochi soldi. Il Parroco e i suoi referenti locali sono un punto di riferimento importante per la gente, ben oltre le funzioni proprie di uomini di Dio. Ai sacerdoti ci si rivolge, infatti, per ogni tipo di problema che si può incontrare nelle vita quotidiana di chi vive nei villaggi.
Post it La giornata dell’udienza parrocchiale
Alla parrocchia di Nyagahanga, il martedì è giornata di udienza per i cristiani. Subito dopo la santa messa del mattino e la prima colazione, i sacerdoti cominciano a ricevere le persone che sono in attesa già da tempo. Molti di loro hanno nelle gambe ore di cammino; chi viene da più lontano è per strada anche da quattro ore. Naturalmente altrettante ore di cammino saranno richieste per il ritorno. A Nyagahanga ogni martedì del mese è dedicato a una specifica materia da trattare. Così il primo martedì del mese è riservato all’incontro con quelle coppie che convivono in una situazione non ancora consacrata dal sacramento del matrimonio: vi sono i casi più variegati, dal vedovo che ha accolto in casa un’altra donna, ai giovani che si sono messi insieme mettendo al mondo un figlio, ai separati che si sono ricostruiti una famiglia, fino a qualche caso di chi deve decidere magari di scegliersi una moglie fra le donne con le quali vive. Esistono, infatti, ancora casi più o meno espliciti di poligamia. Nel secondo martedì del mese si incontrano i fidanzati che si stanno preparando regolarmente al matrimonio, attraverso un percorso formativo nell’ambito della pastorale familiare. Essendo l’ultimo martedì riservato ai genitori che vengono a richiedere il battesimo per i propri figli, nel terzo martedì si concentrano tutti gli altri casi per cui un cristiano intende incontrare i propri sacerdoti. L’oggetto dell’incontro è il più vario: si va dalla richiesta di aiuto economico per pagare l’iscrizione a scuola di un figlio, piuttosto che le cure mediche di un familiare ammalato, la soluzione di un problema di convivenza all’interno della comunità, piuttosto che all’interno della famiglia. Gli incontri si protraggono per tutta la mattinata, con frequenti appendici nel pomeriggio, dopo un breve pasto, consumato ben dopo il mezzogiorno canonico. Al termine i sacerdoti ne escono abbastanza provati. Naturalmente i cristiani possono incontrare il sacerdote all’uscita della chiesa al termine della santa messa mattutina o interpellarlo, anche con una telefonata, essendo abbastanza diffuso l’uso del telefonino anche nei villaggi. Al di fuori di questi giorni programmati, i cristiani frequentano gli uffici parrocchiali per gli aspetti amministrativi: l’impiegato preposto rilascerà i documenti richiesti (certificati di battesimo o di matrimonio) piuttosto che raccogliere la tassa annuale che ogni parrocchiano s’impegna a versare nelle casse della parrocchia, ammontante a mille franchi rwandesi per gli uomini e cinquecento per le donne. Settembre 2010
La casa parrocchiale di Nyagahanga
Una Chiesa parrocchiale
Il Vescovo di Byumba con alcuni sacerdoti PARTE I - La religione
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PARTE I - La religione
La cattedrale di Byumba
L’economato: il motore delle attività economiche diocesane pag. 71
Il dolore non uccide, ciò che uccide è il ricordo incessante. Proverbio rwandese
L’importante ruolo sociale che la Chiesa riveste nel contesto rwandese può essere un aspetto che sorprende favorevolmente il visitatore. Ben maggiore è però l’impatto che si ha quando si viene a contatto con il momento religioso in cui si estrinseca la giovane fede del popolo rwandese. E’ proprio il modo in cui i rwandesi vivono la propria fede l’aspetto che più colpisce chi viene dall’ormai indifferente Europa; infatti, è d’immediata percezione il profondo senso religioso che permea quella popolazione, soprattutto dei villaggi. Basta assistere alle lunghe funzioni religiose, che possono durare anche tre ore, arricchite da canti accompagnati da movenze di danza decisamente coinvolgenti, per toccare con mano l’intensa partecipazione dei presenti. Senza dimenticare che presenziare a una celebrazione religiosa può richiedere anche diverse ore di cammino per arrivare alla chiesa parrocchiale, magari per assistere a una semplice messa feriale. Cose che fanno arrossire il tiepido muzungu, sempre pronto a ricercare la cerimonia più breve e più comoda per adempiere al precetto festivo. La gioia e il rispetto con cui ci si avvicina a ogni momento liturgico è ben rappresentato nei giorni di festa, quando i fedeli affluiscono numerosi in chiesa abbigliati con i vestiti migliori, in particolare le donne che sfoggiano per l’occasione vesti dai colori sgargianti che offrono immediato il senso della festa. Anche la consuetudine dei sacerdoti addetti alla parrocchia di vivere sotto lo stesso tetto, in una forma di comunità, condividendo i momenti conviviali e di preghiera, è un segno della forte vitalità della chiesa rwandese. Siamo testimoni di quanto sia proficuo per i sacerdoti questo stile di vita che consente loro di confrontarsi, in occasione dei pasti consumati insieme, sui problemi della parrocchia, piuttosto che vivere in comune la recita serale dei vespri, prima della cena.
PARTE I - La religione
Post it Il bambino potrà scegliere la religione da praticare
Le autorità rwandesi ci hanno spesso sorpreso con innovazioni legislative che andavano nella direzione di un ammodernamento dello stato e del suo apparato amministrativo. Questa volta parlare di sorpresa ci pare riduttivo; infatti, secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa RNA-Rwanda News Agency, sarebbe in discussione alla Camera Bassa del Parlamento rwandese un disegno di legge (Ddl) sui diritti dell’infanzia in cui si prevede, fra l’altro, che a sette anni un bambino rwandese possa scegliere autonomamente la propria religione. Oltre a prevedere che un bambino inferiore ai sei anni debba stare con la madre, a meno che i suoi diritti non siano colpiti, nel caso in cui i genitori non siano in grado di vivere insieme, il medesimo disegno di legge qualifica un bambino di sette anni come essere ragionevole. Alla luce di questa previsione, si riconosce allo stesso, proprio a partire dal compimento dei sette anni, la facoltà di scegliere la propria religione senza dover sottostare all’influenza dei genitori, dai cui abusi il disegno di legge vorrebbe proteggere i bambini. Ogni commento è per ora prematuro; vedremo se il disegno diverrà legge e, in tal caso, già sin d’ora è però legittimo chiedersi: chi prenderà il posto della famiglia nel ruolo educativo del bambino e chi vigilerà sui possibili abusi dei futuri nuovi educatori; e ancora, è possibile abdicare al ruolo della famiglia nella costruzione di una società? Gennaio 2011 pag. 72
Il Rwanda ha il raro privilegio di essere l’unico paese africano in cui è avvenuta un’apparizione mariana. A Kibeho, nel sud del paese, tra il novembre 1981 e il dicembre 1983 si è verificata una lunga serie di apparizioni della Madonna, presentatasi come Nyina wa Jambo, vale a dire, Madre del Verbo. Le apparizioni a tre studentesse del collegio di Kibeho, furono successivamente riconosciute tali dalla Chiesa al termine di una lunga inchiesta e un rigoroso processo. Tra le numerose visioni a cui assistettero le tre giovani veggenti, particolarmente sconvolgente e profetica fu quella del 15 agosto del 1982, descritta con queste parole: “un fiume di sangue, persone che si uccidevano a vicenda, cadaveri abbandonati senza che nessuno si curasse di seppellirli, un abisso spalancato, un mostro spaventoso, teste mozzate”. Le stesse immagini che dodici anni dopo, nel 1994, scorrevano sugli schermi di tutto il mondo a testimonianza dell’immane tragedia che stava sconvolgendo il popolo rwandese.
Kibeho: il santuario della Madre del Verbo
Ntarama: l’ossario all’interno del mausoleo che ospita le testimonianze degli eccidi del 1994
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Cartina tratta da “Les Pères Blancs aux Sources du Nil”, d’Alexandre Arnoux ed. Librai-
Reportage
rie missionnaire 1948 Paris .Vi sono rappresentate le parrocchie presenti sul territorio che testimoniano la diffusione del cristianesimo in Rwanda. Sotto è riportata
A messa all’equatore
la cronologia d’apertura delle singole parrocchie.
Siamo in un sobborgo di Kigali, capitale del Rwanda; in un locale posto al centro di una spianata fangosa per la pioggia della sera prima, dall’aspetto di un garage se non fosse per la croce fissata sul tetto, si celebra la S. Messa. Quasi duecento persone sono assiepate all’interno e sotto la tettoia esterna che copre quello che dovrebbe essere il sagrato: tantissimi giovani, molte donne, tutti vestiti con dignità e con abiti da festa. Tre celebranti officiano la Santa Messa, quattro chierichetti molto compresi nel ruolo, vestiti con lunghe tuniche bianche, si muovono attorno all’altare con movimenti misurati, coscienti del ruolo che stanno svolgendo. A lato dell’altare, un coro misto è pronto ad intervenire nella cerimonia non appena il direttore, vestito con una sgargiante camicia gialla, una cravatta dai colori particolarmente vivaci, dei pantaloni neri perfettamente stirati che gli cadono molli sulle scarpe lucide che contrastano con tanti piedi scalzi che s’incontrano in giro, darà il via con la sua bacchetta da direttore d’orchestra. Il rito prende il via con un canto introduttivo, quindi, alla proclamazione della parola fa seguito l’omelia. Segue l’offertorio con l’accompagnamento di nuovi canti, si entra poi nel momento della consacrazione, quando tutto si fa più intenso. I sacerdoti proclamano la formula della consacrazione facendo comprendere e vivere la solennità del momento; quindi viene innalzata l’ostia e di seguito il calice, con movimenti lenti e con un lungo momento di ostensione che i fedeli accompagnano con il battito delle mani, come si farebbe al presentarsi di un ospite importante, a cui fa da sottofondo una specie di sibilo, quasi di sirena, proveniente dalle donne più anziane. Come non pensare alle nostre messe italiane, in cui la conPARTE I - La religione
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PARTE I - La religione
sacrazione è la meccanica lettura delle formule riportate sul messale, come se il celebrante ne manco se la ricordasse, seguita dalla fugace ostensione delle sacre specie. Come si fa a credere che in quel momento c’è stato il ripetersi del mistero della trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue del Salvatore? La messa prosegue, senza da parte mia capire una parola, ma vivendo i momenti del Padre nostro e dell’Agnello di Dio con lo scambio del segno della pace, fatto con molto trasporto. Moltissimi si accostano alla Comunione che viene impartita con l’accompagnamento del coro che canta una canzone dalle parole sconosciute ma dalla melodia tante volte sentita riecheggiare nelle nostre chiese. E’ bello toccare con mano, anche in questo, l’universalità della nostra fede: ci si sente partecipi di una grande famiglia. Alla fine della messa molti si fermano a recitare il rosario, mentre i tre celebranti si accomodano sulle panche, una semplice asse di legno fissata al pavimento con supporti di ferro, agli angoli della chiesa, per ricevere la confessione di alcuni fedeli. Mentre un ragazzo entra in chiesa per una preghiera, fuori il direttore del coro, sempre armeggiando la sua inseparabile bacchetta, raccoglie i suoi coristi e inizia quelle che a me sembrano delle prove di canto che si dilungano per qualche tempo. Gli altri fedeli defluiscono, mischiandosi con le persone che, sulla strada e sul piazzale, si stanno muovendo verso il vicino mercato o verso le proprie incombenze quotidiane. Inizia una normale giornata di lavoro. Sono le ore 6,45 di mercoledì 25 aprile 2007, un giorno come tanti nell’Africa che si aggrappa alla propria fede per guardare a un futuro migliore. pag. 75
In famiglia
A
nche se il parto dovrebbe avvenire obbligatoriamente presso un centro sanitario, nei villaggi ancora il trenta per cento delle nascite avviene in famiglia, quando va bene con l’assistenza di una levatrice tradizionale, oppure con l’assistenza di qualche parente. Mediamente le famiglie rwandesi hanno quattro bambini, in discesa dai sei del recente passato ma ancora più dei tre a cui puntano le autorità impegnate in un programma di controllo delle nascite per tenere sotto controllo l’incremento demografico che rischia di far esplodere il piccolo Rwanda. Otto giorni dopo il parto, in occasione di una cerimonia, chiamata kwita izina, che si tiene all’interno della famiglia, il neonato si vedrà attribuito un nome, spesso attingendo a nomi di santi della tradizione cattolica che vengono assegnati nella loro forma estesa: si va da Maria Goretti a Jean Bosco e Jean Marie Vianney. Nella stessa occasione, al neonato viene anche attribuito il cognome. Infatti, la tradizione rwandese non prevede che i figli assumano il cognome del genitore ma che ne abbiano uno proprio, spesso con significati augurali o rappresentativo di qualità che si desiderano impersonate dal neonato. Poiché tutto il mondo è paese, anche in Rwanda ci sono nomi e cognomi che segnano le mode del momento; qui però più che i nomi di cantanti e attori, che scandiscono le stagioni televisive degli occidentali ma qui scarsamente conosciuti, si privilegiano i nomi dei potenti in auge al momento della nascita. Peraltro, moltissimi nomi e cognomi fanno riferimento a Dio, Imana, con molteplici declinazioni.
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Il povero adatta il suo bastone alla sua misura. Proverbio rwandese
I primi anni del bambino sono vissuti in stretta simbiosi con la mamma, sulle cui spalle passerà la maggior parte del tempo, fasciato dagli ampi teli che lo supportano come dei marsupi. La funzionalità e comodità di tale modo di portare il bambino, a stretto contatto con la schiena della mamma che muovendosi quasi culla la propria creatura, sono certificate dai rari bambini che si sentono frignare quando si trovano in questa posizione. Al primo pianto, con un abile movimento la mamma farà scivolare il bambino dalla schiena portandoselo al petto e offrendogli il seno per allattarlo con molta naturalezza, anche in pubblico, perfino in chiesa. Quando il bambino comincia a muovere i primi passi passerà sotto le cure dei fratellini più grandi cui toccherà farsene carico e trascinarselo appresso anche nei giochi. I semplici giochi in cui si possono cimentare questi bambini: spingere il cerchione o il copertone di una bicicletta, ricavare da una vecchia tanica di plastica una specie di autocarro, dare qualche calcio a una palla fatta di foglie di banano racchiuse in una rete di corda. Quando sarà più grandicello cominceranno a toccargli le prime incombenze domestiche come il reperimento della legna da ardere, andare ad attingere l’acqua con la propria tanica e poi inevitabilmente imbracciare una zappa o curare gli animali domestici. Poi arriverà il periodo scolastico obbligatorio al cui termine, nei villaggi, solo una minoranza proseguirà negli studi mentre la stragrande maggioranza dovrà cominciare a cercarsi un lavoro nell’agricoltura o nelle piccole attività di villaggio. Solo a una certa età potrà cominciare a pensare a dar vita a una propria famiglia. Attualmente in Rwanda l’età per poter contrarre matrimonio legalmente è fissata a 21 anni, ma si sta pensando di abbassare tale limite a 18 anni, anche se l’ipotesi sta sollevando qualche discussione all’interno della società rwandese. Naturalmente il limite dei 21 anni non ha mai fermato l’amore di nessun giovane per cui, in particolare nei villaggi, è frequente incontrare mamme giovanissime alle prese con i propri figlioletti. Si tratta di ragazze madri, che continuano a vivere all’interno della famiglia d’origine, piuttosto che di ragazze che, lasciata la famiglia, vanno a vivere con il proprio ragazzo in una forma di concubinato. Più raramente queste giovani coppie, che non hanno l’età legale, possono ottenere una particolare dispensa, soprattutto quando la giovane si trova in stato interessante, facendo istanza al ministero della giustizia. Qualcuno, in un paese in cui l’anagrafe non ha ancora assunto strutture consolidate, più sbrigativamente si aggiunge qualche anno a quelli effettivi per convolare a nozze. L’ipotesi di abbassare l’attuale limite sta suscitando particolari reazioni, soprattutto tra le orgaPARTE I - In famiglia
nizzazioni femminili che ritengono il limite proposto troppo basso. A quella età, dicono le rappresentanti di queste organizzazioni, le ragazze dovrebbero innanzitutto pensare a studiare per costruirsi un futuro di indipendenza; l’abbassamento dell’età le spingerebbe ad abbandonare gli studi e a portarle al matrimonio comunque in uno stato di eccessiva dipendenza dal marito. Taluni genitori paventano invece il rischio di doversi fare carico del mantenimento anche dei nipotini di queste giovanissime coppie, non sempre in grado di provvedere economicamente al nuovo nucleo familiare. Ci sono poi le giovani neo spose che vogliono proseguire gli studi universitari, ma a fatica riescono a conciliare il ruolo di studentesse, di madri e
Nyagahanga: una giovane sposa si appresta a raggiungere la chiesa
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PARTE I - In famiglia
Post it Pianificazione familiare per frenare il boom demografico Secondo quanto dichiarato di recente dal Ministro della Programmazione Economica, John Rwangombwa, i rwandesi sono ormai undici milioni, anche se la cifra esatta sarà certificata dal censimento che si terrà nel 2012. Il trend è ancora in crescita, tanto da destare qualche preoccupazione nelle autorità, tenuto conto dell’altissima densità abitativa del paese; ai livelli attuali siamo ormai oltre i 400 abitanti per chilometro quadrato. Comunque lo stesso Ministro sottolinea che la preoccupazione principale non sia tanto il crescente numero di abitanti, quanto piuttosto la capacità delle autorità a garantire un adeguato benessere alla popolazione. L’ottimismo del Ministro circa la capacità del governo di centrare questo obiettivo discende dai progressi messi a segno negli ultimi anni in diversi comparti. Per quanto attiene la tenuta sotto controllo delle nascite si fa molto conto sulla diffusione tra le famiglie rwandesi della conoscenza e dell’uso dei metodi di pianificazione familiare, così da poter conseguire l’obiettivo dichiarato di arrivare ad avere una media di tre figli per famiglia. Negli ultimi anni il numero delle famiglie che hanno adottato una pianificazione familiare è andato via via aumentando non solo nelle zone urbane ma anche in quelle rurali, dove secondo un sondaggio del 2010, interesserebbe il 42 per cento delle coppie, rispetto al 45 per cento nelle città; solo nel 2008 questi dati erano rispettivamente il 26 e il 36 per cento. L’incremento sarebbe il frutto delle campagne promosse dal governo sull’argomento, anche con il forte coinvolgimento del partner maschile della coppia, per il quale si era addirittura pensato di fare ricorso alla vasectomia. pag. 79
Contro la vecchiaia non ci sono rimedi da assumere. Proverbio rwandese
mogli. Quando, raggiunta la maggiore età, si sarà pronti per il grande passo, la famiglia del giovane dovrà aver provveduto ad accantonare la somma necessaria a formare la dote da dare alla famiglia della promessa sposa. Nei villaggi solitamente consiste nel controvalore di una mucca, il cui prezzo può ammontare a circa 250.000 Frw, mentre in città questo valore può quasi raddoppiare per posizionarsi al livello di una mucca di razza pregiata. Anche la festa di matrimonio ha una diversa fastosità. A Kigali si tengono cerimonie che non hanno nulla da invidiare a quelle occidentali, semmai con in più alcuni momenti coreografici attinti alla tradizione locale, nei villaggi, dove più che la ricchezza si misura la povertà, il matrimonio è comunque un momento da festeggiare con sfoggio di vestiti adeguati e momenti conviviali allietati da copiose bevute di birra. In campagna, con il matrimonio lo sposo acquisisce una moglie, la madre dei propri figli ma, primariamente, due braccia per lavorare i campi. Poco importa che al parlamento di Kigali le donne siano in maggioranza; in campagna, questo è il destino delle donne che entrano nella nuova famiglia: oltre alle faccende domestiche compete loro il lavoro dei campi, dove s’incontrano quasi esclusivamente donne, magari con il figlio più piccolo sulle spalle e gli altri, più grandicelli, al seguito a dare una mano. Alla donna non viene precluso alcun lavoro, anche i più gravosi; è abbastanza facile vedere donne impegnate nella costruzione di case piuttosto che a scavare fondamenta. In compenso non capiterà mai di incrociare una donna in bicicletta, se non come passeggera seduta sul sellino posteriore. Più facile invece trovare qualche donna, soprattutto le più giovani, con qualche incarico nell’amministrazione locale, anche se le autorità centrali, ancora recentemente, lamentavano una scarsa presenza del gentil sesso proprio tra gli amministratori locali. Prerogativa femminile sono anche i piccoli commerci di prodotti agricoli; sono quasi esclusivamente le donne che provvedono a portare PARTE I - In famiglia
al mercato le derrate per la vendita. Tolti i lavori di casa, la cura dei bambini e i lavori agricoli a cui provvedono le donne, per la stragrande maggioranza degli uomini dei villaggi, esclusi i pochi artigiani esistenti e qualche manovale o muratore impegnato nelle costruzioni, non esistono quindi particolari impegni lavorativi. Rimangono di competenza dell’uomo lavori richiedenti il maneggio del machete, come il taglio di un albero per far legna piuttosto che il taglio di un casco di banane e la cura dello stesso bananeto. Non è quindi infrequente, anche durante il giorno, imbattersi in uomini tranquillamente seduti sull’uscio di casa intenti a chiacchierare passandosi, di tanto in tanto, un contenitore da cui sorseggiare birra di banane o di sorgo fatta in casa. Se la fatalistica rassegnazione degli adulti può essere compresa, non lascia indifferenti la situazione dei moltissimi giovani che, ultimato il ciclo scolastico obbligatorio, si trovano ad affrontare la vita senza reali prospettive. I più intraprendenti si procurano una bicicletta per dedicarsi al trasporto di merci e persone e quando riescono a racimolare il denaro necessario fanno il salto acquistando una mototaxi. L’alternativa e andare a lavorare nei campi o pascolare bestiame. La povera economia del villaggio non offre molto altro. Non tanto diverso è il destino delle ragazze, anche se molte cercano di migliorare le prospettive future proseguendo negli studi oltre i nove anni della scuola dell’obbligo.
Post it Casi di poligamia ancora presenti nel nord Rwanda Un reportage dell’agenzia di stampa Syfia Grands Lacs sui problemi che devono affrontare le mogliconcubine abbandonate dai mariti porta alla ribalta il problema, non totalmente risolto, della poligamia. Nonostante la costituzione rwandese riconosca solo il matrimonio monogamico e la legge punisca, con una pena da due a quattro anni di carcere e un’ammenda che può arrivare fino a 200.000 Frw, tutte le persone riconosciute colpevoli di concubinaggio, il fenomeno della poligamia è però ancora diffuso nella società rwandese. Secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa, famiglie poligamiche sono presenti soprattutto nelle regioni del nord, dove più forte risulta il radicamento nella società e dove una famiglia su dieci sarebbe interessata al fenomeno. L’esistenza di casi di poligamia è confermata anche in ambito parrocchiale dove il sacerdote si trova costretto ad affrontare simili unioni allargate. Lo sforzo delle autorità locali di contrastare il sopravvivere di tali forme di convivenza familiare ha comportato per molte seconde o terze mogli di vedersi abbandonate, con il carico dei figli nati dall’unione, dal proprio “marito” che opta per la prima moglie. Le “concubine” lasciate sole sono così costrette a dichiarare i propri figli e decidere se possono farsene carico autonomamente o se devono fare affidamento sul padre naturale. Non infrequenti sono poi le cause giudiziarie, soprattutto da parte delle mamme più povere non in grado di garantire il sostentamento dei figli, per vedersi riconosciuta la paternità del padre naturale con l’assunzione delle conseguenti responsabilità al mantenimento dei piccoli o, a volte, con l’assegnazione dei figli al padre. Ci sono poi donne che con intraprendenza si creano qualche piccola attività agricola o commerciale che consenta loro di far fronte alle nuove responsabilità e magari si ricostruiscono una nuova vita con un nuovo partner.
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Reportage La famiglia rwandese alla sfida del cambiamento I pochi anziani che si trovano nelle comunità di villaggio, sopravvissuti agli eccidi della guerra civile e alle malattie, vivono all’interno delle famiglie di qualche figlio. Ormai non più in grado di sobbarcarsi lavori gravosi, si fanno però carico spesso della cura dei nipoti nei quali vedono con orgoglio il perpetuarsi della stirpe. L’avanzare negli anni porterà con sé una discendenza più numerosa e con essa aumenteranno la stima e il rispetto di cui l’anziano gode all’interno della propria comunità. A volte sono proprio gli anziani che garantiscono ai molti orfani, eredità della tragedia del 1994, una pur minima continuità di vita familiare. Anche se nei villaggi esiste il grave problema di bambini e ragazzi abbandonati a se stessi, i cosiddetti ragazzi di strada, bisogna sottolineare come esista una diffusa solidarietà all’interno delle comunità che porta ad accogliere nelle famiglie della cerchia parentale i bambini rimasti orfani oltre che le vedove. Per questo motivo, in Rwanda l’istituto dell’orfanotrofio, pur presente, non è particolarmente promosso o sollecitato come forma di aiuto.
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Post it Nei villaggi il cimitero non si vede Viaggiando nelle campagne rwandesi, se si esclude qualche sacrario dedicato alle vittime della guerra civile, non s’incontrano cimiteri, almeno così come siamo abituati a vedere da noi. Nei villaggi il morto viene sepolto, dopo una semplice veglia funebre in famiglia e senza che si tenga un funerale religioso, in un terreno appositamente dedicato in cui invano cerchereste un simbolo esteriore che lo connoti come cimitero. Non essendo previste croci piuttosto che fiori, è quindi difficile per un estraneo che giunge in un villaggio individuarne la localizzazione. Una volta avvenuta la sepoltura, la tomba non sarà oggetto di visite da parte dei parenti, che coltiveranno il ricordo dello scomparso esclusivamente nell’ambito domestico. Talune sepolture possono essere effettuate in un terreno nelle immediate vicinanze della casa o addirittura sotto il pavimento della stessa. Diversa è naturalmente la situazione di Kigali, dove esiste già un ampio cimitero a Remera, dove dal 2003 sono già state sepolte quasi diecimila persone, ed è in fase di realizzazione un nuovo grande cimitero, in grado di ospitare a regime oltre 13.000 tombe, sufficiente per le esigenze della città nei prossimi 18 anni. I criteri di sepoltura dovrebbero essere più vicini a quelli occidentali, tanto che sono previste tre categorie di tombe aventi diverse caratteristiche e diversi costi, servizi di imbalsamatura e tutto quanto previsto in questi casi per una degna sepoltura, in futuro anche il servizio cremazione. Sono previste anche due sale da cinquecento posti ciascuna per ospitare i ricevimenti post sepoltura. pag. 82
Fino a ieri, in Rwanda, la famiglia tradizionale era in grado si trasmettere ai bambini un adeguato bagaglio culturale e un patrimonio di valori , crescendoli come membri orgogliosi delle rispettive famiglie e comunità, infondendo loro un forte senso di appartenenza e di identità, concorrendo così a farne la spina dorsale della nazione.
va assumerà un rilievo sempre maggiore, man mano che la società rwandese sarà influenzata da modelli occidentali. Si pensi solo per un momento a cosa succederà quando si diffonderà la televisione come veicolo propagatore di valori e stili di vita totalmente diversi e lontani da quelli tradizionali rwandesi. Forse si potrebbe ritenere eccessivo e prematuro l’allarme lanciato dal giornale di Kigali. In realtà, l’esperienza insegna che la velocità con cui si diffondono certi valori, forse sarebbe meglio dire disvalori, non è necessariamente in linea con i sonnolenti ritmi africani: quando si percepiscono i primissimi sintomi di un certo fenomeno sociale, le sue dinamiche si sono già impossessate dell’intero corpo sociale. A una prima lettura dell’articolo, sembrerebbe che il problema proposto riguardi solo le autorità civili, preoccupate della tenuta della famiglia e del suo ruolo educativo; in realtà, è probabile che simili avvisaglie interroghino anche la Chiesa locale chiamata a mettere in campo una pastorale familiare adeguata a raccogliere una sfida tanto impegnativa come quella fatta propria dallo stesso Presidente rwandese, Paul Kagame, che in un recente intervento pubblico ha fatto esplicito richiamo alla difesa del ruolo sociale della famiglia e alla sua coesione.
Oggi, secondo quanto contenuto nell’editoriale comparso recentemente sul giornale di Kigali, The New Times, le cose stanno cambiando. Chiamata a misurarsi con i modelli culturali che stanno lentamente ma inesorabilmente affermandosi in una società fortemente interessata al cambiamento come quella rwandese, specie nelle sue componenti urbane, la famiglia sta cambiando pelle. Secondo l’editorialista, le famiglie stanno sempre più rinunciando al loro ruolo educativo, con una falsa convinzione che debba essere la scuola a svolgere questo ruolo. Molti genitori oggi tendono a pensare che il loro ruolo sia solo quello di pagare le tasse scolastiche e che il resto sia compito dell’insegnante. Ma l’editorialista sottolinea che gli insegnanti non possono sostituirsi ai genitori; il loro contributo dovrebbe essere visto come complementare ai doveri di padri e madri. Gli insegnanti sono pagati per impartire conoscenze e competenze, ma il ruolo dei genitori è molto più ampio; si tratta di plasmare bambini responsabili oggi per farne cittadini esemplari per il futuro. Quello sollevato dall’editoriale del quotidiano di Kigali è un problema indubbiamente importante che in prospettiPARTE I - In famiglia
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Folklore
Ogni momento di socializzazione, di convivialità o di festa, anche religiosa, è immancabilmente accompagnato da un contorno di canti e di danze. Nella musica e nella danza rivive tutta la tradizione culturale rwandese. Momenti epici della storia nazionale o più semplicemente la quotidianità dei pastori, degli agricoltori e dei cacciatori rivivono in questi momenti di folklore popolare. In assenza per tanti secoli della scrittura come strumento di memoria, è toccato al canto, unitamente alla poesia, e alla danza farsi veicoli di trasmissione della storia di un popolo. Purtroppo, questa valenza sfugge al visitatore che arriva nei villaggi; non essendo in grado di cogliere appieno la ricchezza di queste danze e di questi canti e i riferimenti culturali sottostanti, può solo accontentarsi di coglierne gli aspetti coreografici, i colori e le assonanze musicali, ma soprattutto l’atmosfera che la cornice di popolo, in cui si collocano questi avvenimenti, sa trasmettere con la sua appassionata partecipazione. Solo nei villaggi si incontra quella spontaneità,
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La ragazza può provare la fame, ma non l’odio viscerale. Le ragazze non condividono gli odi delle loro famiglie. Proverbio rwandese
che difficilmente sanno trasmettere i gruppi folkloristici che spesso vediamo esibirsi anche nei nostri teatri europei. S’immagini solo per un momento cosa diventa una danza quando all’accompagnamento dei tamburi si aggiunge il battere ritmico delle mani o il saltellare degli spettatori, che spesso si uniscono anche al canto in vere e proprie esplosioni di gioia. Nei villaggi qualsiasi cerimonia, specie se alla presenza di un muzungu, è sempre allietata da questi momenti di musica e danza. Generalmente, ogni villaggio ha un proprio gruppo di danzatori, formato da giovani ma anche da soli bambini, che viene orgogliosamente fatto esibire nelle feste. I più organizzati sfoggiano un abbigliamento tradizionale, ma basta un pezzo di tela multicolore cinta ai fianchi per atteggiarsi a danzatrice. Qualsiasi sia il tipo di danza, che può variare a seconda dell’origine o della provenienza dei danzatori, o del soggetto che la ispira, forte è la partecipazione che suscita su chi vi assiste. Infatti, esaurito il repertorio per così dire ufficiale del gruppo, invariabilmente il finale dell’esibizione vedrà il coinvolgimento di tutti gli spettatori nel canto e nei movimenti di danza, con un gran finale da tutti in pista. Si può dire che il senso del ritmo sia innato in tutti i rwandesi; è abbastanza facile vedere anche i più piccoli, magari non ancora sicuri nel loro camminare, lasciarsi andare a movenze dettate dal ritmo dei canti e dei tamburi.
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L’accoglienza dell’ospite presso la comunità batwa di Kibali è l’occasione per far rivivere l’antica maestria di questi danzatori. Dei fasti del passato, in cui i batwa erano tradizionalmente chiamati ad allietare la corte reale rwandese con la loro musica e le loro danze, oggi rimane immutata la plastica agilità del danzatore.
Spesso i passi delle danze sono anche abbastanza semplici, non però per il muzungu che, immancabilmente invitato a buttarsi nella mischia, mostrerà tutta la sua goffaggine a seguire il ritmo degli altri danzatori. E non sarà questa l’unica occasione in cui muoverà il sorriso dei presenti. Infatti, è assai frequente che in occasione di momenti celebrativi o cerimonie, alle danze e ai canti si alternino rappresentazioni, quasi degli sketch, in cui vengono presi di mira i personaggi presenti. In questi casi farà la sua comparsa obbligata la macchietta del muzungu, rappresentato come uomo dalla pancia ben pronunciata, portatore di opulenza ed elargitore di amafaranga. La partecipazione a queste feste si rivela un vero e proprio tour de force per l’ospite. Innanzitutto dovrà sorbirsi un numero imprecisato di discorsi. A partire dai maggiorenti è un susseguirsi di interventi, con lo stesso oratore che può intervenire anche più di una volta. Se la festa ha anche un’appendice conviviale, allora il pranzo sarà interrotto, quasi a cadenza prefissata, da diverse interventi di questo tipo. Naturalmente in queste occasioni di festa non manca un contorno di sane bevute. Nei villaggi si beve birra fatta in casa, di sorgo o di banana, aspirandola con una cannuccia dalle tradizionali zucche o, con scarso rispetto alle tradizioni, da moderne taniche di plastica, che passano di mano in mano tra i presenti. Ormai anche nei villaggi sono diffusissime le bibite analcoliche come Coca Cola e Fanta, e la birra industriale. Per la birra, lo standard da queste parti è rappresentato dalla bottiglia di 72 cl; se ti azzardi a chiedere un formato più piccolo o di condividere la bottiglia da 72 cl. ti guardano in maniera strana. Bisogna adeguarsi e, soprattutto, sapere opporre un cortese rifiuto quando, raggiunto quasi il fondo della bottiglia che state consumando, qualcuno provvederà a stapparvene una nuova. Naturalmente di fronte alla birra esiste ampia parità e quindi anche le donne pretendono la loro bella bottiglia da 72 cl. Come ovvio, gli effetti delle copiose bevute di birra, di qualsiasi specie essa sia, si fanno sentire anche all’equatore e inevitabilmente si rendono evidenti sul finire delle feste. PARTE I - Folklore
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L’artigianato tradizionale
A
nche se espressione di una società costretta a misurarsi quotidianamente con le ristrettezze di uno stile di vita ai limiti della sopravvivenza, l’artigianato tradizionale rwandese, soprattutto quello delle zone rurali, ha una produzione estremamente variegata e spesso di un certo valore artistico. Si va dai tradizionali cesti, ai manufatti e alle sculture in legno, ai pannelli d’arredo fino alla bigiotteria. L’agaseke è sicuramente il prodotto più caratteristico e rappresentativo, dai forti significati culturali, tanto che la sua immagine è inserita nel simbolo stesso del Rwanda. Si tratta di un cesto che le donne rwandesi realizzano con sapienza con una particolare tecnica di intreccio, usando lunghi e sottili fili d’erba o altre fibre vegetali, come il sisal, il bambù e per certe lavorazioni anche la corteccia del banano. E’ un lavoro che richiede tempo, anche una settimana per un contenitore di una ventina di centimetri d’altezza con il relativo coperchio, e abilità. Come risultato si hanno opere dalla fattura particolare dai cui intrecci emergono disegni, prevalentemente geometrici, e colori il cui unico limite è la fantasia delle lavoranti che lo hanno realizzato. I formati sono i più vari, così come le dimensioni e il materiale impiegato per la realizzazione. Tradizionalmente veniva usato per contenere ogni tipo di beni, dal cibo ai vestiti; oggi è facile vederlo utilizzato come contenitore di doni, da portare all’altare durante la celebrazione della santa messa, piuttosto che da offrire a un ospite. Il formato classico prevede un contenitore con il coperchio a cupola.
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Classici cesti agasekene
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Non promettere al tuo amico ciò che non gli donerai. Proverbio rwandese
Esistono però innumerevoli varianti, fra cui quella di diversi cesti racchiusi l’uno dentro l’altro a scalare come per le matrioske. Per estensione con agaseke si definiscono un po’ tutte le lavorazioni: dai panieri, ai piatti, ai porta oggetti, anche se ogni realizzazione ha tradizionalmente un nome suo proprio. Il successo dell’agaseke, conosciuto e apprezzato in tutto il mondo, ha favorito in tutto il paese il sorgere di numerose cooperative di donne dedite a queste lavorazioni, favorendo così l’asfittica economia dei villaggi. I manufatti vengono riversati sul mercato della capitale, ma anche esportati sui mercati internazionali. Oltre che sui siti dell’e-commerce del mercato solidale, si trovano anche su siti commerciali impiantati da rwandesi della diaspora. A Kigali tutti i prodotti dell’artigianato rwandese si trovano in vendita nel cosiddetto Villaggio degli artisti, alla periferia della città, dove numerosi venditori hanno i loro punti vendita. Qui si può trovare di tutto; bisogna però avere la pazienza di resistere all’assalto dei venditori e, soprattutto, quando si è deciso dove fare i propri acquisti non bisogna avere timore di ingaggiare con il venditore un’accanita trattativa sul prezzo. Sulle bancarelle del mercato si potranno trovare collane, orecchini, braccialetti fatti con i materiali più vari, ma con una forte componente di corna di animali.
Ci sono naturalmente le tradizionali maschere in legno, alcune che sembrerebbero abbastanza vecchie, scovate chissà dove, piuttosto che piccole sculture sempre in legno. Non manca mai la serie dei personaggi del presepio con un’assenza di rilievo: l’asinello, che a queste latitudini non è conosciuto. Caratteristici sono i pannelli decorativi da apporre alle pareti denominati imigongo. Esiste anche una variante di pannello, fatto con fibre vegetali intrecciate, che può essere utilizzato come separé all’interno dell’abitazione piuttosto che come elemento d’arredo da apporre alle pareti. Anche i semplici oggetti d’uso quotidiano diventano spunto per ricavare souvenir del Rwanda, come i classici contenitori in legno utilizzati per conservare il latte, piuttosto che dei portaoggetti, sempre in legno, dalle forme più svariate. Statuette del presepio
Contenitori in legno
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Post it L’imigongo Nel 19° secolo il principe Kakira, figlio del re di Gisaka, che viveva nella zona di Kibungo, approntò un metodo originale per abbellire la propria dimora. Cominciò a decorare gli interni della sua casa con motivi geometrici che raccolsero l’approvazione entusiasta del padre che destinò i locali così decorati ad accogliere gli ospiti. Ben presto questa pratica si diffuse, fino a diventare una vera e propria arte, oggi conosciuta come imigongo. Imigongo è il plurale della parola Umugongo che ha diversi significati: la parte posteriore di una persona o di un animale, la cresta di una collina, la nervatura di una foglia, ecc. In Rwanda con il termine imigongo si identificano i pannelli con dipinti in rilievo, dominati da motivi geometrici, dai colori che possono variare dal bianco al nero, dal rosso marrone fino al grigio perla e al giallo beige.
Il materiale che dà forma al rilievo è fatto di un impasto di sterco di vitello o di mucca con cenere e urina che viene spalmato su un supporto ligneo su cui previamente è stato tracciato con un carboncino il disegno che caratterizzerà l’imigongo. Sono le donne che con pollice e indice modellano l’impasto fino a far apparire triangoli (isoscele o equilatero), rombi, parallelogrammi, quadrati o spirale singola o doppia. Dopo l’operazione di modellazione, la superficie sarà ricoperta da uno strato di una sostanza ottenuta da una pianta chiamata umutobotobo che la renderà liscia. Dopo 24 ore verrà passato un sottofondo giallo-beige e quindi verranno applicati i colori desiderati. Fatto asciugare il tutto ecco l’imigongo, pronto per andare ad abbellire una parete, come aveva previsto il principe Kakira. pag. 93
Un po’ di storia
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el Rwanda attuale esistono solo rwandesi, essendo esplicitamente escluso dalla nuova costituzione del paese qualsiasi riferimento etnico; i termini twa, hutu e tutsi sono banditi. Tuttavia è difficile comprendere l’attuale realtà rwandese e, ancor più, quanto accaduto nel recente passato, senza conoscere alcuni aspetti della storia e delle tradizioni del popolo rwandese. Non possiamo certo fare finta di non aver mai sentito parlare in questi anni, a partire dal 1994, di hutu e di tutsi, che assieme ai meno citati twa, sono i tre gruppi “etnici” che storicamente abitano il Rwanda da secoli. I colonizzatori tedeschi li trovarono al loro arrivo in Rwanda a fine 800: i twa, che dovrebbero essere stati i primi abitatori del paese e quelli a tutt’oggi immediatamente identificabili per la loro bassa statura, rappresentavano solo l’1% della popolazione ed erano una popolazione nomade dedita alla caccia e alla lavorazione della terracotta; gli hutu, circa l’85% della popolazione, erano prevalentemente dediti all’agricoltura, mentre i tutsi erano tradizionalmente dei pastori. Tutti questi tre gruppi parlavano la stessa lingua, il kinyarwanda, una lingua parlata solo in Rwanda, praticavano la stessa religione animista e condividevano, in grande parte, le stesse tradizioni culturali. Si è molto dibattuto, senza peraltro che i vari studiosi pervenissero a una conclusione condivisa, su come definire queste tre
Sopra: il re Musinga, regnante al momento dell’inizio della colonizzazione, con un ufficiale coloniale A sinistra: missionari alla corte del mwami
I tutsi della corte reale, appartenenti a un lignaggio molto esclusivo, esaltano nei loro lineamenti e nell’alta statura tutti gli stereotipi fisici che solitamente si attribuiscono a questo gruppo. Sono probabilmente gli stessi, che nel 1963 ispirarono il cantante Edoardo Vianello che ci consegnò l’indimenticabile canzone dal ritmo travolgente “I Watussi”. Con trent’anni di anticipo ci aveva fatto conoscere questi altissimi negri che, come i meno giovani ricordano,ogni tre passi facevan sei metri, quelli che dell’equatore vedevano per primi la luce del sole, quelli che alle giraffe guardavan negli occhi e agli elefanti parlavan negli orecchi. PARTE I - Un po’ di storia
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Nelle foto sotto: un dipinto che raffigura i tre gruppi che compongono la popolazione rwandese e una carta d’identità riportante anche la razza dell’intestatario. Questo tipo di riferimento sopravviverà fino al 1994.
entità. Ogni studioso che si è cimentato nello studio della complessa realtà rwandese le ha etichettate a proprio modo, a seconda dell’approccio adottato. Così ci si può indifferentemente imbattere in queste definizioni: etnie, clan, gruppi sociali, classi, caste. Nonostante quanto sostenuto dagli esperti politically correct che disconoscono qualsiasi differenza tra questi gruppi, attribuendone l’invenzione ai colonizzatori e arrivando anche a negare l’evidenza dei piccoli twa piuttosto che degli altissimi componenti tutsi della corte reale che appaiono nelle foto dell’epoca, noi siamo più propensi a fidarci di un grande intellettuale e religioso rwandese, André Sibomana, che in una sua opera afferma tranquillamente “ognuno di questi gruppi appartiene a un’etnia e lo sa fin dall’infanzia.(André Sibomana: J’accuse per il Rwanda ed. EGA 1998). Anche se i molti matrimoni misti hanno attenuato di molto le caratteristiche originarie e senza dimenticare altresì che si appartiene all’etnia del padre, per cui si può essere tutsi avendo 3 nonni hutu, un rwandese, ma a volte anche un muzungu, riconosce il gruppo di appartenenza del proprio interlocutore, non tanto e non solo per le sue caratteristiche fisiche spesso evidenti, ma soprattutto per il modo di interagire e dialogare. L’appartenenza a un gruppo o all’altro sono tuttora fortemente sentite, tanto che non sempre i frequenti matrimoni misti sono ben accetti nelle famiglie più fortemente legate alla propria tradizione di gruppo. Ma torniamo al periodo coloniale. E’ vero che i colonizzatori, in particolare i belgi, alle prese con questo paese molto particolare per la sua conformazione, che lo ha reso quasi un’isola irraggiungibile nel grande cuore dell’Africa, preservandolo anche dalle razzie degli schiavisti della costa, ne fecero una specie di laboratorio di analisi antropologica condizionati dalle mode culturali del periodo, commettendo anche qualche forzatura di troppo,“ma i bianchi non hanno inventato le parole hutu,tutsi e twa, così come non hanno inventato le storie e i racconti tradizionali che veicolano psicologie diverse. I bianchi hanno concentualizzato le differenze che hanno osservato. Hanno trasformato quelle differenze esasperandole, rompendo i ponti tra le etnie, ma non le hanno create………….irrigidirono e gerarchizzarono quelle differenze.” (Sibomana: op. cit. pag.121). I tutsi, dall’aspetto fisico slanciato e con tratti somatici più vicini ai canoni europei, vennero ritenuti dai colonizzatori una razza nilotica da privilegiare rispetto ai più “selvaggi” hutu, per non parlare dei twa, meritevoli di nessuna attenzione. Tale valutazione derivava anche dal fatto che una elite tutsi esprimeva il mwami, il re che governava sulla parte centro meridionale del paese. Così i belgi per governare il paese decisero di appoggiarsi sul gruppo che in quel momento era depositario del potere: i tutsi, comprendendo anche quelli che non appartenendo ai lignaggi reali se la passavano non troppo diversamente dal resto degli abitanti del paese. PARTE I - Un po’ di storia
Post it Anastase Makutza: chi era costui? Si tratta di un ex seminarista che si laureò nel 1955 in Congo, in scienze politiche e amministrative. Fu il primo rwandese a conseguire un titolo universitario. Forte di questa laurea si mise a cercare un posto di lavoro, possibilmente all’altezza dei suoi studi. Le sue domande di entrare nell’amministrazione statale o in altri posti pubblici non furono prese in considerazione. Dopo molto affannarsi, arrivando a cercare lavoro anche in Burundi, finalmente trovò un posto di …..dattilografo in un ufficio governativo di Kibuye e nel 1957 fu promosso assistente amministrativo e quindi trasferito a Kigali. Anastase Makutza era hutu. (da: John Reader Africa ed. Oscar Mondatori)
L’ultimo re rwandese, Kigeli V , a Bruxelles con Baldovino re del Belgio http://www.kingkigeli.org pag. 96
Sulla base di questi pregiudizi e di questa scelta di campo, si snoderà tutta la politica coloniale belga in Rwanda fino alla vigilia dell’indipendenza. Il mwami viene favorito nel suo espansionismo su tutto il territorio rwandese, a discapito dei re hutu che governavano i territori montani del nord del paese. Si arriva così a concentrare l’intera amministrazione in mano all’elite tutsi, attraverso cui i belgi governano la colonia, riconoscendo una specie di mandato fiduciario alla struttura di potere che vi hanno trovato. I belgi consolidano questo rapporto con il gruppo dominante favorendo l’accesso alla scuola, in particolare quella secondaria, introdotta e gestita dai missionari Padri Bianchi, quasi esclusivamente ai bambini tutsi. Solo eccezionalmente qualche ragazzo hutu meritevole viene ammesso ai seminari minori tenuti dalla Chiesa, essendo gli altri destinati, anche per la stessa Chiesa, ai lavori manuali. Agli hutu non resta quindi che lavorare nei campi, sobbarcandosi anche gravose corvée a favore dei maggiorenti tutsi detentori del potere economico e politico. Se poi qualcuno di loro farà fortuna, arrivando a possedere un certo numero di vacche, potrà essere cooptato nel gruppo tutsi. Parallelamente un tutsi che andrà incontro a qualche rovescio economico potrà fare il percorso contrario e scendere nella scala sociale, rientrando nel gruppo di coloro che hanno degli obblighi di servitù verso i maggiorenti tutsi. Pur nel diverso destino, difficilmente recideranno in via definitiva quel cordone ombelicale che li lega alla rispettiva origine che li ha permeati, fin dall’infanzia, di quella specifica visione della vita che come diceva Sibomana li fa sentire hutu o tutsi. Questo stato di cose favorisce l’affermarsi di un senso di superiorità da parte dei tutsi, che tenteranno anche di darvi un fondamento storico, andando a recuperare miti o costruendone di nuovi che consentissero di consolidare questo loro status e, soprattutto, legittimare il potere detenuto, sia a livello economico che politico amministrativo. I belgi a un certo punto, agli inizi degli anni trenta, arrivano a codificare, in maniera un po’ sbrigativa, anche solo sulla base del possesso di un certo numero di mucche, parametro indiscusso di ricchezza, questa suddivisione fra i tre gruppi, riportando l’appartenenza etnica sulle carte d’identità. E’ l’innesco di future tragedie. E’ evidente come alla maggioranza hutu una situazione come quella illustrata non andasse certo bene. Non sopportavano di essere esclusi da ogni forma di potere, anche locale, pur essendo di gran lunga il gruppo maggioritario, di dover sottostare ai forti vincoli con PARTE I - Un po’ di storia
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Il soccorso straniero arriva quando la pioggia è passata. Proverbio rwandese
cui era scandita la loro vita quotidiana, di subire gli inevitabili abusi dei detentori del potere, non escluse le visite del mwami che, nelle sue peregrinazioni nei villaggi del regno, non disdegnava giacere con le loro donne. L’occasione per la resa dei conti si presenta quando, alla fine degli anni cinquanta, l’improvvisa sbocciatura della stagione dell’indipendenza nei paesi africani istilla negli intellettuali hutu la voglia di rivincita, rivendicando in un sol colpo l’indipendenza dal Belgio e l’abolizione della monarchia tutsi. Nel giro di pochi anni ottengono ambedue gli obiettivi. Dal 1959 al 1962 il quadro politico sociale cambia completamente: il Belgio e la Chiesa, che fino ad allora per diversi motivi avevano appoggiato l’elite tutsi, ritengono giunto il tempo di favorire l’emancipazione degli hutu assecondando la loro aspirazione a una più equa distribuzione del potere, fino ad allora totalmente concentrato, a tutti i livelli, nelle mani del gruppo tutsi. Le elezioni amministrative del giugno-luglio 1960 per il rinnovo dei quadri dirigenti locali decretano una schiacciante vittoria dei partiti riconducibili agli hutu. Forti del successo ottenuto nelle elezioni amministrative, nel gennaio del 1961, i partiti hutu, senza attendere il normale evolversi del processo che doveva portare all’indipendenza, presero il potere con un colpo di stato. Nel settembre successivo le elezioni legislative decretarono Lunga coda ai seggi nelle elezioni del 25 settembre 1961 Fonte: http://www.opjdr.org/photo_gallery.htm
PARTE I - Un po’ di storia
Post it I miti fondativi Ecco due dei diversi miti che stanno alla base della storia delle origine di batwa, batutsi e bahutu. Il primo, quello del padre comune, suffraga la tesi delle tre componenti dell’unico popolo rwandese come altrettante classi sociali; il secondo sposa la tesi della superiorità batutsi fondandola su un’origine divina. Un giorno, al tramonto, Dio consegnò a ciascuno dei tre figli di Kanyarwanda un vaso di terracotta contenente del latte (inkongoro). La mattina dopo Dio tornò a vedere quello che i tre avevano fatto. Il goloso Gahutu aveva bevuto tutto il latte fino all’ultima goccia e ancora sonnecchiava. Lo sbadato Gatwa, saltellando come un bambino, aveva rovesciato il vaso disperdendo tutto il latte sul pavimento. Gatutsi, invece, custodiva ancora con cura il suo vaso con il prezioso contenuto. Quando Dio gli chiese perché non bevesse, rispose: “Sapevo che saresti tornato, mio Dio, e volevo che tu mi trovassi con almeno qualcosa da poterti offrire”. A quel punto Dio diede a Gatutsi il comando su entrambi i fratelli. Vi sono anche altri miti, in cui si parla di origine celeste del capostipite dei Batutsi. Sabizeze, nato dal cuore di un toro rimasto immerso nel latte per nove mesi, arrivò nell’attuale Rwanda provenendo dal nord con un piccolo seguito di persone e animali. Quando gli indigeni lo incontrarono sul loro territorio, alla richiesta di chi fosse e da dove venisse, rispose che era disceso dal cielo (Ibimanuka) ed era venuto pacificamente. Sabizeze fu accolto come il Kigwa,il caduto dal cielo, e diede origine, accoppiandosi all’interno del gruppo originario, a una dinastia che con Gihanga raggiunse potere e ricchezza. pag. 98
il successo del partito hutu con il 78% dei voti. Il primo luglio 1962 il Belgio concede l’indipendenza e viene proclamata la repubblica e la conseguente abolizione della monarchia. L’ultimo re, Kigeli V, vive tuttora in esilio negli Stati Uniti. Già in questa fase di passaggio cominciarono le prime vendette, anche con numerose uccisioni, contro i vecchi detentori del potere tutsi, migliaia dei quali lasciarono il paese, alimentando le numerose colonie di profughi insediatesi nei paesi confinanti. Nel 1973 un colpo di stato del generale hutu del nord, Juvénal Habyarimana, accentuò la caratterizzazione etnico/regionale, con conseguenti altri flussi migratori dei tutsi. Nell’ottobre del 1990, i fuoriusciti tutsi che vivevano in Uganda, dove erano arrivati a ricoprire anche posti di rilievo nelle forze armate di quel paese, danno inizio con il Fronte Patriottico del Rwanda all’invasione del nord del paese. Con l’appoggio di Usa e Gran Bretagna, desiderose di scalzare l’influenza francese schierata con il governo rwandese, i ribelli, con indubbie abilità strategiche e una buona dose di spregiudicatezza, dopo quasi tre anni di guerriglia riescono a imporre al Governo rwandese un accordo di spartizione del potere (Arusha agosto 1993) che prevede, tra l’altro, la formazione di un governo di coalizione, un esercito che raggruppi le forze armate delle due parti in campo e l’adozione di principi democratici nella gestione del potere. Le Nazioni Unite inviano 2.800 caschi blu per vigilare sul rispetto degli accordi di pace. Nelle more di dare attuazione a questi accordi, il 6 aprile 1994 l’aereo presidenziale su cui viaggiano, di ritorno da Arusha, il presidente Juvenal Habyarimana e il suo omologo burundese, Cyprien Ntaryamira, verso le ore 20,30, viene abbattuto da ignoti nei pressi dell’aeroporto di Kigali. Le parti in conflitto, appellandosi alla vecchia logica del cui prodest, ancora oggi, si rimbalzano la responsabilità di quella che unanimemente è ritenuta la causa scatenante della tragedia rwandese. E’ l’inizio della carneficina: gli squadroni della morte hutu si scatenano contro i tutsi, il Fronte Patriottico Rwandese guidato da Paul Kagame lancia l’offensiva definitiva, il mondo resta a guardare. L’Onu ritira i suoi uomini, mentre gli americani non mandano aiuti con la scusa che c’è il problema di chi debba pagare la verniciatura dei mezzi militari inviati sotto l’egida dell’Onu. Di fronte a tanta ignavia, il FPR può così portare a termine la marcia verso la conquista del potere iniziata tre anni prima, partendo dall’Uganda. Secondo la ricostruzione condivisa da quasi tutti gli osservatori internazionali, “dal 6 aprile alla metà di luglio del 1994, per circa 100 giorni, PARTE I - Un po’ di storia
Post it Clinton: potevamo salvare 400.000 rwandesi
L’ex presidente americano Bill Clinton, in occasione di un incontro/dibattito con l’altro ex presidente George W. Bush tenutosi nel maggio 2009 a Toronto, ha fatto un sentito mea culpa sul Rwanda, accusandosi di essere stato incapace di bloccare il genocidio nel 1994, e riconoscendo di non avere alcuna attenuante. “E’ uno dei due o tre rimpianti della mia presidenza”, ha detto Clinton, spiegando che se avesse mandato ventimila soldati in loco, forse si sarebbero potute salvate fino a 400 mila vite.
Copertina del Time dell’agosto1994
Purtroppo la sincerità dell’ex presidente non servirà a restituire tante vite, è comunque un contributo storico per mettere a nudo le colpe di cui si sono macchiati diversi protagonisti della politica internazionale che per ignavia o per inconfessabili interessi hanno assistito da spettatori al consumarsi del sacrificio di centinaia di migliaia di rwandesi. pag. 99
Reportage Quella fotografia di Kagame circa 800.000 persone, tutsi e hutu moderati, senza distinzione di sesso e di età, vennero massacrate sistematicamente oltre che a colpi di arma da fuoco anche di machete e di bastoni chiodati, da parte delle forze governative e delle milizie formate dalla maggioranza hutu”. Sarà questa la formula che da lì in avanti tutti i media useranno per descrivere quanto accaduto in Rwanda in quel tragico 1994. Secondo la risoluzione n. 96 del 1946 e la convenzione del 1948 dell’ONU i tutsi erano rimasti vittima di un genocidio che aveva visto massacrati circa i due terzi dei 600.000 tutsi che secondo i dati del censimento del 1991, risiedevano nel paese. Il Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati stima prudentemente da 25.000 a 40.000 le vittime, anche civili, ascrivibili al FPR nella sua avanzata dall’Uganda. Qualunque sia l’esito di questa macabra contabilità, al termine di una crudelissima guerra, come solo una guerra civile per la conquista o la difesa del potere può esserlo, il 4 luglio, le truppe del FPR entrano a Kigali da vincitrici, ponendo fine alle ostilità. Quasi tre milioni di profughi hutu, fra cui sicuramente molti che si sono macchiati di efferati crimini, ma per la stragrande maggioranza intere famiglie che volevano sottrarsi a possibili vendette dei vincitori, fuggono nei paesi vicini, in prevalenza nel Nord Kivu in Congo, dove molti si trovano a tutt’oggi, diventando uno dei fattori di instabilità dell’area. Dopo poco più di trenta anni dalla proclamazione dell’indipendenza, i profughi di allora riconquistano il potere e danno vita a una nuova stagione politica. Solo il tempo, solitamente giudice galantuomo, potrà certificare se sarà una stagione di pace e di riconciliazione per tutti, indistintamente, i rwandesi.
Post it La tragedia vista dagli artisti Della carneficina consumatasi dal 6 aprile alla metà di luglio del 1994, al tempo i media ci hanno consegnato immagini atroci,
Quello che appare nella foto, purtroppo non di buona qualità, è l’attuale presidente del Rwanda, Paul Kagame. L’uomo che, partendo dall’Uganda nel 1990, ha guidato il Fronte Patriottico Rwandese alla conquista del potere e che attualmente è presidente della repubblica rwandese,
storie di odio e crudeltà difficilmente immaginabili. A volte però solo gli artisti sanno
dare piena rappresentazione del male. E’ quanto è riuscito a fare uno scrittore africano, Uwem Akpan, in un breve racconto che dà il titolo a un libro di storie africane: Dì che sei una di loro ed. Mondadori. Vi è rappresentato il dramma rwandese visto attraverso gli occhi di due bambini che vivono in prima persona la tragedia all’interno del loro microcosmo familiare, fra il padre hutu e la mamma tutsi. In trenta pagine c’è tutto: l’odio e l’amore, l’ignavia e la solidarietà, il razzismo e l’amicizia. Il cinema da parte sua ci ha fatto rivivere parte di quel dramma con il famosissimo Hotel Rwanda e la storia del suo direttore, Paul Rusesabagina, che si adoperò per salvare centinaia di tutsi. Oggi il signor Rusesabagina, sgradito in patria, vive in esilio negli USA, dove nel 2005 ha ricevuto dal presidente George W. Bush la “medaglia presidenziale per la libertà”, la più alta
essendo stato rieletto nell’agosto del 2010 per la seconda volta alla carica, con una percentuale di voti superiore al 93 per cento. La foto è stata scattata lunedì 18 agosto del 2003 allo stadio di Byumba. Si era in piena campagna elettorale per le prime elezioni popolari del presidente della repubblica. In quel momento Kagame era presidente, eletto però dall’assemblea nazionale nell’aprile 2000, essendo stato precedentemente, a partire dal luglio 1994, vice presidente e ministro della difesa: in una parola era l’uomo forte nelle cui mani era concentrato tutto il potere reale. Nel suo tour elettorale al pomeriggio di quel lunedì era previsto un suo comizio in città. L’intera popolazione aveva raggiunto lo stadio, appena fuori città, con ogni mezzo. Mosso da grande curiosità, mi ero aggregato, unitamente a mia moglie, al vicario episcopale e a un altro sacerdote che intendevano assistere all’avvenimento. Superati i controlli, piuttosto stringenti, all’entrata, mi ero accomodato sulle tribune immediatamente alle spalle del palco dove avrebbero preso posto gli oratori. Eravamo gli unici bianchi in tribuna e probabilmente in tutto lo stadio, almeno fino a quando non ha fatto il suo ingresso il candidato accompagnato oltre che da un’adeguata scorta da due o tre fotoreporter bianchi. Dopo i preliminari fatti di dan-
ze e slogan assordanti che si elevavano dai circa diecimila presenti, molti dei quali con cappellini e magliette con i simboli del FPR e il nome del candidato, è iniziato il vero e proprio momento politico, preceduto da una preghiera per la riconciliazione recitata dal palco da parte del vicario episcopale. Dopo che quattro o cinque rappresentanti di movimenti fiancheggiatori avevano fatto la loro parte, portando il loro sostegno al candidato presidente con un breve indirizzo di saluto pronunciato dal palco, finalmente ecco il turno di Kagame. Il portamento sicuro, il modo di muoversi, la faccia ieratica davano la sensazione di trovarsi di fronte a un personaggio dall’indubbio carisma. Il suo modo di parlare non sembra, perché in effetti non comprendevamo nulla di quanto diceva, concedere nulla alla platea, almeno dal tono di voce abbastanza misurato. A un certo punto del suo discorso si rivolge a chi gli sta alle spalle, con il dito s’indirizza proprio verso di noi. Quasi con un riflesso condizionato scatto una foto che immortala l’attuale presidente del Rwanda mentre, indirizzandosi ai due bazungu seduti in tribuna, li tranquillizza (così mi riferirà il sacerdote che ci accompagna) assicurando che le elezioni si sarebbero svolte nella massima correttezza e non c’era alcuna ragione di che preoccuparsi per quei due “osservatori occidentali” che lo seguivano così attentamente, prendendo pure appunti. Se si fosse avvicinato si sarebbe accorto che mia moglie era alle prese con la Settimana enigmistica.
Sostenitori del Presidente Kagame
onorificenza civile. PARTE I - Un po’ di storia
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PARTE I - Un po’ di storia
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In cammino
I
primi anni successivi al 1994 richiedono da parte del governo un certo pugno di ferro per tenere sotto controllo la situazione ed evitare rigurgiti di guerra civile. Come in un terremoto non sono mancate le scosse di assestamento con episodi ancora tragici come quanto successo, nell’aprile del 1995, nel campo profughi di Kibeho, oggetto di un sanguinoso intervento dell’esercito rwandese che ha lasciato sul campo diverse migliaia di morti (4000 circa, secondo osservatori internazionali).Dopo i primi anni dedicati a rimettere in piedi un paese uscito distrutto materialmente e spiritualmente, l’abile e spregiudicato Kagame inizia a ricostruire il Rwanda. Innanzitutto rompe i ponti con il passato anche nei segni esteriori: cambia la bandiera e l’inno nazionali. Negli ultimi anni, l’inglese soppianta il francese come lingua ufficiale a fianco del Kinyarwanda. Il Rwanda entra nel Commonwealth. Si bruciano le tappe per sviluppare il paese, proiettandolo verso il futuro in un ambizioso piano di modernizzazione, le cui linee strategiche sono contenute nel piano presentato come Vision 2020. Sulla scena internazionale il Rwanda, in questi anni, si accredita, anche grazie all’opera di tanti sponsor politici non sempre disinteressati, come un paese da additare ad esempio per gli altri paesi africani per la sua governance a livello politico, per i livelli di sicurezza interna di cui gode, per un certo processo di sviluppo sociale ed economico in atto. All’apparenza i fatti stanno dando ragione al nuovo gruppo dirigente rwandese, almeno ascoltando i media internazionali, in cui è abbastanza evidente l’opera di professionisti della comunicazione a cui è stata affidata la cura dell’immagine del paese e del suo presidente, e giudicando sulla base di una veloce visita nella capitale, come fa la maggior parte dei giornalisti.
PARTE I - In cammino
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PARTE I - In cammino
Post it I tribunali gacaca
I gacaca sono tribunali della tradizione rwandese, composti non da giudici convenzionali ma da componenti della società civile eletti all’interno delle diverse comunità locali. Ai gacaca le autorità rwandesi avevano affidato il compito di giudicare gli imputati accusati di aver partecipato agli eccidi del 1994, con la sola eccezione dei responsabili di aver pianificato atti genocidari a livello nazionale o di prefettura, il cui giudizio è rimasto di competenza dei tribunali convenzionali. In questi anni, a partire dal 2005, sono passati al vaglio dei tribunali gacaca oltre 1,4 milioni casi che si sono conclusi con circa il 20/30% di assoluzioni. I colpevoli si sono visti comminare pene detentive nell’ordine di diversi anni, che qualcuno sta scontando nei lavori comunitari, fino all’ergastolo, che ha interessato circa il 5 % degli imputati. In questi anni non sono mancate critiche a questo tipo di giustizia, inevitabilmente esposto ai personalismi e ai condizionamenti o alle vendette sempre possibili nelle piccole comunità locali; non sono mancati anche casi accertati di corruzione o di giudici che sono diventati imputati degli stessi crimini che erano chiamati a giudicare. Nel complesso però la grande mole di lavoro svolto, che non sarebbe stato possibile smaltire da parte dei tribunali convenzionali, ha concorso, sgomberando il terreno da molti casi aperti fonte di rancori e incomprensioni, ad avviare un faticoso e sicuramente ancora lungo processo di riconciliazione nazionale. Maggio 2011 pag. 103
Ingoma irahaka ntihora. Chi detiene il potere protegge e non si vendica. Proverbio rwandese
La realtà è però più complessa, come ci ricorda, con il duro realismo dei numeri, il Rapporto sullo sviluppo umano, pubblicato ogni anno, dal 1990, dall’ONU che attraverso l’Indice di Sviluppo Umano (HDI) tenta di definire lo stato di benessere di un paese fornendo una misura composita di tre dimensioni fondamentali dello sviluppo umano: salute, istruzione e reddito. Nel Rapporto 2010, la situazione del Rwanda viene così sintetizzata: “Tra il 1980 e il 2010 l’ indice HDI del Rwanda è aumentato dell’1,5% all’anno, passando dallo 0,249 allo 0,385 di oggi, collocando il paese oggi al 152 esimo posto sui 169 paesi con dati comparabili. L’ HDI dell’Africa subsahariana, come regione è aumentato dallo 0,293 nel 1980 allo 0,389 di oggi”. Il Rwanda si lascia alle spalle 16 altri paesi africani, oltre all’Afghanistan; in compenso, cosa che dovrebbe far riflettere, ci sono altri trenta paesi africani che hanno parametri migliori. Come si vede, pur tra tanti innegabili progressi che in questi anni hanno spesso portato all’attenzione del mondo il piccolo paese delle mille colline, la situazione profonda del Rwanda necessita ancora di molti interventi per risalire da quel non gratificante 152 esimo posto, nella graduatoria mondiale, dove lo colloca il Rapporto ONU. Se poi si prende in esame l’indice di povertà The Human Poverty Index (HPI-1) per i paesi in via di sviluppo, la situazione non migliora. Il valore dell’HPI-1 per il Rwanda è del 32,9 collocando il paese al 100esimo posto tra i 135 paesi per i quali l’indice è stato calcolato. Come si vede il duro responso dei dati dell’ONU ci consegna la fotografia di un paese più vicino alla dura realtà della vita dei villaggi, piuttosto che quella, da cartolina turistica o da ufficio stampa, della capitale.
Post it Tony Blair, il grande sponsor del Rwanda
Post it Il termometro della povertà L’Indice di sviluppo umano-Human development index (HDI) fornisce una misura composita dello sviluppo umano prendendo in considerazione parametri diversi dal classico PIL quali l’aspettativa di vita, l’alfabetizzazione degli adulti e il livello di vita misurato dal PPP, parità del potere di acquisto, e dal reddito. L’indice di povertà The Human Poverty Index (HPI-1) per i paesi in via di sviluppo evidenzia la proporzione di persone al di sotto di determinate soglie in ciascuno dei comparti presi in esame per l’indice di sviluppo umano. L’HPI-1 rappresenta un indice alternativo al parametro di 1,25 dollari al giorno (PPP US $) che misura il livello di povertà. L’HPI-1 misura la situazione di grave degrado in materia di salute dato dalla percentuale di persone che non sopravvivranno a 40 anni. L’istruzione è misurato dal tasso di analfabetismo degli adulti. E un tenore di vita dignitoso è misurato dalla media ponderata delle persone che non utilizzano una fonte idrica e la percentuale di bambini sotto i 5 anni che sono sottopeso per la loro età.
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Uno dei più grandi sponsor del Rwanda a livello internazionale è l’ex premier britannico Tony Blair. Tra le tante iniziative messe in campo dall’ex premier britannico, dopo la sua uscita da Downing Street, vi è l’Africa Governance Initiative-AGI, un’organizzazione non lucrativa che si propone di supportare i governanti africani, ai massimi livelli, per metterli nelle condizioni di guidare i loro programmi di sviluppo, affrontare la povertà radicata e attrarre gli investimenti sostenibili per la costruzione di economie forti per il futuro. Al momento, gli sforzi dell’AGI sono concentrati su tre paesi africani: Rwanda , Sierra Leone e Liberia. In Rwanda è attivo un team di una decina di esperti che dal luglio 2008 fornisce supporto continuativo alle istituzioni centrali rwandesi: alla Presidenza in materia di pianificazione strategica, di comunicazione e di identificazione delle priorità dello sviluppo, all’Ufficio del Primo Ministro in particolare per il coordinamento dell’attività di governo, al Rwanda Development Board per la promozione del settore privato e al Capacity Building Fund. Frequenti sono anche le visite dello stesso Blair che intrattiene rapporti di stretta amicizia da lunga data , fin da quando come primo ministro erogava cospicui aiuti finanziari al paese africano, con il presidente Paul Kagame. In ogni favorevole occasione, mister Blair non manca di accreditare il presidente rwandese come “buon amico e leader visionario che ha fatto del Rwanda una storia africana di successo e un paese in movimento nella giusta direzione ad un ritmo notevole”. L’obiettivo del progetto promosso dall’ex premier britannico è quello di aiutare il Rwanda a realizzare la sua visione per un futuro prospero e stabile con l’affinamento delle capacità di gestione delle priorità di governo. Il parternariato di AGI è apprezzato dalle autorità rwandesi, come ha avuto modo di sottolineare il primo ministro Bernard Makuza :”Siamo molto soddisfatti della collaborazione che abbiamo con Tony Blair e la sua squadra, perché ci aiutano a ottenere buoni risultati. Il miglior tipo di finanziamento è quello che consente ai beneficiari di formarsi e di acquisire le competenze necessarie per svolgere meglio il loro lavoro “. La pur nobile opera dell’AGI, ma in particolare quella di Tony Blair, non ha tuttavia evitato le critiche di certa stampa inglese, come The Times, che evidenzia la scarsa trasparenza di un’attività filantropica che troppo spesso sfuma in affari privati, soprattutto quando si possono suggerire le scelte economiche che impattano sul futuro di uno o più stati. Altri critici contestano invece a Blair di concentrarsi esclusivamente sullo sviluppo, prevalentemente economico, dei paesi assistiti, tralasciando di prestare la propria opera anche per far evolvere il più ampio contesto sociale verso livelli di democrazia e di libertà più coerenti con quelli che l’uomo politico britannico incarna. Giugno 2011 PARTE I - In cammino
La situazione in cui si trova la popolazione che vive al di fuori della capitale e delle città del paese richiede ancora molto lavoro da parte del governo rwandese. In particolare, in ambito sanitario, scolastico e dello sviluppo economico, necessitano interventi che consentano di far condividere anche alle popolazioni rurali i progressi che il governo è riuscito a mettere a segno, in questi anni, in diversi settori dell’economia e della società. Si può, quindi, ben comprendere come ci siano amplissimi spazi per interventi di sostegno a favore delle popolazioni che vivono nei villaggi. Si va dai grandi progetti messi in campo dalle Ong internazionali americane ed europee, dotate di importanti disponibilità finanziarie, che operano in affiancamento con il governo, ai microprogetti di tante piccole Onlus, tra cui l’Associazione Kwizera, che operano sul terreno in collegamento, in via prevalente, con le strutture della chiesa locale.
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Dall’inviato Da Nyiamata a Ntarama Purtroppo, il bagno di sangue del 1994 non ha disinnescato del tutto gli elementi critici che la società rwandese porta con sé, eredità di una storia e di un assetto sociale particolarmente complessi, a cui si aggiungono il problema della densità abitativa e la carenza di ricchezze naturali proprie, atte ad alimentare il processo di sviluppo che l’amministrazione sta perseguendo con determinazione. Per scongiurare qualsiasi rischio di rivivere le tragedie del passato e per consentire al popolo rwandese di incamminarsi verso un futuro fatto di dignità e di sviluppo, è necessario che la società rwandese compia ogni sforzo per attuare al suo interno un reale processo di riconciliazione, al cui esito si possa pervenire anche a una reale condivisione del potere fra le diverse componenti della stessa società rwandese. Per questo confidiamo che le numerose raccomandazioni che diversi organismi internazionali, impegnati nella difesa dei diritti e delle libertà, indirizzano con cadenze sempre più frequenti al governo rwandese, non vengano sbrigativamente liquidate come un attacco alla giovane repubblica. E’, infatti, nell’interesse degli stessi governanti, oltre naturalmente che dell’intera popolazione, non offuscare il processo in corso di sviluppo economico e di ammodernamento dell’apparato statale e gli indubbi progressi che ne sono conseguiti con le molte limitazioni che ancora permangono nella società, sul fronte delle libertà individuali e delle dinamiche democratiche. Solo consentendo a tutte le diverse anime della società rwandese di concorrere al governo del paese, nel libero confronto delle idee, chi attualmente governa potrà aspirare, sfuggendo alle fugaci lusinghe della cronaca, a entrare nei libri di storia, ergendosi a esempio per molti altri paesi africani.
PARTE I - In cammino
Post it In Rwanda c’è meno corruzione che in Italia Il grado di corruzione percepito in Rwanda è inferiore a quello italiano. Lo dice la classifica stilata dall’ong Transparency International sulla base del Corruption Perceptions Index (CPI), l’indice che misura il grado di corruzione percepito sulla base dei casi di corruzione e di malgoverno della cosa pubblica che si manifestano in un paese. La classifica per il 2010 è aperta dalla Danimarca, Nuova Zelanda e Singapore con un punteggio di 9,3 ed è chiusa da Iraq, Afghanistan con un punteggio di 1,4 e Somalia con 1,1. L’Italia è al 67esimo posto, con un punteggio di 3,9, preceduta dal Rwanda piazzatosi al 66esimo posto con un punteggio di 4,0, in risalita dal 89esimo posto del 2009. Il Rwanda è tra i paesi africani più virtuosi, preceduta in classifica solo da Botswana, Sud Africa, Namibia, Tunisia e Ghana.
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Agosto 2007. Historia magistra vitae solevano dire i latini secoli fa ed anche se non pensavano certo alle mille colline ed alla rossa laterite della terra rwandese sarebbe auspicabile che anche questo paese di tale massima facesse tesoro. E’ possibile sentire la voce della storia a Nyiamata ed a Ntarama, basta saperla ascoltare. Questi due piccoli villaggi, come molti altri, sono infatti stati teatro di tragici massacri durante il periodo del genocidio: nelle loro due chiese hanno perso la vita in tutto quindicimila persone. Appena disceso a Nyiamata, non potevo immaginare quello che mi stava nascondendo l’ordinata chiesetta che avevo davanti, nel momento in cui sono entrato però il mio sguardo si è posato su segni inequivocabili: le lamiere del tetto perforate da pallottole e scaglie di bombe a mano, la tovaglia dell’altare ancora intrisa di sangue, i muri scalfiti dall’impatto coi proiettili, tutti indizi insomma, che mi consentivano di ben figurarmi quello che era accaduto sul suolo sotto i miei piedi tredici anni prima. Vicino all’ingresso inoltre, in un piccolo stanzino erano stipati gli abiti raccolti alle vittime, mentre poco più lontano, tra le panche della chiesa sarcofagi lignei contenevano i resti di svariate decine di persone. Malgrado l’atmosfera fosse già piuttosto pesante e difficile da sopportare, delle viste ancor più crude mi attendevano nella parte retrostante la chiesa, dove si spostò la nostra visita. In un cortile esterno erano state edificate due cripte che mostravano, ordinatamente raccolte, le ossa di migliaia di persone di cui era stato impossibile accertare l’identità, mentre in una fossa comune pochi metri oltre erano seppelliti gli individui riconosciuti attraverso le carte d’identità e di cui una grande lapide in pietra ricordava uno ad uno i nomi. Avvolto in un silenzio meditabondo che mi accomunava ai miei compagni di viaggio torno all’ingresso della chiesetta dove, dopo una firma sul registro dei visitatori, con un saluto ci congediamo dalla guida che aveva accompagnato la nostra visita. Le buche della strada che scandiscano il nostro silenzio mentre ci spostiamo verso Ntarama si susseguono irregolari per sei chilometri. Anche i miei compagni paiono molto colpiti da quanto appena visto; ma le parole in quel momento erano superflue. All’arrivo ad Ntarama avevo maggiore consapevolezza di ciò che mi aspettava; quindi i colpi di mortaio che avevano aperto le brecce nei muri della chiesetta arroccata sulla collina non mi sorpresero più di tanto, ma all’interno le cose si presentarono immediatamente differenti rispetto a Nyiamata. Tutto
PARTE I - In cammino
quello che c’era da vedere era all’interno della chiesa: ogni cosa era rimasta dove si trovava, era solo stata ordinata. Alle travi del soffitto e lungo le pareti laterali gli abiti delle vittime proiettavano le loro ombre sinistre, dando vita ad un’atmosfera spettrale. Su uno scaffale erano esposti i poveri averi dei cinquemila malcapitati: collane, rosari, scarpe, borsette; raccolte in una cesta stavano ammassate lettere, diari e scritti vari: ultime memorie di vite spezzate. Sulla parete del lato opposto all’altare un’enorme scaffalatura raccoglieva le ossa degli uccisi che seppur ordinate non nascondevano i segni di svariate violenze: fori di pallottole nei teschi, ferite da armi da taglio, crani fracassati, frecce conficcate nelle ossa e nella penombra, quasi nascosti, gli strumenti di un tale abominio: machete arrugginiti dal tempo. Nessuno era stato risparmiato, uomini, donne, bambini: tutti accomunati da un sinistro destino. L’aria dentro la chiesa è pesante, i miei occhi non sopportano più quella vista, esco e la luce di mezzogiorno mi riconcilia con la vita. Lasciamo Ntarama. La mia mente non può fare a meno di interrogarsi, di cercare una valida motivazione che in qualche modo assegni una logica agli eventi, ma invano. Mi dico che ad una persona che vive simili momenti da una prospettiva esterna e defilata è impossibile comprendere quali siano le energie e le forze che si accumulano liberandosi improvvisamente in gesti di una violenza spietata ed intrisa di follia. Guardo Elias, il nostro autista rwandese, anche lui ha visitato con noi Ntarama per la prima volta, mi pare seriamente nervoso, scosso e teso, quello sguardo attento che scorre la strada è adesso più inquieto del solito. Ho la netta sensazione che di fronte agli abazungu provi un misto di vergogna e di responsabilità, lo stesso che dovremmo sentire noi europei o occidentali per non esserci minimamente adoperati al fine di evitare un inutile genocidio. Parlano ancora i teschi fatti a pezzi a Ntarama e Nyiamata, parlano e dicono: siamo l’esempio, imparate da noi e cambiate rotta, mai più altri noi, solo così non saremo morti invano. A volte il tempo ci fornisce la consapevolezza e la coscienza degli errori passati, speriamo che sia vero anche in questo caso, che un nuovo clima di pace rinfreschi questa nazione vittima delle sue contraddizioni e che in futuro la sua fama sia quella del sole, delle mille colline, dei gorilla e di Kibeho. Alessandro Buriani
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Questa è la zona del nord Rwanda dove, nell’ambito della diocesi di Byumba, l’Associazione Kwizera ha concentrato i propri interventi.
PARTE II - Kwizera 2002-2011
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Rwanda - Kwizera
PARTE II Kwizera 2002-2011 Presentazione
A dieci anni da quando un gruppo di amici ha intrapreso un cammino che non nascondeva propositi ambiziosi “a piccoli passi…. cambieremo il mondo”, è tempo per volgere indietro lo sguardo, tentando un primo parziale bilancio di quanto fatto muovendo da quegli iniziali entusiasmi. A partire dall’idea scatenante quell’impegno. I promotori, Angelo e Franco, la ricordano così: “Non è facile ricordare quando e come è nata l’idea, ritrovare nella memoria il momento, l’istante esatto in cui da un semplice pensiero, si accende nella mente la scintilla e l’idea incomincia a prendere forma. Dopo avere promosso e organizzato con un piccolo gruppo di amici alcune opere sociali, abbiamo deciso di avventurarci in un progetto più ambizioso e impegnativo: spendere un po’ delle nostre energie e del nostro tempo a favore di chi ha bisogno. Abbiamo così individuato nel martoriato popolo del Rwanda il destinatario privilegiato del nostro impegno. Testimoniare lì l’amore, la gioia, la pace nella convivenza, la solidarietà e la condivisione significa alimentare la speranza che il domani potrà essere migliore. Speranza, in lingua rwandese, Kwizera, è il dono che la nostra Associazione vuole portare in terra d’Africa e la fiamma che alimenta il nostro impegno.” Nelle pagine che seguono cerchiamo di ripercorrere le tappe di un percorso che ha portato l’Associazione, dopo una prima iniziale esperienza a Cyeza nella parte centrale del Rwanda, a concentrare i propri interventi nella diocesi di Byumba, nella parte settentrionale del paese. Qui in collegamento con il vescovo monsignor Servilien e i suoi collaboratori don Paolo e don Damasceno, Kwizera ha cercato di fare incontrare la generosità di tanti benefattori italiani con i bisogni degli amici rwandesi. Da qui sono nati i progetti di seguito illustrati.
Nota del curatore: Tutte le frasi citate in testa alle pagine dispari sono tratte dall’enciclica di Benedetto XVI, Deus caritas est. PARTE II - Kwizera 2002-2011
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Missioni 2001-06 Dic. 2001 Ago. 2002 Ago. 2003-4 Ago. 2005 Ago. 2006
Gli inizi: Muhura e Cyeza
Franco Simonini , Angelo Bertolucci Franco e Maria Rina Simonini, Angelo e Catia Bertolucci, Daniele Puppa Franco, Angelo, Maria Rina, Daniele Franco, Angelo, Maria Rina Franco, Angelo, Luca Salotti e Lucia Marcucci
E
rano i primi di dicembre del 2001, quando i primi volontari dell’Associazione Kwizera arrivarono in Rwanda. Cominciarono a Muhura, come ce lo ricorda Angelo Bertolucci qui di seguito. Sono i primi contatti con una realtà estremamente diversa e lontana; sono i primi piccoli passi. A Muhura, nel nord Rwanda, l’impegno dell’Associazione si concretizza nell’acquisto di un terreno, nei pressi dell’ospedale locale, da destinare alla costruzione di uno spaccio e di alloggi per infermieri e personale sanitario. Negli anni successivi, i volontari si sposteranno più a sud, nei pressi della città di Gitarama, sulla collina di Cyeza, dove già operano le Suore Oblate dello Spirito Santo, originarie della diocesi di Lucca. Qui, in fasi successive, vengono acquistati diversi appezzamenti di terreno, da destinare alla messa a coltura, per produrre alimenti da destinare alla mensa scolastica della scuola superiore di Cyeza. Poi, prendendo confidenza con la nuova realtà, gli impegni diventano più importanti. Viene acquistato un terreno su cui i volontari curano direttamente i lavori di edificazione di una stalla che sarà ultimata nel 2003. Ultimata la stalla, i volontari lasciano Cyeza e fanno ritorno nella diocesi di Byumba da dove erano partiti; Muhura si trova, infatti, in quella diocesi. Qui, operando in stretto contatto con l’economato diocesano, al tempo retto da don Paolo Gahutu, comincia un nuovo percorso che negli anni successivi porterà frutti copiosi.
Muhura: il Motel aperto dal volontario Gianni
La costruzione della stalla di Cyeza
La nuova stalla di Cyeza
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Dall’inviato Da lì, quante storie… Sono protagonisti di questa prima esperienza pioneristica Franco Simonini, con la moglie Maria Rina, e Angelo Bertolucci, con la moglie Catia, oltre a Daniele Puppa. Saranno le loro sensazioni e testimonianze a fare da innesco al diffondersi del mal d’Africa nella comunità della Garfagnana. Il loro esempio sarà seguito da altri negli anni successivi. Il seme è ormai gettato; l’Associazione, dopo i primi incerti passi, prende coscienza di sé ed è ormai pronta a misurarsi con sfide più impegnative.
Post it Gli angeli di Kwizera
La signora Maria Rina può dirsi una veterana del Rwanda: ha infatti accompagnato il marito Franco in ben quattro missioni, dal 2002 al 2005 .
Cyeza 2011, è arrivato anche Facebook
Maria Rina Simonini Franco e Daniele sulle strade di Cyeza
La signora Catia ha al proprio attivo la missione 2002 in compagnia del marito Angelo.
Catia Asti Bertolucci
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Erano i primi di Dicembre del 2001, quando con Franco, presidente dell’Associazione, siamo arrivati per la prima volta in Africa, destinazione Muhura, Rwanda del nord. Non sapevamo cosa ci stesse aspettando, volevamo adoperarci, fare qualcosa, per aiutare chi vive nel bisogno ed ancora oggi ci domandiamo se siano stati il destino, la fortuna, o forse solamente il caso a portarci lì. Dopo un viaggio estenuante ed una carambola di scali da Pisa a Roma, poi via… verso l’Etiopia, una capatina fuori programma in Kenia e uno scalo tecnico in Burundi, finalmente siamo atterrati a Kigali. Naturalmente i bagagli erano rimasti indietro da qualche parte e “con la dovuta calma” ci hanno informato che potevamo recuperarli dopo tre giorni, all’arrivo del volo successivo. Lasciamo l’aeroporto, dopo un paio d’ore buone di jeep, siamo finalmente arrivati a destinazione e stanchi morti di fatica riusciamo a conquistare il tanto desiderato letto. Il mattino seguente eravamo entrati, tutto d’un tratto, in un mondo totalmente nuovo e diverso dal nostro, un piccolo universo di sorrisi, di gente povera sì… ma gioiosa, accogliente e cordiale. Molti ricordi ho di quei giorni…, piccoli frammenti di vita, che si sono radicati energicamente nella memoria dove ogni tanto, senza neanche volerlo, mi ritrovo a vagabondare. È esattamente da lì, da quel piccolo villaggio adagiato su una delle mille colline che caratterizzano questo minuscolo Stato situato nella zona dei Grandi Laghi, che è nato il nostro profondo legame con l’Africa e la sua meravigliosa gente.
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Da allora tante piccole storie si sono susseguite anno dopo anno, briciole di vita, profonde esperienze e sinceri frammenti di umanità, che hanno finito per condizionare significativamente la mia esistenza. In questo breve racconto cercherò di descrivervi alcune delle “prime emozioni”, impressioni e conoscenze che abbiamo fatto al nostro arrivo in Rwanda, piccole storie, per me impossibili da dimenticare. Uscendo dal minuscolo appartamento adiacente alla missione, dove noi dormivamo, faccio la conoscenza di un piccolo bambino che, accompagnato da una suora, si dirige sorridente verso di noi. Dopo un breve saluto stende la sua minuta mano verso la mia, l’afferra, ed insieme ci indirizziamo verso la chiesa per partecipare alla celebrazione eucaristica. Nel breve tragitto che ci separava dalla grande chiesa, stringevo la sua manina gelida dentro la mia mano da gigante e pensavo: che “tipetto” simpatico, mai visto ne conosciuto, eppure così aperto e disponibile a donarmi la sua confidenza. Entriamo in chiesa e dopo esserci accomodati sulle piccole panche, fissate al pavimento, attendiamo silenziosi l’inizio della Messa. Durante la funzione religiosa non mi molla neanche per un momento ed alla fine della celebrazione, con l’innocenza e la naturalezza di fanciullo mi invita con un gesto inequivocabile ad abbassarmi e mettermi al suo livello, dopo averlo fatto, mi abbraccia forte stringendomi a lui. Era trascorsa un’ora scarsa dal nostro incontro, ma noi, eravamo già amici. Il suo nome è Simone, in quel periodo
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Per camminare insieme avrà avuto sei o sette anni, un viso simpatico come pochi, due grandi occhi sorridenti ed un’energia positiva che gli sprizzava da tutti i pori. Durante la permanenza nella Missione di Muhura, la nostra amicizia si è consolidata e ho fatto la conoscenza dei suoi fratelli: Lorenzo il più grande e la sorella, di cui non ricordo il nome soprannominata “gniagnarina”, anche lei più matura del mio simpatico nuovo amico. Rivivo sempre con gioia il ricordo dei giorni trascorsi in compagnia di quei tre bambini e chissà se oggi, a distanza di qualche anno, anche loro si ricorderanno di me. Un giorno, parlando con Suor Cristina (Superiora della Missione di Muhura) venimmo a conoscenza che dall’Italia era arrivata, all’interno di un pacco, una fila di luci elettriche intermittenti, corredate addirittura di accompagnamento musicale…, guardai Franco negli occhi, e come spesso accade tra due persone che viaggiano sulle stessa lunghezza d’onda, lui disse: facciamo un albero di Natale! Il pomeriggio seguente, dopo aver terminato il lavoro quotidiano di minuto mantenimento nei locali del Centro di Sanità, iniziamo la realizzazione di un piccolo alberello illuminato. Cerchiamo il cavo elettrico necessario, montiamo le spine e predisponiamo i fili sopra un piccolo albero che confina con il gigantesco piazzale antistante la chiesa. Nonostante ci sforzassimo di rendere la nostra opera graziosa il più possibile devo dire, con tutta franchezza, che quello è stato “quasi sicuramente” l’albero di Natale più brutto del mondo nelle festività del 2001. Alle 18,30, all’arrivo dell’oscurità, accendiamo le luci e la musichetta di “Astro del ciel” inizia a diffondersi in quel silenzio ovattato. Non potevamo immaginare quello che sarebbe successo da li a poco, i bambini, attirati dalla dolce melodia della canzone uscivano da tutte le parti e come attratti dal suono del “pifferaio magico” si sedevano silenziosi ed attenti a vedere quello spettacolo a loro sconosciuto. Le luci si alternavano con ritmi discontinui e la dolce melodia musicale trasmetteva ai presenti una sensazione di serenità e di pace. Mentre osservavo quei bambini che ammiravano con stupore quello spettacolo per loro inusuale, fui costretto a rivedere la mia valutazione su quell’improvvisato, minuscolo, fragile, albero di Natale. In quel momento mi resi conto che, chi ha niente, riesce a gioire ed appagarsi anche con poco… e lo stupore, la meraviglia, la lieta sorpresa, avevano dato vita in quei bambini, alla vera gioia. Non dimenticherò mai i loro volti e credo che
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pochi alberi natalizi abbiano donato gioia quanto quel minuscolo, scarno, umile alberello. Ricordo con piacere le sere trascorse a Muhura, quando dopo il lavoro, mentre aspettavamo che si scaldasse l’acqua per la doccia ci gustavamo una deliziosa birra, rigorosamente conservata a temperatura ambiente, in compagnia di Gianni, un italiano del nord est, sceso in Rwanda subito dopo la guerra del 94 per aiutare nonna Amelia ed i suoi orfanelli. Rimasto vedovo ha scelto di stabilirsi nel paese delle mille colline, dove vive dall’ormai lontano 2001. In un primo momento svolgeva la mansione di autista tuttofare presso il convento delle Suore oblate dello Spirito Santo di Muhura, responsabili tra l’altro di uno dei più importanti Centri di Sanità del nord del Rwanda. Gianni è un uomo dalle mani d’oro; aveva costruito “per esempio”, uno scaldabagno con una grande pentola, murata all’interno di una specie di “camino stufa” da lui progettato e realizzato a cui non avresti dato un centesimo, ma che all’atto pratico funzionava alla perfezione. Tra i numerosi compiti, il grande Gianni, seguiva, per conto delle Suore, anche la direzione dei lavori delle numerose piccole costruzioni edili, sia del convento, che dell’ospedale. Pur non sapendo che pochissime parole in kinyarwanda, tra un urlo e l’altro, riusciva a farsi capire dagli uomini che lavoravano sotto la sua direzione. Li sgridava “scherzando” e mescolando un po’ di italiano miscelato al dialetto veneto, il tutto condito con qualche parola Rwandese, comunicava così. Il vocabolo più ricorrente era senza dubbio ndakukubita (ti prendo a botte), mentre la seconda parola più frequentemente adoperata era ghenda (vattene) che usava generalmente con i bambini con cui giocherellava sempre, questi scherzavano prendendosi gioco di lui, dei suoi modi di fare e dei bianchi capelli. Seduti sulle comode poltroncine di quel piccolo appartamento generalmente utilizzato per accogliere gli ospiti stranieri che periodicamente frequentano la missione, ascoltavamo attenti i suoi racconti, le sue esperienze di vita, i suoi consigli, cercando di vedere attraverso gli occhi di chi viveva da anni in quei luoghi, per noi tanto affascinanti e misteriosi, la sua Africa. Oggi avrei anch’io qualcosa da raccontare al grande Gianni e magari scambiandoci le nostre esperienze di vita, confrontare la sua Africa e la mia, cercando di capire “forse” da dove sgorga l’amore che entrambi nutriamo per questa magica terra. Angelo Bertolucci.
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La terra rwandese, dove annualmente alcuni di noi si recano per seguire le iniziative che l’Associazione Kwizera promuove, è diventata teatro d’incontri e di confronto tra esperienze umane incarnate da persone portatrici di culture, storie e condizioni di vita profondamente diverse. Da una parte chi, spinto dalle motivazioni più varie, ha deciso di mettere a disposizione parte del proprio tempo, le proprie conoscenze ed esperienze a favore di altre persone, cercando di portare a quest’ultime una vicinanza e un aiuto materiale e non solo; dall’altra chi, vivendo in situazioni varie di disagio, legittimamente aspira a migliorare la propria situazione materiale e morale. Ognuna delle persone appartenenti a questi due gruppi è depositaria di proprie aspirazione e attese, di una propria storia e di una propria cultura. Quando queste persone s’incontrano e sono chiamate a collaborare sul terreno concreto di una realizzazione, inevitabili emergono le difficoltà a confrontarsi, capirsi e accettarsi. L’altro è inesorabilmente visto attraverso la lente deformata dei pregiudizi e condizionamenti derivanti dal bagaglio culturale e dalla storia di ognuno. Così gli uni, inconsciamente, pretenderanno il riconoscimento del proprio darsi e conseguentemente si aspetteranno quelle attenzioni che gratificano il proprio piccolo io, mentre gli altri riterranno quanto fatto a loro favore nulla più che il dovuto risarcimento alle diverse penalizzazioni che la vita ha loro riservato. E’ evidente come simili pregiudizi non possano che minare alla base una collaborazione che deve invece alimentarsi di reciproca conoscenza, di comprensione e condivisione profonda delle motivazioni che muovono i passi di chi vuole fare un percorso insieme, per tentare di cambiare in meglio l’oggi e dare una speranza al futuro.
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Missione 2007
Nyinawimana
Franco, Angelo, Marco Cassettai, Alessandro Buriani, Brunello Baldi
N
yinawimana (che in kinyarwanda significa Madre di Dio) è una delle mille colline rwandesi alla cui sommità è posta la chiesa e la casa parrocchiale e, più recentemente, un’alta antenna che funge da ripetitore per la telefonia mobile rwandese. E’ il regno incontrastato del parroco abbé Jean Marie Vianney, per gli amici l’Altissimo, che dall’alto di questa collina, siamo oltre i duemila metri di altitudine, vigila sui suoi quasi 17.000 parrocchiani sparpagliati nei numerosi villaggi che compongono la parrocchia. Qui, a partire dal 2004, su sollecitazione delle diocesi di Byumba, l’Associazione Kwizera ha realizzato, in collaborazione con l’economato diocesano allora retto da Don Paolo Gahutu, quello che è sicuramente, almeno fino a oggi, il progetto più importante tra quelli portati a termine in questi anni in Rwanda. Un progetto integrato che, a partire appunto dal 2004 quando ancora Nyinawimana era una sottoparrocchia di Byumba (diventerà, infatti, parrocchia solo nel novembre 2005) ha portato alla realizzazione di una vera e propria fattoria, attraverso interventi che si sono articolati nell’arco di qualche anno, che si estende su 45 ettari, tra terreni coltivabili e boschi. Il terrazzamento Dapprima, un versante della grande collina è stato reso coltivabile, attraverso una radicale opera di terrazzamento per mettere al riparo i suoi fianchi dai rischi di vedere scivolare a valle la terra, trascinata via dalla copiosa acqua piovana del periodo delle piogge.
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Una pausa durante i lavori
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La cooperazione internazionale ha bisogno di persone che condividano il processo di sviluppo economico e umano, mediante la solidarietà della presenza, dell’accompagnamento, della formazione e del rispetto.
Post it Addio Fratel François E’ morto sabato 16 aprile 2011, dopo una lunga malattia, Fratel François Karenzi della comunità dei Fratelli delle scuole cristiane di Kisaro. Una perdita grave per l’intera comunità rwandese perché Fratel François era un grande esperto di agricoltura che ha fatto molto per il proprio paese. Dalla fattoria di Kisaro, un vero centro di
La collina terrazzata e coltivata
Sotto la guida di Fratel François, un vero pioniere dell’opera di terrazzamento, più di quattrocento persone, per la gran parte donne, armate di zappa e di tanta buona volontà, hanno portato a termine questo gigantesco progetto, arrivando a terrazzare 20 ettari, pari alla superficie di circa quaranta campi di calcio. Il risultato finale dell’opera di terrazzamento è la comparsa sui fianchi della collina di enormi gradoni, la cui parte piana è caratterizzata da una lieve pendenza verso monte. L’acqua piovana defluirà così all’interno della collina, evitando il suo deflusso incontrollato a valle, che comporterebbe lo scorticamento del terreno con il trascinamento a valle della terra. Questa tecnica consente di raggiungere un altro effetto importante: l’acqua assorbita dai fianchi della collina verrà restituita, molto lentamente, al terreno pronto per essere coltivato. Don Paolo Gahutu, Franco Simonini e Fratel François sul cantiere di Nyinawimana
formazione e di sperimentazione agricola, ha messo a disposizione le proprie conoscenze ed esperienze a favore di diverse comunità rwandesi. L’Associazione Kwizera ha avuto l’onore di lavorare con lui nel terrazzamento della collina di Nyinawimana di cui Fratel François ha diretto i lavori. Ancora recentemente, quando il male già l’aveva aggredito, aveva dato la sua assistenza nei lavori di terrazzamento dei terreni nel villaggio batwa di Kibali. Avevamo anche altri progetti che avremmo voluto condurre insieme con lui: si era parlato di curare alcuni piccoli manuali agricoli da diffondere presso i contadini dei villaggi della diocesi di Byumba. Purtroppo,
La parte verticale, lo schienale di questi enormi gradoni, viene seminato ad erba da destinare all’allevamento del bestiame. Per rinforzarlo viene piantato l’urubingo, un tipo particolare di canna, dalle forti radici capaci di trattenere la terra in un efficace effetto antierosione, che, una volta tritata, diventa un ottimo alimento per le mucche. Nella parte piana, la coltivazione è resa più semplice e funzionale, rispetto ai terreni scoscesi di una collina non terrazzata, anche grazie ai sentieri di servizio che favoriscono l’accesso, semplificando notevolmente la raccolta dei prodotti. A regime, in condizioni climatiche normali, i terreni così ottenuti consentono di effettuare la coltivazione di sorgo, granoturco, patate, grano, fagioli e cavoli. Una buona concimazione e il particolare clima rwandese consentono di ottenere due raccolti all’anno, alternando le varie colture. Una superficie coltivabile di tali dimensioni vede impegnate, nel corso dell’anno, per tutti i lavori di trattamento del terreno, di semina e di raccolta, centinaia di persone organizzate in associazioni coordinate dalla parrocchia. Dieci ettari sono stati dati in affitto alle associazioni contadine per un canone contenuto: 300 franchi rwandesi ad ara per ognuna delle due stagioni che connotano l’anno agricolo rwandese. Tre ettari di campi sono rimasti in gestione alla parrocchia. L’asfittica economia locale ne trae un importante beneficio.
il male già si faceva sentire e le forze cominciavano a venirgli meno; il tempo era sempre più spesso assorbito dalle cure e dai ricoveri in ospedale. Non siamo riusciti ad avviare
Sui terrazzamenti della collina è in fase avanzata la mietitura del grano.
questo progetto che aveva condiviso con interesse, perché ben interpretava la sua missione di condividere il suo sapere con i suoi fratelli
Un serpente umano fatto di donne e bambini s‘inerpica sui fianchi della collina, portando covoni di grano, più o meno grandi a seconda delle capacità di ognuno, verso il grande magazzino che si trova proprio sulla sommità, a fianco della grande stalla della fattoria.
rwandesi: i suoi talenti erano patrimonio di tutti. Ci mancherai Fratel François, anche se siamo certi che sei andato a raccogliere il premio delle tue fatiche terrene nella Casa del Padre e da lassù le tue mille colline ti sembre-
Diverse donne si portano al seguito, ben fissato sul dorso avvolto nella tradizionale fasciatura delle donne rwandesi, il proprio bambino che comincia così, ancora in fasce, a vivere la quotidianità di una vita fatta di sacrifici e rinunce.
ranno ancora più belle, soprattutto quelle che portano l’inconfondibile segno del tuo lavoro. Aprile 2011 PARTE II - Nyinawimana
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Negli interventi per lo sviluppo va fatto salvo il principio della centralità della persona umana, la quale è il soggetto che deve assumersi primariamente il dovere dello sviluppo.
La stalla Portato a termine il terrazzamento, nel 2005 l’intervento promosso dall’Associazione Kwizera è proseguito con la costruzione di una struttura, in cemento e mattoni con tetto in lamiera, in grado di ospitare una quarantina di mucche e un centinaio di capre. Sono altresì disponibili all’interno del complesso: ripostigli, rimessa attrezzi, magazzino e laboratorio. L’ampio tetto consente la raccolta dell’acqua piovana convogliata in apposite cisterne, per essere utilizzata per l’irrigazione dei terrazzamenti e per tutte le altre necessità. La realizzazione di questo immobile, dalle notevoli dimensioni, ha richiesto tre mesi di lavoro di ottanta operai coordinati da responsabili rwandesi, con la supervisione di Fratel François. Per completare l’opera, non mancavano che le mucche. Kwizera ha pensato anche a quello importando, dalla vicina Uganda, una quindicina di mucche di razza, la cui produzione di latte è decisamente superiore a quella, quasi insignificante, delle mucche autoctone. Da subito, è stato avviato anche l’ allevamento di capre, ospitate nell’apposita struttura, a cui si è aggiunto col tempo anche l’allevamento di conigli. L’intero comparto dell’allevamento può contare sulla presenza di un veterinario che garantisce l’assistenza e fornisce le necessarie conoscenze tecniche.
L’alveare Poco distante dal complesso che ospita la stalla, sempre nel 2005 è stato realizzato, in mezzo agli alberi di eucaliptus, un moderno alveare con 50 arnie in legno, di tipo europeo, dedicato alla memoria di Tiziana Consani. Per attuare una moderna apicoltura e consentire l’avvio di un’immediata produzione di miele venivano fornite tutte le attrezzature necessarie. Gli inizi però furono piuttosto difficoltosi. Infatti, disattenendo le indicazioni dei tecnici italiani, tutte le arnie furono collocate in un unico posto. L’eccessivo affollamento comportò per le api la necessità di spingersi alla ricerca del polline a distanze tali che, nel viaggio di ritorno, tutto il raccolto veniva consumato dalle stesse api per alimentarsi. Insomma, le api lavoravano per l’autoconsumo. Dopo un po’ ci si rese conto che era necessario prendere le contromisure necessarie. Si è così cominciato a distribuire sul territorio le arnie iniziali e aggiungendone di nuove. Oggi sono rimaste 25 arnie nel vecchio sito e sono stati attivati altri due alveari entrati in produzione nel 2011 (vedi foto a piè di pagina). Così la produzione di miele, che nel 2010 è stata di 13 quintali, potrà ulteriormente incrementarsi, apportando preziose entrate all’economia della fattoria, tenuto conto che attualmente il miele viene venduto a 2.000 Frw al chilogrammo. La cisterna Con il tempo, la fattoria è stata dotata anche di una grande cisterna, completamente in muratura, per la raccolta di acqua piovana. Le acque piovane raccolte dai tetti della chiesa, della stalla e degli altri immobili confluiscono nella cisterna che può contenere centocinquantamila litri. In questo modo, sarà possibile attingere alla riserva idrica, soprattutto nei periodi di maggiore siccità, per irrigare le coltivazioni agricole, abbeverare il bestiame e, dopo un’adeguata bollitura e filtratura, si avrà a disposizione anche molta acqua potabile.
L’allevamento dei conigli
Post it Un’etichetta per i prodotti della fattoria
Dobbiamo segnalare una piacevole sorpresa che ci viene fatta dal dinamico parroco di Nyinawimana, l’Abbè Jean Marie Vianney; è stata ideata un’etichetta, decisamente accattivante, con cui marchiare il miele che viene prodotto a Nyinawimana. L’etichetta che ci viene proposta, nelle intenzioni dei conduttori dell’azienda agricola, dovrebbe identificare, in una moderna concezione di marketing, tutti i prodotti che, oltre al miele, escono dalla fattoria. L’idea ci sembra il giusto coronamento di un impegnativo lavoro di razionalizzazione che l’Abbè Jean Marie ha condotto in questi ultimi anni, portando la fattoria a un buon livello di redditività. Dicembre 2010
Veduta della stalla. PARTE II - Nyinawimana
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Nessuno è profeta in patria, forse perché la presenza diminuisce di molto la fama. Sarà per questo motivo, o solo perché la distanza migliora la prospettiva, che è più semplice per chi vive nel mondo lontano da noi, scoprire con meraviglia le opere che, grazie alla generosità di molti, Kwizera ha realizzato con l’impegno, la fatica e il sudore dei suoi volontari nel distante e difficile contesto africano.
È così che un importante Network Americano (WORLD VIEW CBS5) nel realizzare un servizio sulla solidarietà in Africa si è accorto dell’Associazione Kwizera Onlus, delle sue realizzazioni, arrivando a paragonarne l’operato a quello delle grandi Organizzazioni Internazionali. Il titolo originale dell’articolo, comparso nel 2008, di cui riportiamo di seguito la traduzione, è: “Attention Bill Gates: Under the Tuscan sun of Rwanda”.
Il magazzino Adiacente allo stabile che ospita le stalle ha trovato realizzazione un capannone di grandi dimensioni, destinato a luogo di lavorazione e stoccaggio della produzione agricola. Operazioni come la battitura del grano, l’insaccatura delle patate, la cernita e la selezione dei prodotti agricoli, la sgranatura del granturco vengono effettuate in questa struttura. Negli ultimi anni, ogni volta che si fa visita alla fattoria, ci si trova di fronte un magazzino dove fanno bella mostra di sé le produzioni agricole. Ad agosto, mese in cui solitamente si svolgono le missioni Kwizera, il magazzino ospita anche i lavori di trebbiatura del grano effettuati con le piccole macchine trebbiatrici di cui è dotata la fattoria. Conclusione Nel complesso, la fattoria di Nyinawimana è un progetto che negli anni è andato consolidando il proprio ruolo di centro di sviluppo economico per la comunità parrocchiale e di punto di riferimento in campo agricolo per l’intera zona. Le esperienze maturate diventano patrimonio di una comunità più allargata. I suoi tecnici, l’agronomo e il veterinario, sono chiamati a coordinare anche altri progetti agricoli in altre comunità. Le difficoltà iniziali, quando all’imponenza del progetto e ai relativi investimenti non sembravano corrispondere i risultati attesi, hanno lasciato il posto a una gestione attenta a sfruttare tutte le potenzialità che il progetto riservava. Si può dire che la sfida lanciata nel 2004, quando si iniziarono i primi lavori di terrazzamento sui fianchi della collina di Nyinawimana, è stata vinta da tutti i protagonisti coinvolti: l’Associazione Kwizera con i suoi volontari e la comunità locale con i suoi pastori. La trebbiatura del grano all’interno del magazzino
Dall’inviato Attento Bill Gates: il sole della Toscana splende anche sul Rwanda
Post it Il Primo Ministro visita la fattoria di Nyinawimana Nel giugno del 2009, anche il Primo Ministro del Rwanda, Bernard Makuza, ha voluto fare visita alla fattoria di Nyinawimana. Evidentemente, la fama della fattoria, che si è diffusa tra operatori economici e studiosi universitari, visitatori interessati di questo progetto di successo, è arrivata fino ai vertici dello stato. Così, in occasione di un tour sul territorio per incentivare presso la popolazione un uso intelligente del territorio e la pratica di moderni metodi di allevamento del bestiame, il Primo Ministro, accompagnato da una folta delegazione comprensiva anche di altri ministri, ha visitato la fattoria di Nyinawimana esprimendo vivo apprezzamento per quanto realizzato negli anni dall’Associazione Kwizera Onlus e dai responsabili locali a cui compete la gestione. Giugno 2009
I verdi campi di Nyinawimana sorgono su 20 ettari di terrazzamenti ben scolpiti, nel brusio delle api da miele sotto un sole generoso. Questa potrebbe essere la Toscana invece delle colline a nordest di Kigali, la capitale del Rwanda. Ed in un certo qual modo, lo è. C’è una storia forte qui, il tipo di storia che senti raramente in un periodo in cui le notizie riportano principalmente catastrofi e la nozione di spontanea ed umana solidarietà è vista come novellistica sentimentale. Nyinawimana è più o meno entrambe le cose: solidarietà profonda e pura ed inimmaginabile catastrofe. Gli alveari e i terrazzamenti altamente fruttiferi sono tra le pietre miliari di una collaborazione straordinaria tra Italiani di campagna (meglio periferia??) agenti di propria iniziativa, e le loro controparti rwandesi. Insieme, in cinque anni, hanno trasformato le colline con badili e zappe in pezzi di terreno coltivabile assegnati a famiglie, creato una moderna e fiorente attività del miele, costruito latterie e pollai – un intero sistema produttivo che fornisce lavoro e sussistenza a centinaia di persone.
Don Jean Marie, parroco di Nyinawimana
Finanziato euro dopo euro, è probabilmente uno degli sforzi più produttivi al mondo di assistenza oltremare, di fatto un motivo di imbarazzo per i programmi di aiuto stranieri e le organizzazioni di carità internazionali che hanno speso mezzo trilione di dollari in Africa nelle quattro decadi scorse, con risultati di scarsa apparenza. A gennaio, la Bill & Melinda Gates Foundation ha annunciato un progetto pilota da 306 milioni di dollari con lo scopo di incrementare la produttività e le entrate delle aziende agricole a conduzione familiare in Africa. “Se seriamente vogliamo fermare la fame e la povertà estreme nel mondo, dobbiamo seriamente rendere l’agricoltura alla portata
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dei piccoli contadini”, ha dichiarato Gates. Nyinawimana ed i suoi amici italiani sono già arrivati a questo risultato. Rwanda 1994 Quattordici anni fa, nella primavera del 1994, si stima che un milione di rwandesi morirono nel corso della guerra civile-genocidio tra le etnie Hutu e Tutsi. Parte della coscienza del mondo è morta con loro. Il meglio che si può dire su quel mondo –dal ricco Ovest ed Est asiatico, alle Nazioni Unite e una falange delle istituzioni umanitarie globali- è che guardò e non fece nulla. Il peggio è che alcuni di questi che osservarono avevano fornito armi a chi uccideva e voltarono le loro facce come non avessero colpa. C’è un proverbio rwandese che dice: “la pelle di un piccolo coniglio è sufficiente a coprire cinque persone quando c’è fratellanza”.Dice Florent Mwiseneza, un sacerdote cattolico che è sopravvissuto al genocidio del 1994: “Ma oggi questo proverbio potrebbe sembrare pazzia, perché moltissime persone sono arrivate a vedere un mondo cattivo, cieco, sordo e senza senso. Nessun esercito di organizzazioni internazionali si è precipitato nei campi di sterminio in Rwanda, anche se intervennero negli stessi anni in Croazia e Bosnia. Nessun attacco aereo NATO è stato utilizzato contro gli aggressori, anche se ce ne furono poco dopo in Kosovo. Diversamente dai cittadini della ex-Jugolaslavia, i morti rwandesi sono stati visti come “gli altri”, lontani e sconosciuti, oltre la capacità di azione di chiunque. Per gli Africani, le differenti reazioni sono facilmente spiegate. I Rwandesi sono stati “gli altri” perché erano neri. I sopravvissuti del villaggio di Nyinawimana rimangono gli altri, dimenticati e abbandonati, per sette anni, fino a quando un meccanico in pensione ed un venditore di automobili ebbero notizie in un altro continente, in uno sperduto angolo della Toscana chiamato Garfagnana. “Prima del loro arrivo, non c’era nessuno dall’esterno che ci aiutasse”-sottolinea uno degli abitanti del villaggio“Assolutamente nessuno”. Lo specchio La Garfagnana non è la ricca Toscana dei romanzi romantici immersa nel fascino. Incorniciata dall’alto bastione degli Appennini ad Est e dalle scoscese Alpi Apuane ad Ovest, è un luogo di agricoltori marginali, boschi di castagni e funghi selvatici, la casa di robusti cavatori i cui antenati tagliavano marmo per il Foro romano. Molte
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L’interesse principale è il miglioramento delle situazioni di vita delle persone concrete di una certa regione, affinché possano assolvere a quei doveri che attualmente l’indigenza non consente loro di onorare.
famiglie tirano avanti con meno di 10.000 euro all’anno. Per generazioni, i loro figli sono emigrati all’estero, perché la Garfagnana non poteva sostenerli. Come gli agricoltori rwandesi, i Garfagnini capiscono l’insensibile, devastante equazione di troppe persone che provano a sopravvivere su una troppo piccola superficie arabile. Ci sono anche alcune famiglie in Garfagnana che hanno sperimentato l’inimmaginabile. Durante la seconda guerra mondiale, la valle fu il teatro di feroci battaglie d’artiglieria che rasero al suolo molte città e villaggi. Nell’agosto del 1944, a seguito dell’uccisione di un ufficiale nazista da parte dei partigiani garfagnini, per rappresaglia le stormtroopers tedesche catturarono 560 persone nel paese di Sant’Anna di Stazzema, la maggior parte delle quali erano anziani nonni, madri e bambini, e li fucilarono o li bruciarono vivi. La Garfagnana fu finalmente liberata nel 1945 dalla 92esima Divisione Fanteria dell’esercito U.S.A, i “Buffalo Soldiers”, i quali riportarono uno dei più alti tassi di mortalità della guerra, con circa 5000 morti o feriti sul fronte italiano in otto mesi. I “Buffalo Soldiers” erano Afro-Americani, soldati di un’armata emarginata, ed invisibili nel loro paese, ma per la gente della Garfagnana erano liberatori ed eroi. I garfagnini hanno cresciuto i propri figli nel ricordo di Sant’Anna di Stazzema e dei Buffalo Soldiers. Nelle notizie e nelle immagini del Rwanda, con le sue montagne avvolte nella nebbia, i suoi tenaci contadini (e la sua orribile violenza) non hanno visto l’altro, una nazione distante e sconosciuta. Hanno visto uno specchio.“Quando abbiamo guardato la televisione, quando abbiamo visto quello che stavano attraversando e attraversano ancora, abbiamo visto la nostra terra, la nostra stessa storia”, dice Franco Simonini, il meccanico. La nascita di “speranza” Poco dopo che le prime immagini dell’olocausto rwandese furono tardivamente trasmesse in Italia, Franco e il suo vicino Angelo Bertolucci, venditore di auto, hanno iniziato a parlare seriamente del Rwanda. Non avevano idea di dove avrebbe condotto quella conversazione. “Tutto ciò che sapevamo allora”, dice Angelo, “è che volevamo fare qualcosa” I soldi da soli, erano convinti, non erano la risposta. Non è il modo di fare le cose in queste montagne. “La gente di Garfagnana è generosa per natura, ma molta crede che per ogni 100 euro donati in beneficen-
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za, sei fortunato se 10 finiscono a chi ha bisogno d’aiuto” dice Angelo. “Dovunque è un mangia mangia” ti dicono, con un eufemismo garfagnino che indica corruzione. Più importante, secondo Angelo, è la profonda comprensione che il denaro contante, consegnato da una burocrazia anonima, mette i soldi nelle tasche di qualcuno al prezzo della loro dignità. Invece, i due uomini hanno rintracciato dei missionari in servizio in Africa che li hanno messi in contatto diretto con sacerdoti ed insegnanti agricoli nello stesso Rwanda. Hanno parlato con i sindaci dei comuni garfagnini, chiedendo il loro supporto. Con l’aiuto delle banche locali, hanno fondato un’associazione senza scopo di lucro e l’hanno chiamata Kwizera, che in rwandese significa “speranza”, con presidente Franco e segretario Angelo. Nel 2001, Angelo e Franco volarono in Rwanda via Roma e Il Cairo, “per dare un’occhiata, e chiedere cosa potessimo fare”. Portarono una valigia di suggerimenti e progetti dai contadini, ingegneri, muratori, veterinari e commercianti garfagnini e l’equivalente di 25.000 dollari per cominciare a mettere in moto le cose.
to, un lago nel profondo degli Appennini. “Siamo cresciuti insieme e all’inizio, queste passeggiate erano solo un modo per rimanere vicini”, dice Alessandro Gonnelli, un idraulico. “Abbiamo bevuto un sacco di vino, raccontato storie, chiacchierato tutta la notte”. In diverse delle loro lunghe serate al Lago Santo, hanno parlato anche del Rwanda. Gli Angels iniziarono a gestire uno stand al festival musicale estivo che si tiene ogni anno a Barga, servendo vino dei loro piccoli vigneti, poi passarono alle ottime salsicce e pancetta garfagnine, preparate da un socio che gestisce una macelleria, e cesti natalizi con il loro olio d’oliva, vino, castagne, e funghi porcini essiccati. Nel 2007, il contributo annuale del gruppo a Kwizera ha superato i 10.000 dollari. Dall’Antica Roma al Rwanda La missione africana della Garfagnana da allora è cresciuta fino al valore di circa 500.000 dollari di progetti. Non sembra molto, paragonato ai 500 miliardi di contributo umanitario ufficiale per l’Africa sub-sahariana dal 1970. Quando si guarda ai risultati, è l’eredità di quel mezzo milione di miliardi di dollari in aiuti ufficiali che sembra futile. Questo è il fallimento che Bill e Melinda Gates sperano implicitamente di invertire: decenni di ingenti spese che non hanno cambiato quasi nulla per i piccoli agricoltori
lame, hanno introdotto nuove razze di capre e mucche. “Le vacche rwandesi sono molto forti, ma di una razza allevata solo per carne, e pochissime famiglie possono permettersene una”, spiega Don Paolo Gahutu, un sacerdote locale. Quando Franco ed Angelo appresero che la media di latte giornaliero di queste mucche era meno di tre litri al giorno, organizzarono e finanziarono un viaggio in Uganda per acquistare bestiame. Oggi, mucche ugandesi che producono 20-25 litri al giorno pascolano sui prati di Nyinawimana. A giugno, l’idraulico Alessandro Gonnelli, membro dei Lake Angels, si recherà al villaggio coi piani per la realizzazione di un sistema di irrigazione permanente, in colline che sono annaffiate con piogge per 10 settimane ogni primavera e restano asciutte il resto dell’anno.
Tradizione e modernità sulla collina di Nyinawimana: zappatori e sullo sfondo un’antenna per la telefonia mobile
Angelo Bertolucci e Franco Simonini
Pur avendo un totale di 14 viaggi in due, Angelo e Franco hanno pagato i propri biglietti (come tutti i garfagnini che sono andati in Rwanda). I Lake Angels, un gruppo di abitanti del paese collinare garfagnino di Barga, sono il prototipo di coloro che sentono parlare di Kwizera. Il nome del gruppo deriva dalle loro escursioni semestrali al Lago San-
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Il magazzino della fattoria
che sono la spina dorsale dell’Africa. Oltre ad avere ridato vita a un’intera collina ed avere unito le forze con 400 contadini locali per terrazzarla a mano facendola diventare terra arabile, i toscani di Kwizera hanno costruito stalle, cisterne, aule scolastiche e alloggi per i lavoratori agricoli. Insieme a una moderna apicoltura ed allevamento di polPARTE II - Nyinawimana
Il suo piano “utilizza la tecnologia dell’impero romano”, racconta Gonnelli ad un reporter, riferendosi ad un antico acquedotto che ha funzionato in Garfagnana per secoli. L’idea è creare un sistema di bacini e tubi che incanaleranno l’acqua piovana dai terrazzamenti in serbatoi di raccolta per l’uso durante i mesi secchi, rendendo possibile un’altra stagione dei raccolti: “è un sistema elementare che farà il suo servizio e durerà molto, molto tempo”, spiega. Ecco una succinta descrizione della speranza che Kwizera ha portato dall’Italia rurale al Rwanda rurale, attraverso uno specchio che fa tutta la differenza del mondo. Frank Viviano World View CBS5 pag. 127
Kibali
A
Kibali, a pochi chilometri da Byumba, su una collina dominante una vallata il cui fondo è quasi completamente ricoperto da coltivazioni di the, è insediata da anni una comunità di batwa. I batwa, appartenenti al gruppo dei pigmei, sono una minoranza, rappresentante circa l’1% della popolazione rwandese, che vive piuttosto emarginata, con stili di vita che ricordano lontanamente quello dei rom europei. Abituati a vivere, da nomadi, nei grandi spazi della foresta africana, si adattano a fatica a una vita sedentaria. La comunità batwa di Kibali è composta di 250 persone, suddivise in 47 nuclei familiari, che per anni hanno vissuto in capanne, disseminate lungo i fianchi della collina, fatte di frasche e rivestite di teli in plastica. La maggioranza della comunità è composta di bambini, particolarmente vivaci e sorridenti, anche se per loro la vita non sarà facile. Causa la mortalità infantile molto elevata, conseguente alla situazione di grave degrado materiale in cui vivono e all’elevato livello di consanguineità dovuto ai frequenti matrimoni all’interno di un gruppo numericamente contenuto, pochi raggiungeranno l’adolescenza. Ecco il motivo per cui il numero degli adulti e degli anziani che si incontrano nel villaggio è veramente esiguo. Anche se attribuire un’età alle persone adulte è molto difficile, causa la velocità con cui i segni dell’invecchiamento fanno la loro comparsa anche sul volto di persone anagraficamente ancora giovani, come le madri ancora alle prese con l’allattamento al seno dei loro bambini. Per questa gente, l’Associazione Kwizera ha promosso nel 2007 la realizzazione di 47 abitazioni in muratura, una casetta per ogni nucleo familiare, che consentisse loro di abbandonare quei rifugi, che non si pos-
Una delle vecchie capanne
PARTE II - Kibali
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PARTE II - Kibali
La consegna del villaggio
L’inizio della costruzione delle nuove case
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La maggior risorsa da valorizzare nei Paesi da assistere nello sviluppo è la risorsa umana: questa è l’autentico capitale da far crescere per assicurare ai Paesi più poveri un vero avvenire autonomo.
Post it La festa dei fagioli
sono neppure definire capanne, in cui vivevano. L’intero progetto è stato affidato al parroco di Byumba, Don Emmanuele, che avendo studiato in Italia parla italiano e ha quindi potuto raccordarsi facilmente con i volontari dell’Associazione. In poco tempo, squadre di operai iniziano a predisporre una piazzola a fianco di ogni capanna, quindi scavano le fondamenta e realizzano, anche con l’aiuto degli stessi batwa, i basamenti in pietra e cemento di ogni costruzione su cui vengono elevati i muri perimetrali in mattoni di fango e posate le travature in legno per il tetto in coppi di terracotta. I lavori vengono ultimati nella primavera del 2008, con una spesa di circa 1000 euro per abitazione. Ogni famiglia prende possesso della propria casa, anche se non era per niente scontato che i batwa, per la loro indole e cultura, lasciassero la loro vecchia capanna. Infatti, qualcuno dubitava, anche alla luce di precedenti esperienze, che potessero
Ogni anno il tour rwandese che vede impegnati i volontari dell’Ass. Kwizera prevede una tappa obbligata: la visita alla comunità Batwa di Kibali. Nell’occasione avviene l’ormai tradizionale distribuzione di cinque kili di fagioli a ognuna della 47 famiglie della comunità. E’ un’occasione di vera festa e l’accoglienza è sempre particolarmente cordiale, allietata da canti e danze, in cui i batwa sono dei veri maestri. Le loro movenze ricordano l’innata maestria di questi danzatori ai quali competeva, tradizionalmente, l’onore di allietare le corti reali rwandesi.
In fila per la consegna dei fagioli
accettare la nuova sistemazione. In passato, infatti, analoghe realizzazioni erano state letteralmente smontate e vendute a pezzi: lamiere e infissi venivano ceduti per pochi soldi. Nel caso del villaggio Kibali, le autorità civili si sono cautelate emettendo disposizioni volte a vietare qualsiasi acquisto di materiale edile dai batwa. Sorprendentemente la comunità, nella sua interezza, si è adattata alla nuova realtà, dimostrando di apprezzare il cambiamento. Quando nell’estate del 2008, i volontari dell’Associazione Kwizera hanno visitato il villaggio, vi hanno trovato le nuove case ben tenute, pulite e ordinate. La cura della propria casa si è spinta fino al punto d’introdurre alcuni abbellimenti esterni, come nel caso della creazione di un piccolo giardino totalmente recintato prospiciente una delle case. Nel frattempo, i terreni attorno alle case sono stati messi a coltura per farne dei piccoli orti familiari e alcune famiglie si sono cimentate anche nell’allevamento di maiali. Risultato decisamente più importante del nuovo corso è stato che i bambini hanno cominciato a frequentare la vicina scuola di Kibali. All’interno della comunità batwa qualcosa stava cambiando. I primi timidi segnali vengono immediatamente colti anche dall’Associazione Kwizera che decide di mettere in cantiere un ulteriore intervento. All’inizio del 2010 vengono terrazzati otto ettari di collina così da consentirne lo sfruttamento agricolo, in maniera da offrire alla comunità adeguati mezzi di sostentamento. Tuttavia, la mancanza di una tradizione agricola presso i batwa richiedeva preliminarmente di offrire loro le conoscenze base per mettere a coltura i nuovi terreni.
Uno sguardo al futuro
I lavori di terrazzamento
Panoramica del nuovo villaggio PARTE II - Kibali
Una veduta delle case con i nuovi terreni agricoli pronti per essere lavorati pag. 130
PARTE II - Kibali
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La cooperazione allo sviluppo non deve riguardare la sola dimensione economica; essa deve diventare una grande occasione di incontro culturale e umano.
All’inizio del 2011 una nuova sfida viene lanciata ai batwa di Kibali: imparare a coltivare i terreni per diventare autosufficienti per la parte alimentare. Sotto la direzione dell’agronomo della fattoria di Niynawimana, dott. Michel Habakurama, si è iniziato il piano di sensibilizzazione e formazione dei batwa con la finalità di arrivare, in una prima fase, a creare un orto per ogni famiglia e mettere a coltura un ettaro e mezzo a patate e un altro ettaro a fagioli. I rimanenti ettari verranno valorizzati successivamente, quando i batwa avranno preso dimestichezza con i lavori agricoli, tradizionalmente non rientranti nella loro cultura che li vedeva più dediti, nel passato, alla caccia o all’artigianato come vasai. La semina degli ettari residui dovrebbe essere effettuata dagli stessi batwa, utilizzando le sementi ricavate dai primi raccolti. Il progetto prevede altresì la piantumazione di alberi su tutti i confini dell’intera area e di colture foraggere, nei terrapieni di contenimento dei terrazzamenti, che potrebbero, in prospettiva, consentire anche l’avvio di un allevamento comunitario di capre. Nel primo trimestre dell’anno, l’equipe della fattoria di Nyinawimana, coordinata dall’agronomo Michel, ha già provveduto a sensibilizzare le 47 famiglie che vivono nel villaggio per coinvolgerle nel progetto. Al fine di favorire la partecipazione di tutti i nuclei familiari della comunità, sono stati costituti, in forma associativa, due gruppi rispettivamente di 31 rappresentanti per altrettante famiglie (23 donne e 8 uomini) e di 31 ragazzi. Per ora restano ancora da coinvolgere le restanti 16 famiglie, ancora piuttosto riottose a collaborare in queste forme associative.
Post it Raphael Quotidianamente lo si incontra per le strade di Byumba, dove arriva di buon mattino dal vicino villaggio di Kibali. Il suo è uno dei volti che compare più spesso nelle nostre carrellate fotografiche; pur incontrandolo ad ogni missione, per molto tempo siamo andati avanti senza neppure conoscere il suo nome di battesimo. Per tutti noi era semplicemente “shonge”. E’ così, infatti, che si rivolge a chiunque incontri nel suo quotidiano peregrinare in città. Shonge=fame è il suo particolare saluto, accompagnato dalla
I terreni coltivati mano tesa in un gesto d’inconfondibile richiesta d’aiuto. Di fronte al vostro diniego, insisterà un po’ ma poi passerà a un nuovo cliente. La bassa statura, in linea con quella della sua gente, il viso dai tratti molto marcati e sempre atteggiato con dignità al ruolo, un abbigliamento che, per lo spolverino e il sottile bastone, ricorda lontanamente quello di Charlot , fanno di Shonge una specie di simpatica mascotte della mite comunità dei batwa di Kibali. In occasione dell’ultima missione, finalmente ne abbiamo scoperto anche il vero nome; si chiama Raphael. Agosto 2010 PARTE II - Kibali
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Reportage La sfida dei batwa Post it Il numero dei batwa è ormai al lumicino Negli ultimi quindici anni il numero dei batwa residenti in Rwanda si è praticamente dimezzato. Le autorità amministrative hanno censito nel 2010, 25000 batwa, quando il loro numero era di 45000 nel 1994, ridottosi a 35000 dieci anni dopo: in pratica poco più dello 0,20 per cento dell’intera popolazione rwandese. Secondo uno studio pubblicato il mese scorso dall’associazione Coporwa che raggruppa i vasai
Ognuna delle famiglie coinvolte si è impegnata a fornire un proprio rappresentante per i lavori che si svolgono due volte alla settimana, salvo esigenze particolari che possono richiedere giornate aggiuntive. Le due associazioni si sono dotate anche di una struttura societaria, seppur minima, con l’individuazione di vari responsabili. Da subito, il progetto ha dovuto fare i conti con la particolare situazione di degrado in cui vive la comunità batwa, dove anche solo procurarsi il cibo sufficiente per vivere diventa un problema, e con la scarsa propensione al lavoro che caratterizza da sempre i batwa, nonché con la resistenza al lavoro di gruppo. Con l’impegno di tutti gli attori coinvolti nel progetto, ivi compresi i responsabili civili del luogo, la sfida, seppur estremamente difficile, può comunque essere vinta, ricordando peraltro che agli amici batwa si sta chiedendo un cambiamento culturale per loro di portata veramente storica.
rwandesi (lavoro tradizionalmente svolto dai batwa) emergono dati che testimoniano la grave situazione di degrado in cui vivono le varie comunità batwa sparse sul territorio. Solo un batwa su tre accede alle cure mediche attraverso l’assicurazione sanitaria, per mancanza di denaro per sottoscrivere la quota parte di competenza del paziente, pari a 2500 Frw; mentre l’ottanta per cento dei batwa si può permettere un solo pasto al giorno. Se a un simile quadro si aggiunge che le abitazioni, alcune frasche ricoperte di teli, sono totalmente inadeguate a riparare dalle intemperie e dal freddo della notte rwandese
Di recente l’agenzia Grands Lacs Syfia ha dedicato un articolo al ruolo che i batwa avrebbero assunto in occasione delle elezioni presidenziali rwandesi del 2010, parlando di una prima volta in merito al coinvolgimento dei pigmei nel momento elettorale. In precedenza, sottolinea l’articolista, i batwa erano indifferenti alle elezioni, perché esclusi dal resto della comunità rwandese che li considera “anomali” a causa del loro stile di vita. Questa volta invece si sono decisi a partecipare alla fase preparatoria delle elezioni presidenziali, imparando a eseguire tutte le formalità in ordine al voto. Il giorno delle elezioni, alcuni addirittura si sono prestati a svolgere le funzioni di osservatori. A detta di diversi batwa interpellati c’è la speranza che questa elezione possa rivelarsi un passo verso una maggiore integrazione. E a questo proposito hanno anche delle rivendicazione da avanzare al potere politico per essere trattati come rwandesi a pieno titolo. Chiedono sostegno alle loro attività artigianali, corsi di formazione, accesso alla scuola, anche a livello universitario, per i loro figli, possibilità di recitare un proprio ruolo nelle strutture comunitarie locali. In una parola, chiedono che cessi nei loro confronti l’ostracismo a cui sono stati sottoposti, praticamente da sempre, dai loro stessi connazionali. Il rischio del razzismo, purtroppo, non è una prerogativa dei soli bazungu ma, come si vede, attecchisce a tutte le latitudini! Abbiamo avuto modo di sperimentare in prima persona i profondi pregiudizi con cui i batwa si devono misurare quando, uscendo dal chiuso delle comunità ove sono abituati a vivere fra di loro, vengono a contatto con il resto della comunità rwandese. In altra occasione, non è stato
facile convincere i nostri interlocutori rwandesi che un bambino twa, inserito nel progetto adozioni dell’Associazione Kwizera, risultava il primo della sua classe in quanto a profitto scolastico; era per loro semplicemente impensabile un simile fatto. Ora invece facciamo una certa fatica a mettere in campo un progetto formativo per insegnare ai batwa di Kibali a coltivare i terrazzamenti realizzati attorno al villaggio e ad allevare maiali e capre. Il commento è sempre lo stesso: è impossibile insegnare qualcosa ai batwa e ottenere che dagli stessi venga qualcosa di buono. Fa una certa meraviglia che simili atteggiamenti e riserve provengano da ambienti rwandesi, anche culturalmente di livello, anche se, indubbiamente, i simpatici pigmei ci mettono del proprio per meritarsi simili giudizi non propriamente lusinghieri. Non siamo così ciechi da non cogliere le difficoltà che s’incontrano quando ci si misura con una realtà tanto particolare come quella rappresentata dai batwa; tuttavia, ci è abbastanza chiaro come sia sempre rischioso approcciare in maniera pregiudiziale gli altri, ritenendo “anomali” comportamenti, culture, stili di vita troppo diversi dai propri. Si può sempre rischiare di trovare qualcuno che lo pensi anche di noi, a tutti i livelli. A proposito poi dell’inabilità ad imparare, chi scrive all’inizio della propria carriera lavorativa si trovò appiccicata da un capo, un po’ troppo sbrigativo nei giudizi e scarsamente disponibile a confrontarsi con gli altri, l’etichetta di “soggetto inabile ad essere istruito”. Speriamo, a quaranta anni di distanza, d’essere riusciti a smentire quel (pre)giudizio dettato dall’autoconsiderazione e dall’arroganza di chi lo emise.
di certe zone di montagna, ben si comprende come la mortalità sia ben sopra la media. Per questo i responsabili delle diverse comunità auspicano programmi d’inserimento nel tessuto economico sociale rwandese, peraltro in presenza di grandi resistenze da parte del resto della popolazione, e soprattutto che vengano assegnati alle diverse comunità batwa dei terreni da coltivare, così da consentire loro di avere il necessario per l’alimentazione; fino a due anni fa, secondo gli stessi responsabili delle comunità, circa il 40 per cento dei batwa era dedito all’accattonaggio. Luglio 2011 PARTE II - Kibali
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Reportage Quella chiesa in cima alla collina La scuola di Kibali Sulla strada che da Byumba porta a Kibali, prima di raggiungere il villaggio dei batwa, s’incontra un centro scolastico. Qui nel 2007, all’Associazione Kwizera fu richiesto di dare il proprio contributo per sopperire alla grave carenza di aule, pur in un centro scolastico che già ne contava una ventina ma avendo oltre duemila alunni da ospitare. E’ stato quindi realizzato un nuovo edificio composto di tre grandi aule in ognuna delle quali possono prendere posto più di cinquanta alunni. E’ questo uno dei primi progetti sostenuti finanziariamente dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca che, negli anni successivi, ha continuato ad appoggiare generosamente l’attività dell’Associazione in Rwanda.
Post it A Kibali in ricordo di Katia Il tradizionale appuntamento con la scuola elementare di Kibali che ogni anno vede la consegna di materiale didattico e di un piccolo contributo da parte dei volontari dell’Ass. Kwizera, ha assunto in occasione della missione 2010 un particolare significato. Al solito
Domenica 20 gennaio 2008, a Bugarama nel nord del Rwanda, la piccola repubblica del centro Africa segnata dalla tragedia del 1994 quando al culmine di una cruenta guerra civile si contarono centinaia di migliaia di morti, è stata consacrata dal vescovo di Byumba, mons. Servilien Nzakamwita, una piccola chiesa dedicata alla Beata Maria Vergine delle Grazie in un gemellaggio ideale con il santuario di Grosotto in Valtellina.
caloroso benvenuto degli oltre mille alunni del turno mattutino e dei loro insegnanti, scandito da canti e danze e da un grande abbraccio generale che ha strappato qualche lacrima di commozione a qualcuno dei volontari presenti, questa volta ha fatto seguito una commemorazione particolare. In un’aula dell’edificio scolastico, realizzato negli anni scorsi da Kwizera, e dedicata a Katia Salotti, i genitori Olivetta e Pietro e il fidanzato Simone della ragazza scomparsa tragicamente in un incidente stradale nel febbraio dell’anno scorso, si sono raccolti in un momento di raccoglimento unitamente a una rappresentanza degli scolari della scuola, con uno di loro che ha guidato la preghiera. Un momento toccante. Katia aveva espresso l’intenzione di venire in Rwanda con i volontari dell’Associazione, i suoi genitori e il suo fidanzato hanno voluto realizzare questo suo desiderio partecipando alla missione
Un momento della commemorazione di Katia Salotti
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Kwizera 2010.
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L’interno della chiesa
Un altro è però il legame che unisce idealmente questo angolo d’Africa con Grosotto. Infatti, la realizzazione della nuova chiesa è stata voluta dalla signora Daniela per onorare la memoria del padre Bernardo Trinca Colonel che del Santuario di Grosotto è stato, per oltre 60 anni, assiduo e attento custode e sagrestano. Il tutto è avvenuto nel segno dell’amicizia con Don Paolo Gahutu, parroco di Nyagahanga di cui Bugarama è una sottoparrocchia, che nel lontano 1994, in fuga dalla tragedia che infuocava il suo paese, approdò da rifugiato con altri due seminaristi in Valtellina. Accolto inizialmente dalla comunità di Grosio, è rimasto poi a Roma il tempo necessario per concludere gli studi fino all’ordinazione sacerdotale. Don Paolo ha sempre mantenuto un legame particolare con gli amici di Grosio e di Grosotto, anche dopo il suo ritorno in Rwanda, dove, nel 2003, qualche amico ha voluto fargli visita. Dagli incontri in terra rwandese, il secondo è avvenuto nella primavera scorsa, è nata l’idea di cementare questo legame con un’iniziativa del tutto particolare come quella di edificare, in una delle sottoparrocchie che ne era sprovvista, una chiesa che riecheggiasse, nella dedica, l’antico
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legame con la Valtellina Il progetto ha trovato la sua piena realizzazione domenica. Il nuovo edificio, in mattoni di terra rossa e con il tetto di lamiera, è stato edificato in pochi mesi su un pianoro alla sommità di una collina, cui fanno corona tutto intorno, a perdita d’occhio, altre verdi colline rwandesi. Sui due lati, al limite del pianoro, due edifici scolastici tengono compagnia alla nuova chiesa. Sul frontale, sopra la porta d’ingresso, una scritta in lingua locale ricorda la dedica alla Beata Maria Vergine delle Grazie, ripetuta in latino all’interno sulla parete di fondo, alle spalle dell’altare, dove oltre al crocefisso è posto anche un piccolo quadro con una riproduzione di un’antica stampa della Beata Vergine di Grosotto. Sull’altare, una targhetta in ottone ricorda poi tre sacerdoti amici, scomparsi negli ultimi anni, mons. Virgilio Levi, don Norberto Damiani e don Giovanni Rapella. La cerimonia di consacrazione di domenica scorsa ha visto una calda partecipazione della comunità; oltre cinquecento persone assiepate nella piccola chiesa hanno scandito, con canti e movimenti di danza, i vari momenti della celebrazione. Al termine, ed erano passate ormai tre ore, sull’ampio pianoro antistante la chiesa, una vera e propria festa di popolo scandita da discorsi, scenette e danze tradizionali, ha concluso una giornata particolarmente significativa per la piccola comunità di Bugarama che, da domenica, per vivere appieno la propria fede può contare su questa nuova chiesa. Anche l’Associazione Kwizera avrà da qui in avanti una sua chiesa di riferimento in Rwanda.
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Missione 2008
Nyagahanga
Franco, Angelo, Brunello, Martino Ghilotti
N
yagahanga è un piccolo villaggio sprofondato in una vallata, a più di un’ora dalla strada asfaltata che collega Kigali a Byumba. Qui, nel 1948 i Padri Bianchi fondarono una missione che ressero fino al 2005. In quell’anno, causa la mancanza di nuovi missionari, decisero di rimettere la parrocchia alla diocesi di Byumba che se ne fece immediatamente carico. Vi fu inviato come parroco don Paolo Gahutu, fino ad allora economo della diocesi e referente per i progetti che l’Associazione Kwizera conduceva in Rwanda. Al suo arrivo Don Paolo trovò un’accogliente casa parrocchiale, che i missionari previdenti avevano costruito in prossimità di una sorgente, una grande chiesa e una comunità da ravvivare nella fede. Dopo aver preso possesso della nuova parrocchia, certo non fra le più ambite della diocesi, Don Paolo si rimboccò le maniche e si gettò a capofitto nella nuova missione, lasciandosi alle spalle gli onori e le comodità del precedente incarico, particolarmente gratificante, di economo. Dopo i primi mesi passati a conoscere una parrocchia molto estesa, con sottoparrocchie lontane anche tre ore di jeep, a rendersi conto dei reali bisogni spirituali e materiali dei suoi parrocchiani, Don Paolo si mise a programmare la sua attività pastorale, senza dimenticare anche quanto i nuovi parrocchiani si aspettavano dal loro parroco per far fronte anche a certi loro bisogni materiali. Su quest’ultimo fronte Don Paolo non ha fatto mancare risposte concrete. Memore della passata collaborazione con l’Associazione Kwizera, ne ha sollecitato il sostegno in questa sua nuova missione, ottenendo una risposta piena e convinta che ha consentito di portare in quella parrocchia sperduta, che nessun sacerdote della diocesi avrebbe fino ad allora messo in cima alle proprie scelte, un filo di speranza che con il tempo ha fatto parlare di piccolo miracolo di Nyagahanga.
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PARTE II - Nyagahanga
Un momento dell’inaugurazione del Centro nell’agosto 2008: il vescovo di Byumba mons. Servilien Nzamakawita, benedice i locali del Centro sociale. Sotto: panoramica del Centro
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Se i soggetti della cooperazione dei Paesi economicamente sviluppati non tengono conto, come talvolta avviene, della propria ed altrui identità culturale fatta di valori umani, non possono instaurare alcun dialogo profondo con i cittadini dei Paesi poveri.
Il Centro Parrocchiale La prima sfida che Don Paolo si è posta e su cui ha chiesto il coinvolgimento dell’Associazione Kwizera è stata quella di recuperare cinque immobili fatiscenti e da anni inutilizzati, appartenuti alla vecchia missione dei Padri Bianchi, per farne un centro parrocchiale polifunzionale. In soli cinque mesi di lavoro e un investimento di circa 40 mila euro, resi disponibili da Kwizera, nell’agosto 2008 sono stati messi a disposizione della parrocchia circa 500 mq di spazi coperti. La nuova struttura, dedicata a Sant’Agostino, uno dei primi santi africani cui tanto deve anche la cultura europea, comprende uno spazio oratoriale, luogo di aggregazione di giovani del luogo, formato da una sala giochi con un angolo bar e da un campo di basket e pallavolo, realizzato ex novo, con fondo in cemento. Sulla spianata antistante il Centro sono stati realizzati quattro gazebo, in cui si possono passare momenti di convivialità, sorseggiando una birra e gustando una brochette servite dal bar dell’oratorio. Completa il blocco oratoriale un refettorio, affiancato da una nuova struttura di cucina dove giornalmente, durante l’anno scolastico, vengono forniti dalla parrocchia, grazie al sostegno della comunità di Linguaglossa (CT), una settantina di pasti per i bambini più bisognosi, frequentanti la vicina scuola elementare. Uno degli immobili ospita una grande sala attrezzata per le frequenti riunioni parrocchiali e per momenti formativi. Uno dei gazebo: il Lake Angels Point
PARTE II - Nyagahanga
In un altro immobile composto da due grandi locali, denominato Centro sociale Alberto Ghilotti, è ospitata un’aula informatica. Completa il complesso uno spazio ricoperto, inizialmente destinato alle lavorazioni all’aperto, successivamente dopo il suo adattamento a spazio chiuso, utilizzabile come spazio artigianale dalle associazioni di donne che intrecciano i cesti tradizionali e da ragazze che hanno costituito un laboratorio di cucito. C’è da dire che dopo l’inaugurazione del 2008, Don Paolo non si è fermato e, di anno in anno, ha continuato ad abbellire il suo Centro Parrocchiale ma, soprattutto, a farlo vivere. Attraverso il Centro sociale Alberto G. sono state messe in campo diverse iniziative di carattere formativo, oltre ai corsi di informatica. E’ stato promosso il Progetto Mikan, di cui si riferirà più avanti, che ha comportato corsi di formazione sull’allevamento delle capre e la pubblicazione del relativo manuale. Analogamente sono stati programmati corsi di formazione sull’apicoltura da cui si conta di ricavare un manuale e delle lezioni radio diffuse da Radio Maria Rwanda. Da un corso di cucito, a cui hanno partecipato una quindicina di ragazze e ragazzi, ha avuto origine un’esperienza di laboratorio artigianale di confezionamento.
L’entrata al Centro
Post it L’aula di informatica All’interno del Centro è stata inaugurata nell’agosto 2010 un’aula di informatica. L’aula è dotata di dieci laptop Toshiba di ultima generazione, con tanto di mouse e tastiera esterni USB: tutto materiale il cui acquisto è stato interamente finanziato dall’associazione Kwizera. L’alimentazione è assicurata dai generatori del centro e da un pannello solare. Sulla parete frontale della sala spicca una targa metallica: “Aula di informatica Nyagahanga 2010 alla
La scuola di cucito
memoria di Alberto Biagioni”, con tanto di foto di un ragazzo sorridente a completarla. La storia di Alberto si intreccia con quella dell’aula a causa della sua tragica morte avvenuta nell’agosto del 2009 dopo un tremendo incidente stradale. Quello che c’è oggi a Nyagahanga è frutto anche della scelta dei suoi familiari di raccogliere e devolvere in beneficenza il ricavato delle offerte in occasione dei funerali. Nell’aula si terranno corsi di informatica e appena anche a Nyagahanga arriverà la fibra ottica sarà possibile l’accesso ad internet attraverso i computer del centro. Sarà allora che l’aula di informatica potrà esprimere appieno tutto il suo potenziale, moltiplicando di fatto le capacità comunicative ed informative dei ragazzi di Nyagahanga. Oltre che centro di apprendimento potrà diventare un internet point aperto al pubblico.
Don Paolo Gahutu all’uscita del laboratorio
Una veduta del Centro
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PARTE II - Nyagahanga
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Le società tecnologicamente avanzate non devono confondere il proprio sviluppo tecnologico con una presunta superiorità culturale, ma devono riscoprire in se stesse virtù talvolta dimenticate, che le hanno fatte fiorire lungo la storia.
Dall’inviato A scuola e poi a tavola
Nyagahanga agosto 2010 Da diversi anni ormai, il Gruppo Missioni di Piazza al Serchio in Garfagnana destina il ricavato delle sua attività in Rwanda, tramite l’associazione Kwizera, e da un paio d’anni si occupa dei bambini orfani e bisognosi di Nyagahanga, in particolare della loro alimentazione. Il gruppo ha dapprima finanziato la costruzione di una cucina, in seguito ha deciso di garantire annualmente la somma necessaria all’acquisto dei viveri per sfamare quotidianamente i bambini. In occasione del mio viaggio in Rwanda nell’Agosto-Settembre 2010 ho voluto parlare con alcuni di loro per raccogliere le loro impressioni e per osservare, una volta tanto, i fatti dal loro punto di vista. Mi sono pertanto presentato all’ora di pranzo alla mensa del Centro Parrocchiale di Nyagahanga, forte del mio precedente accordo con l’animatrice e ho trovato ad accogliermi un mezzo esercito di bambini di tutte le età, vivaci e sorridenti, che mi hanno chiassosamente circondato. La mensa di Nyagahanga è una struttura in muratura, con all’interno tavoli e sedie disposti a ferro di cavallo dove ogni giorno i 70 bambini che vi si accomodano trovano ad attenderli piatti caldi pieni di buon cibo; molti di loro sono orfani, tutti sono poverissimi e spesso per raggiungere il Centro (adiacente alla scuola) devono percorrere distanze chilometriche a piedi. Iniziano quindi a raccontarmi di come a loro questo Centro ha cambiato la vita. Malgrado le età differenti, il ritrovarsi vicini a condividere il momento del pasto ha fatto sì che i bambini si conoscessero meglio, che formassero un gruppo e divenissero amici. Alcuni di loro, che prima venivano emarginati a causa della loro estrema indigenza o della loro atipica situazione familiare sono riusciti ad integrarsi ed hanno trovato a mensa amici e conforto, oltre che cibo. A causa dell’elevato numero di iscritti, la scuola ha diviso le attivi-
PARTE II - Nyagahanga
tà in mattutine e pomeridiane. Pertanto ci sono alunni che terminano la scuola alle 12 e altri che la iniziano alle 13, ciononostante tutti si ritrovano ogni giorno a mezzogiorno per pranzare assieme. Per quanto riguarda la qualità del cibo sono tutti contentissimi; ad essere pignoli ci vorrebbe qualche patata fritta in più, ma questo è un problema su cui dichiarano di essere ben disposti a soprassedere. Mi colpisce ascoltarli mentre mi raccontano che sono loro stessi, una volta mangiato, ad occuparsi della pulizia del locale mensa nonché dei piatti e delle stoviglie necessarie al loro pasto, anche se questa operazione ad un esercito di 140 piccole mani richiede poco più di mezz’ora. Ascolto le loro storie, incuriosito, ma mi rendo conto che li sto ritardando con le mie continue domande. Decido quindi che può bastare, e per congedarmi chiedo se vorrebbero che portassi per loro un messaggio alle componenti del Gruppo Missioni… una bambina scatta in piedi come una molla e mi porge un foglio scritto in inglese su cui è scritto: - Un benvenuto ai visitatori nella nostra scuola - Per prima cosa vogliamo augurarvi ogni bene - Per seconda cosa vogliamo ringraziarvi per l’aiuto dandoci un pranzo ogni giorno. Continuate questa buona azione Grazie. Dio vi benedica. Prendo il foglio, ringrazio e saluto. Poi mi fermo e voltatomi li osservo mentre ordinatamente, in fila indiana entrano in quella che ormai è la loro mensa, dove oggi trovano ad attenderli un bel piatto stracolmo di riso, fagioli ed altre leccornie; alcuni sono talmente piccoli che mangiano in ginocchio sulla sedia, altri fanno baccano pieni di gioia…una delle scene più commoventi di tutto il mio viaggio. Marco Cassettai
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La foresteria Per chi arriva a Nyagahanga per partecipare alle attività parrocchiali o per gli ospiti che si spingono fin qui, Don Paolo ha approntato, riadattando un vecchio edificio, un’accogliente foresteria con diverse camere dotate di servizi, in grado di soddisfare anche il muzungu più esigente. L’opera è stata dedicata alla memoria di Don Piero Giannini, compianto parroco di Barga.
Sopra: i componenti la Missione 2010 davanti all’asilo di Kagera in costruzione, sotto una partita di basket al Centro parrocchiale
PARTE II - Nyagahanga
Post it Grande giornata di sport a Nyagahanga Per un giorno la piccola Nyagahanga è divenuta la capitale della diocesi di Byumba, almeno dal punto di vista sportivo. Il nuovo campo di basket del Centro Parrocchiale Sant’Agostino è stato, infatti, teatro di una sfida tra i sacerdoti della zona est Byumba con quelli della zona nord ovest Umutara. Alla partita, particolarmente interessante, ha fatto da cornice la gente di Nyagahanga che ha seguito con tanti applausi e con tanto entusiasmo i propri sacerdoti impegnati in un momento distensivo in cui hanno giocato fraternamente dando una grande testimonianza della loro giovanile gioia di vivere. Un simile clima ha contagiato anche i giovani che assistevano alla gara che hanno potuto vivere un momento fortemente coinvolgente ed educativo.Peccato che il fotografo non abbia potuto immortalare questo momento scattando una foto del numeroso pubblico presente.La partita ha visto da una parte la squadra di Byumba rinforzata con l’innesto di due giovani seminaristi in vacanza che hanno messo in difficoltà gli avversari dell’Umutara, un po’ più anziani e forse anche con qualche kilo di troppo, che potevano comunque contare su tre diaconi che si sono difesi bene. Lo score finale ha visto la vittoria di misura della rappresentativa di Byumba per 43 a 41. La squadra dell’Umutara non è quindi uscita ridimensionata; si potrà rifare nella rivincita. Alla fine della partita, Don Paolo ha ringraziato tutti i confratelli che hanno accettato l’invito a visitare Nyagahanga e a partecipare all’inaugurazione del Centro Parrocchiale. Gennaio 2009 pag. 143
Missione 2009
Kiruri
Franco, Angelo, Martino, Brunello, Alessandro e Nicoletta Gonnelli
K
iruri è un piccolo villaggio, di circa 500 famiglie, situato nella parrocchia di Burehe ad ovest dalla città di Byumba, da cui dista una cinquantina di chilometri percorribili in jeep su strade sterrate. Si trova in fondo a una vallata quasi interamente ammantata di piantagioni di the, una specie di grande lago di un verde intenso, che si possono ammirare dall’alto, nel viaggio di avvicinamento quando, prima di scendere a valle, si percorre la strada che si snoda sui fianchi delle colline. Qui un comitato locale, facendosi interprete delle esigenze della comunità, si è fatto promotore di due importanti progetti, un acquedotto e un edificio scolastico, portati all’attenzione dell’Associazione Kwizera per il tramite di don Giovanni, parroco di Fosciandora in Garfagnana, originario proprio di Kiruri. L’acquedotto Il primo progetto, presentato nel 2008, prevedeva la realizzazione di un acquedotto che consentisse ai 1700 bambini e ragazzi del polo scolastico locale e alle loro famiglie di poter disporre dell’acqua di una sorgente posta a metà della collina a circa tre chilometri di distanza. Nella primavera del 2009 sono iniziati i lavori per l’opera di captazione alla sorgente, la stesura delle tubazioni per portare l’acqua a valle e raccoglierla in tre grandi cisterne in muratura della capienza di 20.000, 15.000 e 10.000 litri rispettivamente e da lì distribuirla nel circondario. Nella piana sono state realizzate
PARTE II - Kiruri
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PARTE II - Kiruri
Finalmente l’acqua
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Nella ricerca di soluzioni dell’attuale crisi economica, l’aiuto allo sviluppo dei Paesi poveri deve esser considerato come vero strumento di creazione di ricchezza per tutti.
dieci fontanelle a cui la popolazione locale, e in particolare gli scolari della scuola, potessero accedere direttamente. Il Progetto, il cui sviluppo è illustrato nel disegno qui sotto riportato, ha richiesto un investimento di poco meno di ventimila euro, al cui finanziamento ha concorso per la quasi totalità il gruppo dei Lake Angels di Barga. In tal modo i Lake Angels hanno acquisito pieno titolo per lasciare un segno tangibile della loro generosità in terra rwandese dando il proprio nome al nuovo acquedotto.
Post it L’acqua dei Lake Angels
Alessandro Gonnelli presiede alla prima apertura del rubinetto di una delle fontane
Post it
I componenti del Comitato di gestione dei progetti
PARTE II - Kiruri
Quando la comunità locale diventa protagonista I due progetti portati a termine a Kiruri nel 2009 e 2010 dall’Associazione Kwizera hanno una caratteristica particolare per quanto attiene la loro gestione in loco. Questa volta, infatti, diversamente dai progetti precedenti, i referenti locali, con cui i responsabili di Kwizera dall’Italia si sono raccordati nella pianificazione e nella conduzione dei lavori, non sono stati individuati nella parrocchia o in un ufficio diocesano, ma in un gruppo di esponenti della comunità locale, riuniti in un apposito comitato. L’esperienza si è rivelata positiva. La fiducia riposta negli esponenti del Comitato è stata pienamente corrisposta: i lavori sono stati condotti nei modi e nei tempi programmati e, soprattutto, nel rispetto dei budget di spesa stabiliti. pag. 146
Franco Simonini con i coniugi Alessandro e Nicoletta Gonnelli
PARTE II - Kiruri
Il gesto semplice come quello di aprire un rubinetto di una fontanelle pubblica, ripetuto più volte in una cornice di bambini rwandesi felici e vocianti, è il suggello della giornata vissuta mercoledì a Kiruri dai componenti della missione Kwizera. Era la giornata in cui si inaugurava l’acquedotto rurale voluto e finanziato dai Lake Angels, l’associazione di Barga che riesce a trasfondere l’amicizia di un gruppo di una ventina di amici in momenti e opere di solidarietà che già avevano trovato modo di concretizzarsi, qui in Rwanda, per il tramite della Ass. Kwizera. Questa volta i Lake Angels hanno voluto vivere di persona il momento della consegna dell’opera alla popolazione locale; è toccato, infatti, al responsabile dei Lake Angels Alessandro, affiancato dalla moglie Nicoletta nelle vesti dell’emozionatissima madrina, consegnare ufficialmente l’opera alla comunità locale. La soddisfazione dei responsabili dell’Ass. Kwizera per la riuscita del progetto era leggibile sui volti di Franco e Angelo. Alessandro e Nicoletta non facevano nulla per nascondere, oltre al legittimo orgoglio per la realizzazione, le forti emozioni vissute. Sentimenti che hanno voluto immediatamente trasmettere agli amici rimasti in Italia attraverso messaggini e telefonate dai toni veramente entusiastici per descrivere una giornata decisamente intensa. Agosto 2009 pag. 147
Dall’inviato Un viaggio diverso L’edificio scolastico Il secondo progetto riguardava invece la costruzione di un edificio scolastico da affiancare a quelli esistenti, ormai decisamente insufficienti a ospitare gli scolari gravitanti sul polo scolastico di Kiruri. Il nuovo edificio è stato costruito secondo gli standard suggeriti dalle autorità rwandesi per l’edilizia scolastica. La costruzione, caratterizzata da grandi finestre che permettono una perfetta illuminazione delle aule anche in assenza dell’illuminazione elettrica, è in mattoni, con una copertura in lamiere, supportate da travature metalliche. Anche tutti gli infissi sono in metallo. L’opera è stata portata a termine in cinque mesi di lavoro, con il coordinamento del Comitato locale, e ha richiesto un investimento di poco più di quarantamila euro, per la metà finanziati dall’Istituto Centrale delle Banche Popolari Italiane. Il complesso ospita cinque aule di sessanta metri quadrati ciascuna in cui possono trovare sistemazione circa cinquanta alunni per ognuna. L’edificio è stato inaugurato con una vera festa di popolo nell’agosto del 2010, alla presenza dei volontari dell’Associazione Kwizera. Nei mesi successivi sono stati completati gli arredi interni delle aule; all’inizio del 2011 gli studenti hanno così potuto prendere possesso della loro nuova scuola. Rimane un’ultima sfida che il Comitato ha già lanciato per il futuro: collegare il complesso scolastico alla linea elettrica che passa qualche chilometro più in là. Il tempo dirà se anche questo progetto potrà trovare attuazione.
I preparativi erano stati più o meno gli stessi di tanti altri viaggi che in questi anni mi hanno portato, insieme a Nicoletta, mia moglie, in diversi paesi del mondo, anche africani. Da turisti abbiamo visto molte cose che ci hanno colpito per bellezza e straordinarietà, abbiamo incontrato diverse persone portatrici delle culture più svariate, abbiamo avuto modo di entrare in contatto con realtà di miseria e povertà. Questa volta, fin dall’inizio, il viaggio si prospettava come qualcosa di diverso; già i compagni di viaggio non erano i soliti vacanzieri spensierati, ma due esponenti del volontariato, Angelo e Franco dell’Associazione Kwizera e la meta un paese che certo non si sceglie per passarvi la solita vacanza, almeno fino a oggi. Andiamo in Rwanda da curiosi e interessati rappresentanti degli amici Lake Angels per verificare sul terreno quanto fatto da Kwizera in tutti questi anni, in cui ha beneficiato anche del nostro sostegno finanziario per realizzare diversi progetti, di cui avevamo letto e visto le foto. Questa volta c’era anche l’interesse particolare per una realizzazione, l’acquedotto di Kiruri, interamente sostenuto dai Lake Angels, di cui andavamo a presenziare all’inaugurazione prevista dopo una settimana dal nostro arrivo. La prima settimana del viaggio è passata, infatti, a seguire Angelo e Franco alle prese con il delicato lavoro di verifica in loco dello stato delle adozioni: abbiamo incontrato tutti i bambini, uno per uno, inseriti nel programma. Già in questa fase, il viaggio cominciava a rivelare quello che è stato il suo aspetto caratterizzante: l’incontro con gli altri. Tutti quei volti di bambini, ma anche di persone adulte, che cercavi di ridurre a un’immagine fotografica, e quelle storie familiari, fissate a una scheda compilata nell’ambito del programma, cominciavano piano, piano a fare breccia, prima nelle conversazioni tra di noi, poi anche più nel profondo. Qualche interrogativo cominciava a fare capolino. Si entrava di giorno in giorno nello spirito della missione: andare verso gli altri, fare qualcosa per migliorarne la condizione di vita come appunto poter attingere comodamente nel villaggio un bicchiere di acqua pulita che sostituisse quello, di dubbia potabilità, reperito faticosamente magari a qualche chilometro di distanza. Mercoledì, è finalmente giunto il gran giorno dell’inaugu-
L’entrata della scuola
Il giorno dell’inaugurazione della scuola
PARTE II - Kiruri
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PARTE II - Kiruri
razione dell’acquedotto di Kiruri. Mi aspettavo un’opera certo ammodo, secondo la tradizione Kwizera: una captazione alla sorgente, un po’ di condotta e, infine la fontanella pubblica. Quello che ho trovato è andato ben al di là delle aspettative. Si parte dalla captazione dell’acqua da una sorgente sgorgante sui fianchi della collina che viene raccolta in tre grandi vasche, rispettivamente, di 20.000, 15.000 e 10.000 litri e distribuita attraverso oltre 3 km di tubi a 10 fontanelle a cui la popolazione locale, e in particolare gli scolari della scuola, da qui in avanti potranno accedere direttamente. Le emozioni vissute, unitamente a Nicoletta, in quella giornata, sono state veramente intense e difficilmente descrivibili. Nei giorni successivi l’inaugurazione del “nostro” acquedotto, quello realizzato grazie all’impegno portato avanti in diverse iniziative dai Lake Angels, tra uno spostamento e l’altro, abbiamo avuto modo di vedere le diverse realizzazioni che l’Associazione Kwizera ha portato a termine in questi anni: dalla fattoria di Nyinawimana, al villaggio dei batwa, al centro parrocchiale di Nyagahanga. Proprio in questo villaggio abbiamo trascorsi gli ultimi giorni della missione, ospiti di Don Paolo Gahutu. Altro grande incontro: un prete sinceramente impegnato nella sua missione sacerdotale e di forte impegno a favore della sua gente. Disponibile e cordiale ci ha fatto sentire a casa, ma soprattutto ci ha aiutato a cogliere appieno lo spirito di questo viaggio. Un personaggio decisamente “Lake Angels”. Per questo, l’ultima sera nel momento dei saluti, di fronte a delle gustosissime brochettes di capra e alla immancabile birra (a proposito, quanta se ne è bevuta!), gli ho consegnato la felpa e il kway dei Lake Angels cooptandolo come nostro cappellano speciale in terra rwandese. Ora si torna alla nostra quotidianità, si recuperano calendario, orologio, impegni; nel profondo però qualcosa è cambiato. Assume nuovo slancio l’impegno Lake Angels verso gli altri e si rafforza il legame con l’Associazione Kwizera di cui ho potuto toccare con mano le grandi capacità realizzative. In Rwanda si sentirà ancora parlare del binomio KwizeraLake Angels! Alessandro Gonnelli Agosto 2009
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Progetto Mikan
Missione 2010
Franco, Martino, Brunello, Marco, Alberto Ghilotti, Piero e Olivetta Salotti, Simone Mazzei
L
’idea nasce quando una giovane coppia italiana, Michele e Anna, alle prese con i preparativi del proprio matrimonio, decide di sostituire la tradizionale bomboniera riservata agli invitati al pranzo nunziale con un gesto di condivisione della propria gioia con persone meno fortunate. Vagliando le varie possibili forme di solidarietà, anche su suggerimento dell’amico Don Paolo Gahutu, decidono di destinare la somma preventivata per le bomboniere all’acquisto di 25 caprette da assegnare ad altrettante giovani coppie rwandesi, con l’impegno delle stesse coppie a destinare il primo capretto che nascerà a una nuova coppia e così di seguito in una catena di solidarietà. E’ così che, nell’aprile 2009, 25 capre sono state assegnate a un gruppo di giovani coppie inserite nel percorso di pastorale familiare della parrocchia di Don Paolo a Nyagahanga, nella diocesi di Byumba. Il seme era gettato. Poiché da cosa nasce cosa, ecco che subentra l’Associazione Kwizera Onlus, che, in una specie di joint venture della solidarietà, valorizza l’intuizione della giovane coppia e dà vita a un nuovo progetto che, nella sua denominazione, non poteva che richiamare i protagonisti: Michele, Anna e Kwizera. Ecco pronto il Progetto Mikan.
Il Gruppo di Burehe
PARTE II - Progetto Mikan
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PARTE II - Progetto Mikan
Post it Progetto Mikan: gli inizi Il Progetto Mikan muove i primi passi. Dopo il gruppo pilota partito all’inizio dell’anno a Nyagahanga, in agosto in occasione della presenza dei volontari della Missione Kwizera è la volta di quello di Nyabihu. Alla presenza delle 27 famiglie, tutte con la rispettiva capra al seguito, coinvolte in questa esperienza di pastorale familiare e di impegno comunitario, il responsabile del gruppo, Ambrogio, un insegnante della locale scuola elementare, presenta con orgoglio l’inizio di questa esperienza. Sono partiti da un percorso di fede nell’ambito della pastorale familiare che si è poi allargato a un impegno nella vita di comunità. In tale contesto, hanno creato una cassa comune di reciproco sostegno, in cui sono già stati versati 50.000 franchi rwandesi, hanno poi avuto dalla parrocchia la gestione di un terreno coltivato a prato e infine i fondi per l’acquisto delle capre. Anche in questa fase hanno dimostrato serietà e spirito d’iniziativa. Infatti, la somma messa loro a disposizione pari a 375.000 franchi rwandesi, pari al cambio odierno a circa 470 euro, sarebbe dovuta servire, secondo quanto previsto dal progetto Mikan, all’acquisto di 25 capre; poiché le famiglie che avevano seguito la pastorale familiare erano 27, sono riusciti con abilità commerciale ad acquistare 27 capre, di cui alcune già gravide. Secondo il programma, il primo capretto che nascerà da ogni capra sarà dato a una coppia di una comunità di una sottoparrocchia vicina. Così come è emersa dalla presentazione di Ambrogio, soprattutto dall’entusiasmo che ne traspariva, pare si possano trarre buoni auspici circa la riuscita dell’iniziativa. Agosto 2009 pag. 151
Una solidarietà più ampia a livello internazionale si esprime innanzitutto nel continuare a promuovere, anche in condizioni di crisi economica, un maggiore accesso all’educazione, la quale, d’altro canto, è condizione essenziale per l’efficacia della stessa cooperazione internazionale.
Nella sua semplicità il Progetto Mikan, riprendendo l’idea originaria, si propone di valorizzare le giovani famiglie, cercando di trasmettere loro il messaggio circa la necessità di affiancare a una vita di fede anche l’impegno personale, necessario a migliorare le proprie condizioni di vita e costruire un futuro migliore per sé e per i figli che verranno. L’operazione dovrebbe altresì favorire la nascita di uno spirito comunitario con l’apertura alle altre coppie facenti parte del gruppo e a quelle destinatarie del primo capretto. Dopo la fase sperimentale condotta presso la parrocchia di Nyagahanga, il progetto è stato proposto dall’Associazione Kwizera anche in altre parrocchie della diocesi di Byumba a partire dalle parrocchie di Matimba e di Ngarama e poi, negli anni successivi, le parrocchie di Nyinawimana, Rwamiko e Burehe. Ad oggi sono ormai più di 500 le famiglie assegnatarie di una capra. Proprio per come è strutturato il progetto, altrettante famiglie sono coinvolte, in affiancamento alle prime, in attesa di vedersi assegnare il primo capretto nato.
L’augurio di Michele e Anna Che dire…si comincia! E’ con grande soddisfazione che vediamo partire il nostro progetto. Non pretendiamo certo di salvare l’Africa, nè tanto meno di colorare di “bianco”qualcosa che sta benissimo in “nero”.. Una cosa però vogliamo provare a farla..Non intendevamo inviare a queste famiglie dei semplici aiuti. Noi vogliamo aiutarle ad aiutarsi! Le nostre capre vogliono essere l’inizio della circolazione di conoscenza, di consapevolezza, di crescita attraverso il lavoro di squadra, appunto un “aiuto ad aiutarsi”. Certo, la nostra e’ una scommessa, ma siamo fiduciosi che, anche con l’aiuto di Don Paolo, riusciremo a salvare capra e cavoli.
Don Paolo con Anna e Michele gettano le basi del Progetto Mikan
A sinistra: il passaggio delle capre tra due gruppi della parrocchia di Nyagahanga, a destra: la consegna delle capre al gruppo di Matimba
Pur semplice nei suoi meccanismi, il Progetto Mikan ha però, da subito, richiesto una certa regolamentazione e un adeguato presidio organizzativo che ne consentisse una corretta gestione in tutte le sue diverse fasi. Si parte dalla selezione, attingendo all’interno delle famiglie coinvolte nel percorso di pastorale familiare parrocchiale, di quelle da inserire nei diversi gruppi. Ogni gruppo nomina al proprio interno un responsabile che, coordinandosi con il parroco, sarà il referente del responsabile del progetto. Questo ruolo è stato affidato a un giovane tecnico di Ngarama, esperto nell’allevamento di animali, Jean Damascene, al quale è stato affidato l’incarico di garantire ai vari gruppi, sparpagliati sul territorio, l’assistenza necessaria per portare a termine il mandato loro affidato: arrivare a consegnare alle famiglie, che affiancano il gruppo originario, il capretto, frutto del primo parto della capra originariamente loro assegnata. Si parte quindi dall’assegnazione della capretta, dopo che le coppie hanno partecipato a una giornata di formazione, tenuta da un veterinario o dal responsabile del progetto, per trasmettere le nozioni di base sull’allevamento delle capre, a partire dalle nozioni relative all’alimentazione, alla riproduzione e alla cura delle malattie. Il primo passo è l’approvvigionamento delle capre. Diversi gruppi, una volta ricevuta la somma stanziata per ognuno, approssimativamente il corrispettivo di 500 euro, acquista le capre al mercato del proprio villaggio o a
Post it Il Gruppo San Matteo per il Progetto Mikan A noi del Gruppo San Matteo il progetto Mikan ci aveva preso il cuore.…. Il fatto di donare concretamente una capretta alle giovani coppie, che a loro volta avrebbero poi donato ad un’altra coppia la prima capretta femmina nata e così via …. ci… intrigava assai, ci prendeva così tanto che una sera ritrovateci come di consueto per decidere il da farsi, Nedo lanciò un’idea che ci piacque molto. Pensammo di “creare” caprette disegnandole su cartoncino colorato e proporle a persone di buon cuore, che adottandone una, capissero il profondo significato qual è il progetto Mikan. In questo modo sarebbe stato come se fossero loro stessi ad acquistare e consegnare personalmente la capretta alla coppia in attesa…
Il responsabile del Progetto, Jean Damascene, con il Gruppo di Ngarama
E così è iniziato tutto. In breve le immagini hanno preso vita, seppure su carta, molte persone sensibili e di gran cuore le hanno adottate facendo offerte con le quali una volta in Rwanda, la delegazione dell’Associazione Kwizera avrebbe tramutato tutto questo in realtà, acquistando le caprette e consegnandole alle giovani coppie aderenti al Progetto Mikan. E così è accaduto: a Burehe le nostre capre sono state consegnate alle famiglie in attesa. Settembre 2011
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A ottanta anni con Kwizera quello di un villaggio vicino, se più conveniente. Per esempio per le capre del gruppo di Matimba, nella cui zona all’estremo nord del paese il prezzo delle capre è molto alto, si è provveduto acquistando le capre al mercato di Nyagahanga e trasportandole nottetempo per risparmiare qualche dazio sui trasferimenti all’interno del paese. Per alcuni gruppi si è provveduto assegnando delle capre allevate presso la fattoria della parrocchia di Nyinawimana, creando così un circuito virtuoso tra i diversi progetti promossi dall’Associazione Kwizera. Una volta consegnate le capre, dopo la fase iniziale di rodaggio, particolare attenzione e assistenza andranno prestate nel periodo della gestazione e del parto, quando capita di frequente di perdere qualche capretto se non addirittura la capra. In questi casi il gruppo supplisce in maniera solidale, reintegrando le perdite subite attingendo ai frequenti parti gemellari. Il progetto per ogni gruppo richiede circa un anno e mezzo per essere portato a termine. Infatti, è questo il tempo necessario per consentire alle capre assegnate, solitamente di circa sei mesi d’età, di essere ingravidate, quando hanno almeno dieci mesi, e di portare a termine la gravidanza che richiede circa cinque mesi. Dopo sei mesi richiesti per lo svezzamento, si è pronti per la consegna dei venticinque capretti ad altrettante famiglie: siamo alla conclusione del progetto. Il gruppo che ha raggiunto l’obbiettivo vedrà riconosciuto il proprio impegno con l’assegnazione di un premio di 100 euro da destinare a un’iniziativa comune. Il nuovo gruppo comincerà un nuovo progetto, affiancato da venticinque nuove famiglie pronte a raccogliere, a tempo debito, il testimone. Per consentire a ogni famiglia di vivere il progetto con la necessaria preparazione, è stato pubblicato un opuscolo (vedi la copertina qui a fianco) contenente i motivi ispiratori del progetto, le regole che presiedono allo stesso e le nozioni di base sull’allevamento delle capre.
Post it Dal Progetto Mikan nuove sfide per Kwizera E’ indubbio che il Progetto Mikan, pur nella sua semplicità organizzativa e nei suoi limitati contenuti economici, diversamente dai precedenti progetti, imponga all’Associazione Kwizera una non facile sfida. Infatti, quando come in questo caso il reale contenuto del progetto è segnato fortemente dalla necessità di instaurare un rapporto diretto con le persone, con la loro mentalità, con le loro abitudini, in una parola con la loro cultura, con tutte le conseguenze del caso, si rende necessario un impegno di disponibilità e ascolto che supera di gran lunga quello richiesto da progetti finanziariamente più impegnativi. E’ tuttavia su questo terreno che si dovrebbe indirizzare, per il futuro, l’impegno associativo. E’ probabilmente giunto il tempo di privilegiare tutti quegli interventi che favoriscano nei modi più diversi la crescita della responsabilità e la valorizzazione delle qualità personali dei nostri amici rwandesi, piuttosto che continuare in realizzazione, magari importanti, ma non sempre adeguatamente valorizzate e vissute.
Il responsabile del Progetto consegna i manuali al rappresentante del gruppo di Kagera
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4 Agosto 2010, oggi ho iniziato la mia annuale vacanza e, come al solito, fuori dall’Italia, sul Mar Rosso, Sinai, Egitto. Questa terra mi ha sempre affascinato fin dalla prima volta, quando ci sono venuto per lavoro; avevo 25 anni e fu la prima di una lunga peregrinazione in molte nazioni, principalmente Africa e Medio Oriente. Oggi, 2010, sono alla soglia degli 80 anni e, qui dall’estero, dove ho iniziato la mia vita di lavoro, darò uno sguardo, non molto accurato, al passato. Una lunga serie di immagini mi turbinano in mente; non vi annoierò parlandovi di cosa mi occupavo vi elencherò in ordine cronologico i luoghi delle mie missioni dal 1955 al 2005, quando, all’età di 75 anni, il mercato mi ha considerato purtroppo “obsoleto”. Egitto – Congo Belga – Burundi – Rwanda – Iraq – Ghana - Iran – Nigeria - Congo Brazaville – Egitto 2 – Zimbabwe – Kirghistan – Mauritania – Rwanda 2 (in Rwanda e Ghana sono nati due dei nostri figli). Tutti questi paesi hanno lasciato in me varie sensazioni: gioia, felicità, soddisfazione e successi, ma anche delusioni, dolori e qualche malattia.
PARTE II - Progetto Mikan
Oggi mi chiedo, ha valso la pena vivere così? Ebbene si! Ho visto una piccola porzione del mondo, ho conosciuto gente, popoli, lingue, abitudini, usi e costumi diversi, è stata un’esperienza che rifarei anche con gli stessi errori. In questa vita la più grande soddisfazione l’ho avuta dai miei tre figli, tutti laureati con ottimi voti ed in via di un solido assestamento in diverse nicchie di attività: professore di lingue, ingegnere e avvocato. Tutto ciò grazie a mia moglie che ne ha curato l’educazione e, come sanno già i lettori di Kwizera, mi ha seguito in molte delle mie missioni. Ora guarderò avanti, ma per quanto ancora e fino a quando, nessuno può dirlo, ma tanto per non smentirmi anche nel 2011, a 80 anni, tornerò in Rwanda per Kwizera. Queste ulteriori e brevi missioni mi sollevano moralmente e psicologicamente, insomma, mi sento ancora utile. Pertanto vale la pena di vivere così, fino a quando, sfogliando il libro della mia vita, arriverò alla pagina con la parola fine. Brunello Baldi
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Progetto adozioni
P
oco più di 300 bambini rwandesi sono inseriti nel programma di adozione a distanza curato, fin dalle origini, dall’Associazione Kwizera. Con un modesto contributo di 115 euro annui, questi bambini vengono aiutati dove sono nati, senza sradicarli dal loro mondo, dalla loro cultura, dalla loro terra e dall’ambiente familiare. L’intero sostegno messo a disposizione da famiglie, singoli o comunità viene inviato in Rwanda a totale beneficio del bambino, perché possa vivere un’esistenza più serena, potendo contare sul necessario per la sua alimentazione, la sua istruzione e la sua salute. Infatti, 115 euro, che per noi sono una cifra modestissima, poco più di trenta centesimi al giorno, corrispondono a oltre quattro stipendi mensili di un operaio/agricoltore. I bambini vengono scelti, su segnalazioni delle parrocchie, tra quelli più disagiati perché orfani di entrambi i genitori e quindi affidati agli anziani nonni o a qualche parente, piuttosto che appartenenti a una famiglia priva delle entrate necessarie a garantire un’esistenza dignitosa a una prole spesso numerosa. La scelta viene effettuata nel corso della missione estiva dell’Associazione, allorquando i bambini vengono incontrati unitamente ai loro accompagnatori, genitori o nonni o parenti, e ne vengono acquisiti tutti i dati anagrafici, la storia familiare oltre che una fotografia, che servono per predisporre la relativa scheda personale.
PARTE II - Progetto adozioni
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PARTE II - Progetto adozioni
L’incontro con i bambini delle adozioni
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Dall’inviato Con i bambini del progetto adozioni I bambini inseriti nel programma vengono seguiti in loco da madame Pascasia, una laica operante nell’amministrazione diocesana di Byumba, coadiuvata dal signor Bernard, un ex insegnante di disegno che conosce un po’ d’italiano per aver trascorso, anni fa, qualche mese in Italia nell’ambito di un programma governativo. Sono loro che si fanno carico della gestione in loco dell’intero programma che richiede diversi adempimenti burocratici e, soprattutto, il mantenimento dei contatti con i bambini e le loro famiglie e i responsabili delle parrocchie di residenza.
Post it Mondo cane “Per adottare a distanza un trovatello, riceverne la foto, la sua storia di vita, il certificato che attesta di essere diventati a tutti gli effetti suoi “genitori” ed eventuali comunicazioni successive (per esempio, l’accoglimento in una famiglia) basta effettuare un versamento di € 15,50. In seguito, è previsto il pagamento di una quota mensile analoga.” Questo è il manifesto che faceva capolino, qualche tempo fa, sotto i portici di Piazza San Babila a Milano al banchetto degli attivisti di una Associazione di promozione sociale. Il messaggio è decisamente accattivante, peccato solo che si stia promuovendo l’adozione di un.....cane. Pensate, il tutto per soli miserabili 5,916667 euro in più al mese rispetto a quanto richiesto dall’Ass. Kwizera per adottare a distanza un bambino rwandese. Un vero affare, basta avere uno stomaco forte! Aprile 2009
Sotto: Bernard e Pascasia in compagnia di Angelo Bertolucci
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Con la mano della zia che stringeva la sua, quella esile e minuta creatura raccolse le forze e trovò l’energia per varcare la soglia che dava sulla stanza in cui stavamo lavorando; intanto bastava la forza per entrare. Dopo un po’ ebbe anche quella di alzare il suo sguardo timoroso e sconfitto che incontrò quello dei bianchi ricchi in procinto di interrogarlo. Gli occhi che si trovò davanti gli sorrisero mentre il viso del muzungu si illuminava, ma il piccolo Timbimbiri aveva già vissuto sette anni e gli spettacoli che la vita gli aveva offerto l’avevano già privato della forza di contraccambiare adeguatamente ad un tale segno di amicizia; quindi tutto quello che il suo viso riuscì a produrre fu una goffa smorfia che lo spinse a riabbassare il suo sguardo. Si rinchiuse nel suo io e si vestì di un grave silenzio mentre ascoltava la zia che rispondeva e raccontava; la sentì mentre rivelava la sua età, il paese dove era nato e quello dove viveva. Le prestò attenzione quando spiegava ai bianchi della morte dei suoi genitori, delle malattie che lui aveva avuto, della sua carriera scolastica, delle loro condizioni di vita. Ascoltava attento e impassibile gli eventi lontani e quelli più recenti, quelli che si ricordava: il tutto con un sinistro distacco. Vedendolo dall’esterno sembrava che la sua vita e ciò che questa gli aveva offerto, gli passassero addosso senza veramente colpirlo, come l’acqua che scorre su un tetto ben costruito. Si rendeva conto della sua estrema indigenza? Era forse cosciente di non essere in fondo un individuo baciato dalla fortuna? Probabilmente se si trovava dove era, in cerca di un aiuto per sostentarsi, aveva una vaga idea di averne bisogno. Eppure lasciata quella stanza abbandonò la mano della zia e correndo a piedi nudi in un baleno percorse la strada che lo separava dai suoi amici ed allegramente ricominciò la partita, la festa, la gioia. Per chi li ha visti venire copiosi a domandare un sussidio, coperti dalla povera e nobile eleganza delle bluse scolastiche, attendere pazientemente il proprio turno, essere interrogati e schedati ed infine ripartire verso più interessanti obiettivi,quei bambini sono uno dei contenuti che riempie il concetto astratto di sventura: poverissimi,
PARTE II - Progetto adozioni
colpiti da malattie, denutriti, orfani, sfruttati, maltrattati eppure comunicanti un senso di spensieratezza, serenità, leggerezza, che lasciano immaginare un’immensa allegria che si agita nel più profondo del loro io. Assolutamente si può essere felici con poco, assolutamente la felicità è un Essere, non un Avere. Questo è l’incontro con uno dei tanti bambini che voi avete adottato o potreste adottare, la stessa storia di tanti bambini di Byumba e dintorni. Queste parole scaturiscono dalla persuasione di una generale inconsapevolezza riguardo a ciò che effettivamente è stato realizzato e può continuare ad esser fatto sostenendo il progetto adozioni e poiché probabilmente finiranno sotto l’occhio di chi già sostiene il progetto adozioni a distanza, cioè di qualcuno che già si adopera concretamente ed attivamente ad un programma preciso, non hanno l’obiettivo del proselitismo, bensì quello di semplice riconoscenza, e perché no, quello di informazione. Il vostro semplice gesto, che comporta in realtà un impegno duraturo e costante, non si concretizza nell’emissione di un certificato o in un trasferimento di denaro; chi non ha potuto sperimentare la realtà che c’è all’altro capo del filo incontra maggiori difficoltà nel farsi un’idea effettiva della portata di questo vostro solo apparentemente piccolo contributo. Sappiate soltanto che la situazione che si nasconde dietro la scheda del bambino che avete adottato, dietro la foto del bambino che vi disarma con un sorriso contagiante, è tutt’altro che semplice ed idilliaca; grazie al vostro aiuto, oltre che studiare, comprare una capra, riparare la casa, procurarsi abiti (cose per nulla secondarie) può permettere a qualcuno di continuare ad essere felice. La cosa che non ha prezzo è regalare a qualcuno un’infanzia di gioia e spensieratezza, che è fondamentale per ogni bambino. Tutto questo nella speranza che per quel fanciullo non sia già troppo tardi. Marco Cassettai
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Reportage
Valide anche all’equatore le regole per una corretta gestione di un progetto Per ogni bambino viene anche aperto un libretto di risparmio, presso lo sportello bancario del villaggio più vicino, dove viene accreditato, in due tranche successive, l’intero importo dell’adozione. Durante la missione estiva, i volontari dell’Associazione incontrano, uno per uno, tutti i bambini inseriti nel programma. Si verificano i risultati scolastici, alla luce dei voti riportati nella pagella che devono portare con sé, si controlla l’andamento dei prelievi dal libretto bancario, per verificare eventuali anomalie, si scambiano infine alcune battute con il bambino e con chi l’accompagna. Annualmente il signor Bernard, con il suo italiano un po’ stentato, fa da tramite con le famiglie adottive, curando la traduzione delle letterine che i bambini scrivono, nella maniera abbastanza striminzita che consente loro la scarsa preparazione scolastica che ricevono. Parallelamente all’adozione diretta da parte di benefattori italiani, che possono essere singoli, famiglie o anche aziende come nel caso del Pennellificio Zenit, l’Associazione provvede a distribuire tra i bambini più bisognosi materiale scolastico. In particolare vengono realizzate divise e sacche scolastiche, che vengono messe a disposizione dei direttori scolastici per essere assegnate ai bambini più bisognosi. Sembra questa una possibile alternativa all’adozione diretta. Consente, infatti, per i benefattori che hanno a cuore la sorte di questi bambini senza necessariamente volerne adottare uno in modo specifico, di spalmare i propri aiuti su un numero più ampio possibile di bambini.
PARTE II - Progetto adozioni
Quando Don Paolo Gahutu propose all’Associazione Kwizera il recupero e la valorizzazione di alcuni stabili abbandonati e fatiscenti della parrocchia di Nyagahanga , fatta una valutazione preliminare circa la coerenza dello stesso progetto con i programmi associativi, fu immediatamente
Sopra: i bambini ringraziano un’azienda che ha sottoscritto alcune adozioni, altri bambini con pagella alla mano pronti per il colloquio annuale Don Paolo con Don Damasceno e i volontari Kwizera
messa mano alla pianificazione dell’intervento. Dopo una ricognizione sul posto per raccogliere tutte le indicazioni necessarie, con Don Paolo è stato predisposto un budget, in franchi rwandesi, dell’intero intervento con un buon livello di dettaglio: costo dei lavoratori, dei materiali di costruzione, degli infissi, degli impianti e degli arredi e di tutto quanto necessario. Di pari passo con l’avanzamento dei lavori, condotti sulla base di disegni appositamente predisposti, Don Paolo predisponeva una rendicontazione delle spese sostenute, arrivando a un livello di dettaglio estremo (è esposto il costo di un kilo di chiodi piuttosto che la mancia data a chi ha aiutato a scaricare un camion). Ad ogni stato di avanzamento veniva quindi inviata in Rwanda una nuova tranche di 5/7.000 euro di cui Don Paolo curava il cambio rendicontando il relativo rapporto di cambio. Con un simile metodo si è condotto a termine il progetto nei tempi previsti e, soprattutto, rispettando in maniera puntuale il budget di spesa preventivato. Ho voluto brevemente ricordare questa esperienza il cui merito, per inciso, va riconosciuto in toto a Don Paolo,
Sotto: Bernard con la sua inseparabile moto
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PARTE II - Progetto adozioni
perché è sempre più diffusa, presso alcuni nostri amici rwandesi, la convinzione che la gestione di un progetto di solidarietà possa essere fatta con la sola buona volontà, prescindendo dall’applicazione dei criteri richiesti nella corretta pianificazione e gestione di un progetto e nell’utilizzo del denaro. Gestire correttamente un progetto, misurandosi continuamente con la scarsezza dei mezzi disponibili, non è un principio che valga solo in Europa e di cui si possa prescindere all’equatore. Proprio perché stiamo parlando di opere di solidarietà e quindi di gestione di fondi che faticosamente vengono raccolti tra tanti benefattori in Italia, le regole che riguardano qualsiasi impresa economica devono trovare qui una applicazione ancor più stringente. Non si può quindi intraprendere un’iniziativa con improvvisazione e senza porsi il problema del relativo costo confidando che, alla sua conclusione, qualcuno provvederà a saldare i conti qualunque essi siano. Non si può non vigilare sulle spese, sull’impegno dei lavoratori, sulla scelta dei materiali, sul rispetto dei preventivi andando avanti alla cieca nella convinzione che, comunque vada, alla fine qualcuno provvederà a sistemare le cose. Se questi principi non verranno fatti propri anche dai nostri amici rwandesi ne uscirà indebolita la collaborazione in essere con le conseguenze che ricadranno sulle popolazioni locali a favore delle quali tutti siamo impegnati.
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Le ultime realizzazioni
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nche nel 2011 l’attività dell’Associazione è proseguita secondo i tradizionali filoni d’intervento, caratterizzandosi per alcune opere specifiche portate a termine nel corso dell’anno sul territorio rwandese, anche con la partecipazione delle diverse realtà locali.
La sala parrocchiale di Mutete La nuova sala parrocchiale realizzata per la comunità di Mutete, una parrocchia di recente costituzione nell’ambito della diocesi di Byumba e retta dal parroco don Narcisse, è stata realizzata con un significativo contributo dell’Associazione Kwizera Onlus che è andato a integrare quanto messo a disposizione dai parrocchiani. L’Associazione ha destinato a questa opera i fondi pervenuti dalle assegnazione del cinque per mille dell’Irpef dell’anno 2007, quando 250 contribuenti avevano scelto appunto Kwizera quale destinataria. Si tratta di un immobile di complessivi trecento metri quadrati, composto da un ampio salone e da due locali da adibire a ufficio e ripostiglio. La nuova sala, dove troveranno collocazione tutte le attività formative della parrocchia, è stata intitolata a Shahbaz Batthi, il cattolico ministro pakistano per le minoranze religiose, trucidato da fanatici proprio per la sua testimonianza di fede. Il momento dell’inaugurazione La sala parrocchiale di Mutete
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Con il termine “educazione” non ci si riferisce solo all’istruzione o alla formazione al lavoro, entrambe cause importanti di sviluppo, ma alla formazione completa della persona.
Il laboratorio artigianale di Bungwe Qualche problema venutosi a creare nella gestione del progetto da parte del referente locale aveva ritardato i tempi di realizzazione, così solo dopo un paio di anni dall’inizio dei lavori si è finalmente conclusa l’edificazione del laboratorio artigianale di Bungwe. Si tratta di un edificio di circa 110 metri quadrati di superficie, con un ampio spazio destinato a laboratorio e un ufficio. Vi trovano collocazione, per ora, quattro macchine per maglieria, su cui si stanno esercitando a turno una ventina di ragazze che già avevano seguito un corso di formazione in proposito. Ora si tratta di organizzare il lavoro e raccogliere le commesse necessarie tra le scuole della zona che prevedono nella loro divisa scolastica anche la dotazione di un maglioncino.
Post it La scuola-laboratorio di cucito di Rushaki Sabato 20 agosto, i componenti la Missione Kwizera 2011 hanno fatto tappa a Rushaki per una verifica sul campo del progetto approntato dalla locale parrocchia, retta da don Gaudiose Muremanzi, per l’avvio di una scuola-laboratorio di cucito. Nei locali di un edificio parrocchiale, che necessitano sicuramente di qualche intervento migliorativo, sono state collocate 12 macchine per cucire. Attualmente quaranta ragazze stanno seguendo un corso di cucito della durata di sei mesi, articolato su cinque giorni alla settimana, con l’integrazione di lezioni di inglese, pianificazione familiare e prevenzione dell’Aids. La parte pratica è curata da un sarto e una sarta, regolarmente stipendiati, mentre le altre lezioni sono tenute da volontari. Per questo primo corso le ragazze hanno versato una quota di iscrizione di 15000 Frw cadauna, con esclusione di una decina di ragazze particolarmente indigenti che
L’asilo di Kagera L’opera, che serve un villaggio facente parte della parrocchia di Nyagahanga, è stata fortemente voluta da don Paolo Gahutu, che è riuscito a coagulare attorno al progetto, in una specie di coproduzione della solidarietà, un gruppo di sostenitori italiani. Si va dall’Azione cattolica di Grosio (So) alla comunità parrocchiale di Barga (Lu), fino all’Associazione Kwizera che ha portato il sostegno del Gruppo San Matteo in Nave-Lucca e della Parrocchia di Sagnino di Como. L’edificio si articola su tre aule, completamente arredate, di circa quaranta metri quadri di superficie cadauna. La scuola materna sarà a gestione parrocchiale e non potrà quindi fare conto sul sostegno statale, anche se una responsabile dell’amministrazione civile, presente il giorno dell’inaugurazione, ha promesso il proprio interessamento per concorrere a parte della spesa relativa allo stipendio delle insegnanti. Per questo, parte dell’onere di gestione ricadrà anche sulle famiglie della zona che intenderanno inviare qui i loro bambini. Al resto ci penserà Don Paolo che sarà certamente in grado, come spesso gli riesce, di richiamare l’attenzione e il conseguente sostegno dei numerosi amici italiani: un altro piccolo tassello per fare della parrocchia di Nyagahanga, fino a qualche anno fa una delle ultime della diocesi, un piccolo esempio.
sono state ammesse gratuitamente. Per il futuro si potranno studiare forme che consentano di poter ridurre
Un’aula del nuovo asilo
I bambini il giorno dell’inaugurazione Una veduta del nuovo asilo
tale importo, magari grazie a lavori di confezionamento per la vendita realizzati nella parte finale del corso quando le ragazze hanno acquisito una certa manualità nel cucire. E’ stato altresì affrontato il problema, posto dal responsabile della parrocchia, di come, una
Sopra il laboratorio di Bungwe, sotto la scuola-laboratorio di cucito di Rushaki
volta ultimato il corso, si possa mettere nelle condizioni queste ragazze di avere una propria macchina per cucire per iniziare una propria attività a casa, possibilmente in un’ottica di lavoro in gruppo così da poter soddisfare anche forniture significative. L’Associazione, tenuto conto che il costo di una macchina per cucire si aggira attorno ai 70.000 Frw, si è riservata di valutare la possibilità di concedere in affitto queste macchine a un canone di circa 2000/2500 Frw mensili, in una specie di leasing che al termine di tre anni trasferisca la piena proprietà della macchina alla ragazza che ha regolarmente pagato il canone; l’idea necessita di adeguati approfondimenti per i problemi, non solo organizzativi, che comporta.
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Missione 2011 Postfazione Franco, Angelo, Martino, Brunello, Daniele, Alessandro e Nicoletta Gonnelli con il figlio Simone
Dopo aver ripercorso insieme le maggiori realizzazioni che l’Associazione ha portato a termine in questo decennio, vorremmo qui ricordare tutti quegli interventi che stanno sotto la punta dell’iceberg e cioè quelle iniziative che non danno grande risalto d’immagine, perché apparentemente banali e semplici come bere un bicchier d’acqua, ma che in realtà sono proprio quelle che sostengono lo spirito missionario e danno supporto all’intera complessa struttura umanitaria. Sono iniziative che si fotografano male e sono difficili da presentare, ma sono importanti quanto e più delle opere di ingegneria costruttiva “ad alta visibilità”, che spesso finiscono per essere la principale fonte di evidenza dell’ Associazione. Se valutiamo l’intervento umanitario esclusivamente sotto l’aspetto della capacità costruttiva, il risultato appare, agli occhi dell’osservatore, come una grande opera di imprenditoria. I successi vengono misurati in ettari di terreno bonificati, in decine di migliaia di mattoni murati, in tonnellate di prodotti agricoli raccolti, nel numero di capi di bestiame allevati o in giornate di lavoro procurate. Se così fosse, l’opera umanitaria avrebbe un valore modesto o quanto meno marginale, perché quando si investono le nostre energie sulle cose e non sulle persone ed il metro del nostro successo è solo il risultato materiale, manca qualcosa. Che si vinca o si perda, che le realizzazioni ottengano più o meno successo, generalmente si fa poca strada ed è probabile che quella intrapresa finisca per andare nella direzione sbagliata. Se viceversa si mette al centro del nostro progetto l’essere umano ed il successo si misura con quanto abbiamo sorretto ed aiutato l’uomo, allora si vince sempre! È in quel momento che cose in apparenza piccole ed insignificanti come asciugare una lacrima, curare le ferite di un bambino ammalato di aids, rendere possibile una visita medica o l’acquisto di qualche medicinale, come anche strappare un sorriso al fratello che soffre, assumono un grande valore. Oppure cose banali come rimediare un abito, magari privandosene, e offrire un pasto caldo ad un fratello, che non ha neppure la forza di impugnare una zappa, diventano grandi gesti d’amore.
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Murakoze cyane, grazie
Crediamo di interpretare i sentimenti di tutti gli amici rwandesi, molti dei quali ci hanno accompagnato con i loro volti in queste pagine, rivolgendo un grazie, murakoze cyane nella loro lingua, a tutti coloro che in questi dieci anni hanno condiviso l’impegno associativo con la vicinanza e con il sostegno materiale. Quanto illustrato in queste pagine testimonia come i responsabili dell’Associazione abbiano saputo gestire i fondi che con fiducia sono stati loro affidati da tanti benefattori: dalla vedova evangelica alla grande istituzione finanziaria. Contenendo le spese di funzionamento dell’Associazione allo stretto necessario si è potuto destinare alla popolazione rwandese il novanta per cento dei fondi raccolti. Efficienza e trasparenza nella gestione, coniugate con l’impegno e la dedizione dei volontari, sono il grande patrimonio di un’Associazione che da anni opera per far incontrare generosità e bisogni e che intende proseguire in questa sua missione confidando nella generosità di vecchi e nuovi sostenitori.
Cercare di ridare all’altro vitalità e coraggio, standogli vicino con la nostra umanità e compassione, facendogli capire che non è solo e che il domani potrà essere migliore di oggi… questo sì è vero amore verso gli altri. In questi anni di attività missionaria in aiuto del popolo delle mille colline, abbiamo cercato di adoperarci con umiltà ed impegno, vivendo il nostro incarico come un servizio a questi fratelli meno fortunati. Lo sforzo costante che abbiamo messo in ogni progetto, portato avanti fino ad oggi, è quello di fare solidarietà senza fare assistenzialismo, cercando di spiegare alla popolazione, ma soprattutto ai nostri referenti in loco, che è l’Africa che deve salvare l’Africa e noi siamo lì “solo” per dare un aiuto ed accompagnarli in questo difficile momento. Tra mille difficoltà andiamo avanti, consapevoli dei nostri limiti, con le nostre fragilità e debolezze affrontiamo le difficoltà quotidiane con impegno e con la cognizione esatta che in posti come quelli in cui operiamo si vive in un’altra realtà, tanto è vero che, per esempio, poche cose sono difficili come bere un bicchier d’acqua. L’opera del volontario animato dalla fede guarda all’essere umano e tutto quello che di materiale egli realizza serve per migliorare le condizioni degli individui che dalle opere stesse traggono beneficio e sollievo. Il suo ruolo è quello di essere cooperatore e collaboratore all’opera di redenzione di Dio ed il suo aiuto al fratello bisognoso si estende ben oltre la sfera materiale, perché: dov’è carità e amore lì c’è Dio. San Paolo, nella lettera ai Corinzi (13,7- 8,13) scrive: “la carità tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza, la carità: ma di tutte più grande è la carità!”.Sacrificio, dono di sè e tanto amore: ecco cosa c’è sotto la punta dell’iceberg! Angelo Bertolucci Segretario dell’Associazione Kwizera Onlus
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INDICE
Prefazione.................................................................................................. Pag. Introduzione.............................................................................................. “
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PARTE I Rwanda Appunti di viaggio Nota del Curatore.................................................................................... In viaggio verso il Rwanda......................................................................... Il paese delle mille colline.......................................................................... Kigali, la capitale....................................................................................... Sulla strada verso i villaggi......................................................................... Al villaggio................................................................................................ La scuola................................................................................................... La sanità.................................................................................................... La religione............................................................................................... In famiglia................................................................................................. Folklore..................................................................................................... L’artigianato tradizionale........................................................................... Un po’ di storia.......................................................................................... In cammino...............................................................................................
“ 14 “ 16 “ 22 “ 30 “ 38 “ 46 “ 56 “ 62 “ 68 “ 76 “ 84 “ 90 “ 94 “ 102
PARTE II Kwizera 2002-2011
Kwizera - Rwanda
Presentazione............................................................................................. Gli inizi: Muhura e Cyeza.......................................................................... Nyinawimana............................................................................................ Kibali........................................................................................................ Nyagahanga............................................................................................... Kiruri........................................................................................................ Progetto Mikan......................................................................................... Progetto adozioni...................................................................................... Le ultime realizzazioni...............................................................................
“ “ “ “ “ “ “ “ “
Postfazione..................................................................................................
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Associazione Kwizera Onlus 55027 Gallicano (Lu) Via Cavour, 37 - 23033 Grosio (So) Via Vanoni, 18 www.kwizera.it - info@kwizera.it - Tel. 0583 730440 - Mob. 328.1888534 Codice fiscale 90006470463 P.Iva 01869470466 C/C postale: 32268427 Credito Valtellinese IBAN IT 17 M0521652160000000092361 pag. 170
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