Avi n 5

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ISSN 2284-2896 - "Poste Italiane Spa - spedizione in abbonamento postale D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/04 n° 46) art.1 comma.1 - CN/BO”

Paul Le Quernec - Centro Culturale di Mulhouse

3XN - Bridge by Buen

Dominique Perrault Architecture - Torre di Donau City

Architecture & Vision - Warka Water

Chartier-Dalix e Avenier Cornejo - Complesso residenziale a Parigi

ORDINE DEGLI ARCHITETTI PIANIFICATORI, PAESAGGISTI E CONSERVATORI DELLA PROVINCIA DI VICENZA

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LA NUOVA TESTATA PROMOSSA E PATROCINATA DAL CONSIGLIO NAZIONALE DEGLI ARCHITETTI Point Z.E.R.O. è il magazine trimestrale del Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori. Vuole essere un osservatorio privilegiato dal quale guardare quello che succede nel mondo dell'architettura sostenibile a 360.° Scarica gratuitamente o consulta via web l'app POINT Z.E.R.O. Cerca la copia cartacea nelle fiere di settore



AVI architetti Iscritta con l’autorizzazione del Tribunale di Bologna al numero 8223 del 18 gennaio 2012

Direttore Editoriale Giuseppe Pilla Direttore Responsabile Maurizio Costanzo Caporedattore Iole Costanzo Coordinamento di Redazione Cristiana Zappoli Art Director Laura Lebro Consiglio dell’Ordine Stefano Battiston, Piero Boaria, Andrea Bozza, Matteo Campana, Giuseppe Clemente, Mario Comin, Marisa Fantin, Simone Matteazzi, Elisabetta Mioni, Stefano Orsanelli, Manuela Pelloso, Marco Peruzzi, Raffaella Reitano, Andrea Testolin, Nicola Ziggiotto Hanno collaborato Manuela Garbarino, Donatella Santoro Stampa ARBE Industrie Grafiche - Modena www.arbegrafiche.it finito di stampare in maggio 2014

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sommario 19

Editoriale Marisa Fantin Un'identitĂ collettiva per costruire una domanda di buona architettura Annabianca Compostella, Diego Peruzzo, Giuseppe Pilla Progetto Agenzia per la Valorizzazione dellĂŠArchitettura vicentina

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p.22

Panorama LĂŠalbero che produce acqua Architettura e vetro (Venezia) Nuove tecnologie per la casa Vantaggi della casa in legno Alla scoperta di Kengo Kuma Linee vita e ancoraggi Per un cambio di prospettiva

48

p.19

p.27 p.30 p.34 p.36 p.38 p.40 p.43

Progettare Funzionale e multiforme Parigi Progetto di Chartier-Dalix e Avenier-Cornejo

p.48

Asimmetrie espressive Mulhouse, Francia Progetto di Paul Le Quernec

p.60

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Per legare la cittĂ Mandal, Norvegia Progetto di 3XN RoleArchitect

p.70

Una torre sul Danubio Donau-City Progetto di Dominique Perrault Architecture

p.80

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Appuntamenti Architettura, Arte & Design

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Design Salone del Mobile: le novitĂ

100

Punti di vista Il futuro dei centri urbani Intervista a Michele Talia e Domenico Marino

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Un'identità collettiva per costruire una domanda di buona architettura L’Ordine professionale è un'istituzione di autogoverno della professione e, in questa veste, ha numerosi compiti che vanno dalla gestione dell’albo al governo deontologico della professione. L’iscrizione all’Ordine non è una libera scelta, ma un obbligo per chi voglia esercitare la professione, non vi è quindi necessariamente una condivisione di principi e valori tra gli iscritti di uno stesso Ordine. È però vero che attraverso le elezioni tutti gli iscritti sono chiamati a condividere un programma e degli obiettivi ed eleggere i propri rappresentanti su questa base. Vi è, dunque, anche un ruolo di rappresentanza della professione che il Consiglio dell’Ordine in prima persona deve assolvere e nel farlo non può che tenere conto di essere un punto di riferimento per il riconoscimento del ruolo dell’architetto e della tutela dell’architettura. Spesso questo compito è difficile, proprio perché deve confrontarsi con opinioni ed esigenze diverse, e soprattutto perché deve essere espressione di comportamenti e valori collettivi che non interferiscano con i compiti istituzionali e con l’equa distanza tra i diversi iscritti. È però a tutti evidente come oggi l’architettura viva un momento partico-

larmente complicato e difficile non solo sotto il profilo dello svolgimento della professione, ma anche per mancanza di punti di riferimento e di costruzione di una cultura della progettazione che ci aiuti a lavorare avendo un quadro di riferimento, un sistema culturale che sostenga il nostro lavoro e le nostre capacità. Oggi il nostro lavoro è schiacciato tra un passato che viene sempre e comunque visto come autorevole, anche quando si tratta di testimonianze minori, e un presente che è sempre invasivo, cementificatore, non idoneo. Le eccezioni esistono, ma non sono le poche esperienze felici a costruire una cultura collettiva, serve una larga diffusione. Questa stagione dell’architettura viene vista come incapace di esprimere una sua cultura che non sia peggiorativa rispetto alla condizione preesistente, tanto da preferire la banale imitazione ad un pensiero originale. Riflettere su questa condizione comporta la capacità di riconoscere le buone pratiche, ma anche quella di fare diventare queste buone pratiche non episodi isolati, ma patrimonio collettivo, elementi di produzione della cultura architettonica; in una parola recuperare la memoria.

La memoria è l’elemento indispensabile di un progetto culturale, una cultura che non produce memoria di sé è morta ancor prima di nascere; una cultura che non trasmette e comunica la propria memoria è destinata alla cancellazione storica. Tutte le culture sono sempre "strumenti di produzione" e "strumenti di comunicazione" di memoria storica. Non sempre, però, questi processi produttivi e comunicativi sono ben strutturati e intelligibili. È necessario lavorare sulla "memoria storica", ma senza svolgere una mera opera di riarchiviazione e ricatalogazione del passato e del presente. Metterla in gioco, riscoprendola criticamente e criticamente agendola. Lavorare sulla memoria con questo significato di costruzione dell’esperienza è un compito difficile perché le memorie si formano e svaniscono di continuo. Possono essere manipolate e modificate. Vi sono memorie individuali, quelle personali, e memorie sociali. È anche un compito inevitabile perché laddove si condivide una storia comune con un determinato gruppo di persone, si stabilisce anche un senso d’identità individuale e collettiva che oggi gli architetti non hanno e che li porta a lavorare in modo autoreferenziale sen-

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za condivisione delle idee e impedendo a queste di diventare cultura collettiva. E una comunità senza memoria collettiva perde la sua identità. È un percorso difficile perché non certo e perché la memoria collettiva è passata dall’essere testimonianza di verità all’essere oggetto di discussione. Nel mondo antico e nel medioevo lo storico è innanzitutto il testimone, o chi ha avuto accesso alle testimonianze di chi è stato più vicino ai fatti; oggi la memoria collettiva è fondata su altro che sulla semplice testimonianza o memoria dei fatti e non è più considerata una garanzia di veridicità (anzi, spesso è il contrario). Questo cambiamento significa che lavorare sull’architettura contemporanea cercando di metterne in luce i valori non è tanto un racconto del bello, quanto una valutazione critica delle esperienze, che è cosa completamente diversa. Le riviste di architettura, le mostre e i convegni spesso non aiutano perché parlano di un’architettura diversa dalla pratica quotidiana, esercitata da pochi architetti che rappresentano situazioni eccezionali, tanto da essere usati a volte come strumenti di marketing. Più interessante e più utile è lavorare non sulle architetture di richiamo, quanto sul mestiere dell’architetto: quello che sta sul territorio, che ha un rapporto diretto con un committente che deve fare i conti con disponibilità economiche limitate e con la redditività dell’investimento, che non conosce le riviste di architettura. È questo il campo in cui dobbiamo tornare a competere e questo il contributo che come ordine professionale possiamo dare al duro lavoro dei nostri iscritti. Lo facciamo già nell’offer-

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ta che abbiamo promosso per la formazione professionale ascoltando le aspettative e le esigenze dei colleghi, cercando di organizzare momenti di incontro e di crescita culturale non banali, non legati alla pubblicità dei prodotti, ma al fornire conoscenze e informazioni per migliorare il nostro lavoro e per renderlo innovativo. La formazione, insomma, come opportunità e non come un obbligo. Questo è il primo punto: continuare a crescere, a conoscere, a imparare e confrontare per migliorare la nostra capacità professionale. Dall’altro lato, però, serve lavorare per costruire la percezione della qualità dell’architettura e questo è un compito che non può essere svolto solo dagli architetti per gli architetti, ma che deve trovare anche interlocutori esterni. Prima di tutto i committenti che devono essere in grado di formarsi un’idea della buona architettura. A forza di essere bersagliati dalle trasmissioni sui cibi e sulla cucina si sta diffondendo una domanda di alimentazione che chiede la provenienza degli alimenti che si acquistano e la competenza dei ristoratori. Oggi nessuno comprerebbe più un elettrodomestico che non sia in classe A. Costruire una domanda di buona architettura aiuta l’architettura di qualità, della stessa consapevolezza dovrebbero nutrirsi anche le imprese che lavorano nell’edilizia. Sono momenti difficili, ma la qualità si ottiene solo se si continua a lavorare sull’innovazione e sul miglioramento dei prodotti e delle prestazioni. Non è un lavoro facile e non deve essere un processo di giudizio di qualità sull’operato degli architetti, sarà la diffusione della conoscenza a produrre indirettamente la capacità di distinguere la

buona architettura da quella scadente. E sarà anche la possibilità di depositare e sedimentare le esperienze a divenire nel tempo il quadro di riferimento per dare un supporto al lavoro degli architetti. Per fare questo serve essere liberi dai condizionamenti di un Ordine professionale, vedere dall’esterno e costruire un’offerta alla quale gli architetti devono essere liberi di aderire o meno senza alcuna costrizione istituzionale. Per tradizione in tutti i settori, nessun testimone autoreferenziale, nemmeno il più attento e smaliziato, è consapevole della portata degli eventi che sta vivendo; nessuno avrebbe potuto scrivere, nel luglio 1789: “è iniziata la Rivoluzione francese”. Il distacco è dunque necessario per poter vedere dall’esterno e valutare liberamente, ma con autorevolezza e capacità, le esperienze contemporanee. Questo il compito che si assume l’Agenzia per la Valorizzazione dell'Architettura vicentina, alla quale promettiamo di non condizionare le scelte, bensì di valutare criticamente le azioni che devono essere sempre improntate alla costruzione della memoria collettiva nel senso che abbiamo prima descritto. Dobbiamo tutti noi credere e sostenere che all’interno di un percorso progettuale l’architetto non è un costo da pagare, ma un investimento. Se questo obiettivo potesse essere raggiunto, potremo finalmente misurarci sulle nostre capacità e competenze e non sulla riduzione della parcella professionale. Marisa Fantin Presidente Ordine Architetti PPC di Vicenza



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Progetto Agenzia per la Valorizzazione dell’Architettura vicentina Stiamo progettando un’iniziativa di grandissimo interesse e quanto mai opportuna per diversi motivi. Pur nelle ambasce di una situazione che dura da troppo tempo crediamo che l’architettura di qualità, espressa dai nostri territori in forme a volte troppo episodiche, debba essere conosciuta, su di essa ci si possa confrontare in maniera aperta e debba essere sensi-

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bilizzata la collettività sul valore dell'architettura come strumento in grado di trasformare i problemi quotidiani in opportunità di miglioramento. La buona architettura conviene a tutti! L’architettura comunica la sua azione, progettuale e sociale, ma contemporaneamente raccoglie le energie positive e i fenomeni emergen-

ti espressi dalla società. Si fa conoscere e apprezzare non solo per ciò che produce ma, soprattutto, per i valori che riesce a trasmettere. Uno dei principali obiettivi è quello di proporre al grande pubblico un’immagine diversa dell’architettura e dimostrare che quest’ultima è davvero di tutti, il fil rouge che accompagna le grandi questioni che attraversano la società d’oggi.


Tutte le foto di Francesco Castagna

I progetti più recenti incoraggiano una serie di riflessioni collettive sul ruolo dell’architettura a vari livelli, dalla produzione alla gestione, fino alla fruizione: genericamente dobbiamo favorire una rinnovata e maggiore attenzione del cittadino verso le idee emergenti relative all’abitare, puntando anche su un suo maggiore coinvolgimento nella pianificazione. Nel nostro ambito territoriale si evidenzia l’urgenza di ricostruire i rapporti fra istituzioni, professionisti del settore e cittadini verso una maggiore correttezza e responsabilità. Vanno ricercate ed intensificate le occasioni di confronto dedicate alla Pubblica Amministrazione che, in qualità di committente, deve garantire la migliore offerta progettuale relativa agli spazi pubblici. Coin-

volgendo una sempre più ampia molteplicità di figure professionali, in grado di o rire elementi d'indagine provenienti da altri campi, va sviluppata l'attività di ricerca per provocare ricadute operative in ambito architettonico. Per di ondere capillarmente nella società il significato dell’architettura, l’attività dell’Agenzia non deve trincerarsi entro il recinto con un pubblico ristretto già “iniziato”, bensì coinvolgere un pubblico vasto, di diversi livelli culturali, sociali, anagrafici. Lo scopo principale dell’Agenzia, il filo conduttore di tutto il progetto, è la diffusione della cultura architettonica, non solo tra gli architetti e tra chi si occupa del processo edilizio, ma anche tra i loro committenti, privati e pubblici, e soprattutto tra la gente comune, tra chi l’architettura la vive

tutti i giorni senza coglierne il significato sociale, insistendo verso le giovani generazioni, più recettive e disposte a guardarsi intorno con uno sguardo nuovo. Gli strumenti di di usione saranno, quindi, eterogenei, atti a smuovere l’interesse delle diverse tipologie di pubblico: dalle mostre, agli incontri, dalla fotografia ai dibattiti, dalla rivista al sito internet, dai sondaggi ai premi. A fianco del direttivo abbiamo pensato che il Comitato Scientifico dell’Agenzia non debba essere composto da soli architetti; per parlare di architettura ad un pubblico eterogeneo bisogna chiedere l’aiuto alle tante discipline che interagiscono con l’architettura e che con essa dialogano a diversi livelli, con la forte convinzione che il confronto e

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l’ibridazione tra varie discipline o ra la possibilità di amplificare e stimolare nuove idee e nuovi progetti. Quindi ci confronteremo con la storia, con il contributo di Luca Trevisan, per ricercare e indagare il legame estetico tra la lezione del passato e i valori formali derivanti dalle aggiornate esperienze architettoniche della contemporaneità, favorendo lo sviluppo di realtà progettuali innovative e funzionali in grado di configurarsi quali paradigmi dei nostri tempi. Ci confronteremo con l’artigianato, con l’aiuto di Gabriele Cappellato, per valorizzare i di erenti approcci culturali e di tradizione delle arti artigiane che oggi vanno scomparendo e sono sempre state legate all’architettura; per dare approfondita e concreta conoscen-

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za reciproca ad architetti, artigiani e appassionati di vari mestieri manuali, per recuperare con approcci innovativi la conoscenza trasmessa dalla tradizione. Ci faremo aiutare dalla letteratura, con il contributo di Enio Sartori, per parlare di architettura e paesaggio con lo strumento più immediato per raggiungere l’animo del nostro pubblico: la parola scritta, colta, erudita per narrare i nostri viaggi attraverso il territorio. Con la fotografia e la regia, portate all’interno dell’Agenzia da Riccardo De Cal, avremo l’occasione per approfondire lo sguardo alla realtà locale che circonda il territorio nel quale operiamo, tentando di proporre nuovi spunti dai quali elaborare un ragionamento più articolato e universale.

Infine, la cultura architettonica di Gianluca Pelu o e di Enrico Garbin aiuterà a tenere insieme i vari approcci, con il fine ultimo di valorizzare l'architettura del nostro territorio, attraverso le loro diverse esperienze di formazione e di progettazione, maturate in contesto nazionale ed internazionale. Siamo convinti che la provocazione che lanciamo vada fatta conoscere e vada sostenuta e che a partire da essa possano essere create molte occasioni di confronto. Per questo ci impegniamo ad organizzare, nel prossimo futuro, nuove azioni a sostegno di questa iniziativa: la prima, a settembre, ne u icializzerà la nascita. Annabianca Compostella Diego Peruzzo Giuseppe Pilla


UN MANIFESTO PER A.V.A. A.V.A. è un’Agenzia.

Agenzia che tenterà di investigare, esplorare, indagare e ricercare se esistono, dentro

i nostri territori vicentini, “vie” o “traiettorie” che conducono all’architettura di qualità.

Agenzia che attraverserà i diversi territori dentro l’oramai immenso magma edilizio che scende dalle nostre valli verso la vasta pianura a formare una sorta di caos urbanizzato creato dalle tante pianificazioni, molto spesso disegnato e avvallato dai tanti nulla osta paesaggistici. Questo “MOVIMENTO” dell’Agenzia si preannuncia come un viaggio,

più viaggi, e diventa “MANIFESTO” per orientarsi negli attraversamenti.

Attraversamenti, dunque, per tornare a vedere e far vedere una realtà dell’architettura

contemporanea di qualità che ritorna sempre più spesso ad accendere nuove “luci intermittenti”

dentro l’impegno delle nuove generazioni di architetti a confermare una tradizione di continuità

con alcune figure storiche di architetti vicentini, impegnati nel difficile compito di tenere l’architettura nei frenetici anni della ricostruzione postbellica.

Attraversamenti per continuare a credere che le giovani generazioni degli architetti non abbiano negli occhi il solo dolore della violenza perpetuata per decenni sul territorio e del suo conseguente oblio. Attraversamenti dentro la realtà del territorio vicentino sapendo che “i non luoghi” non esistono, esiste invece la non memoria.

Attraversamenti per solcare le nostre terre e per sentire sotto i nostri piedi la storia, il contesto, il sito, la fisicità dei corpi dell’architettura, la memoria, appunto.

Attraversamenti per incontrare le architetture di qualità e i pensieri che le hanno

generate dentro i contesti di riferimento per rubricarle, catalogarle, metterle in rete e collegare i punti luminosi delle loro “intermittenze”.

Attraversamenti per capire se l’interdisciplinarietà tra architetti, pianificatori, paesaggisti

e conservatori abbia generato negli ultimi anni più qualità, più meraviglia, infine più bellezza. Attraversamenti per incontrare il nostro territorio e capire, da vicentini, la fortuna di averlo

e il dovere che abbiamo per rispettarlo. L’”anima” che è dentro alle cose del nostro territorio è talmente profonda che il nostro compito è di esserne all’altezza. Attraversamenti...

Passaggi di paesaggi...

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PANORAMA

a cura di Cristiana Zappoli

Connessioni, riflessioni, segnalazioni. Su materiali, architetture e design

■ PRE-VISIONI L’albero che produce acqua L’acqua è la fonte di tutta la vita e la sua disponibilità è fondamentale per gli essere umani. Ma l’acqua pulita è in continua diminuzione. Inquinamento, crescente deforestazione, cambiamenti climatici e desertificazione danneggiano ulteriormente la disponibilità di fonti idriche. Per risolvere, almeno in parte, questo problema, lo studio italiano Architecture & Vision, un team di architettura e design molto impegnato nelle applicazioni aerospaziali, ha progettato Warka Water, presentato per la prima volta alla Biennale di Architettura di Venezia nel 2012: una torre di 10 metri, dalla forma simile a un vaso, fatta a mano e realizzata con materiali ecologici e facilmente reperibili e in grado di raccogliere acqua potabile nelle aree rurali in via di sviluppo. Il nome deriva dal Warka Tree, un grande albero di fico simbolo di fertilità e generosità, molto importante per la cultura pastorale etiope (il termine Warka designa il luogo di aggregazione e istruzione della comunità) e altrettanto importante per l’ecosistema del paese. Eppure la sua scomparsa sembra inevitabile: infatti l’Etiopia ha subìto una deforestazione del 60% solo negli ultimi 40

anni. «Nelle regioni di montagna dell’Etiopia - ha spiegato Arturo Vittori, progettista di Warka Water e direttore dello studio Architecture & Vision - le donne e i bambini camminano ogni giorno per diverse ore per raccogliere l’acqua da fonti spesso non sicure, che gli esseri umani condividono con gli animali e che hanno un alto rischio di essere contaminate. Questa situazione comporta, oltre a a seri rischi per la salute, un aggravio notevole di lavoro per le donne già impegnate in diverse mansioni domestiche e accentua l’impossibilità per i bambini e le donne stesse di accedere all’educazione scolastica». Warka Water offre un’alternativa a questa situazione drammatica. Si tratta di una struttura verticale con uno speciale tessuto di polietilene tra-

Sotto: la struttura è alta circa dieci metri, pesa appena 60 chili ed è in grado di raccogliere la rugiada che si forma di notte, producendo fino a 100 litri di acqua al giorno

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forato attaccato all’interno in grado di raccogliere l’acqua potabile dell’aria mediante condensazione. La differenza di temperatura tra il giorno e la notte crea la condensa, le gocce della condensa scivolano in un contenitore alla base della torre e l’acqua raccolta passa attraverso un tubo rubinetto che la trasforma in acqua potabile. In una intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica, Vittori ha spiegato che «La trasformazione dell’aria in acqua non ha nulla di speciale, è quello che fanno i deumidificatori nelle nostre case d’estate ma consumando tanta elettricità. Ma come farlo senza elettricità e petrolio? Con l’escursione termica fra il giorno e

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La struttura è facile da assemblare, quattro uomini la montano in circa 10 giorni. È costruita con materiali ecologici e facilmente reperibili come giunchi e nylon

la notte, come facevano gli antichi egiziani quattromila anni fa, ma anche in Puglia, molto tempo dopo, quando si costruivano muri a secco per raccogliere acqua per gli ulivi». La struttura a maglia triangolare è fatta di materiali naturali come il bambù e può essere costruita dagli abitanti del villaggio. La struttura, che pesa solo 60 kg, è composta da 5 moduli che vanno installati dal basso verso l’alto e che possono essere sollevati e assemblati da 4 persone senza la necessità di ponteggi. La torre può raccogliere fino a 100 litri di acqua potabile al giorno. Il progetto sperimentale Warka Water, realizzato con il sostegno del Centro Italiano di Cultura di Addis Abeba e la EiABC (Ethiopian Institute of Architecture, Building Construction and City Development), è stato messo in rete con il crowdfunding per la raccolta di fondi, ogni torre costa solo 360 euro. L’obiettivo è quello di poter iniziare a diffondere nel 2015 le Warka Water nei territori rurali etiopi. Il progetto trae ispirazione da fonti diverse: dal punto di vista estetico i progettisti hanno guardato all’artigianato tradizionale e ai classici rifugi etiopi. L’idea di prendere l’acqua dal cielo, invece, non è nuova, risale ad almeno 2000 anni fa. Plinio il Vecchio racconta che gli abitanti di un’arida isola delle Canarie erano soliti salire, al tramonto, sulle colline vicino al mare per raccogliere la nebbia che gocciolava dai rami dell’alto e maestoso albero sacro che l’aveva catturata durante la notte. La struttura a doppia curvatura triangolare si ispira ai tradizionali “Nassi di Giunco”, utilizzati nelle isole italiane del mar mediterraneo, che in Sicilia vengono realizzati ancora oggi.



■ RECUPERI Architettura e vetro (Venezia) «Noi viviamo perlopiù in spazi chiusi. Essi costituiscono l’ambiente da cui si sviluppa la nostra civiltà. La nostra civiltà è in certa misura un prodotto nella nostra architettura. Se vogliamo elevare il livello della nostra civiltà saremo quindi costretti, volenti o nolenti, a sovvertire la nostra architettura. E questo ci riuscirà soltanto eliminando la chiusura degli spazi in cui viviamo. Ma ciò sarà possibile soltanto con l’introduzione dell’architettura di vetro, che permette alla luce del sole, al chiarore della luna e delle stelle di penetrare nelle stanze non solo da un paio di finestre, ma direttamente dalle pareti, possibilmente numerose, completamente in vetro, anzi di vetro colorato. Il nuovo ambiente che in tal modo ci creeremo dovrà portarci una nuova civiltà”1. Con queste parole, che aprono il saggio Architettura di vetro, scritto nel 1914, Paul Scheerbart lega in maniera convinta il concetto di nuovo (nella civiltà, nel modo di vivere, nell’architettura) con l’utilizzo del vetro, materiale questo che diventa fondativo nel pensiero innovatore dei maestri del Movimento Moderno. Le Corbusier, alla fine degli anni Venti, elabora il pan de verre, dispositivo di facciata formato da una doppia parete vetrata con intercapedine in cui circola l’aria a temperatura controllata (il mur neutralisant e l’air exacte); Gropius, nell’edificio per il Bauhaus, disegna una cortina di vetro che avvolge la facciata e lascia intravvedere in trasparenza i solai e i pi-

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Sopra: un interno dell’edificio. Sotto e nella pagina a fianco: Venezia Lifestyle Center visto dall’esterno

lastri, consentendo una simultaneità di visione che Giedion, in Spazio, tempo, architettura, accosta al pensiero pittorico cubista2; Mies van der Rohe considera il vetro come l’unico materiale che riesca a rendere chiaro e leggibile il principio fondativo dell’architettura, ovvero la costruzione: «Soltanto la pelle in vetro, soltanto le pareti vetrate permettono alla struttura a scheletro di assumere una conformazione costruttiva chiara e le assicurano le sue potenzialità architettoniche»3; ed elabora evocativi progetti in cui questo materiale, vero e proprio velo cangiante in trasparenze e riflessi, avvolge la struttura come nel grattacielo per la Friedrichstrasse a Berlino, o diventa serra abitata che costruisce l’affaccio sul paesaggio in casa Tugendhat; in Italia, Giuseppe Terragni propone nel 1939 il Padiglione del Vetro e della Ceramica presso l’E42 a Roma4 un edificio costruito con differenti e innovative declinazioni del materiale (vetro cemento, cellovetro, mattoni e lastre di cristallo ecc.), inteso nella sua valenza figurativa e rappresentativa, come in quella sperimentale e costruttiva. Sono questi solo alcuni, ma concreti, riferimenti a cui ci si deve rivolgere, affrontando la lettura del Venezia Lifestyle Center progettato e realizzato fra il 2006 e il 2012 a Porto Marghera da Armando Dal Fabbro insieme a


Gianluca Ferro e Luigi Scottà, per conto di Nova Marghera SpA. Il progetto, insieme ad altre ricerche, è stato presentato dal progettista a Vicenza, presso la Basilica Palladiana, alla fine del settembre scorso nell’ambito della rassegna “La città dell’architettura”, che nella sua edizione 2013 aveva come tema “Ri_generazione”. Infatti, tale realizzazione si colloca all’interno di uno scenario che pone con forza proprio la questione della rigenerazione urbana di aree produttive in dismissione (della prima zona industriale di Porto Marghera) e architettonica (la trasformazione di edifici esistenti), in un’area decisamente strategica rispetto a Venezia e la laguna da una parte e l’area metropolitana veneta dall’altra, della quale i vari attori che si occupano e hanno cura del territorio (gli amministratori politici, gli attori produttivi, il mondo accademico universitario, la società civile) sentono come necessario il recupero e il ripensamento nell’ottica della riqualificazione attraverso nuove edificazioni e il recupero architettonico e funzionale di alcuni edifici. Il progetto per il Venezia Lifestyle Center si configura come ultima realizzazione all’interno del Parco Tecnologico VEGA di Porto Marghera, nel comparto denominato VEGA 1 attestato lungo la doppia direttrice di strada e ferrovia verso Venezia, del quale diviene testata est, ma allo stesso tempo perno per i futuri nuovi sviluppi verso l’acqua previsti con i progetti per il VEGA 2. Come anticipato, tale intervento, come altri lì realizzati in que-

Venezia Lifestyle Center è il primo esempio di ristrutturazione funzionale di un manufatto di archeologia industriale a Venezia Marghera

sti ultimi vent’anni, nasce dalla volontà di riqualificare questo distretto in trasformazione, lavorando su una preesistenza, piuttosto che, come in prima battuta fu ipotizzato, sulla demolizione e la nuova costruzione di un fabbricato. L’edificio esistente era il magazzino fertilizzanti della Agrimont, costruito fra gli anni ’40 e gli anni ’60 e da anni abbandonato e inutilizzato, con impianto a T composto da due grandi navate di 30x60 metri, alte una 19 e l’altra 13 metri e definite da una serie di arconi in cemento armato e pannellature in laterizio. La scelta del progettista, incaricato di dare all’intervento funzioni di servizio e attrezzature al parco tecnologico, è stata innanzitutto quella di preservare la memoria del preesistente manufatto e in particolare enfatizzarne la figura strutturale, mettendo in luce il telaio in cemento armato e rigenerandolo con un raffinato e innovativo trattamento a fibre di carbonio. Fedele alle proposizioni miesiane, Dal Fabbro ha dunque utilizzato il vetro, configurato in pannelli dalle elevate prestazioni termiche e acustiche, per costruire un involucro che rivela la caratteristica forma dei due padiglioni intersecati e, senza soluzioni di continuità, definisce le facciate e le coperture, nel contempo consentendo dall’esterno di percepire il ritmo tettonico dello scheletro e la nuova suddivisione in piani degli interni (il grande vuoto originario è stato infatti articolato in più livelli, con solai sostenuti da un sistema strutturale indipendente dal telaio esi-

SEZIONE

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stente). Ecco dunque che il tema della costruzione diviene centrale in questo intervento che mira in egual misura alla conservazione intesa come mantenimento della memoria e del carattere dell’edificio e del luogo, nella necessaria e virtuosa riattivazione funzionale e re-invenzione dell’esistente, restituito a vita e funzionalità con nuovo valore e nuovo senso civile. Sulla scorta di questo atteggiamento operativo, sono da leggere le altre scelte fondative del progettista: il recupero della pensilina sul fronte nord, fortemente legato alla sua originaria funzione (sotto questo elemento correvano i binari di servizio al magazzino); la proposizione nella facciata sud di un grande portale in metallo verniciato, per gerarchizzare i fronti e definire l’accesso principale al manufatto; la sottolineatura del caratteristico coronamento delle due navate, definito da lanterne che, nella rivisitazione di Dal Fabbro, assumono più forza e spes-

Sopra: alcuni interni del Lifestyle Center. A destra: la planimetria. Sotto: una foto storica della preesistenza


PIANTA PIANO TERRA

Il progetto consiste nella rigenerazione e l’accorpamento di due fabbricati: l’ex magazzino fertilizzanti e l’ex sala mensa dell’azienda Agrimont

sore, addirittura sporgendo, come avviene sul fronte sud, di qualche metro a sbalzo rispetto al filo facciata: da semplici dispositivi pensati in origine per l’illuminazione del magazzino, esse divengono completamente vetrate, strette e lunghe, collocate nel punto più alto dell’edificio, veri e propri cannocchiali architettonici come luoghi privilegiati per uno sguardo sul paesaggio in trasformazione di Porto Marghera, su Venezia e la sua storia, e sulla laguna, di lontano. (di Patrizio M. Martinelli) NOTE 1

PIANTA PRIMO LIVELLO

P.Scheerbart, Architettura di vetro, Adelphi, Milano 1994 (prima edizione 1914). 2 S. Giedion, Spazio, tempo, architettura, Hoepli, Milano 2004 (prima edizione 1941) 3 L. Mies van der Rohe, Cosa sarebbe il calcestruzzo, cosa l’acciaio, senza il vetro? (1933), in L. Mies van der Rohe, Gli scritti e le parole, (a cura di V. Pizzigoni), Einaudi, Roma 2010 4 Per la disamina di questo progetto si veda A. Dal Fabbro, “Paradigma Terragni: il progetto per l’UVI 1939” in A. Dal Fabbro, Astrazione e memoria. Figure e forme del comporre, (a cura di P.M. Martinelli), Clean, Napoli 2009

PIANTA SECONDO LIVELLO

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■ PRODUCTS Nuove tecnologie per la casa Il gruppo Benincà Holding, specialista nella building automation, costituisce la naturale evoluzione di un’azienda fra le protagoniste a livello nazionale nel mondo dell’automazione: Benincà SpA. Fondata da due fratelli vicentini nel 1979, la Benincà SpA, grazie all’accurata scelta dei materiali e alla produzione tutta italiana, è stata insignita nel 2013 di un importante riconoscimento: il certificato di prodotto 100% made in Italy. Attualmente il brand è distribuito in 110 paesi nel mondo, anche tramite undici filiali di cui nove estere. Benincà Holding nasce nel 2009 dall’esigenza di ri-

spondere in modo sempre più specifico alle richieste di un mercato che si fa via via più esigente, con l’obiettivo di offrire ai clienti prodotti all’avanguardia, frutto del connubio fra tradizione e innovazione. Il gruppo oggi è composto da 6 aziende: Benincà produttrice di automatismi per cancelli, porte e portoni; Cab automatismi per serrande, tapparelle e tende da sole; Hi Motions accessori per cancelli; Rise dissuasori di sosta, parcheggio e sistemi per il controllo degli accessi e infine Myone, l’ultima nata, produttrice di porte automatiche. Tutte e sei le aziende fanno riferimento alla capogruppo per la gestione di importanti servizi come il dipartimento finanza e controllo, marketing & product managment e ricerca e sviluppo. Per quanto riguarda que-

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In alto: lo show room aziendale con un laboratorio interno per la formazione pratica di clienti e installatori Sopra: la conference room del gruppo per corsi tecnici. A destra: telecomandi serie TO.GO disponibili a 2 o 4 canali, in versione bianca o nera

st’ultimo, il gruppo ha compiuto degli importanti passi avanti. Attraverso un intenso lavoro di squadra, oggi il dipartimento R&D progetta e sviluppa prodotti di eccellenza, frutto del continuo scambio di competenze fra le varie aziende in termini di tecnologie e applicazioni. Notevole spazio è stato riservato anche alla ristrutturazione aziendale, non solo a livello di costituzione di nuove aree produttive ed espositive, ma anche come creazione di iniziative e servizi interamente dedicati al cliente e alle sue esigenze. Un esempio in questo senso è sicuramente l’Automation Village, costituito da 4 zone: conference room, show room, Lab 2.0 e lounge zone. Qui, attraverso la definizione di un percorso fisico, il cliente entra in un vero e proprio villaggio dove, secondo le sue esigenze, può attingere informazioni che riguardano il prodotto, la formazione e il marketing, portando alla fine con sé un’idea chiara e ben definita dell’azienda e del gruppo, perché ne ha avuto esperienza diretta. Oggi, anche attraverso i nuovi mezzi e i social network, l’azienda si apre completamente al mercato e dialoga senza segreti con esso creando un flusso di informazioni continuo, puntando alla realizzazione di un sogno: la creazione di una grande community nella quale condividere con clienti e collaboratori idee, passioni, pensieri. (Informazioni: Benincà Holding S.p.a. - via Capitello, 43, 36066 - Sandrigo (Vi) - www.benincaholding.com tel. 0444.751030 - fax 0444.759728)


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■ BIOEDILIZIA Vantaggi della casa in legno Se è un fatto innegabile che l’uomo abbia cercato in tutte le epoche della storia di perfezionare le prestazioni della propria abitazione negli ambiti di confortevolezza e di praticità, è solo negli ultimi decenni che a questi valori si è aggiunto quello dell’ecosostenibilità. Complice il declino delle fonti energetiche non rinnovabili e, di conseguenza, una crisi di trasformazione economica mondiale senza precedenti per durata e intensità, abbiamo giocoforza spinto l’acceleratore per concretizzare un nuovo modo di intendere la nostra vita, modificando di rimbalzo l’intera filosofia dell’abitare. At-

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Sopra: casa realizzata a Isola Vicentina. Sotto: alcuni operai specializzati lavorano durante un cantiere

tualmente il valore di un immobile è ricavato in buona parte dalla sua capacità di offrire molto chiedendo poco in cambio: un’abitazione costruita oggi deve soddisfare le esigenze di un risparmio energetico concreto e, in questo senso, i materiali di costruzione rivestono ovviamente un ruolo primario. La soluzione del legno si rivela perciò uno degli investimenti migliori in questo senso e il trend è destinato a crescere nel futuro prossimo. Ma se è palpabile l’effervescenza che ultimamente attraversa il settore dell’edilizia in legno va evidenziato che è sempre preferibile rivolgersi a quelle realtà che, oltre a prezzi ragionevoli, garantiscano una biografia di comprovabile esperienza e professionalità. È questo il caso di Europlan Srl, nata più di trent’anni fa come azienda specializzata nella costruzione e installazione di tetti in legno. Il suo “core business” oggi è orientato soprattutto alla costruzione di case in legno. «A caratterizzarci da altri competitors - evidenzia Maurizio Maino, presidente di Europlan Srl - è la grande passione per il nostro lavoro, la quale ci ha permesso di acquisire le capacità necessarie per padroneggiare questo materiale secondo le richieste più diversificate di una clientela davvero eterogenea». Le realizzazioni Europlan Srl si confermano esempio aderente ai dettami della bioedilizia contemporanea, curate come sono in ogni dettaglio a partire dalla selezione di legni di primissima qualità. Peculiarità aggiuntiva è l’abilità nella personalizzazione delle esigenze più disparate, aderendo alle di-


verse metodologie costruttive, si tratti della casa a telaio (mediante cioè moduli in legno naturale), quella in blockhouse (con l’impiego di legno massiccio in abete nordico naturale, squadrato e levigato, con doppia o tripla lavorazione a maschio e femmina) o quella a pannello pieno conosciuta anche come X Lam. «Un’altra qualità che ci viene riconosciuta - continua Maurizio Maino - è appunto la velocità di costruzione, con una media di circa tre mesi di attesa, grazie a un sistema costruttivo industrializzato e all’assemblaggio a secco di pannelli di legno strutturali, una metodologia concepita come un semplice assemblaggio di un kit che accorcia di molto i tempi di esecuzione e permette un efficace controllo dei costi. La caratteristica struttura modulare consente e supporta possibili variazioni future alla logica funzionale contingente rispondendo perfettamente alle eventuali richieste di flessibilità fatte dal cliente». Essenziale, confortevole, elegante e assolutamente ecocompatibile, la casa in legno è un sistema architettonico prefabbricato in cui il guscio strutturale è realizzato completamente in legno, caratterizzata da elementi portanti e isolanti, che permettono il passaggio delle impiantistiche e la presenza di camere di ventilazione, allo scopo di ottenere un assemblaggio specifico in relazione al contesto climatico e consentendo così la classificazione energetica. Partner ideale per tutti quei progettisti, architetti e ingegneri illuminati dalla comprensione di un presente finalmente ecosostenibile, Europlan Srl considera il raggiungimento del massimo grado di soddisfazione del cliente, l’obiettivo fondamentale da perseguire. Soddisfare il cliente significa offrire (nel rispetto degli obblighi di legge e regolamenti cogenti dell’ambiente e della sicurezza) prodotti e servizi con caratteristiche tecniche e qualitative d’eccellenza per rispondere con la massima professionalità alle esigenze del committente. Per perseguire tali obiettivi l’azienda ha un sistema di gestione della qualità conforme alla norma ISO 9001:2008. Europlan Srl è in possesso anche della certificazione SOA, che la qua-

Sopra: progetto pilota per villaggio ecosostenibile realizzato da Europlan per Aldo Cibic in occasione di Saie Spring 2008 di Bologna. A destra: edificio pubblico a Cologna Veneta. Sotto: casa di prossima realizzazione in provincia di Vicenza

lifica a eseguire appalti per specifiche categorie di opere e classifiche di importi lavori. In particolare è attestata per la categoria OS32 in classe III-BIS. Inoltre è in possesso dell’Attestato di Denuncia Attività di Lavorazione di Elementi Strutturali, rilasciato dal servizio Tecnico del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici in conformità al D.M. 14 gennaio 2008 “Norme Tecniche per le Costruzioni”, obbligatorio per effettuare lavorazioni degli elementi base in stabilimento. (Per informazioni: via Asiago 44 - 36030 Sarcedo (VI), tel 0445 380200 - fax 0445 380357 www.europlan-italia.com - info@europlan-italia.it)

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■ VIAGGIARE Alla scoperta di Kengo Kuma Un viaggio culturale è da sempre considerato un momento di profonda riflessione e conoscenza. Viaggiare per conoscere, e non soltanto per svagarsi, è un bisogno che nasce soprattutto nella mente di chi considera il sapere un elemento fondamentale per interpretare meglio il presente e anticipare il futuro. Così, luoghi geograficamente lontani da noi, e depositari di tradizioni e culture differenti, ci attraggono offrendoci narrazioni storiche o semplicemente inediti paesaggi e interessanti architetture. È seguendo proprio questa logica che Pellizzari F.lli spa, azienda specializzata nella fornitura e posa in opera di pavimenti e rivestimenti bagno, edilizia, idraulica e arredobagno, ha organizzato nel mese di febbraio scorso per un gruppo di architet-

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Sopra e sotto: foto degli interni della Old House. Mattone, pietra, legno e grès porcellanato sono gli elementi che caratterizzano dal punto di vista estetico l’intera struttura

ti vicentini una visita guidata alla Old House, un centro archivio ed eventi ricavato dalla ristrutturazione di una tipica casa colonica della campagna reggiana. L’autore dell’intervento per Casalgrande Padana è Kengo Kuma, un architetto considerato punta di diamante di una nuova generazione di progettisti giapponesi che, pur senza rievocare la nostalgia del passato, tenta di rivalorizzare, in chiave moderna, il lascito della millenaria tradizione del costruire giapponese. Il progetto di Kuma per la ristrutturazione della Old House manifesta un approccio sensibile ai temi della tradizione. La casa colonica, sopravvissuta alle profonde trasformazioni industriali del territorio, è stata completamente restaurata e recuperata a funzioni di archivio storico e di documentazione. Strutturata per accogliere anche mostre, incontri ed eventi culturali, la costruzione


e il giardino che la circonda dialogano in armonia con la vicina Casalgrande Ceramic Cloud, spettacolare scultura-Iandmark progettata dallo stesso Kuma. Esternamente la vecchia costruzione, ricondotta alla sua immagine originaria, non lascia trasparire nulla e consegna alle possenti murature in laterizio la custodia del piccolo gioiello che Kuma ha creato al suo interno. Qui lo stato di degrado ha richiesto un intervento radicale, impostato con rara sensibilità, senza rinunciare ad affermare la contemporaneità e al tempo stesso senza scadere in facili manierismi. Antico e moderno sono chiamati a definire uno spazio atemporale, carico di significati, classico e rituale al tempo stesso. L’attenzione riservata da Kengo Kuma ai materiali e al loro impiego sostenibile trova riscontro in questo progetto nell’ecologia del gesto, nel senso della misura, nella sintesi, nella ca-

Per la Old House Kengo Kuma fa uso di elementi prodotti in serie già presenti nel catalogo di Casalgrande Padana. Lavorando sui vincoli posti dall’esistente, Kuma valorizza al massimo i prodotti dell’azienda

pacità di declinare la semplicità in spazi carichi di spiritualità, dove un ruolo di primo piano è giocato dal grès porcellanato. Un edificio sorprendente, all’interno del quale l’esperienza dello stare si trasforma in quella dell’essere. Dopo questa prima visita l’azienda Pellizzari F.lli spa sta organizzando per settembre un altro viaggio appositamente riservato agli architetti di Vicenza. La visita è gratuita, incluso il pranzo e l’autobus, con partenza dal negozio di pavimenti di Gambellara, a 400 metri dal Casello di Montebello Vicentino, lungo la statale Vicenza-Verona. In questa occasione si visiterà inoltre lo stabilimento produttivo di Casalgrande Padana, per venire a conoscenza dei diversi passaggi produttivi necessari alla creazione delle moderne piastrelle in grès ceramico. Chi è interessato può scrivere una mail a: michele@fratellipellizzari.com

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■ SICUREZZA Linee vita e ancoraggi Gli incidenti dovuti a cadute dall’alto sono da anni tra le principali cause di morte sul lavoro. Questo ha indotto molte regioni italiane a emanare leggi e decreti per rendere sicuro il lavoro in quota, sostenendo e integrando così quanto previsto a livello nazionale dal D.Lgs 81/2008 e s.m.i. (testo unico). La normativa vigente è molto chiara, ma molte aziende “specializzate nel settore” non la rispettano. Coloro che non seguono quanto espres-

Sopra: Linea Vita Classe D. Sotto: addetto durante operazioni in quota eseguite in sicurezza

so dalla normativa, infatti, realizzano sistemi anti caduta che se realmente sollecitati potrebbero non resistere ai carichi di sollecitazione. Le conseguenze di questi comportamenti, purtroppo ancora troppo frequenti, sono drammatiche per gli operatori che con fiducia utilizzano il sistema anti caduta. (Non c’è cosa peggiore che far credere a un operatore che opera in quota di lavorare in sicurezza attaccando la sua vita a un sistema di ancoraggio poco sicuro). Il D.Lgs 81/2008 e s.m.i. prevede l’obbligo di progettare sistemi di sicurezza passando attraverso un preciso percorso di analisi, con una corretta definizione delle figure e delle responsabilità. Cercheremo in seguito di illustrarne i principali punti. PROGETTO (Relazione di calcolo ed elaborato tecnico della copertura) Fermo restando che il 95% delle aziende produttrici di ancoraggi per coperture realizza i suoi prodotti come previsto dalla norma UNI ENI 795/2002, rilasciandone manuali d’uso, installazione, manutenzione e dichiarazioni di conformità dei prodotti ma non del sistema installato nelle coperture, vogliamo precisare che la stessa norma prescrive che i dispositivi di ancoraggio devono essere collocati alle parti stabili degli edifici e bisogna eseguire una verifica del fissaggio dello stesso. Quindi per rispettare la norma devono essere fatte delle verifiche di calcolo da parte di un ingegnere qualificato che dichiari la resistenza della struttura dell’edifi-

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cio e la verifica del fissaggio dei dispositivi. Qualora tali calcoli non siano analiticamente possibili (es. fissaggi su mattoni), bisogna verificare la tenuta dell’ancoraggio con un collaudo in loco. Detto quanto, si sottolinea che installare un sistema anti caduta rispettando la norma vigente consiste a monte nel realizzare quanto sopra citato, prima di procedere all’installazione dei dispositivi. L’installatore qualificato (in possesso di iscrizione alla camera di commercio come installatore di ancoraggi, corso DPI 3 categoria e corso attestato come installatore), non ha le competenze per eseguire le verifiche sopra descritte e deve sempre rispettare scrupolosamente le indicazioni dell’ingegnere prima di firmare e rilasciare una “Dichiarazione di corretta posa in opera” prevista dalla stessa norma. Concludendo il punto 1, un fissaggio di un ancoraggio (a norma UNI ENI 795/2002) non verificato da un ingegnere, non responsabilizza la ditta produttrice o venditrice dello stesso, non è a norma e le colpe per queste mancanze ricadranno sul tecnico progettista dell’edificio e sulla committenza. Manuali, dichiarazioni di conformità dei prodotti, schemi di montaggio e dichiarazioni di corretta posa in opera non completano la documentazione prevista dalla legge, ma purtroppo frequentemente si verifica che molte aziende consegnano questi documenti spacciandoli come progetto. L’elaborato tecnico di copertura, invece, identifica il posizionamento degli ancoraggi sulla stessa, il loro corretto utilizzo da parte dell’operatore con i giusti DPI ed eventuali ostacoli presenti in copertura. L’elaborato preliminare (schema più relazione descrittiva), eseguito dal tecnico progettista dell’edificio per il ritiro del permesso di inizio lavori, non ha nessuna valenza di relazione di calcolo e tanto meno di elaborato tecnico della copertura. MANUTENZIONE E REVISIONE PERIODICA La revisione delle linee vita e ancoraggi per coperture è disciplinata dalla norma tecnica UNI EN 11158 e dalle Linee Guida ISPESL, le quali richiedono sempre un’ispezione da parte del lavoratore prima dell’utilizzo. È poi richiesto l’intervento di personale competente in seguito all’installazione, prima della messa in servizio, e successivamente “almeno una volta all’anno se in regolare servizio o prima del riutilizzo se non usate per lunghi periodi” (UNI EN 11158, art. 9.1.6). Qualora si verificassero incidenti, quindi in caso di arresto di caduta, è obbligatorio l’intervento di addetti specializzati per ispezionare il sistema prima di procedere a un ulteriore uso. Desideriamo porre l’attenzione sul fatto che la garanzia del prodotto (a volte fino a 10 anni) rilasciata dal produttore di ancoraggi non ha nulla a che vedere con la revisione dell’impianto e con la verifica dello stato del fissaggio degli ancoraggi alla struttura, che deve sempre rimanere con le caratteristiche iniziali previste dal progetto.

Nella foto sopra: Linee Vita Classe C

MARCATURA CE Un altro punto sul quale fare chiarezza è il seguente: gli ancoraggi sono parte di un sistema di protezione, tutti questi dispositivi sono regolamentati da una legge Europea CEE 89/686 che ne definisce e armonizza le varie caratteristiche. La conformità a tutto ciò ne consegue la marcatura CE. I DPI di 2° e 3° categoria devono essere marcati CE perché tutte le loro componenti, le caratteristiche di fissaggio, le dimensioni sono perfettamente definite e vengono annualmente verificate dall’ente preposto. La commissione Europea ha dunque inserito la norma UNI EN 795/2002 nelle norme a cui applicare la marcatura CE, con la nota in cui si escludono dall’obbligo di marcatura i componenti delle classi A (ancoraggi singoli), C (linee vita flessibili) e D (linee vita rigide) in quanto non è possibile definirne a priori le tipologia di fissaggio e le dimensioni del sistema. Ciò nonostante ogni tanto appaiono erroneamente nei capitolati richieste di ancoraggi in classe A, C o D marcate CE. CONCLUSIONI Visto la delicatezza e importanza anche di questo argomento presente in edilizia, si raccomanda ai tecnici di rivolgersi sempre ad aziende specializzate nella progettazione, fornitura e posa di questi sistemi, senza farsi scrupoli nel chiedere se sono abilitate nell’eseguirla e se nelle loro offerte è compresa tutta la documentazione richiamata nel punto 1 di questo articolo, pretendendo di poterla verificare a installazione avvenuta. Numerose verifiche eseguite sul campo hanno constatato che ad oggi molte aziende anche specializzate non rilasciano le dovute documentazioni. Si comportano così per togliersi la responsabilità del lavoro eseguito ed essere economicamente più competitive rispetto alle aziende serie che operano rispettando le leggi vigenti e realizzano tutta la documentazione obbligatoria.

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■ PAESAGGI Per un cambio di prospettiva È una grande scala in acciaio corten leggermente drappeggiato che si adagia su un pendio erboso a Carnisselande, un sobborgo di Rotterdam. Si tratta di una scala circolare gigante che conduce il visitatore fino a un’altezza tale da permettergli una vista senza ostacoli del paesaggio circostante e la migliore vista dello skyline di Rotterdam. La struttura disegna un percorso continuo che si ispira alla circonvallazione e ai binari del tram, trovandosi in una zona fortemente infrastrutturata. Ma mentre una fermata del tram rappresenta l’inizio o la fine di un viaggio, il percorso della scala è infinito. Lo studio NEXT Architects, con sedi in Olanda e in Cina, ha disegnato la scala per un progetto di interventi artistici commissionato dal comune di Barendrecht. A causa della sua struttura, la forma di questo oggetto è di difficile comprensione: guardandolo da prospettive diverse appare di diverse forme, il design quindi non è solo una risposta al contesto in cui l’opera è inserita. Ma è anche una risposta letterale al tema del progetto, ovvero “an Elastic Perspective”, una prospettiva elastica. Basato sul principio del nastro di Möbius, il percorso continuo della scala è un’illusione: «Siamo incuriositi – spiegano gli architetti - dal nastro di Möbius, dalla sua caratteristica di avere una sola superficie, senza un sopra o un sotto. Quando viene utilizzato come un percorso, suggerisce una continuità, che in realtà è, almeno fisicamente, impossibile. È quel tipo di ambiguità che abbiamo riconosciuto negli abitanti di questo quartiere: mentalmente si sentono ancora molto legati alla loro città natale Rotterdam, ma nella vita quotidiana sono assolutamente scollegati da essa. Con la scala ispirata al nastro di Möbius, offriamo agli abitanti un assaggio dello skyline di Rotterdam, ma per continuare il loro viaggio devono per forza tornare indietro, ritrovandosi nuovamente di fronte alla loro vita quotidiana, ovvero Carnisselande». Rotterdam è distante pochi minuti in tram, ma nella percezione delle persone è nascosta dietro infrastrutture e barriere antirumore: così lontana e così vicina.

Sopra: una pianta della scala progettata dallo studio Next Architects. A destra e sotto: la scala vista da due prospettive differenti (foto Sander Meisner)



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progettare

Funzionale e multiforme

Lo scorso 2013, due studi di architettura francesi, Chartier-Dalix e Avenier-Cornejo, hanno concluso il progetto di un complesso edificio situato a Parigi al ventesimo arrondissement di Federica Calò

uesta zona della capitale francese è particolarmente articolata e collega Parigi a Lilas, un comune situato nel dipartimento della Senna-Saint-Denis nella regione dell’Îlede-France. Il tessuto urbano di questa parte della metropoli parigina è in continua trasformazione ed è anche caratterizzato da differenze rilevanti riguardo la morfologia del terreno, elemento questo, che ha contribuito a rendere l’area particolarmente interessata dalla presenza di attività attrattive e piuttosto frequentate. Dal punto di vista urbanistico questo progetto è stato un tentativo per sincronizzare l’edificio a un contesto in evoluzione topografica, fatta da manufatti diventati nuovi riferimenti funzionali, con i quali il nuovo complesso dialoga attraverso un sistema di balconi affacciati sul tessuto urbano. L’edificio, progettato dai due studi di architettura francesi, Chartier-Dalix e Avenier-Cornejo, ospita tre funzioni principali e differenti fra loro: residenze per migranti, abitazioni per giovani lavoratori e, al piano terra, un asilo per circa settanta bambini. La sfida di convogliare all’interno di un unico edificio spazi per utenti così differenti, ha condotto alla realizzazione di un manufatto molto articolato e particolarmente organizzato, una vera e propria macchina per l’abitare contenente diverse funzioni in dialogo fra loro. L’edificio è posizionato all’incrocio di due assi principali della viabilità della zona e occupa l’intero lotto posto all’angolo di questo crocevia di cui ne riprende anche la sagoma.

Q

A sinistra: particolare della griglia metallica appoggiata al piano terra che protegge la zona all’aperto destinata ai bambini dal passaggio della strada antistante. A destra: vista dell’intero edificio posizionato sul lotto angolare, di cui ne riprende la forma


Tutte le foto di © Luc Boegly © David Foessel © Samuel Lehuède


SCHEMA COMPOSITIVO

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Ing Sopra: schema esplicativo per spiegare la composizione formale dell’edificio che si compone di strati funzionali alternati a spaccature estetiche. A destra: sono evidenti i due blocchi residenziali, intervallati dallo spazio vetrato e arretrato delle funzioni comuni

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INQUADRAMENTO TERRITORIALE

Ne deriva un volume compatto e imponente rivestito interamente da mattoni faccia a vista, intervallati da profonde aperture destinate alle finestre, poste apparentemente, in posizione casuale e da alcuni tagli che, dalla facciata, s’inoltrano verso il cuore dell’edificio. La densità voluta, quindi, percepita dai materiali di rivestimento esterno e anche dal disegno delle planimetrie estremamente razionali, trova respiro in questi due tagli che, a livello urbano, funzionano anche come apertura verso la città. Il primo taglio in orizzontale è posto al terzo piano, dove sono state distribuite le funzioni comuni come la biblioteca, la palestra e la cucina a servizio dei diversi utenti. Quest’area risulta essere come un livello arretrato e vetrato rispetto alla facciata in mattoni e

dona leggerezza alla continuità del volume. Grazie a questo “intervallo formale”, l’edificio sembra spezzato in due volumi sovrapposti e il secondo, posto in alto, sembra essere sospeso su una base vetrata, che diventa ancora più suggestiva con l’illuminazione notturna. Una balaustra in vetro rifinisce finemente questo dettaglio architettonico. Le funzioni sopra elencate sono disposte liberamente su questo piano e si affacciano sulla città mediante ampi balconi che corrono lungo il perimetro della facciata. In corrispondenza di queste aperture, il calore del materiale naturale del rivestimento in cotto è intervallato da una finitura tipicamente dall’effetto più moderno. Il soffitto dei piani a sbalzo ricavati grazie ai balconi è, infatti, rivestito da una lamiera di rame che dona luminosità, riflessione della luce e contra-

L’edificio sorge su un territorio in continua trasformazione ed è anche caratterizzato da differenze rilevanti riguardo la morfologia del terreno, elemento questo, che ha contribuito a rendere l’area interessata dalla presenza di attività attrattive

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Sotto: composizione e funzione dei livelli, con una predominanza del ruolo residenziale intervallato a un blocco servizi in comune ai diversi appartamenti SCHEMA DI RIPARTIZIONE DEGLI APPARTAMENTI

1. case per migranti (30 monolocali); 2. case per migranti (30 monolocali); 3. case per giovani lavoratori (30 monolocali); 4. case per giovani lavoratori (30 monolocali); 5. case per giovani lavoratori (30 monolocali); 6. case per giovani lavoratori (30 monolocali); 7. case per giovani lavoratori (30 monolocali); 8. case per giovani lavoratori (30 monolocali); 9. Hall delle case; 10. spazi di attività; 11. funzione abitativa (case per giovani lavoratori); 12. funzione abitativa - asilo; 13. asilo

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sto con la facciata. La seconda apertura è un taglio verticale rispetto all’asse dell’edificio, e contribuisce a convogliare la luce naturale in tutti gli spazi di distribuzione sia orizzontali sia verticali nel cuore del manufatto. La strategia di illuminare con la luce naturale e di farlo intorno a degli spazi di aggregazione con delle funzioni riconosciute, è stato un intento dei progettisti per incoraggiare l’uso delle funzioni comuni. All’interno le varie attività sono distribuite secondo delle logiche precise, puntando a massimizzare lo sfruttamento degli spazi e offrendo versatilità. Ogni appartamento è di circa diciotto mq e si affaccia verso l’esterno mediante grandi aperture vetrate di 2m x 2m dotate di persiane in metallo perforato che riprendono visivamente la texture del mattone faccia vista, garantendo un buon comfort termico negli spazi interni. I mobili sono stati realizzati su misura e pensati per essere funzionali e il meno invasivi possibili all’interno delle superfici disponibili e, spesso, progettati a scomparsa per lasciare più libertà di movimento negli interni. Al piano terra, all’esterno, una particolare copertura semitrasparente composta da una rete metallica dall’andamento curvilineo fa da copertura a una zona verde utilizzata come spazio all’aperto per i giochi dei bambini dell’asilo al piano terra.

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PLANIMETRIA DEL PIANO TERRA DELL’ASILO

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CASE

1. hall di ingresso; 2. ufficio; 3. locale per i rifiuti; 4. infermeria ASILO

6. unità di alloggi 3; 7. unità di alloggi 1; 8. unità di alloggi 2; 9. bagni; 10. locale per attività motorie; 11. locale con giochi di acqua; 12. locale per il personale; 13. cucina; 14. locale biancheria e lavanderia; 15. direzione; 16. locale passeggini; 17. locale polivalente; 18. locale biberon; 19. locale giochi; 20. fulcro dell’asilo

PLANIMETRIA TERZO PIANO DELLE FUNZIONI COMUNI

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1. mediateca; 2. ufficio mediateca; 3. locale di servizio; 4. infermeria; 5. sala riunioni; 6. locale dispensa; 7. sala polivalente; 8. mensa; 9. cucina; 10. sala dello sport; 11. sala riunioni; 12. terrazza

PLANIMETRIA DEI PIANI RESIDENZIALI

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1. appartamento 1’; 2. appartamento 1; 3. scale; 4. giardino sulla terrazza 5. locale per famiglie. 6. locale di servizio

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SEZIONE SUD

La sezione evidenzia l’elevata densità del manufatto che racchiude in sé tre tipologie differenti di utenti. L’esigenza di intervallare tale complessità con

funzioni comuni, spazi per bambini e giochi di materiali ha regalato all’edificio rigore e flessibilità. Gli interni sono molto minimali e a scomparsa


PROSPETTO NORD

Il prospetto caratterizzato da un forte impatto dato dal fitto rivestimento in mattoni faccia a vista assume leggerezza grazie alle numerose perforazioni

delle finestre e all’elemento vetrato che, insieme alla balaustra, spezza l’intero volume. I percorsi fra i vari appartamenti sono anch’essi semplici e minimali


Luogo Parigi Progetto Residenza per migranti, per giovani lavoratori e asilo Architetti Chartier-Dalix / Avenier-Cornejo Impresa GTM Batiment Committente Shorefast Foundation; Zita Cobb, Anthony Cobb, Alan Cobb Superficie 9300 m² Cronologia 2013


Il corpo scala è realizzato in muratura, completamente intonacato di bianco e caratterizzato da linee morbide e continue. Appare come un unico elemento che si snoda dall’ultimo livello fino al piano terra, creando un percorso verticale univoco che riallaccia le diverse funzioni distribuite nei vari piani dell’edificio Due turbine eoliche ad asse verticale sono state installate sul tetto e serviranno per alimentare l’energia utile alle funzioni dell’asilo nido e al riscaldamento dell’intero edificio con una compensazione stimata di venticinque kWh / m² in grado di rispondere favorevolmente al clima di Parigi. Dei pannelli fotovoltaici sono stati montati sul tetto per fornire una quantità di energia stimata del 30% dell’intera necessità dell’edificio. Gli interni, in contrasto con la forza espressiva della facciata, sono semplici e funzionali. Pareti e superfici dipinte di bianco sono le finiture che predominano per le tre funzioni che sono racchiuse in questo edificio. L’asilo è contraddistinto da pareti bianche sulle quali sono stati effettuati disegni con l’intento di rendere più confortevole e allo stesso tempo familiare l’ambiente destinato ai bambini. Mentre gli interni degli appartamenti per i lavoratori e per i migranti sono dotati dei comfort necessari per alloggi temporanei di questo tipo. Una serie di scale dalle murature morbide e lunghi corridoi, rigorosamente intonacati di bianco, conducono ai diversi alloggi, e si allacciano ai percorsi che collegano i differenti piani e le molteplici funzioni.

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progettare

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Asimmetrie espressive

Tutte le foto di © 11h45

Nasce un nuovo centro culturale a Mulhouse, una città della Francia situata nel dipartimento dell’Alto Reno nella regione dell’Alsazia. L’edificio molto originale nella forma è stato progettato dall’architetto francese Paul Le Quernec e prende vita nel cuore di un quartiere storicamente popolare e operaio di Federica Calò

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l nuovo centro socio-culturale di Mulhouse, in Francia, progettato dall’architetto francese Paul Le Quernec, è parte di un più ampio programma di sviluppo in un quartiere svantaggiato di questa città che prevede, inoltre, la realizzazione di edifici per appartamenti, una piazza pubblica, un parco e un’area giochi per bambini. Il lotto che è stato assegnato a questa importante nuova realtà ha una forma longitudinale e ha richiesto, quindi, l’elaborazione di una costruzione rigorosa dal punto di vista del rispetto della superficie ospitante e delle altre funzioni che saranno realizzate di seguito e faranno sempre parte di questo progetto di recupero urbano. Nonostante ciò, la scelta di realizzare un manufatto dalla forte espressività materica e tipologica, ha permesso di superare i vincoli regolari delle metrature a disposizione. Il progetto è caratterizzato da una forte e impattante presenza architettonica utile a simboleggiare il chiaro intento di trasformazione del quar-

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tiere con, inoltre, il duplice obiettivo di esprimere il dinamismo dello spazio socio-culturale e dei suoi utenti ed evitare la realizzazione di una costruzione come blocco monolitico incastrato tra edifici a torre già presenti nel tessuto storico radicato. Anche il parco, entro il quale questo nuovo centro culturale è stato collocato, ha una sua funzione sociale. Esso è uno spazio pubblico, luogo di aggregazione e diventa un deterrente per tenere distanti situazioni sociali poco sicure. La presenza di piante e verde anche all’interno dei patii dell’edificio crea una continuità con il parco stesso e con l’intenzione originaria di creare un nuovo complesso catalizzatore di attività ricreative. Il volume dell’edificio, così come i suoi interni, sono volutamente deformati per evocare un’energia difficilmente contenibile dalle pareti esterne. Il piano terra è composto da due ambienti che possono funzionare insieme o separatamente, ed entrambi sono accuratamente orientati e al-


Il volume dell’edificio e i suoi interni sono volutamente deformati. Ed è proprio l’asimmetria che lo caratterizza rendendolo unico nella forma



INQUADRAMENTO TERRITORIALE DEL PROGETTO

La pelle dell’involucro esterno alterna un rivestimento realizzato in lastre rettangolari grigio antracite posizionate oblique rispetto al piano del terreno e un intonaco rosa fucsia che si evidenzia dal cuore dell’edificio

lineati ai bordi del lotto e mostrano un apparente regolare attaccamento a terra dell’edificio. Le pareti e le strutture, sollevandosi dal terreno, subiscono movimenti di torsione che generano superfici sfuggenti e aperte verso il parco circostante. Si ha quindi la percezione di volumi deformati che sprigionano forte energia ed espressività. Particolare è, infatti, il contrasto fra la forte irregolarità dell’involucro esterno, rispetto alla formalità del disegno planimetrico trasferito a tutti i livelli dell’edificio. Lo spazio utile viene, quindi, sfruttato in pianta al massimo delle sue possibilità. Le sole pareti verticali, insieme ai soffitti, subiscono una torsione tale da rendere tutta la dimensione interna in movimento costante. Il secondo piano, proprio in presenza di una maggiore torsione, risulta avere ambienti più irregolari rispetto a quelli presenti al piano terra. Gli spazi più ampi occupano, quindi, le superfici più regolari, arricchite queste ultime dalle aperture delle vetrate. Mentre gli ambienti più piccoli sono stati ricavati inglobando gli angoli acuti ricavati dal gioco dei volumi. Al primo piano, gli utenti possono accedere a una

terrazza invisibile dall’esterno, schermata da una griglia monumentale in acciaio che offre una vista sul parco o sulla piazza; questo spazio semi-aperto permette, in periodo estivo, lo svolgimento all’esterno di lezioni di vario tipo, corsi di formazione o riunioni private ed è reso ulteriormente confortevole da un rivestimento ligneo a pavimento. Un piccolo spogliatoio, scrivania e biglietteria sono stati aggiunti in modo da permettere allo spazio di funzionare come una sala a disposizione della comunità. Grande attenzione è stata dedicata ad aiutare i visitatori a orientarsi all’interno di tutto l’edificio. Finestre e aperture non convenzionali forniscono punti di riferimento sia all’interno sia all’esterno. Queste aperture regalano anche un’illuminazione di alta qualità a tutto l’edificio e sono un altro modo per sottolineare l’attenzione data ai visitatori e agli utenti. La disposizione funzionale dei vari ambienti segue una logica particolare e guidata dalle differenti tinte utilizzate come finitura. Gli ampi spazi destinati all’accoglienza degli utenti, oppure alle sale conferenza, sono dotati di grande respiro grazie alle rilevanti altezze e

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Luogo Mulhouse, Francia Progetto Centro culturale Architetto Paul Le Quernec Superficie 1.250 sq. m Cronologia 2013

Gli spazi destinati ai percorsi e alle connessioni fra i vari ambienti sono tutti contraddistinti da colori molto accesi. La luce naturale in ingresso, che permea dai tagli geometrici fatti in facciata, si riflette sulle pareti colorate, ed è in grado cosÏ di rimbalzare sulle pareti provocando ennesime forme geometriche sulle superfici adiacenti


PLANIMETRIA PIANO TERRA

PROSPETTO SUD

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PLANIMETRIA SECONDO PIANO


sono tutti intonacati di bianco, dove il gioco della cromia è ricreato grazie alle differenti inclinazioni delle pareti che provocano un alternarsi di luci e ombre. Un susseguirsi di tagli in facciata, apparentemente creati casualmente, permettono l’ingresso della luce naturale e rendono ancora più luminoso lo spazio interno. L’illuminazione artificiale gioca ad alternarsi con quella naturale. Un sistema di neon a vista e sospesi con luce bianca si susseguono in tutti gli spazi e contribuiscono a restituire quell’effetto di decostruzione tipico dell’intero manufatto. Gli spazi invece destinati ai percorsi e alle connessioni fra i vari ambienti sono tutti contraddistinti da colori accessi che spaziano dalle tinte calde alle tinte fredde. Sono stati ricreati, quindi, ambienti di piccole dimensioni che accolgono scale, oppure rampe o corridoi dalla forte espressività percettiva, come se fossero volumi interamente dipinti del colore prescelto. La luce naturale in ingresso, riflettendosi sulle pareti colorate, è in grado così di rimbalzare ennesime forme geometriche sulle superfici adiacenti. Cromie forti, accoppiate a particolari finiture, carat-

terizzano anche l’esterno di questo manufatto. I piani inclinati dell’edificio sono diversamente avvolti: la maggior parte della texture del centro culturale è rivestita da lastre rettangolari grigio antracite dall’effetto metallico, poste oblique rispetto al piano del terreno. In corrispondenza delle aperture dei volumi, il rosa fucsia è il colore che sfoggia dal cuore dell’edificio e che contraddistingue l’ingresso del centro culturale e alcuni patii all’aperto ma circondati dalle pareti. Una griglia di elementi metallici completa la sagoma esterna dell’edificio in corrispondenza di alcune parti e lascia intravedere le superfici che proseguono arretrate rispetto alle facciate rivestite dalle lastre. Le aperture, infine, creano un effetto di perforazione, apparentemente casuale, su alcuni dei piani inclinati. Gli arredi interni riprendono esattamente la logica delle scelte architettoniche del progetto, cambiando solamente la scala di riferimento. Ogni elemento di arredo, infatti, è stato pensato appositamente e, rispettando la funzionalità dell’oggetto, la forma, i colori e le finiture scelte, hanno un chiaro richiamo all’edificio che li ospita.

L’illuminazione artificiale si alterna con quella naturale. Un sistema di neon a vista e sospesi con luce bianca si susseguono in tutti gli spazi e contribuiscono a restituire quell’effetto di decostruzione tipico dell’intero manufatto

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progettare

Per legare la cittĂ

Prima la costruzione del centro culturale the Buen, ora il ponte Bridge by Buen. Entrambi progettati dallo studio 3XN. Mandal, piccola cittĂ meridionale della Norvegia, si muove per darsi nuove possibilitĂ di crescita economica e sociale di Iole Costanzo


Tutte le foto di Adam MĂ˜rk - courtesy of 3XN


Sia a sinistra che a destra: le piazzole del ponte, asole pensate per dare la possibilità di godere tranquillamente del paesaggio che vi sta intorno. Sotto a sinistra: una vista dall’alto del ponte e del centro culturale ”Buen”

uando si affronta il tema dell’architettura scandinava non si può non far cenno all’influenza che la natura esercita su di essa e su molte altre espressioni, siano esse artistiche o non. Ma bisogna anche evidenziare che non sempre esiste un rapporto diretto tra l’agire umano e l’ambiente naturale, anche se è cosa certa che la presenza della natura per gli abitanti di queste terre è molto importante e condiziona anche molte delle loro azioni. Architettura nella natura o architettura e natura? In entrambe le situazioni ciò che si può creare è un legame di interdipendenza che non condiziona l’identità di alcuna realtà, ma che invece può promuovere e valorizzare il rispetto del costruito e del paesaggio, sia esso naturale o di progetto. Così è per il nuovo ponte inaugurato di recente a Mandal, in Norvegia. A progettarlo è stato lo studio d’architettura 3XN, lo stesso che ha curato il masterplan che guida la crescita dell'intera area urbana e il The Arc Buen, il centro culturale inaugurato nell’aprile del 2012 e accanto a cui si attesta il nuovo ponte. La struttura è massiccia ma non imponente. Attraversa il fiume Mandalselva (un corso d’acqua noto per la sua ricca fauna ittica e in particolar modo per i suoi numerosi salmoni), e collega il nuovo centro culturale con la parte storica dell’abitato, visto e considerato che la città tutta è cresciuta su entrambi i lati del corso d’acqua.

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Mandal, nota per le sue miti condizioni meteorologiche e bagnata dalle acque del Mare del Nord, è la città più a sud della Norvegia, ed è inoltre conosciuta per le sue lunghe spiagge sabbiose. Tutte motivazioni che fanno di questo centro urbano una nota meta di villeggiatura, che da oggi sarà scelta non solo per le sue peculiarità naturali, il clima e il litorale, ma anche per altre situazioni socio-culturali: i nuovi punti di attrazione e di polarizzazione dell’interesse pubblico, come ad esempio il nuovo centro culturale e lo stesso ponte ”the bridge by Buen”. Tutto ciò comprova quanto questo paese stia puntando sul controllo dell’uso del suolo, e su una nuova economia basata sulla qualità e soprattutto sulla cultura. C’è da evidenziare anche quanto l’attenzione da parte dell’amministrazione pubblica, e quindi della popolazione stessa, sia proiettata sul ”fare città”. Una politica, quella vigente, che cerca in tutti i modi di garantire la non dispersione del centro urbano, senza però rinunciare a creare nuovi fulcri per l’economia cittadina. Non è un caso, infatti, che i nuovi interventi siano tutti collocati in siti non molto distanti dal nucleo storico. E la logica adottata è soprattutto quella di incentivare la crescita di Mandal in modo intelligente. In Norvegia l'architettura da sempre è stata importante, ma negli ultimi anni è di-

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SCHEMI SINOTTICI DEL PROGETTO


Gli schemi sinottici a sinistra evidenziano chiaramente le caratteristiche del progetto. Il ponte è solo pedonale e collega il centro culturale “Buen” a quella parte di città che si è sviluppata sull’altra sponda del fiume Mandalselva

ventata protagonista di rilievo. Ed è certamente per questo che la Norvegia viene attualmente considerata trampolino di lancio per i giovani architetti del mondo. E grazie, dunque, all’architettura e al rispetto per la natura, si è così fatta conoscere nel mondo come il paese più ”green”: nel senso che anche quando le sue costruzioni non sono spiccatamente sostenibili, risultano essere costruite in modo tale da relazionarsi perfettamente con l’ambiente naturale circostante. È andata ovviamente così anche per il ponte ”by Buen”. Esso ha un andamento leggermente curvo e due piazzole aggettanti sull’acqua, pensate per invitare i passanti a un utilizzo diverso del ponte: da qui infatti si può godere a pieno di una delle migliori viste della città e dei suoi dintorni. Un paesaggio godibile dunque dalla terraferma e anche dall'acqua. La morbida eleganza del ponte ben si relaziona come forma, colore e materiale, con il nuovo centro culturale e con le due parti di città che collega. È una struttura semplice, possente e in un cer-

to senso sinuosa: sponda, due punti d’appoggio - i piloni - e nuovamente sponda. È morbida, quasi suadente. Si slarga e poi ritorna in asse. Ma tutto ciò, è da sottolineare, non è per il passaggio delle auto. ”Bridge by Buen” è solo e unicamente un ponte pedonale. Candido e semplice. Ma non privo di accortezze tecnologiche: l’unica campata oltre le due che lo allacciano alle sponde del fiume, quella centrale, è dotata di un sistema che ne permette il sollevamento per poter far passare le piccole imbarcazioni a vela. Il fiume è navigabile e lo sbocco nel Mare del Nord è relativamente vicino. Acqua, paesaggio urbano e naturale, luce e architettura. Cinque elementi. Cinque condizioni che si valorizzano reciprocamente. Questa è archinatura? Chissà! Questa è architettura pianificata, inserita e cresciuta all’interno dei bisogni sociali. È un’architettura che fa crescere la città non solo nel senso dimensionale, ma crea nuovi centri propulsori di interesse sociale ed economico, e sta al passo con i tempi e soprattutto con i cittadini.


In tutte e tre le immagini è evidente lo stretto rapporto esistente tra il ponte e il centro culturale. Tra le due opere si sviluppa un legame fatto di luci e chiare cromie, le stesse peculiarità che generano il naturale riflesso nel fiume. È l’acqua l’elemento

naturale che dona leggerezza al tutto. Mentre attestare il ponte accanto e non di fronte al centro ”Buen” è stata una scelta progettuale determinata dall’intenzione di voler lasciar fluire i visitatori con tranquillità, evitando ingorghi durante gli eventi più importanti


Progetto The bridge by “Buen� cultural centre Luogo Mandal, Norvegia Finanziatore Halse Eiendom Fine costruzione 2013 Studio di progettazione 3XN RoleArchitect


Il paesaggio intorno al complesso architettonico “Bridge and Buen cultural centre” è morbido. Colline lussureggianti che giungono fino al mare e in cui i nuovi elementi architettonici si sono inseriti senza creare alcuna discordanza. Le due leggere svasature che accompagnano il ponte all’arrivo sulle due sponde ne completano l’inserimento con il tessuto urbano esistente



Foto di Š DPA/Adagp

progettare

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Tra qualche anno saranno due. Ma di recente solo la prima delle due torri di Perrault, nel quartiere di Donau City a Vienna, è stata inaugurata. È alta 60 piani, fluida ma spigolosa, rievoca le acque del Danubio. È l’emblema del nuovo. Un segno nello storico skyline viennese di Iole Costanzo

Una torre sul Danubio

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solo una delle due torri. Della coppia di torri progettate dall’architetto Dominique Perrault per Donau City, il nuovo quartiere di Vienna che prospetta sulle rive del Danubio, nella zona fra il fiume blu e la città dell’ONU. Donau City è l’altra faccia della capitale austriaca. È il suo nuovo centro moderno, e insieme le due torri ne costituiranno la “porta” sul fiume. Una porta iconica: una coppia di monoliti pensati non per essere due singole identità, due distinte unità, bensì per essere un complesso, un insieme dialogante, un segno che evidenzierà il nuovo nello skyline cittadino. La facciata interna della Torre 1, quella che prospetta sulla piazza, è caratterizzata da un gioco di vetri a fasce verticali, onde spezzate e spigolose, che variamente rievocano il movimento delle acque del Danubio. Nel suo insieme tale facciata, dall’aspetto “liquido” e dal movimento ondulato, riflette la luce come un cristallo sfaccettato, mentre le altre tre, piatte, ne rinforzano la potenza scenica. L’intero quartiere, un tempo discarica cittadina, è da tempo coinvolto da importanti vicende urbanistiche: il Vienna International Centre, il centro dell’ONU, progettato dall’architetto austriaco Johann Staber e costruito tra il 1973 e il 1979, e sempre nella stessa zona nel 1992 è stato redatto un master plan messo a punto dagli architetti viennesi Krischanitz e Neumann. È a questo piano che si deve la parte centrale del quartiere: la zona che si estende lungo il Donaupark. È una zona principalmente a uso abitativo che comprende 1500 appartamenti con un asilo, una scuola e un centro commerciale. Questo complesso si caratterizza per l’accesso diretto alle zone verdi, la vista sul Danubio e gli ottimi collegamenti con i mezzi di trasporto pubblici. Donau City offre a circa 3mila abitanti uno spazio abitativo ad altissima qualità e molti posti di lavoro. Oltre alla destinazione per uffici e abitazioni la zona è corredata anche di partizioni attrezzate per il tempo libero, lo sport, la formazione e la cultura. È solo nel 2002 che Perrault vinse il concorso con un progetto di cui le due torri facevano parte. La sua idea consiste in una lunga passeggiata con terrazza sul fiume e tra le due torri, pensate come un unicum, uno spazio - piazza che più che separare le due torri dovrebbe legarle l’una all’altra. La torre 1, l’unica realizzata delle due, quella da poco inaugurata, è alta complessivamente 250 m, 60 piani, ed è prevalentemente destinata a uffici, pur ospitando comunque nei primi 15 piani un albergo a quattro stelle e in quelli più alti un ristorante e alcuni loft panoramici. È una torre multi funzione, come spesso accade nella modernità. Ma resta il fatto che le torri sono simboli, totem, emblemi, legami tra cie-

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PLANIMETRIA GENERALE

lo e terra, ma soprattutto richiami storici: costruzioni verticali che nell’evolversi della storia hanno acquisito valenze e funzioni diverse. Tra tutte le funzioni possibili quella di status symbol è una condizione relativamente recente. È così per le torri di Perrault nel loro insieme. Sono simboli di una città che cambia. Simboli che hanno le loro radici nella storia ma che si proiettano avanti, puntano a un futuro che sarà sì di tecnologia e ricerca, ma anche di qualità della vita. Due torri che si ancorano su fondazioni costruite in un suolo bonificato, che saranno l’emblema di una crescita controllata tutta “basata” sul riuso e la rigenerazione del suolo. Sono torri che hanno gli spazi interni tutti protesi al comfort e a un’immagine rassicurante. Proprio per questo il progettista mette in luce l’aspetto materico della parte strutturale lasciata a vista: telai in cemento armato, pietra e metallo. Tutto rinforza l’idea di una struttura sicura e solida. È l’edificio più alto di tutta l’Austria, anche se ciò non era la priorità del progettista. Ma è anche una struttura esile che ai 250 m di altezza contrappone la lunghezza di 59 m e una profondità media di soli 28 m.

Nella planimetria in alto è presente anche la seconda torre e il collegamento-ponte con il centro storico. A destra: schema (sezione verticale e planimetria del basamento) delle funzioni presenti


SEZIONE VERTICALE

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uffici e loft

ristorante / bar panoramico loft

hotel

uffici terrazza panoramica

servizi tecnici

negozio

uffici

servizi tecnici hotel

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piazzale

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LIVELLO 4 - HOTEL

LIVELLO 25 - UFFICI

LIVELLO 53 - LOFTS

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LIVELLO 54 - LOFTS

LIVELLO 57 - RISTORANTE

LIVELLO 58 - TERRAZZO

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Foto di © DPA/Adagp


Sopra: parte della terrazza del 58° livello. A destra: la hall d’accesso al piano terra. Anche in quest’ambiente i materiali scelti sono pochi: cemento, acciaio e pietra. Sotto: sala con vista sul Danubio

In questa pagina foto di © Michael Nagl/ DPA/Adagp

A sinistra: la facciata principale della torre vista dal basso. Le fasce spezzate articolano, movimentano e rendono fluido l’intero prospetto, dal basamento fino alla terrazza. L’esterno è tutto in vetro: pannelli di un’unica dimensione che si susseguono, regolari, per 250 m

Finanziatore WED City Development - Vienna Progettazione Dominique Perrault Architecture Architetti associati Hoffmann & Janz Architectes Luogo Donau-City Superficie sito 11.000 mq Superficie costruita fuori terra 90.400 mq Superficie costruita sotto terra 45.500 mq Volume costruito in superficie 316.500 mc Cronologia 2002 - 2012

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ARCHITETTURA, ARTE & DESIGN EDIFICI PER IL TURISMO Architettura alpina, architettura per il turismo, oppure turismo d’architettura nelle Alpi, sono varie sfaccettature di un unico argomento: l’architettura, ovvero l’essenza di un’opera edilizia, il suo specifico essere, ciò che generalmente non si perde nemmeno con l’andare degli anni. È partendo da questo assunto che si spiega la longevità dell’architettura alberghiera di pregio: se la buona architettura del ‘900 è apprezzata ancor oggi, si può allo stesso modo presumere che la buona architettura dei nostri giorni manterrà il proprio valore anche fra cent’anni. La casistica di architetture per il turismo documentata in mostra spazia dalla semplice pensione all’albergo più illustre, passando dagli impianti di risalita fino alle sculture d’architettura di Passo Rombo. L’architettura per il turismo, infatti, non si può circoscrivere ai soli esercizi ricettivi, ma abbraccia anche tutto quell’insieme di interventi riassunti in mostra nella definizione di “paesaggio del turismo”. Nessun altro settore economico incide così profondamente nel quadro paesaggistico, con conseguenze positive ma anche con risvolti inquietanti. D’altro canto, se da un lato si teme spesso per la salvaguardia del delicato ambiente d’alta quota, dall’altro è pur merito del tu-

rismo se molti insediamenti sopra una certa quota riescono ancora a sopravvivere. Merano (BZ), Merano Arte/ Alpi Architettura Turismo/ Dal 30 maggio al 7 settembre 2014

MAGISTRETTI A MILANO

Magistretti per presentare un nuovo progetto di partecipazione. I pensieri e i giudizi di Vico su Milano sono riportati su una mappa della città e rivelano i luoghi cui era più affezionato, le case, sue e di altri architetti, predilette e quelle che avrebbe demolito, i suoi percorsi. Anche i visitatori sono invitati a segnare su questa mappa i luoghi più amati, quelli detestati, gli itinerari quotidiani… Una narrazione collettiva di esperienze urbane per condividere emozioni, pensieri legati ai luoghi, alla città e ai suoi servizi. Milano, Fondazione Magistretti/Architetture in Posa/ Fino al 19/12/2014

Una mostra dedicata alle fotografie degli edifici disegnati da Magistretti in città e conservate nell’archivio, opere di autori come Basilico, Sinigaglia, Monticelli, Casali. Per la prima volta la Fondazione studio museo Vico Magistretti propone una mostra su Magistretti architetto lavorando sulle restituzioni fotografiche di alcuni edifici che hanno caratterizzato il volto di Milano come la Chiesa Santa Maria Nascente al QT8 (1947-55, con Mario Tedeschi), la Torre al Parco Sempione in via Revere (1953-56, con Franco Longoni), la casa in via Leopardi (1958-61, con Guido Veneziani) la casa in piazza San Marco (1966-73) e il dipartimento di Biologia dell’Università Statale (1978-81, con Franco Soro). Un video racconta sei edifici di Magistretti attraverso un volo sulla città e offre un nuovo e inedito punto di vista sulle architetture. Come nel 2013, per “Il mio Magistretti” (progetto che non finisce mai sul sito www.vicomagistretti.it), la Fondazione parte dalle parole di

LE FOTOGRAFIE DELLA HÖFER Un omaggio alla fotografa tedesca Candida Höfer, un percorso attraverso una selezione di fotografie di architetture classiche e contemporanee in grande formato, scelte direttamente dall’autrice. Da sempre protagonisti nelle immagini di Candida Höfer gli interni di spazi pubblici - musei, biblioteche, archivi, teatri, uffici, banche, palazzi storici e stazioni della metropolitana - fotografati secondo la tecnica dell’inquadratura semplice e della ripresa distanziata, privi di figure umane e illuminati rigorosamente dalla sola presenza della luce naturale. Si tratta di scatti caratterizzati da una nitidezza unica nel suo genere e realizzati senza qualsiasi tipo di ritocco digitale. Templi della conoscenza e del sapere che, così presentati, consentono a ogni spettatore di stabilire un rapporto esclusivo con il luogo ritratto, immedesimandolo in una contemplazione solitaria,

che gli permette di cogliere ogni minimo dettaglio, reso altrimenti invisibile. Immagini dal forte impatto suggestivo, veri e propri “ritratti di architettura”, espressioni di quello stile unico e di grande effetto che da anni contraddistingue il lavoro di Candida Höfer, che ha curato insieme alla Fondazione Bisazza l’allestimento del progetto espositivo.

Montecchio Maggiore (VI), Fondazione Bisazza/ Candida Höfer. Immagini di Architettura/ Fino al 27 luglio 2014

PROGETTARE A ROMA Il “dinosauro” della Stazione Termini, il Pantheon in ferrocemento del Palazzetto dello Sport, le coperture plissettate dell’Aula Nervi in Vaticano, le forme sinuose del Ponte sull’Appia e ancora i Mercati Generali sulla Prenestina e la Cupola della Basilica di Massenzio: sono i protagonisti di questa mostra. La mostra racconta alcuni progetti che negli anni sono diventati simboli e punti di riferimento a Roma; opere di grandi architetti e ingegneri che si sono confrontati con la bellezza della “città eterna”, la città stratificata per eccellenza che ha accolto e assorbito le strutture innovative di Pier Luigi Nervi, Sergio Musmeci e Eugenio Montuori. “Progettare una struttura a

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appuntamenti Roma è sempre stata una sfida dicono le curatrici della mostra Margherita Guccione e Tullia Iori - La città è carica di sollecitazioni estetiche e vincoli antichissimi e i progettisti si muovono in equilibrio dinamico tra continuità e innovazione. Tra le strutture dei ru-

straordinario momento della cultura progettuale italiana”. Arricchisce la mostra “Itinerari di studio” un ciclo di incontri, a cura di Esmeralda Valente, a partire dalle opere in mostra: itinerari di studio con l’obiettivo di approfondire i grandi temi della storia dell’ingegneria, dal Novecento alla contemporaneità e di affrontare anche la tutela di questi manufatti per riflettere sulla loro salvaguardia e valorizzazione. Roma, Sala Centro Archivi MAXXI Architettura/ Strutture romane, Montuori, Musmeci, Nervi/ Fino al 5/10/2014

deri messe a nudo dal tempo e la forma delle strutture moderne, esibite dai progettisti del dopoguerra, il rapporto è diretto e paritario. La mostra ci racconta nel suo insieme l’intuizione strutturale che ha caratterizzato uno

TRA ARTE E ARCHITETTURA Due mostre in una, “Roma Interrotta” e “Piero Sartogo e gli artisti”, unite da un titolo che le ac-

comuna e ne sintetizza lo spirito: “Tra/Between arte e architettura”. Presenta due percorsi in cui arte e architettura dialogano tra loro, confermando quella volontà di connessione tra diverse discipline, quello scambio innovativo sul significato della creazione contemporanea, che è cifra caratteristica della programmazione del MAXXI indicata da Hou Hanru, Direttore Artistico del MAXXI. Ripercorre la stagione felice caratterizzata da una nuova attenzione alla cultura architettonica e artistica contemporanea innescata, a partire dagli anni Settanta, dal lavoro dell’Associazione Incontri Internazionali d’Arte di Graziella Lonardi Buontempo. Il titolo pone l’accento sulla commistione operata in quegli anni tra temi critici e modalità espositive, quando mostre come “Roma Interrotta” e l’attività di architetti come Piero Sar-

togo ci raccontano un’epoca coraggiosa di esplorazione e di scambio tra diversi linguaggi artistici. Sartogo fu capace in quegli anni di produrre una vera interpretazione spaziale di temi critici, tanto che Achille Bonito Oliva, curatore della mostra, lo definisce “un artitetto, artefice di un dialogo tra macrospazio e i microspazi delle opere esposte. Segno di una visione interdisciplinare del progettare e del fare”. Roma, MAXXI/ Tra/Between arte e architettura/ Fino al 21 settembre 2014



SALONE DEL MOBILE: LE NOVITÀ

Anche quest'anno i migliori designer internazionali si sono dati appuntamento a Milano per presentare le loro ultime creazioni. Nuove proposte ma anche utilizzi innovativi di materiali e forme. Creatività e praticità rimangono le parole d'ordine di Cristiana Zappoli

Uncle Jim di Kartell L’alto schienale della poltrona disegnata da Philippe Starck rappresenta un virtuosismo della tecnologia di iniezione del policarbonato. Il designer descrive così la sua collezione: “La mia famiglia di “zii e zie” da Kartell è la versione minimalista e tecnologica di poltrone e divani che utilizzavano i miei zii per fumare la pipa o lavorare la maglia davanti al fuoco, in totale pace e serenità. I tempi sono cambiati e così i mobili, ma i nostri sogni sono sempre gli stessi”.


design

Dondolo di Crassevig Per celebrare i 40 anni di partecipazione al Salone, Crassevig riedita uno dei pezzi storici della sua produzione, simbolo dell'abilità nell'impiego dei materiali, nella curvatura a vapore del legno massello, nello studio dell’ergonomia. Questa icona senza tempo mantiene inalterate le linee che l'hanno resa celebre e viene proposta nell'inedita versione imbottita, in cui il comfort è assicurato dalle morbide schiume rivestite in tessuto trapuntato con cuciture orizzontali.

Deep Attention and Sleep di Campeggi È un’alcova ideata da Matali Crasset per una concentrazione profonda, uno spazio meditativo con letto singolo. Uno spazio-tempo intimo e avvolgente per dedicarsi ai propri interessi. All’occorrenza, il fondo dello spazio si apre, si posa a terra e diventa un materasso accogliente per stendersi e lasciare che i sogni si fondano con la realtà. Una coltre di comfort per un sonno profondo.

Arch Dining Table di Gebrüder Thonet Vienna L’ampio ed elegante tavolo progettato dal gruppo di designer svedesi Front, è caratterizzato da una struttura in faggio curvato a vapore che coniuga l’estetica della leggerezza alla solidità del legno massello. Il top è costituito da un pannello in frassino, disponibile in due dimensioni, che rendono il tavolo adatto a una sala da pranzo, così come a una sala riunioni più calda e accogliente.

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design

Windmills di La Cividina Un pouf oversize per sedersi in libertà, nuova proposta di seating island nata dalla creatività di Constance Guisset. Tanti spicchi colorati compongono un’ideale ruota di mulino a vento che cattura diverse cromie, mano a mano che gira nell’aria. Ogni elemento presenta altezze variabili, che si traducono in una dolce inclinazione della superficie. Ognuno può scegliere l'altezza che desidera, il colore preferito sul quale accomodarsi.

Kayak di Alias Il legno è il filo conduttore della sedia di Patrick Norguet, sviluppata con tecnologie tradizionali per dare vita a un progetto di grande eleganza e comfort. È un prodotto tecnicamente complesso, caratterizzato da una seduta accogliente, di grande piacevolezza estetica e altrettanta stabilità. La sfida del designer francese è stata quella di ridurre al minimo gli spessori della sedia senza comprometterne la resistenza fisica.

Theca di Magis La struttura del mobile disegnato da Ronan e Erwan Bouroullec si compone di fianchi in alluminio stampato e di ripiani in legno massello, o in MDF impiallacciato, mentre il fondo e le ante scorrevoli sono in lamiera di alluminio tagliato e curvato. La costruzione è piuttosto semplice, con viti a vista che fissano i ripiani ai fianchi in lamiera di alluminio. È disponibile in due differenti finiture anodizzate per le parti in alluminio. 96 AVI architetti


Lampsi di Driade Un lampadario, disegnato dagli architetti di Park Associati, studio fondato nel 2000 da Filippo Pagliani e Michele Rossi, con corpo illuminante a led e luce diffusa realizzata con strisce di led applicate a una struttura in estruso di alluminio anodizzato. Di ispirazione costruttivista, Lampsi è composta da un nucleo centrale avvolto da una gabbia grafica rigorosa, un diamante stilizzato che brilla nell’aria a illuminare gli ambienti.

Poltrona di Vervly Disegnato da Enzo Collesi, è un oggetto importante e discreto al tempo stesso, in legno lavorato a mano e seta, comodità e piacere estetico in una poltrona che risveglia ricordi e crea nuove suggestioni, frutto di una ricerca stilistica non fine a sé stessa che ha fornito un’ottima forma a un ottimo contenuto. È una poltrona in legno di noce con braccioli in massello di noce rivestito in seta di colore verde.

Boing di Gufram Karim Rashid ha creato una sedia impilabile dall’anima pop, perché è irriverente, fresca e accesa grazie ai singoli elementi che possono essere composti in un caleidoscopio infinito di possibilità rendendo Boing un prodotto versatile nell’ambientarsi in qualsiasi paesaggio domestico. È anche funzionale perché se la forma deve seguire la funzione, in questo caso la geometria degli elementi è dimensionata per essere autoportante e garantire l’ancoraggio alla struttura in metallo senza rinunciare all’effetto confortevole di morbidezza.

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design

Freud di Meritalia Divano componibile con due elementi, con infinite combinazioni, progettato da Mario Bellini. La struttura è in legno massello e l’imbottitura in poliuretano flessibile. Schienale con movimento meccanico manuale che fornisce diverse possibilità di seduta. Il rivestimento è in pelle e in tessuto, disponibile in diversi colori. Un divano formale che con un semplice gesto si schiude diventando informale e accogliente, irresistibile per il relax.

Everyday di Myyour Il designer Federico Traverso ha immaginato un oggetto che fuggisse ogni stile e raccontasse una piccola storia strappando un sorriso. Ha pensato a quanto curioso fosse che, senza distinzione di credo, ognuno di noi ogni giorno si accomodi con soddisfazione su una sedia di ceramica bianca... È su questa sedia che riusciamo a dimenticare la frenesia quotidiana e a concederci il piacere di qualche frivola lettura o una riflessione lasciata a metà. Everyday è un invito a sedersi e a prendersi il proprio tempo, ogni giorno.

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Crossed di B-Line Joe Colombo ha creato un morbido pouf imbottito con cucitura incrociata a contrasto. Crossed è disponibile in due misure, una a base quadrata e una rettangolare: accostando più elementi si può giocare a creare composizioni di forme e colori. Il fondo di legno idrofobo e la scelta dei tessuti lo rendono adatto sia all’uso indoor che outdoor.


endless® è un progetto di interior design contemporaneo che nasce dall’esigenza di decorare tutte le superfici degli ambienti con materie eco-compatibili, fortemente innovative come cementi, resine, legni, pitture e terre naturali coordinate tra loro da una palette di tonalità calde e avvolgenti. endless® è la riscoperta della qualità del lavoro artigianale e dell’arte del fatto a mano, espressione inconfondibile del made in Italy. Una superficie può essere silenziosa, rarefatta, preziosa. È sufficiente l’ingresso di un raggio luminoso per accendere lo spazio: un semplice arredo di luce.

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punti di vista

IL FUTURO DEI CENTRI URBANI Ripensare il processo di sviluppo urbano è oramai una necessità. Il recupero dell’esistente è una strada quasi obbligata, che ha come vantaggio il risparmio di suolo, la salvaguardia del patrimonio architettonico e ambientale, puntando su un nuovo sviluppo economico e sociale. Solo partendo da una ragionata riqualificazione delle nostre città possiamo costruire una nuova identità di cittadini, eliminando le diseguaglianze

Le città sono cresciute a dismisura. Hanno invaso la campagna, consumato territorio e fagocitato paesaggi rupestri. Il processo contrario, cioè riportare la città a crescere nei suoi vuoti, negli spazi sfruttati in momenti storici diversi e poi abbandonati, sarà mai veramente possibile?

Michele Talia Fermare la crescita urbana non solo è possibile, ma in parte sta già avvenendo, solo che si tratta di un fenomeno spontaneo che rischia di peggiorare la situazione preesistente. Prima negli Stati Uniti e nei Lander della ex Ddr, e poi nel resto dell’Europa, molte aree urbane stanno attraversando una fase di contrazione delle superfici urbanizzate, che per effetto dell’invecchiamento della popolazione e dei processi di de-industrializzazione rischia di protrarsi per molto tempo. In Italia questo fenomeno delle shrinking cities si sta manifestando con notevole ritardo, ma è sempre più frequente la richiesta di superare scenari di crescita ormai anacronistici mediante la “retrocessione” consensuale dei suoli da destinazioni residenziali o produttive a usi agricoli. Questa tecnica di ripiegamento tende a favorire decisioni episodiche che rischiano di accentuare l’incoerenza del disegno complessivo, rinviando la ricerca di una visione di lungo periodo con cui rimpiazzare il mito della crescita a ogni costo. Domenico Marino Il ripensamento del processo di sviluppo urbano che porti la città a crescere negli spazi vuoti, che miri a sostituire la nuova costruzione con il recupero dell’esistente, è un processo obbligato. Il secolo scorso si è contraddistinto da uno sforzo di urbanizzazione smisurato che ha consumato tutto lo spazio disponibile, portando le città ad allargarsi a dismisura verso la campagna. Questa politica che ha portato a uno smisurato consumo di suolo è stata sostenuta dall’apparente convenienza economica di breve periodo della nuova costruzione rispetto al recupero dell’esistente. Parlare del recupero del patrimonio edilizio è una maniera lungimirante per affrontare il problema del riequilibrio urbano e della sostenibilità territoriale e per garantire opportunità di sviluppo economico per quel territorio.

In un Paese come il nostro, in cui buona parte dei centri abitati hanno le carte per divenire “città creative”, e dove però sopravvivono cospicue sacche di arretratezza socio-tecnologica, è possibile trovare le soluzioni adatte per bloccare il consumo di suolo, senza impoverire ulteriormente l’economia?

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Michele Talia Abbiamo assistito negli anni più recenti al diffondersi della convinzione che la città del futuro costituirà una piattaforma ideale per la sperimentazione delle nuove tecnologie digitali. Nel nostro Paese la diffusione delle innovazioni avrebbe dovuto trovare uno stimolo decisivo nella straordinaria articolazione della sua rete urbana, ma finora il ritardo con cui si è proceduto alla realizzazione di alcuni interventi ha impedito che si compisse questo passo verso la modernizzazione del Paese. Il modello seguito da molte città europee indica una strada che anche le nostre città devono seguire. Se non riusciranno a competere con Amsterdam, Copenaghen o Londra su questo terreno, converrà ripiegare su una concezione più inclusiva di città, che al primato conquistato in campo tecnologico sostituisca un modello urbano focalizzato sul ruolo della creatività per lo sviluppo sostenibile. Domenico Marino Fino a pochi anni fa le politiche che miravano a bloccare il consumo di suolo prestavano il fianco alla critica di essere politiche che confliggevano con le possibilità di sviluppo di un territorio. L’idea di “città creativa” e le sue realizzazioni concrete hanno dimostrato invece come il recupero dell’esistente, la salvaguardia del patrimonio architettonico e ambientale, l’enfasi sulla cultura e sulla storia sono uno straordinario volano di sviluppo. Santa Fè e Bilbao sono due degli esempi di successo di città creative. L’Italia potrebbe trasformare in città creative la maggior parte dei suoi centri urbani. Bisogna progettare un recupero urbano che valorizzi il contenuto “creativo” dei luoghi, creando un binomio virtuoso fra tecnologia e cultura. Otterremo così l’effetto di aumentare il valore di lascito del territorio alle generazioni future e di aumentare il benessere sociale per questa generazione.


È architetto e professore ordinario di Urbanistica presso l’Università degli Studi di Camerino. Inoltre è Coordinatore della Scuola di Dottorato di Architettura. È socio fondatore TERRE.IT s.r.l., spin off dell’Università degli Studi di Camerino. Michele Talia

La campagna del WWF RiutilizziAmo l’Italia promuove i progetti di riuso di aree dismesse come le caserme, lì dove i presupposti per la militarizzazione sono cambiati. Esistono o si stanno redigendo piani di recupero di aree di questo tipo?

È professore titolare del corso di Economia dell’Ambiente e del Territorio presso il Dipartimento PAU dell’Università di Reggio Calabria e presidente dell’Osservatorio della Didattica della Facoltà di Architettura dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria dal luglio 2004. Domenico Marino

Michele Talia Da molti anni le politiche di riqualificazione urbana di numerose città italiane assegnano alle ex-caserme il compito di accogliere progetti di riconversione. Molti di questi progetti sono stati elaborati parecchi anni fa, ma le procedure del trasferimento prima dal Demanio dello Stato alla Cassa Depositi e Prestiti, e poi da quest’ultimo al Comune, e ancora più frequentemente le difficoltà legate alla negoziazione tra Ministero della Difesa e Comune per la valutazione delle compensazioni, hanno trasformato il processo attuativo in un percorso a ostacoli che rischia di dirottare le aspettative verso soluzioni forse di minor pregio, ma certamente più realistiche. Si pensi all’area di via Guido Reni a Roma, dove le destinazioni più speculative dovrebbero essere bilanciate dalla realizzazione di un museo, di una piazza e di una quota di alloggi a canone calmierato per giovani coppie. Domenico Marino La campagna RiutilizziAmo l’Italia vuole far crescere la consapevolezza che il riuso del territorio non è solo un bisogno che attiene all’ecologia e alla ricerca di una maggiore sostenibilità, ma anche un fatto che può cambiare le prospettive di sviluppo economico di un territorio. I piani di recupero sono pochi e la maggior parte di questi sono spesso dettati dall’emergenza. Per i comuni le urbanizzazioni sono un modo per sopperire alla riduzione dei trasferimenti statali e far quadrare i bilanci. È ovvio che tra il recupero e il riuso che costano nel breve periodo e l’urbanizzazione di nuove aree che dà benefici immediati, anche se produce maggiori costi, non solo sociali, nel lungo periodo preferiscono la seconda opzione. Per questo le campagne di sensibilizzazione sono necessarie.

Con il termine gentrification si indica il fenomeno che ha coinvolto, nel resto d’Europa, molti quartieri in degrado. Gli immobili sono stati acquistati unicamente da ceti abbienti, provocando l’allontanamento della popolazione preesistente. Succederà o è già successo anche in Italia?

Michele Talia Gli interventi di rinnovo urbano che prevedono l’immissione di nuovi residenti tendono ad attrarre famiglie ad alto reddito e a espellere i vecchi abitanti. Nelle aree centrali questa tendenza alla gentrification non sembra contrastabile, se non altro perché i processi di trasformazione urbana hanno bisogno della partecipazione convinta dei soggetti privati. La disciplina urbanistica deve far sì che i progetti urbani esaltino la formazione di valore aggiunto, parte del quale potrà essere impiegato per il conseguimento di obiettivi d’interesse collettivo. In primo luogo nelle aree centrali, dove la realizzazione di residenze di pregio sarà in grado di “finanziare” la creazione di spazi pubblici e di una quota di edilizia sociale. Ma anche nelle aree di espansione, nelle quali il piano ha il compito di dar vita a un’offerta residenziale competitiva sotto il profilo delle dotazioni urbanistiche e sostenibilità. Domenico Marino In Italia le esperienze di gentrification sono arrivate da pochi anni e sono limitate alle grandi città. Queste dinamiche cresceranno nei prossimi anni e arriveranno a toccare anche i piccoli centri. Quella della gentrification è un’esperienza con luci e ombre. Le luci sono costituite dal recupero e dalla valorizzazione che si è verificata in molti quartieri che, prima degradati, sono stati trasformati in residenziali. Ma questo spesso è avvenuto con l’espulsione dei residenti di reddito più basso a vantaggio di quelli a reddito più alto, con conseguente perdita di identità del quartiere stesso. I vantaggi della gentrification sono stati, cioè, fruiti da soggetti che non avevano subito il degrado di quel quartiere. Affinché la gentrification non si riduca a una mera speculazione edilizia, occorre che questi processi vengano realizzati coinvolgendo i residenti e facendo in modo che siano loro i principali beneficiari di queste politiche. Solo così dalla gentrification potrà scaturire una maggiore equità territoriale.

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punti di vista

La non applicazione dei piani di attuazione da parte degli amministratori è la ragione che ha portato le nostre città verso la dissolvenza, lo sprawl. Oggi quali strumenti possono essere utili per sensibilizzare le amministrazioni ad un migliore uso del suolo?

Michele Talia Non credo sia possibile contestare che una delle eredità più negative del declino urbano del nostro Paese sia costituita dalla dissipazione di suoli. Anche se gli impatti prodotti dallo sprawl sono stati più volte analizzati, pochi prestano attenzione alla perdita di competitività che ne è derivata per l’intero sistema urbano nazionale, che nel passaggio verso un nuovo modello insediativo lamenta la perdita del “magnetismo” che gli insediamenti compatti erano in grado di esercitare. Ora che la nostra geografia urbana appare trasformata il problema non è tanto quello di impedire la prosecuzione di un trend indebolito dalla grave crisi del settore edilizio quanto piuttosto di predisporre delle misure atte ad apportare alcuni importanti correttivi. In primo luogo rafforzando le reti ecologiche, che pur all’interno di una maglia sempre più sfilacciata riconducano a sistema le aree naturali, gli orti comunitari, i giardini pubblici, gli spazi aperti, i percorsi verdi e le piste ciclabili presenti nel territorio aperto. E poi realizzando un programma di rinaturalizzazione dei molti siti industriali dismessi, che per giacitura e per storia pregressa non offrono le condizioni a ipotizzarne la riconversione funzionale. Domenico Marino Lo sprawl rappresenta la naturale dinamica evolutiva di una città che si sviluppa in mancanza di regole. Lo spazio disponibile viene urbanizzato perché si cerca di massimizzare i vantaggi che ne derivano. Ma superato un certo livello di urbanizzazione le economie diventano inferiori alle diseconomie e l’eccesso di urbanizzazione produce segni negativi nel benessere sociale. Un uso del suolo sostenibile non solo non è un lacciuolo per lo sviluppo, ma diventa, anzi, uno strumento che può assicurare benessere e sviluppo anche alle generazioni future. I comuni troppo spesso scambiano il beneficio immediato che deriva alle finanze dagli oneri di urbanizzazione con il benessere sociale del territorio. Ogni comune dovrebbe fissare un limite superiore alla crescita del patrimonio urbanizzato attraverso una politica di uso del suolo sostenibile e promuovendo il riuso delle aree dismesse e il recupero del patrimonio edilizio esistente. Si porrebbero le basi per una città più vivibile e più ricca!

Ci sono i presupposti perché oggi l’urbanistica ritorni, con i dovuti cambiamenti, a essere la giusta disciplina per il governo del territorio?

Michele Talia Sono ormai molti anni che la pianificazione del territorio svolge con rassegnazione un ruolo ancillare, in cui le scelte più rilevanti delle amministrazioni locali – condizionate o meno dagli interessi privati – sono sottoposte al vaglio del progettista semplicemente al fine di ottenere una verifica formale o un contributo alla loro ottimizzazione. Forse gli urbanisti non hanno venduto l’anima al diavolo, ma certamente hanno smarrito la capacità di visione e l’assunzione di responsabilità che in un passato ormai lontano ne avevano decretato l’autorevolezza. Eppure, nella situazione attuale, quando il governo del territorio ha ormai toccato il suo punto più basso e a molti sembra addirittura irrilevante, è venuto probabilmente il momento di operare una radicale inversione di tendenza! Si tratta innanzitutto di contribuire alla ricerca di un nuovo paradigma ora che la crisi “finale” della città industriale - sempre più insidiata dai processi di globalizzazione e dal cattivo funzionamento delle economie di agglomerazione - costituisce la plastica rappresentazione della conclusione di un’era, quella della crescita illimitata e del mito dello sviluppo. Per far questo la nostra disciplina deve operare un risoluto rinnovamento, affiancando sempre più spesso ai tradizionali apparati prescrittivi e vincolistici strumenti più innovativi, dotati della capacità di visione e di coinvolgimento di una vasta platea di soggetti che è tipica degli scenari e delle altre tecniche di simulazione. Domenico Marino L’urbanistica deve, a mio modo di vedere, recuperare il ruolo fondativo di alcune categorie che potremmo definire a “contenuto etico”. Troppo spesso quando si parla di Urbanistica si fa riferimento a una tecnica, confondendo l’aspetto più banalmente operativo con il livello più alto che ha una valenza programmatoria e regolatoria. Un principio a cui si deve ispirare l’urbanistica per tornare a essere la giusta disciplina per il governo del territorio è quello dell’equità che può essere declinato sia in senso spaziale e territoriale, sia in senso temporale e intergenerazionale. Obiettivo, quindi, delle politiche urbane deve essere quello di assicurare il maggior livello possibile di equità spaziale e territoriale, temporale e intergenerazionale intervenendo per correggere gli squilibri. Questo obiettivo deve poi essere ricompreso e declinato in un progetto più complessivo di sviluppo urbano che miri a preservare le risorse, massimizzando nel contempo le possibilità di sviluppo del territorio.

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Spesso per intervenire sulle aree dismesse è necessario attuare la bonifica del terreno. Quali sono i problemi maggiormente riscontrati?

Michele Talia Per molte amministrazioni locali la presenza, nel proprio territorio, di siti industriali dismessi o di aree attrezzate mai entrate in produzione costituisce una vera e propria emergenza, nei confronti della quale soffriamo di un rilevante deficit di conoscenze, strumenti e capacità operative. Il primo ostacolo che s’incontra riguarda il contenzioso relativo alla titolarità delle aree, che spesso è gravata da fallimenti o da trasferimenti all’estero della proprietà, con la conseguenza di dilatare notevolmente i tempi della riconversione funzionale e di ostacolare l’individuazione dei soggetti che dovranno farsi carico degli interventi di bonifica. Ma c’è da considerare anche la notevole incidenza d’impianti industriali inutilizzati o inutilizzabili a causa della loro localizzazione, spesso incompatibile non solo con il quadro dei vincoli ambientali e paesaggistici e con la mappa dei rischi idrogeologici, ma anche con le esigenze di un mercato sempre più attento alla accessibilità dei luoghi della produzione e del commercio. Spesso si rende necessario affidare a uno studio di fattibilità il compito di selezionare i siti su cui concentrare gli interventi di bonifica e di riconversione funzionale, e di destinare le aree dismesse non riutilizzabili a estesi programmi di risanamento e rimboschimento. Domenico Marino Le aree dismesse sono in genere delle aree su cui sono state svolte attività industriali, spesso a impatto ambientale medio e alto o che sono state utilizzate come discarica dal momento in cui non sono state più utilizzate. Ad esempio, in molte di queste aree dismesse è facile trovare amianto sotto forma di eternit che si è pensato di stoccare in maniera economica all’interno di queste aree. Il primo problema prima di procedere al riuso, è quello di effettuare una bonifica del terreno che può presentare in genere dei costi elevati che rendono difficile l’attuazione di piani di recupero. Ciò dipende dal tipo di inquinamento che è stato lasciato dagli usi precedenti, dal livello di degrado riscontrato e dalla conformazione dell’area. In alcuni casi il riuso deve essere preceduto da una messa in sicurezza delle aree stesse. In ogni caso, però, si può affermare che quella del recupero e del riuso delle aree dismesse o sottoutilizzate devono essere considerate come degli investimenti e non come dei costi.

Come conciliare i costi di recupero e trasformazione di strutture dismesse in social housing con la spesa necessaria ad attuare il restauro che spesso tali complessi richiedono?

Michele Talia Almeno in teoria l’attuale e profonda crisi del comparto immobiliare e la difficoltà di collocare sul mercato l’edilizia prodotta secondo le procedure tradizionali dovrebbero assegnare un vantaggio competitivo al Social Housing, ma purtroppo non è così. Negli ultimi anni questa scelta - che pure avrebbe potuto costituire una svolta per il rilancio dell’attività edilizia e del mercato immobiliare - è stata ostacolata dal ridimensionamento del ruolo che in precedenza era stato svolto dalle fondazioni bancarie a causa del trend recessivo che ha caratterizzato il settore del credito. È possibile che in un prossimo futuro gli evidenti vantaggi del Social Housing spingano gli operatori più interessati e la domanda organizzata a postulare un maggiore impiego di questa formula sia nella città contemporanea, dove può esercitare un impulso innovativo contro la staticità di quartieri molto spesso degradati, sia nelle aree centrali, in cui potrebbe accelerare il recupero del patrimonio degradato. Prima ancora che affidarsi al contenimento dei costi di costruzione – che pure in qualche occasione è avvenuto – i nuovi progetti dovranno far leva su alcune prerogative esclusive di questa formula, che consentono di creare le condizioni ideali per la nascita di nuove forme di cittadinanza, vivaci e partecipate grazie al coinvolgimento dei residenti nella progettazione, nella cura e gestione del bene casa. Domenico Marino Ciò che in primo luogo va detto è che nel lungo periodo la spesa necessaria al recupero alla trasformazione delle aree dismesse è un investimento che si ripaga sia in termini di minori costi sociali, ma anche in termini di risultato economico per un’impresa che voglia gestire questa opera di risanamento. Esistono, poi, delle forme di partecipazione sociale quali il crownfounding e l’azionariato popolare che soprattutto nei piccoli centri potrebbero costituire il fulcro per l’avvio di processi di risanamento e l’avvio di piani di social housing. La possibilità infine anche per le imprese piccole e medie di mettere i cosiddetti minibond può essere uno strumento che può servire a finanziare programmi di questo genere. Ma ciò che è importante è che gli enti locali comprendano l’importanza di queste politiche e siano pronti a scommettere su queste, destinando investimenti consistenti all’interno dei bilanci.

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