Architettura e Paesaggio

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architettura&paesaggio

Ordine degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Brescia

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ARCHITETTURA & PAESAGGIO Iscritta con l’autorizzazione del Tribunale di Brescia al numero 3/2014 del 21 febbraio 2014 Numero 0 / febbraio 2014 Rivista quadrimestrale

Direttore Editoriale Umberto Baratto Direttore Responsabile Maurizio Costanzo Caporedattore Iole Costanzo Coordinamento di Redazione Cristiana Zappoli Art Director Laura Lebro Consiglio dell’Ordine Stefania Annovazzi, Umberto Baratto, Stefania Buila, Gianfranco Camadini, Serena Cominelli, Alessandro D’Aloisio, Laura Dalè, Paola Faroni, Luisa Favalli, Fabio Maffezzoni, Roberta Orio, Alessio Rossi, Eugenio Sagliocca, Roberto Saleri, Eliana Terzoni Hanno collaborato Alberto Aitini, Marco Frusca, Manuela Garbarino, Donatella Santoro, Patrizia Scamoni, Lucio Serino, Paolo Ventura

La Falegnameria Franciacorta, presente sul territorio da oltre 20 anni, è specializzata nellÊarredamento su misura sia di locali commerciali quali bar, ristoranti, discoteche, hotel, che di abitazioni private. La maturata professionalità e la continua ricerca ci premettono di integrare le nuove tecnologie con un sistema produttivo artigianale e di costruire su misura qualsiasi prodotto richiesto, garantendo professionalità e competenza ai nostri committenti e diventando nel tempo un valido partner nella realizzazione di nuovi concept.

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sommario EDITORIALE

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di Umberto Baratto / Paolo Ventura

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La legge decide il bello? I LIMITI E LE CONTRADDIZIONI DELLA LEGGE 717 DEL 1949

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Un recupero funzionale IL RECUPERO DI PALAZZO MARTINENGO DELLE PALLE

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Architettura e teatro danza LO STRETTO LEGAME TRA L’ARCHITETTURA E LE ARTI SCENICHE

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Una cittadella sperimentale MAST, BOLOGNA Progetto di Studio Labics

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Letti sostenibili d’emergenza LEAFBED di Julien Sylvain e NOCC

ARCHITETTURA

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Qui l’arte è di casa CASA DAS ARTES, MIRANDA DO CORVO (PORTOGALLO) Progetto di FAT - Future Architecture Thinking

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Passato e futuro dello sport LOUISIANA STATE MUSEUM AND SPORTS HALL OF FAME,

NATCHITOCHES (LOUISIANA) Progetto di Trahan Architects

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Come sospesa tra cielo e terra CIDADE DAS ARTES, RIO DE JANEIRO (BRASILE) Progetto di Christian de Portzamparc

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Imponenza formale e anche economica QUARTIERE GENERALE PER LA SHENZHEN STOCK EXCHANGE, SHENZHEN (CINA) Progetto di Oma

PENSIERI EVOLUTIVI

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In architettura la luce genera lo spazio / Mario Botta

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Progettare: tra scienze sociali e informatica / Carlo Ratti

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Per un futuro sostenibile: il bambù / Lorenzo Bar

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Vivere nei limiti di un solo pianeta / Gianfranco Bologna

APPUNTAMENTI

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Architettura, arte e design

PREMIAZIONI

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Emblema e valore dell’architetto italiano

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editoriale 1 L'idea di una rivista (ri)nasce nei primi mesi del 2013 Si concretizza ora, con l'insediamento di un nuovo Consiglio, l'uscita del numero zero, che assume, insieme, il carattere di un passaggio di testimone e di ripartenza. Si riparte con molti temi sul tavolo, alcuni dei quali dettati dalla profonda crisi che ha colpito e colpisce tuttora il nostro settore. Si riparte con la consapevolezza che le mutate condizioni, imporranno alla categoria ulteriori sforzi di innovazione e ricerca per riuscire a competere. Si riparte con il tema della formazione permanente che, se non è in grado di intercettare le traiettorie dell’innovazione, corre il serio rischio di rappresentare una ulteriore vessazione (anche economica) per i colleghi. Si riparte dalla proposta di una rivista per capire oggi, laddove la connessione in rete permette di avere notizie in tempo reale, quale sia lo spazio e il senso di un laboratorio collettivo e di un luogo di ricerca meditato. Un appuntamento di riflessione che si potrà rinnovare ogni quattro mesi. 2 Non solo digitale Davanti alla moltitudine di informazioni deselezionate sulla rete ritorna (o si rafforza) la fiducia nella carta stampata, che entra negli studi con messaggi più qualificati, e anche se non viene sfogliata subito, lo può essere più a lungo. Le imprese credono nella carta stampata quando sottoscrivono i contratti pubblicitari. Hanno bisogno di comunicare con gli architetti direttamente. Sembra paradossale, ma le imprese, specie quelle più prestigiose, quelle assetate di innovazione per mantenere la leadership, ricercano gli stimoli di una guida consapevole che proprio un professionista qualificato può dare. Altri Ordini e Collegi professionali bresciani ci credono. I medici con Brescia Medica, recentemente rinnovata. I Dottori commercialisti con la loro Brescia & Futuro. I geometri con la loro rivista quarantennale che si distribuisce in diversi collegi provinciali viciniori. Gli ingegneri con il loro bollettino - giornale mensile. La rivista sarà anche pubblicata in pdf sul nostro sito. 3 Contenuti I contenuti della rivista dell’Ordine degli Architetti, Paesaggisti, Pianificatori e Conservatori si devono concentrare - più che in questo primo numero - sulla nostra realtà e sulle molteplici iniziative che portiamo avanti, senza essere consapevoli della loro eccezionalità. Ricordiamo l’anno scorso solo a titolo di esempio alcuni eventi organizzati dall’Ordine con un pubblico limitato rispetto all’interesse dell’argomento e degli oratori: la conferenza del 26.1.2013 degli urbanisti della città di Freiburg in confronto con i dirigenti di Brescia Mobilità; la conferenza Design e democratizzazione del gusto del 1.3.2013 con il designer Francesco Trabucco, coordinatore del Dottorato di Ricerca “Design & Metodi di sviluppo del Prodotto” del Poli-

tecnico di Milano; la conferenza (12.6.2013) del presidente della Sezione della Terza Cassazione Penale specializzata nei reati urbanistici ed edilizi, Dott. Aldo Fiale,… per ricordarne alcuni. Quei contributi, come tanti altri, potrebbero essere tempestivamente tradotti in articoli per consolidarsi in un messaggio culturale di lungo periodo, doverosamente trasformato nei crediti formativi. 4 A&P Il titolo Architettura & Paesaggio vuole guardare ai temi principali della nostra attività, la costruzione intesa in senso lato come trasformazione di un contesto. Abbiamo sottinteso Brescia, ma partiamo dal nostro territorio, con la riserva comunque di offrire uno sguardo sul mondo. La rivista guarda anche alla tutela dell’architettura e del paesaggio, e quindi alla cultura e alla tecnica della conservazione e valorizzazione dell’ambiente in cui viviamo. 5 Il numero zero La rivista dedica diverse pagine alla nuova sede dell’ordine in Palazzo Martinengo delle Palle, visitata con un reportage originale del fotografo Lonati. Altri due articoli provengono da alcune recenti importanti iniziative: l’intervento di Mario Botta del 23.9.2013 all’incontro “La reazione alle forze dominanti” all’interno della manifestazione LeXGiornate di Brescia nella quale il maestro ticinese ha ripercorso alcune esperienze recenti della sua produzione architettonica; la tavola rotonda del 28.9.2013 dedicata al tema del finanziamento delle opere d’arte negli edifici pubblici prevista dalla legge 717/1949, dal quale è estratto l’intervento di Marco Frusca “sulla qualità architettonica delle opere pubbliche”. Seguono alcuni importanti progetti del panorama internazionale proposti dalla redazione, tra i quali la Citade des Artes (http://www.portzamparc.com/en/projects/cidade-dasartes/) a Rio de Janeiro dell’architetto francese Christian de Portzamparc (2002-13), monumentale museo le cui forme riecheggiano il Palais de Congrés di Parigi (ristrutturato da CdP nel 1994-95).

6 Sperimentalità La rivista si regge sul contributo delle inserzioni commerciali. L’ordine interviene con la spedizione della rivista agli studi professionali, agli ordini italiani e alle più importanti amministrazioni pubbliche della Provincia. Il carattere di sperimentalità del primo numero e la ristrettezza di tempo probabilmente non hanno consentito di raggiungere il meglio. Ci proveremo nel futuro con numeri a tema dedicati a guest editor. Vi saremo grati delle vostre sollecitazioni. Buona lettura!

Umberto Baratto Paolo Ventura

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primo piano

LA LEGGE DECIDE IL BELLO? RIFLESSIONI A PROPOSITO DEI LIMITI E DELLE CONTRADDIZIONI DELLA LEGGE 717 L’idea di richiamare al rispetto della legge 717 del 1949, che obbliga le amministrazioni pubbliche a destinare il 2% dell’importo dei lavori all’acquisto di opere d’arte, attraverso un’iniziativa aperta ma specifica, in questi tempi di crisi potrebbe apparire provocatoria e insieme velleitaria. Inutile dilungarsi sulla ampia casistica di situazioni problematiche o drammatiche in cui si trovano sia i soggetti (la committenza pubblica, gli enti locali) che gli oggetti (le opere pubbliche) in questo momento nel nostro Paese: come cittadini e professionisti ne abbiamo piena, personale consapevolezza, purtroppo quotidianamente confermata. Le poche opere che si riescono a realizzare, per lo più infrastrutture, hanno un iter di realizzazione, dal progetto al collaudo, sempre più incerto e travagliato. Il convegno promosso dal gruppo di lavoro costituitosi sul tema per iniziativa dell’artista Giovanni Chinnici, e composto da Franco Migliaccio, docente della LABA, insieme agli architetti Patrizia Scamoni, Lucio Serino e Marco Frusca è importante, poiché - oltre alla esplicita finalità di riportare all’attenzione pubblica l’applicazione ‘carsica’ di una legge che prevede l’obbligo di investire in opere d’arte - pone al centro della riflessione alcune questioni: la qualità delle opere pubbliche come carattere irrinunciabile e, dunque, la necessità pubblica (verrebbe da dire politica) dell’arte. La consapevolezza che la città è un “bene comune” (per usare propriamente un’espressione che conosce la sua stagione di moda) impone che nella realizzazione e nella cura delle sue parti amministratori e tecnici agiscano con il massimo impegno per perseguire, se non la bellezza, almeno la dignità e il decoro. Il tema della qualità delle opere pubbliche è dunque centrale perché centrale è il loro ruolo nella costituzione del valore dello spazio urbano; se temiamo di apparire magniloquenti parlando di arte e architettura, consapevoli che l’opera d’arte, soprattutto in questo ambito, può essere obiettivo di fondo al cui raggiungimento, mai scontato, necessita l’incontro equilibrato di numerosi fattori di varia natura, dobbiamo però ugualmente, e a maggior ragione, pretendere l’applicazione di una legge che consenta quantomeno di offrire una qualità non meramente tecnico funzionale alle opere pubbliche. Tempo fa Francesco Dal Co ricordava su Casabella la convinzione di Louis Kahn che gli architetti potessero realisticamente, o ottimisticamente, aspirare a realizzare

solo il 3% del totale di quanto veniva costruito. In quanto architetti è legittimo aspirare a quel 3%; in quanto cittadini e architetti è impegno civico doveroso cercare di aumentare quella percentuale, far sì che sempre più opere pubbliche (e/o di rilevanza pubblica, anche se formalmente in capo ad altri soggetti attuatori) rientrino nella ristretta “fetta di mercato” dell’architettura, resa ancor più drammaticamente esigua dalla drastica riduzione operata dalla crisi sulla consistenza complessiva su cui è calcolato quel 3%. È nel solco di questo impegno che può collocarsi l’impegno ideale e il lavoro culturale per il coinvolgimento dell’arte nella definizione dello spazio urbano, anche attraverso l’attuazione di una legge controversa come la legge 717. È opportuno infatti riflettere con chiarezza sui limiti e sulle contraddizioni del suo dettato normativo, nato, come si è detto, in una precisa e superata temperie culturale (e nel cui codice genetico è presente il segno dell’assistenziali-

Non ci si può illudere che questa legge, se anche correttamente applicata, consenta di risolvere il problema della qualità progettuale delle opere pubbliche smo corporativo, avendo come origine una circolare del 1935 che promuoveva arte e architettura “per lenire la disoccupazione degli artisti e dei professionisti”). Innanzitutto, ed è punto di rilevanza centrale, la legge parla di “abbellimento” delle opere, conferendo all’intervento dell’artista un carattere, se non di posticcio imbellettamento, di pura accessorietà alla costruzione (il quadro o la statua posizionati nell’edificio finito). Inoltre i richiami all’abbellimento e alla decorazione della costruzione rivelano una concezione affatto premoderna dell’architettura. Lo ha messo bene in rilievo nel 2007, commentando la promulgazione delle linee guida ministeriali per la sua attuazione l’allora presidente dell’IN/ARCH Alfredo Guzzini: «Siamo sicuri che il miglioramento della qualità dell’edilizia pubblica passi attraverso il finanziamento di opere d’arte da inserire all’interno di edifici che non hanno nulla di qualitativamente rilevante? Crediamo vera-

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primo piano mente che la qualità delle opere di trasformazione del territorio si ottenga giustapponendo ‘qualcosa di artistico’?» (il Sole24ore 10/02/2007). Per contro è indubbio che nel nostro Paese e nelle nostre città non manchino contesti, siti, situazioni urbane anche interstiziali in cui l’intervento con opere d’arte in dialogo con l’architettura può essere risolutivo o migliorativo: pressoché in tutti gli agglomerati urbani, di ogni natura e dimensione, esistono elementi urbani come la piazza e il sagrato, che spesso si presentano come cornici vuote o malriempite, da restaurare e restituire al decoro; tutte le periferie presentano margini tessuti privi di forma e di disegno e dunque privi di identità e di qualità, in cui il necessario ordine minimale degli elementi edilizi dell’infrastrutturazione e dell’arredo può essere indirizzato e potenziato da un contributo creativo. Non abbellimento, dunque, ma costituzione di una monumentalità non retorica e non autoreferenziale, e, invece, socialmente condivisa, che veda l’opera d’arte organicamente connaturata all’opera di architettura, nella consapevolezza che i migliori risultati sono stati conseguiti attraverso la dialettica di co-progettazione tra architetto e artista. Esempi di questa sinergia sono in Emilia Romagna, regione particolarmente virtuosa in tal senso, accanto al Trentino Alto Adige, e, metodologicamente, nella serie di concorsi per la realizzazione di nuove chiese banditi dalla Conferenza Episcopale Italiana. L’interazione in corso d’opera tra gli operatori è tanto più necessaria in quanto il confine tra arte visiva contemporanea e architettura non è sempre nettamente demarcato, anzi, nel dibattito odierno, e nella prassi, è sempre più evanescente ed è comunque sempre più proficuamente attraversato nelle due direzioni. Bastino i nomi, al di là di ogni considerazione di merito, di Vito Acconci, di Dani Karavan, di Anish Kapoor, di Sol LeWitt, e poi Daniel Buren, Ian Hamilton Finlay, Piero Gilardi, Riccardo Dalisi… Altro aspetto della legge sicuramente da migliorare è quello del campo di applicazione, che nella recente revisione normativa viene ulteriormente ristretto, escludendo le scuole e le università, laddove questo andrebbe invece allargato a tutte le opere di rilevanza pubblica (e non solo agli edifici, come recita l’art.1) anche se in capo a soggetti attuatori diversi dagli enti locali e dalle amministrazioni. A Brescia, accanto agli esempi positivi di realizzazioni (si veda il contributo di Jorrit Tornquist nella torre del termovalorizzatore, come nella galleria Tito Speri o nei più recenti svincoli stradali) si sono perse numerose occasioni di intervento: le stazioni della metropolitana, le opere realizzate da A2a, Brescia mobilità, gli ospedali recentemente ampliati - non solo gli Spedali civili, ma anche la Poliambulanza e S. Anna. Per inciso, al di là del merito (fortunatamente alcune opere sono di qualità, come le stazioni della metropolitana) si tratta di opere

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mai o marginalmente realizzate con il ricorso ai procedimenti concorsuali di progettazione. È bene ribadire che non ci si può illudere che questa legge, se anche correttamente applicata, consenta di risolvere il problema della qualità progettuale delle opere pubbliche, che necessiterebbe una riforma del sistema regolativo degli appalti, in cui sia separata la normazione relativa alla progettazione da quella inerente l’esecuzione, punto su cui concordavano i numerosi progetti di legge sull’architettura diversamente arenatisi nelle secche delle vicende politiche nazionali. Il che, tradotto in termini operativi, significa chiedere sì l’applicazione della legge del 2%, ma insieme alla pretesa di concorsi per le opere pubbliche e di rilevanza pubblica, andando a rivedere radicalmente gli attuali meccanismi di assegnazione di incarico, puntando sulla qualità e il merito e non sul preteso risparmio immediato o, peggio, sulla rispondenza a requisiti, che siano burocratici o di altra meno confessabile natura. Numerosi altri spunti di riflessione critica di carattere più generale sulla legge derivano sia dalla ambiguità della sua natura (si tratta della promozione del libero sviluppo delle arti da parte dello stato mecenate o ancora/e dun-

La consapevolezza che la città è un bene comune impone che nella cura delle sue parti amministratori e tecnici agiscano con il massimo impegno per perseguire la dignità e il decoro que, sotto forme sempre diverse, di produzione del consenso? La diffidenza è legittima e condivisa da fronti politicamente e culturalmente opposti: per il campo “liberale” vedi Marc Fumaroli su “lo stato culturale”, per il fronte opposto quello che Hughes chiamava il “piagnisteo” culturale), sia dai rischi di ottundimento e mediocrità che la inevitabile burocratizzazione dell’intervento pubblico in campo artistico comporta (sinteticamente, nel caso di commissioni di concorso accanto alla legittima e immediata domanda su “chi sceglie chi sceglie”, il rischio di un “bello per legge” o “bellopercentuale”, di opere d’arte “politicamente corrette” che spianano la strada al kitsch). Come si vede già da queste prime note, il tema ha grande superficie e contorni frastagliati che meritano una più attenta esplorazione teorica e la percezione della sua urgenza è proporzionale alla sdegnata consapevolezza delle miserevoli condizioni delle opere pubbliche. (di Marco Frusca)


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UN RECUPERO FUNZIONALE

PALAZZO MARTINENGO E LA SUA STORIA. QUESTA LA NUOVA SEDE DELL’ORDINE DEGLI ARCHITETTI Non è cosa facile trovare e conoscere fabbricati storici che non abbiano subito modifiche nel corso del tempo, e che abbiano conservata la più gran parte della loro immagine originale. Ciò vale anche per il Palazzo Martinengo delle Palle di via S.Martino della Battaglia, 18/20, attualmente di proprietà comunale e soggetto, in una sua discreta porzione del piano nobile, a un intervento di adeguamento impiantistico e di restauro realizzato a cura degli architetti bresciani, per ubicarvi la loro nuova sede. È dunque ancora cinquecentesco l’impianto planimetrico del fabbricato, così come gli elementi architettonici dell’arioso porticato che abbraccia per tre lati l’ampio cortile, la fontana tardocinquecentesca addossata alla parete di fondo del cortile stesso, e non mancano le notizie storiche (F. Paglia, “Il giardino della Pittura”) sull’originale presenza di un vano del piano terreno con alcune figure realizzate a fresco dal Moretto (Alessandro Bonvicino detto il Moretto 1499-1554), ma ormai andate perse. Ma è il secolo successivo quello che risulta determinante per privilegiare l’attribuzione cronologica, se non stilistica, alla costruzione: e lo è per la presenza, notevolissima per quantità e qualità, della decorazione pittorica secentesca. Gli aspetti architettonici non risultano essere così 22 ARCHITETTURA&PAESAGGIO

Sopra: volta raffigurante un interno con balconate progressive sulla stanza sottostante di Pietro Antonio Sorisene (1677 circa). Nella pagina a fianco: la spettacolare volta a botte della galleria al piano nobile (P. A. Sorisene1677 circa)

determinanti: non si dimentichi infatti che il “barocco”, e quello bresciano in particolare, presenta un’evoluzione lenta fra il “manierismo” del tardo cinquecento e le prime avvisaglie del “neoclassicismo”, fra la fine del secolo XVIII° e l’inizio del XIX°. Dunque le decorazioni pittoriche e i fregi sono perlopiù seicenteschi, ma le porte del piano nobile sono decisamente settecentesche, così come settecentesco è lo scalone principale a due rampe e le pareti del vano scale con decorazione coeva, ma molto rimaneggiata da un tentativo di restauro della seconda metà dell’Ottocento (anno 1875). Scalone non eccezionale, ma non privo di una sua austera monumentalità: pare di leggervi la mano di uno dei Marchetti, il padre G.Battista (1684 - n.c.) o il figlio, l’abate Antonio (1724 - 1791), che tanto operarono nelle ristrutturazioni settecentesche del patrimonio edilizio bresciano. Che dire della facciata verso via S.Martino della Battaglia? Incompiuta per assenza di intonaco e non particolarmente felice, ma comunque notevole per dimensione in lunghezza, presenta una serie di ampie finestre decorose per le cornici di pietra e un portale di ingresso non particolarmente importante. Può essere curioso notare l’evidente somiglianza di tale prospetto con quello su corso Magenta,



visual screen al numero civico 56, del palazzo Balucanti, ora Liceo Classico Arnaldo: muratura senza intonaco, ampie finestre con cornici modanate dotate, al piano nobile, di cimase aggettanti molto simili a quelle del nostro palazzo (palazzo Balucanti è stato edificato verso la metà del XVIII° secolo). Ma se il prospetto non risulta essere di particolare pregio, ben diverso è il discorso riguardante l’apparato decorativo interno: questo trova il suo massimo splendore nella volta a botte di copertura dell’amplissima loggia al primo piano. Una decorazione con scene mitologiche, medaglioni, balconate in prospettiva, putti, affrescata da Pietro Antonio Sorisene, che infatti vi lascia la firma. Costui, buon quadraturista, risulta attivo in Brescia nella seconda metà del 1600, documentato nel 1693 quale affreschista della volta della chiesa di S. Agata, e in precedenza (1671) autore di alcune figure eseguite a fresco nel coro della chiesa di S.Giorgio, e ancora decoratore della volta a schifo di una cappella nella chiesa della Congrega della carità Apostolica in via G.Mazzini, 5, sempre a Brescia. Se la decorazione secentesca del Sorisene risulta essere determinante per quanto riguarda il volto storico del-

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l’edificio, e con tutta probabilità anche nella visione emozionale dello stesso, non mancano altre mani d’artista, o di buon artigiano, sulle volte di alcune sale (tale ad esempio uno sconosciuto “Faustinelli” con data 1676), sui piacevoli paesaggi di alcune sovrapporte, sugli stucchi e i caminetti che caratterizzano stilisticamente alcuni vani. Soffermandoci in particolare su quella porzione di fabbricato, al piano nobile, che è la nuova sede degli architetti bresciani, possiamo osservare nella serie di stanze verso strada situazioni diverse che raccontano le complesse vicissitudini del fabbricato. Dalla loggia entriamo nel salone principale, la cui copertura voltata a padiglione rivela, con i personaggi dipinti nei medaglioni (Giustiniano, Napoleone, Gaetano Filangeri, Gian Domenico Romagnoli) un intervento di fine “ottocento”, quando buona parte del fabbricato fu affittato al Comune di Brescia, che lo destinò a sede della Corte d’Ap24 ARCHITETTURA&PAESAGGIO

1. L’imponente facciata seicentesca lasciata a rustico di via San Martino della Battaglia 2. Particolare delle volte affrescate 3. Il maestoso portico che sorregge la galleria

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pello: intervento che nascose completamente l’apparato decorativo originale. È ancora del Sorisene la decorazione delle volte, con aspetti figurativi decisamente in analogia con quelli della copertura della loggia, nelle due sale limitrofe verso sud, mentre la sala successiva, finestrata a est verso via S.Martino della Battaglia e a ovest su una balconata chiusa da un serramento ligneo, è di un deciso gusto neoclassico (pareti tappezzate e volta decorata a motivi floreali). Di scarso valore sono gli ultimi tre ambienti, ora di servizio, a parte due voltine su cannicciato che coprono parzialmente e curiosamente l’ultimo vano verso sud, con tracce cromatiche di decorazioni nascoste da tinteggiatura bianca. Le due salette del corpo interno verso la scala di servizio sono anch’esse voltate: la prima, accessibile anche dalla loggia, è sempre del Sorisene, mentre la seconda è stata completamente rifinita con stucchi a fin-


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to marmo in un freddo ma elegante stile “Impero”. Di gusto ottocentesco è la copertura con volta a botte del vano della scala di servizio del corpo di fabbrica interno. Può essere di un certo interesse una veloce disamina della storia del fabbricato per quanto riguarda l’evoluzione nel tempo delle proprietà, da cui dipendono le modifiche stilistiche e i cambi di destinazione d’uso. La costruzione originale, abitata nei primi decenni del 500 dalla famiglia Caprioli, fu da questa lasciata in eredità ai Martinengo nei primi anni del 1600. Sono i Martinengo, del ramo “Delle Palle”, che via via acquistano edifici e terreni circostanti il fabbricato per ampliarlo e dotarlo di servizi, in particolare verso il lato sud. La Famiglia di questo ramo dei Martinengo si estingue con Venceslao V° (1867-1890) e pertanto l’edificio viene ereditato dalle sorelle, e abitato dal nipote Marco fino al 1920, essendo già da tempo affittato al Comune tutto il piano

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4. L’elegante fontana nel cortile 5. Lo scalone monumentale a due rampe con la volta affrescata in modo da sembrare a cielo aperto

nobile, utilizzato quale sede della Corte d’Appello, come già detto. Alla morte del conte Marco il palazzo divenne, sempre per ragioni ereditarie, proprietà dei conti Caraggiani di Venezia, che lo vendettero all’ing. Mario Spada nel 1940. La destinazione a utilizzo giudiziario, sempre con canone di affitto a carico del Comune, fu invito per quest’ultimo all’acquisto diretto dall’ing. Spada, e ciò avvenne negli anni Ottanta del secolo scorso, per cui furono gli uffici comunali a curare, ad oggi, le indispensabili opere di manutenzione e qualche timido intervento di restauro sugli apparati decorativi. L’attuale destinazione a sede degli Ordini professionali degli Avvocati e degli Architetti, con ampi spazi per manifestazioni di carattere culturale, pare essere un buon esempio di recupero funzionale di un contenitore storico di pregio indubbio, e fa bene sperare sui futuri criteri e interventi di ragionata conservazione. (di Lucio Serino) ARCHITETTURA&PAESAGGIO 25


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Foto di Serena Cominelli

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ARCHITETTURA E TEATRO DANZA

In queste pagine: Immagini di alcuni spettacoli rappresentati nel centro storico di Brescia durante l’edizione 2012 de “La strada Festival”

sational des artistes de la Rue” (in collaborazione con l’università Sorbona di Parigi) e il paese spagnolo di Tarrega con “Fira Tarrega” solo per citarne alcuni, cercano di relazionarsi con il territorio promuovendone i plurisemantici spazi e instaurando un rapporto dialettico con essi. Nella città di Brescia esiste l’Associazione Culturale Danzarte che da sette anni consecutivi, con il sostegno di importanti realtà istituzionali quali il Ministero per i Beni e le attività Culturali, Regione Lombardia, Circuito Urbano Lombardo del Teatro e della Danza, nonché il Comune di Brescia, porta il suddetto approccio nell’organizzazione del festival “La strada”: in stretto rapporto con la città e i suoi abitanti, collaborando con artisti internazionali e facendo rete con diverse realtà affini a livello locale e nazionale, vive i luoghi pubblici e analizza i problemi del-

Foto di Serena Cominelli

Da sempre il mondo del teatro, inteso come luogo fisico di rappresentazione dello spettacolo “classico”, è caratterizzato dalla collaborazione tra coreografi e architetti nella progettazione sinergica delle scenografie. In tempi relativamente recenti si è potuto però assistere alla nascita di una nuova forma di arte performativa che crea un nuovo legame, forse più intenso, tra il mondo dell’architettura e la realtà delle cosiddette “arti sceniche”: il teatro danza urbano, che individua la città contemporanea come principale luogo idoneo alla sua azione. Il ruolo dell’architetto si trasforma quindi da “progettista di spazi effimeri” a guida nella lettura e appropriazione dei diversi luoghi della città viva, intesa non solo come scena e/o sfondo, bensì come fattore determinante nella creazione drammaturgia. La danza e il teatro urbano aggiungono nuovi punti di vista, nuove interpretazioni e significati all’interno degli spazi fisici “normalmente” conosciuti e vissuti nel quotidiano. Appare chiaro il papabile ruolo cardine delle due discipline (soprattutto se in sinergia) nell’individuazione/evidenziazione delle peculiarità e di eventuali problematicità dei luoghi delle città contemporanee. L’Europa pullula di festival che, promuovendo danza, teatro, performances e altre arti performative contemporanee urbane, individuano e mostrano al pubblico/abitanti alcuni siti dimenticati, insoliti e talvolta ingiustamente degradati della città, dando il via talvolta a veri e propri fenomeni di riqualificazione urbana: grandi realtà come la città di Bologna con il Festival di Danza Urbana (in collaborazione anche con l’Urban Center della città), Lisbona con “Lugar a dança”, Teramo con il festival “Interferenze” (in collaborazione con l’ordine degli architetti della città e relativa provincia), piuttosto che realtà amministrative più piccole come il paese francese di Chalon con il “Festival tran-

Foto di Wave Photogallery

DUE DISCIPLINE DIVERSE, CHE CONDIVIDONO PERÒ RELAZIONI TRA SPAZIO, CORPO E MOVIMENTO

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Foto di Wave Photogallery

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Foto di Wave Photogallery

l’urbanesimo e della comunità. Concentrandosi su zone “sensibili” della città (il festival nacque coinvolgendo il quartiere Carmine durante il suo ultimo periodo di degrado), esso intende creare o riportare relazioni nei luoghi ritenuti significativi, attraverso arti performative che sfruttano ed esaltano le caratteristiche morfologiche e sociali del luogo. Con la stessa dinamica, nasce sempre nella città di Brescia il progetto SPOT, i cui fautori sono Luisa Cuttini, Davide D'Antonio, Mario Gumina, Vittorio Pedrali e Claudio Simeoni: sostenuto da Fondazione ASM, Fondazione Comunità Bresciana e Comune di Brescia, si propone di dare alle compagnie, ai gruppi e ai singoli artisti bresciani, un’occasione di confronto, integrazione e visibilità attraverso un bando destinato alla selezione di due progetti da trasformare in performance dai plurimi contorni teatrali. Il tema riguarda i cambiamenti sociali e strutturali della città dovuti alla

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deindustrializzazione, all’espansione urbanistica e alle modifiche del tessuto sociale. La città nella sua visione più ampia è qui intesa come spazio scenico e come corpo sociale nel quale accadono fatti importanti da cui il teatro può ricevere stimoli e dare a sua volta contributi. Il carattere fortemente urbano del bando ha portato a una composizione multidisciplinare della commissione di valutazione dei progetti: ne faranno parte persone provenienti da varie realtà tra cui l’architettura. Gli studi sulla città contemporanea, la loro natura molteplice, starebbero portando quindi al desiderio di “fare rete”, ossia lavoro in sinergia tra diverse discipline che trattano il medesimo tema. Tutti i suddetti principi e approcci sembrerebbero riallacciarsi alle tematiche affrontate nella cosiddetta rigenerazione urbana: “… La rigenerazione urbana sostenibile rappresenta l’occasione per risolvere problemi come l’assenza di identità di un quartiere, la totale mancanza di spazi pubblici… La riqualificazione degli spazi pubblici, incidendo sulla qualità della vita degli abitanti e sul loro senso di appartenenza ai luoghi può, infatti, costituire un fattore decisivo nella disparità fra quartieri ricchi e poveri, contribuendo a una maggiore coesione sociale… gli interventi si devono porre l’obiettivo della riqualificazione delle infrastrutture urbanizzative e il trattamento delle tematiche sociali, economiche e ambientali…” (Estratto da Il piano nazionale per la rigenerazione urbana sostenibile, redatto dall’Ordine Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori). Essa potrebbe quindi rappresentare un nuovo punto d’incontro, un importante obiettivo tra “noi” e “loro”. (di Serena Cominelli)




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UNA CITTADELLA SPERIMENTALE A BOLOGNA IL NUOVO POLO MULTIFUNZIONALE REALIZZATO DALLO STUDIO LABICS Mast è una Fondazione non profit nata a Bologna nel 2013 per promuovere progetti di innovazione sociale e offrire servizi di welfare aziendale che possono assumere connotazioni di complementarietà a disposizione della comunità e del territorio attraverso un processo di osmosi tra l’impresa e la città. La sede del MAST è una nuova cittadella che nasce da un intervento di trasformazione di un’area industriale dismessa, in un complesso di spazi progettati, per stimolare nuove relazioni attraverso un percorso in cui i vari servizi vengano fruiti con dinamicità, e sperimentazione. Il Mast - Manifattura di Arte, Sperimentazione e Tecnologia, è stato fortemente voluto da Isabella Seragnoli e costruito con un duplice obiettivo: da una parte quello di riqualificare e realizzare servizi aziendali rivolti ai collaboratori del Gruppo Coesia e dall’altra quello di offrire un’opportunità di fruizione alla città di Bologna. Coesia è un gruppo di aziende di soluzioni industriali, leader nei settori delle macchine automatiche, delle soluzioni di processo industriale e di ingranaggi di preSopra e sotto: esterni del complesso fortemente voluto da Isabella Seragnoli. A sinistra: una delle sale d’attesa. Con i suoi 25mila metri quadri, il Mast è nato con la finalità di sviluppo della creatività e dell'imprenditorialità tra le giovani generazioni

cisione, basato sull'innovazione, e il cui azionista unico è, appunto, Isabella Seragnoli. L’articolato programma di concorso per la realizzazione del Mast, che prevedeva la progettazione di più aree destinate a ospitare attività quali il ristorante aziendale, l’academy, il nido, la palestra, l’auditorium, lo spazio espositivo, la caffetteria, il parcheggio interrato, è stato interpretato accorpando in un unico complesso le differenti funzioni in modo da dare maggior forza e identità all’intervento e interpretare al meglio il ruolo di interfaccia pubblico/privato rappresentato dalla costruzione stessa. Il risultato finale è quello di un edificio complesso sia sotto il profilo morfologico che programmatico, una sorta di microcittà dedicata alle arti, all'innovazione e alla tecnologia, unitaria nell'immagine


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esterna ma articolata nei percorsi e nelle funzioni. Il concorso è stato vinto, nel 2005, da Claudia Clemente e Francesco Isidori, alla guida dello studio Labics di Roma. L’immagine complessiva di MAST è quella di un complesso leggero, traslucido e mutevole. Il rivestimento in pannelli di vetro serigrafato, che corre lungo tutta la struttura, passando anche davanti alle pareti opache, associato alle lamelle di alluminio, restituisce un’immagine uniforme e al tempo stesso mutevole. In risposta alle diverse e complesse istanze funzionali l’edificio è stato concepito come un organismo strutturato a partire dai flussi delle persone e dalle possibili relazioni dinamiche tra le diverse attività ospitate. I numerosi servizi sono stati infatti organizzati in base a logiche di svolgimento e di

Sopra: l’auditorium che può ospitare 400 persone. Sotto: una foto del nido per l’infanzia. A destra: pianta del piano terra

collegamento capaci di innescare nuove relazioni funzionali e inaspettati modi d’uso dello spazio. Un percorso continuo che attraversa l’intero fabbricato collega tra loro tutte le attività e queste con la città. Attraverso le grandi rampe che si estendono dal cuore della costruzione fino a ridosso dell’ingresso principale è possibile raggiungere lo spazio espositivo al primo piano e da questo, sempre tramite un piano inclinato, il foyer e l’auditorium, uno dei centri nevralgici del complesso. Da qui, attraversando lo spazio verticale a tutta altezza, è possibile raggiungere, in modo continuo, la caffetteria e il ristorante aziendale. Il risultato dell’insieme dei percorsi è una sorta di meccanismo in cui ogni spazio fluisce nell’altro all’interno di un sistema continuo; una struttura unitaria di cui il visitatore/fruitore si sente parte in ogni momento e in ogni luogo. (di Alberto Aitini) 32 ARCHITETTURA&PAESAGGIO


Caspar David Friedrich, Donna alla finestra

“LA FINESTRA È IL FOCUS, L’ANIMA DELL’EDIFICIO, IL SUO SGUARDO ALL’INTERNO” (James Hillman) Tre donne alle finestre hanno dedicato il loro lavoro. Ultima di tre generazioni di falegnami, le sorelle Borghesi hanno proseguito l’impresa di famiglia fondata cent’anni fa dal nonno Ettore, apprezzato artigiano del legno, proseguita poi dal padre Teobaldo. Le tre sorelle Borghesi, Giuliana, Francesca e Angela, ciascuna con attitudini e sensibilità proprie, seguono i diversi settori dell’azienda con curiosità, attenzione e spirito imprenditoriale. Qualità, affabilità, senso estetico, efficienza, disponibilità e flessibilità sono i principi che le hanno sempre orientate. Con sede in Franciacorta, in località Noccole di Provaglio d’Iseo, la falegnameria Borghesi Teobaldo si è nel tempo specializzata nella fornitura e messa in opera di infissi in legno interni e esterni, in uno scambio continuo e proficuo con architetti e imprese, sia nella cantieristica che nell’edilizia residenziale più innovativa per una casa a misura d’uomo e d’ambiente.

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LETTI SOSTENIBILI D’EMERGENZA IL LEAFBED È UNA SOLUZIONE A KM 0 PER LE POPOLAZIONI COLPITE DA UNA CALAMITÀ NATURALE Tra il 2001 e il 2010, 384 catastrofi naturali hanno causato un milione di morti e colpito circa 1/3 della popolazione mondiale. Nel 2011 il settore umanitario ha mobilitato 17,1 miliardi di dollari a livello mondiale, di cui 12,5 provenienti dai governi dei paesi donatori. I materiali di emergenza sono prodotti nei paesi sviluppati e poi importati invece di produrli localmente. Il gruppo Leaf Supply ha provato a ribaltare la situazione studiando il Leafbed. Un prodotto realizzato in cartone corrugato (assolutamente eco-friendly perché biodegradabile e riciclabile) e si compone di quattro moduli identici collegati tra loro. Può essere usato come un letto, tavolino, sgabello (quattro moduli per un letto da adulto, tre moduli per un letto da bambino, due moduli per un piccolo tavolo, un modulo per uno sgabello). Grazie alla sua versatilità è dedicato a tutte le situazioni che si trovano ad affrontare gli operatori umanitari. È una sistemazione temporanea che consente la creazione di posti letto per gli sfollati, i rifugiati, per chi, insomma, ha perso tutto. I moduli sopportano fino a 300 chilogrammi di peso e resistono in ambienti con umidità pari al 75% e con temperature di anche 30 gradi. Il materiale, inoltre, è reperibile ovunque, e il Leafbed può essere quindi prodotto in prossimità delle zone interessate da una catastrofe, minimizzando così i tempi di realizzo e permettendo di produrre una grande quantità di letti in poco tempo (nonché limitando la produzione di carbonio dovuta al trasporto del materiale). L’idea è nata a Parigi nel 2009, con il nome Leaf Supply, grazie a Julien Sylvain e NOCC (Juan Pablo Naranjo e Jean-Christophe Orthlieb), uno studio di design con sede nella capitale francese, e ha avuto successo grazie alla collaborazione con i principali produttori di cartone, Smurfit, Kappa Group e Rossmann. Leaf Supply è disponibile in tutti i paesi d’Europa, America Latina e Africa occidentale (35 paesi e 380 impianti). Del gruppo fa parte, dal 2010, anche Rolando Tomasini, un esperto in logistica degli aiuti umanitari che per otto

anni è stato Research Group Leader presso l'INSEAD Social Innovation Center, dove ha ottenuto diversi riconoscimenti per le sue capacità e le sue pubblicazioni. Leafbed è stato testato prima in laboratorio e poi sul campo da diverse organizzazioni come, per esempio, la Croce Rossa francese: nel 2011 è stato possibile installare per più di quattro mesi ben trecento letti in varie località in via di sviluppo in Niger. I test svolti sul campo hanno dimostrato l’estrema facilità con cui le popolazioni locali imparano a montare e gestire Leafbed, caratteristica fondamentale nei momenti di emergenza. (di Cristiana Zappoli) Sotto: quattro moduli Leafbed utilizzati per costruire un letto da adulti. Realizzato in cartone è stato pensato come sistemazione temporanea, utile per calamità naturali o guerre. A destra: un kit da montare. Sopra: bambini nigeriani seduti sul letto di cartone



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A destra: Decking in listoni di teak burma, prima scelta, oliati neutri. Sotto: spina ungherese, essenza wengè con creazione profili speciali in massello. In basso: plancia rovere slavonia 3 strati spazzolata a mano

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IL VALORE DEL LEGNO SIMBOLO DELLA PERFEZIONE Brescia Parquet mette in campo tutta la sua esperienza e professionalità acquisita da due generazioni di parquettisti che da quarant’anni realizzano splendide creazioni in legno. Dopo tutti questi anni di esperienza acquisita sul campo i nostri tecnici del legno sono in grado di offrire una risposta a qualsiasi desiderio, che si tratti di un pavimento prefinito o di una composizione tradizionale dalle più svariate geometrie. Brescia Parquet propone ai propri clienti solo materiali certificati f.s.c. che garantiscono un regolare sfruttamento delle risorse del pianeta. I materiali vengono poi posati con collanti ecologici, esenti quindi da formaldeide per la vostra e la nostra salute. Inoltre dal 2010 Brescia Parquet ha aderito al programma di energia pulita consumando elettricità proveniente dall’eolico e dal solare. Particolare attenzione viene dedicata alla figura dell’architetto che è sempre alla continua ricerca di nuovi materiali, di finiture particolari e di prodotti che riescano ad esprimere al meglio la fantasia nel dare anima e unicità ai progetti. Brescia Parquet è in grado di soddisfare ogni esigenza, anche quelle più difficili e particolari, in quanto, oltre alle classiche colorazioni, produciamo finiture personalizzate per ogni esigenza. Offriamo un servizio completo, dal solo acquisto del materiale alla posa in opera dello stesso, fino alla gestione di tutte le fasi pre e post messa in opera del materiale, come rilievi in cantiere, misurazione umidità residue di massetti,

consolidamento e messa in condizione ottimale di posa per caldane problematiche. Tutto per rendere il lavoro del progettista più snello possibile. Da tre anni l’azienda si è anche impegnata nel settore delle scale raggiungendo degli ottimi risultati e, soprattutto, ricevendo un alto indice di gradimento da parte della proopria clientela. Brescia Parquet realizza scale di ogni forma e dimensione senza utilizzare moduli standardizzati. Ogni scala è progettata e costruita su misura utilizzando non solo legno ma anche acciaio, vetro plexiglass e qualsiasi materiale il cliente voglia inserire nel suo progetto. Fino a questo momento tanto è stato fatto per raggiungere questi risultati, ma l’obiettivo resta solo uno: migliorare sempre.


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TRADIZIONE E INNOVAZIONE PER PRODOTTI E AMBIENTI PERSONALIZZATI Sulle sponde del lago d'Iseo, a Pilzone, si trova la sede della Falegnameria Pezzotti: un’azienda che da 90 anni (e 5 generazioni) lavora il legno con professionalità e passione. «La nostra produzione di punta - spiega Giancarlo Pezzotti, titolare dell’azienda - è costituita da serramenti in legno e in legno alluminio e dai mobili su misura. Realizziamo spesso prodotti particolari, richiesti da architetti “estrosi”, che sul mercato non si trovano e soprattutto che la grande distribuzione non riesce a realizzare perché richiesti in quantità troppo piccole». La Falegnameria Pezzotti mette a disposizione degli studi di architettura la propria esperienza e la professionalità del proprio team per trovare soluzioni personalizzate al massimo, dove l’estetica, la praticità e la durata sono le caratteristiche principali. «Pensiamo - prosegue Giancarlo Pezzotti - che collaborare con i professionisti del settore sia fondamentale per il buon risultato finale. Vogliamo dare al cliente un prodotto che noi stessi vorremmo in casa nostra. In-

staurare con lui un rapporto di fiducia e di rispetto reciproco per tutta la durata del lavoro, anche nel post vendita, momento importantissimo». L’assistenza nel post vendita è, infatti, uno dei punti di forza della Falegnameria Pezzotti: la parola d’ordine è “risolvere”. «Intervenire tempestivamente con la massima professionalità - specifica Pezzotti - e risolvere un problema, di qualunque tipo, indipendentemente da come e perché è nato quel problema». La falegnameria di Pilzone d’Iseo è un’azienda dalle antiche tradizioni ma con uno sguardo attento al presente ed al futuro, perché, per ottenere il massimo, tradizione e innovazione devono essere l’una legata all’altra. «Lavoriamo con materiali di prima scelta - spiega ancora Pezzotti - selezionati insieme ai nostri fornitori, per poter offrire la massima qualità sia in termini di durata che di estetica, e con macchine tecnologicamente all’avanguardia. Siamo sempre pronti a conoscere e provare prodotti innovativi».

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ARCHITETTURA

FAT - Future Architecture Thinking

Trahan Architects

Christian de Portzamparc

OMA



QUI L’ARTE È DI CASA Casa das Artes / FAT - Future Architecture Thinking MIRANDA DO CORVO (PORTOGALLO). Nel popoloso centro portoghese, abitato da circa 13 mila anime, circondato da montagne e non lontano dalle coste sull’oceano atlantico, è stato recentemente inaugurato un nuovo auditorium con sala espositiva: la Casa das Artes. È un’architettura contemporanea, dal linguaggio compositivo attuale e nuovo, che riesce a esprimere entrambe le identità della città: l’essenzialità rurale che iconograficamente è associata al tetto a falde, qui rappresentato dai piani inclinati adottati come copertura, e l’espressività urbana ben espressa dalla complessità volumetrica. Più che un edificio, la Casa das Artes è un’architettura iconica. Un luogo di incontro, dove è possibile trovare arte e cultura. Un ambito creativo capace di sostenere e promuovere l’istruzione e le espressioni artistiche. Un nuovo ritrovo cittadino progettato dallo studio FAT - Future Architecture Thinking per migliorare qualitativamente la vita dei cittadini di Miranda do Corvo. Il pensiero architettonico che ha sotteso la progettazione di tale struttura è stato quella della ver-

satilità, intesa come interpretazioine di uno spazio fisico finalizzato alla messa in scena di diverse tipologie di eventi. È un’architettura tutt’altro che statica e il dinamismo che gli è proprio è enfatizzato dall’acceso colore rosso pompeiano, che fa risaltare la struttura nella sua interezza rispetto alla vegetazione circostante, nonché rispetto a un linguaggio urbano circostante, deficitario di una forte identità. La costruzione è composta da due volumi che sembrano tre e che riflettono le diverse funzioni presenti: il primo contiene il palcoscenico e le aree ad esso afferenti, mentre l’auditorium e il foyer sono impostati in modo tale da sembrare un secondo volume indipendente pur facendo parte del primo; il terzo, a sé stante ma non indipendente, ospita la caffetteria e lo spazio che in futuro diventerà la galleria. L’idea di spazio pubblico è ben caratterizzata dai diversi accessi che permettono al pubblico di entrare direttamente in ambienti specifici, come ad esempio nella caffetteria o nell’attigua area museale senza necessariamente attraversare l’auditorium.

Sotto: il lucernaio visto dall’esterno, collocato tra i piani inclinati della copertura. Da qui la luce giunge all’interno dell’atrio. A sinistra: l’interno dell’atrio, anch’esso di colore rosso come l’esterno


Sopra e sotto: l’esterno dell’edificio, visto da due differenti angolazioni. Casa das Artes è un luogo d’incontro, dove trovare arte e cultura. La sua è un’architettura iconica, dal linguaggio attuale, espressione dell’aspetto rurale e urbano di Miranda do Corvo



PIANTA LIVELLO “0”

PIANTA LIVELLO 1

SEZIONE TRASVERSALE

CREDITI Cliente Municipalità di Miranda do Corvo Luogo Miranda do Corvo, Portogallo Superficie 2.360 mq Architetti FAT - Future Architecture Thinking Ditta esecutrice TECNORÉM – Engenharia e Construções, S.A. Cronologia 2010 / 2013

SEZIONE LONGITUDINALE

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L’ingresso principale è quello che conduce direttamente al foyer: uno spazio diviso da una breve rampa di scale e che in un prossimo futuro funzionerà anche da area espositiva. È da qui che partono i due percorsi d’accesso all’auditorium, al cui interno sono previsti, oltre ai 300 spettatori, una buca motorizzata per l’orchestra con ben sei livelli tecnici appositamente attrezzati per garantire performance teatrali tra loro diverse: opere, concerti, conferenze, letture. L’illuminazione naturale è affidata a un lucernario che, orientato a ovest, conduce la calda luce del tramonto all’interno degli ambienti destinati al pubblico. Sul prospetto dell’area museale rivolto a nord vi è invece il portale d’accesso in asse con la zona del giardino dove è stato costruito l’anfiteatro, così che durante gli eventi estivi ci sia comunque un collegamento diretto con gli spazi di servizio. La struttura portante è stata completamente realizzata in cemento armato e a questa sono ancorati alcuni elementi prefabbricati a struttura alveolata. La muratura esterna, realizzata con doppie file di mattoni da 20 cm poste a una distanza di 5 cm l’una dall’altra, assicura, grazie alla lama d’aria così inglobata, un adeguato isolamento termico. Il palcoscenico ha invece pareti che sono state realizzate con blocchi di calcestruzzo

Sopra: vista dall’alto è ancora più evidente quanto l’acceso colore rosso pompeiano faccia risaltare la struttura nella sua interezza, rispetto sia alla vegetazione circostante sia agli edifici presenti nella zona

PROSPETTO NORD

PROSPETTO SUD

PROSPETTO EST

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Il nero è il colore a cui è stato affidato il compito di caratterizzare gli ambienti destinati al pubblico: la platea infatti è cromaticamente gestita con una variazione di tonalità che va dal grigio al nero. Ma non mancano ovviamente gli elementi in rosso


Sopra: l’ambiente di passaggio tra il foyer e la caffetteria. Il setto nero con le scritte rosse è un legame cromatico tra i due diversi ambienti. Per giungere dalla platea alla caffetteria si può passare anche dal foyer (foto in basso). Caratterizzato dal colore bianco questo spazio verrà usato come sala espositiva

scanalato. La copertura, realizzata con più piani inclinati non accessibili, è stata resa impermeabile e per risolvere la problematica dei ponti termici dovuti al cemento armato è stato inserito un sottotetto piano realizzato con pannelli termici. La scelta cromatica all’interno cambia mantenendo alcuni ambienti intonacati di rosso e quelli intonacati di bianco sono anche contrassegnati da altri elementi in nero. Quest’ultimo colore ha la funzione di caratterizzare i locali destinati al pubblico: i bagni e gli spogliatoi hanno, infatti, il solaio superiore rivestito di ceramica nera, così anche la sala. Il palcoscenico dell’auditorium ha una pavimentazione in parquet realizzata con doghe di pino e pareti e solai rivestiti di pannelli acustici scanalati e riflettori, tutti realizzati in conglomerato di antracite e legno. Tutti gli altri ambienti, esclusa la sala dell’auditorium che ha una moquette grigia, hanno un pavimento bianco. All’esterno il resto del lotto è stato inserito nel progetto con la creazione di un anfiteatro e così il giardino, pensato come spazio pubblico, è a disposizione della comunità. (di Iole Costanzo) ARCHITETTURA&PAESAGGIO 51



PASSATO E FUTURO DELLO SPORT

LOUISIANA STATE MUSEUM AND SPORTS HALL OF FAME /Trahan Architects



NATCHITOCHES (LOUISIANA). L’amministrazione di Natchitoches per la realizzazione di questo museo della storia dello sport, tra i vari aspetti, si è lasciata guidare principalmente da un’esigenza sociale. È stato concepito, infatti, come punto di riferimento sorto al centro di una delle zone più povere dell’America, dove proprio lo sport è visto come una chance importante per i giovani e come momento costruttivo di socialità. Un tentativo, questo museo, di avvicinare i cittadini ad altre esperienze culturali tramite una passione condivisa, oltre a essere uno dei primi progetti decisi a seguito della devastazione del territorio a causa dell’uragano Katrina. Quest’architettura dalle evidenti forme contemporanee irrompe nel contesto esistente caratterizzato da un vecchio insediamento tipico della Louisiana francese risalente al 1714 e composto di un centro storico dalle costruzioni ancora in mattoni e stucco in perfetto stile europeo. Il regolare volume esterno dell’edificio a forma di parallelepipedo cela, in realtà, un interno dalle forme plastiche e irregolari. La particolarità delle facciate esterne è data da un rivestimento aggettante con lamelle in rame che rimandano alle terrazze e ai balconi in legno delle case tradizionali locali. La presenza di questo rivestimento consente di ottenere requisiti di risparmio energetico tali da garantire un adeguato controllo dell'ingresso della luce naturale e buoni livelli di ventilazione e ricambi di aria. Sulle altre tre facciate del museo

A sinistra: il dettaglio dell’ingresso al museo, una porta completamente vetrata e trasparente che conduce agli spazi interni. Sopra: vista del contrasto fra la geometria regolare dell’involucro esterno a forma di parallelepipedo rivestito di lamelle di rame e la fluidità degli interni percepibili già dall’ingresso

la costruzione è protetta da uno schermo metallico sotto il quale si celano le aperture che illuminano gli interni. Le sottili lamelle di quest’involucro proiettano piacevoli giochi di luci e ombre sulle facciate chiare esterne, giochi che vengono modellati dall’andamento plastico delle pareti che rimanda agli spazi interni. Varcate queste superfici verticali che fungono da schermi e filtri, infatti, si accede al volume interno dell’edificio caratterizzato da spazi fluidi e dinamici, un diretto riferimento allo sport di cui l’edificio è il contenitore, ma anche un chiaro rimando alla forza modellatrice dell’acqua che segna il territorio della Louisiana. All’interno del museo è possibile ricostruire un legame fra i due mondi solo apparentemente distanti, quello del contesto storico/culturale e quello sportivo. La configurazione stessa degli spazi, infatti, è stata pensata proprio per far interagire, ma allo stesso tempo distinguere in maniera evidente, le due diverse sale espositive. I volumi plastici interni sono interamente rivestiti da 1.100 pannelli di pietra bianca in grado di regalare un effetto di continuità che non rende subito distinguibili le superfici curve dei soffitti, da quelle che diventano pareti laterali o da quelle dei pavimenti. Ogni lastra di rivestimento è un

INQUADRAMENTO TERRITORIALE

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PLANIMETRIA PRIMO PIANO CON LE FUNZIONI

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PLANIMETRIA SECONDO PIANO CON LE FUNZIONI 1. cortile; 2. foyer; 3. galleria; 4. aula; 5. veranda; 6. uffici amministrativi

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Foto degli spazi fluidi e dei percorsi plastici dell’interno del museo. Il rivestimento in lastre di pietra chiara avvolge i volumi irregolari che definiscono i vari spazi. I tagli di luce naturale visibili sono resi possibili grazie a un sistema integrato d’illuminazione che convoglia la luce naturale dall’alto dell’edificio direttamente al suo interno

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PLANIMETRIA PRIMO PIANO

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PLANIMETRIA SECONDO PIANO 1. cortile; 2. foyer; 3. galleria; 4. aula; 5. veranda; 6. uffici amministrativi

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I diagrammi sopra indicati rappresentano le diverse fasi del processo di creazione e ideazione del museo. La forma regolare dell’involucro esterno è sagomata e modellata internamente da una forza naturale che rimanda a quella dell’acqua che leviga le superfici, facendole diventare forme plastiche e naturali. Il paesaggio sembra permeare dell’acqua

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La forma attuale del progetto è stata il frutto di un intenso studio e ricerca che ha avuto origine dalla morfologia del territorio e dall’importanza di alcuni elementi naturali che hanno segnato la storia della Louisiana. Il Cane River Lake, infatti, è stato uno degli elementi che progettualmente ha modellato la forma del

museo attraverso un processo di separazione e composizione di volumi plastici fino all’elaborazione da parte di un modello digitale creato ad hoc e in grado di restituire le esatte dimensioni di ogni pannello in grado di ricoprire l’intera superficie volumetrica. Un corpo regolare a forma di parallelepipedo è così il contenitore

di un museo composto da molteplici percorsi interni e forme fluide. Le lamelle di rame dell’involucro esterno, invece, sono un chiaro riferimento ai sistemi costruttivi delle case tradizionali dello Stato della Louisiana, che avevano anch’esse lamelle di legno riportate nelle facciate più esposte alla luce del sole.

SEZIONE LONGITUDINALE

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SPACCATO DI UN RENDER DEL PROGETTO

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1. foyer; 2. galleria; 3. veranda; 4. foyer; 5. aula; 6. galleria; 6. uffici amministrativi ARCHITETTURA&PAESAGGIO 59


elemento unico e differente dagli altri. Le dimensioni e le forme di questi moduli scaturiscono da un’elaborazione da parte di un modello digitale creato ad hoc e in grado di restituire le esatte dimensioni di ogni pannello per comporre l’intera superficie. Questo rivestimento è supportato da una struttura reticolare in acciaio che, a sua volta, è sostenuta da lastre poggiate ai vari solai dei diversi livelli. Le curve flessibili che caratterizzano l’ambiente interno disegnano nello spazio geometrie progettuali che diventano anche le guide ai percorsi espositivi. Il visitatore viene, quindi, convogliato all’interno di questi canali fluidi che conducono a un primo grande atrio e a una scala monumentale di collegamento tra i vari livelli. Nel foyer d’ingresso le pannellature di pietra si alternano a un sistema integrato d’illuminazione che convoglia la luce naturale dall’alto dell’edificio direttamente al suo interno. Lo spazio fluisce fisicamente e visivamente in continuità tra le due parti, cercando di connettere zone espositive, spazi per lezioni e convegni, oltre a spazi tecnici e per i servizi. Nascosto all’interno del reticolo strutturale di supporto al rivestimento interno, corre tutta la rete impiantistica delle informazioni dei contenuti del museo, studiato appositamente per ospitare, a filo delle pareti, gli ampi schermi utilizzati per le proiezioni video delle tematiche rappresentate. Raggiunto l’ultimo livello si arriva a un percorso che conduce a una veranda con vista direttamente sulla piazza della città, uno spazio ricreativo protetto dalle stesse lamelle in rame del rivestimento esterno in facciata. (di Federica Calò) 60 ARCHITETTURA&PAESAGGIO

CREDITI Progetto Louisiana State Museum and Sports Hall of Fame Progettisti Trahan Architects Luogo Natchitoches, Louisiana Cliente State of Louisiana, Office of Facility, Planning & Control Struttura LBYD Superficie 2.601 mq

Sopra e sotto: le geometrie dell’interno si presentano strutturalmente complesse e danno l’idea di un’architettura continua, un unicum senza soluzione di continuità. Il foyer si presenta fluido, idealmente scolpito: una grotta rivestita da 1.100 pannelli di pietra bianca illuminati da luce naturale


MARIO BOTTA

Domanda. Scopriamo Mario Botta. Cosa l'ha spinta a fare l'architetto? Risposta. Sono giunto all’architettura dopo che, nel periodo adolescenziale, avevo coltivato alcune espressioni “formali”: la fotografia, la pittura, altre attività attinenti all’immagine. Poi la vita mi ha portato a seguire i corsi e la pratica di “disegnatore edile” grazie ai quali sono approdato al mondo dell’architettura. A partire da quest’esperienza tutto è divenuto più facile poiché il mio mestiere è coinciso anche con la mia passione. D. Quale metodo di lavoro viene applicato nella gestione del suo studio? R. Quello di lavorare, lavorare, lavorare. È attraverso la sperimentazione continua che è possibile scoprire, anche nelle pieghe più nascoste, i valori espressivi e poetici di questo lavoro. È quello che cerco di fare con i miei collaboratori ogni giorno. D. Lei è fondatore e direttore dell'Accademia di Architettura dell'Università di Mendrisio in cui svolge anche attività accademica. Quali consigli sente di poter dare oggi a uno studente d’architettura? R. Pochi consigli, piuttosto il suggeri-

mento di utilizzare al meglio questo periodo di formazione (cinque o sei anni della vita che non ritorneranno mai più). Inoltre il suggerimento di interpretare i bisogni e le contraddizioni del nostro tempo come opportunità espressive. D. Invece quali sono i principi che guidano la sua progettazione? R. La lettura critica del contesto è il primo atto progettuale. In ogni fase del lavoro cerco di richiamare continuamente a me stesso come il territorio sia parte dell’opera stessa. D. Lei è anche vice presidente del BSI Swiss Architectural Award. Cosa determina la scelta dei progetti premiati? R. La qualità dell’architettura rispetto ai problemi della sostenibilità e della cultura del nostro tempo. D. Lei ha progettato sia chiese che musei. E ha anche affermato che i musei d’arte contemporanea oggi sostituiscono le cattedrali in quanto spazi ricchi di valori spirituali. Sono però luoghi che stanno cambiando. Cosa varia durante la fase progettuale?

Pensieri evolutivi

MARIO BOTTA

Architetto di fama mondiale, Mario Botta nasce nel 1943 in Svizzera, a Mendrisio, e studia architettura a Venezia. Nel 1965 collabora con Le Corbusier e l’anno successivo affianca al lavoro di progettazione un'intensa attività d'insegnamento e di ricerca. Nel 1976 è nominato professore presso il Politecnico di Losanna, nel 1987 presso la Yale School of Architecture a New Haven; dal 1982 al 1987 è membro della Commissione Federale Svizzera delle Belle Arti; dal 1983 è professore titolare della Scuola Politecnica Federale di Losanna. Tra i numerosi riconoscimenti internazionali: il Premio Europeo per la Cultura nel 1995; il Merit Award for Excellence in Design by the AIA nel 1996; la Legione d'Onore della Repubblica Francese nel 1999. Fotografia in basso Beat Pfändler


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1. MART, museo d’arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, Italia (1988/92-2002). Fotografia Pino Musi 2. Chiesa di San Giovanni Battista a Mogno, Svizzera (1986-1996/98). Fotografia Enrico Cano 3. Area ex-Appiani, Treviso, Italia (1994-2012). Fotografia Enrico Cano

R. Il tema del museo dev’essere continuamente rivisto in funzione del programma di contenuti e del contesto del territorio che inevitabilmente va a modificare. Non vi è un’unica risposta alla sua domanda ma, di volta in volta, si tratta di dare immagine e visibilità a questo particolare “contenitore”. D. Nelle sue architetture che valore ha la luce, sia essa naturale o artificiale? R. Sempre, in tutte le architetture, la luce è la vera generatrice dello spazio. Con particolare riferimento ovviamente alla luce naturale poiché la luce notturna ha altre regole “funzionali”, più relazionate all’utente che non agli spazi. Al contrario la luce diurna - e in particolare quella zenitale - attraverso i materiali e la geometria della composizione, determina la qualità degli spazi, gli equilibri dei percorsi, l’armonia dell’insieme.

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D. Le forme primarie da lei adottate e il genius loci come si legano nelle sue progettazioni? R. Le forme primarie rispondono alla scala del territorio come manufatti di geometria, segni della razionalità dell’intervento dell’uomo. Il contesto, che lei chiama genius loci, (cioè il carattere geografico ma, in particolare, di storia e memoria del territorio) diviene, almeno nelle intenzioni, parte integrante del manufatto architettonico. D. Cosa guida nelle sue opere la scelta dei materiali? R. La luce. In quanto entità immateriale, è attraverso la geometria e la materia del manufatto che assume evidenza. D. Come sono nati quei tratti identitari che nelle sue architetture sono diventati linguaggio? R. Il linguaggio architettonico, come ogni forma

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espressiva, porta con sé un percorso autobiografico, molto spesso sconosciuto all’autore stesso. È all’interno di questo linguaggio che mi sembra ogni volta di poter approfondire le forme e le immagini chiamate a dare significato alle tecniche e alle funzioni. D. La progettazione dello spazio cambia nel tempo? Si evolve adattandosi ad un linguaggio in uso o risponde sempre alle stesse leggi? R. La progettazione dello spazio risponde sempre in maniera del tutto diversa alle richieste specifiche di ogni progetto ma, talvolta, attraverso delle costanti che tracciano il percorso progettuale. A volte ho l’impressione che attraverso alcuni segni archetipici mi sia possibile rispondere appropriatamente alle differenti esigenze. Il segno rimane comunque inconfondibile al di là di ogni intenzione.

D. Che rapporto si crea, nel momento della costruzione, tra l’architettura e il paesaggio naturale e urbano? R. Come ho già avuto modo di comunicare, credo che tra architettura e paesaggio esista un rapporto di dareavere reciproco: l’architettura ha bisogno di un luogo, che è sempre un unicum sulla superficie della crosta terrestre e, reciprocamente, il territorio necessita di un segno di artificio per trasformarsi in paesaggio umano. Il paesaggio urbano resta comunque la realtà preferita di confronto e di scontro per gli architetti. D. Immaginare l’architettura e la comunicazione dell’idea stessa. Cosa ne pensa Mario Botta della rappresentazione renderizzata? R. Penso male, poiché esaspera la realizzazione compiuta, togliendo la speranza propria, invece, insita nello schizzo provvisorio. 4. Cappella Granato, Zillertal, Austria (2011-2013). Fotografia Enrico Cano 5. Cappella di Santa Maria degli Angeli, Monte Tamaro, Svizzera (1990-1996). Fotografia Enrico Cano 6. Museo Bechtler, Charlotte, Carolina del Nord, USA (2000/2005-2009). Fotografia Joel Lassiter 7. Hotel Twelve at Hengshan, Shanghai, Cina (2006-2012). Fotografia Benoit Florençon

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CARLO RATTI Architetto e ingegnere, è direttore del MIT SENSEable City Lab di Boston. Detiene numerosi brevetti e ha partecipato a oltre 250 diverse pubblicazioni. Il suo lavoro è stato esposto alla Biennale di Venezia, al Design Museum di Barcellona, al Science Museum di Londra, al GAFTA di San Francisco e al Museum of Modern Art di New York. È stato incluso nella selezione di Thames&Hudson per 60 innovatori negli ultimi 60 anni. Fast Company lo ha inserito nella lista dei “50 Most Influential Designers in America”. Il progetto per il Digital Water Pavilion è stato nominato da Time Magazine una delle migliori invenzioni dell’anno 2008. Nel 2011è stato selezionato con il suo studio per il “Premio Fondazione Renzo Piano” come uno dei tre migliori giovani architetti italiani. È membro del World Economic Forum Global Agenda Council for Urban Management. Nel 2007 il Ministro della Cultura Italiano lo ha nominato membro dell’Italian Design Council.

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Domanda. Lei insegna al Mit di Boston, e lì dirige anche il Senseable City Lab. Quali sono i temi affrontati in questo laboratorio? Risposta. Il nostro obiettivo al Senseable City Laboratory è cercare di comprendere come la tecnologia stia cambiando il nostro modo di capire la città, di progettarla e in ultima analisi di viverla. Più in generale le strutture con cui operiamo sono le seguenti: ➔ Senseable City Lab - laboratorio di ricerca presso il MIT di Boston (dove io insegno), con basi a Boston e Singapore. Qui sviluppiamo ricerca e 'vision' generale... http://senseable.mit.edu ➔ Carlo Ratti Associati - ufficio di design e architettura con base a Torino, Londra e Boston. Qui sviluppiamo tutti i progetti da costruire: da un elemento di arredo a una città... http://www.carloratti.com ➔ Startups - diversi nostri progetti diventano startup con società costituite ad hoc. Abbiamo appena ricevuto alcuni fondi di venture capital per la Copenhagen Wheel. In generale si tratta di questo: le città, coperte di sensori e di reti elettroniche, si stanno trasformando in computer all’aria aperta. Si può dire che internet stia invadendo lo spazio fisico, un fenomeno che spesso passa sotto il nome “smart city”. Questa evoluzione ha investito anche altre realtà e oggi siamo all’esordio di una dimensione ibrida, tra mondo digitale e mondo materiale, che sta trasformando il nostro modo di vivere. Prendiamo, per esempio, le gare di Formula 1: vent’anni fa per vincere erano necessari un buon motore e un bravo pilota. Oggi c’è bisogno di un sistema di telemetria, basato sulla raccolta di dati da parte di migliaia di sensori posti sulla macchina e sulla loro elaborazione in tempo reale. In modo analogo le città di oggi ci permettono di raccogliere una mole di informazioni senza precedenti, che possono poi essere trasformate in risposte da parte degli abitanti o dell’amministrazione pubblica. D. Lei ha dichiarato di preferire il termine senseable piuttosto che smart per le città. Perché? R. Sì, preferiamo definirle senseable cities, un nome che ha una dimensione più umana e mette al centro le persone, non la tecnologia... D. Città e cittadini. Il rapporto esistente tra loro come e quanto muterà nel tempo? R. Un aspetto molto interessante è quello del coinvolgimento dei cittadini nella gestione della città, con

nuovi processi dal basso. Oggi le reti permettono nuovi modelli di condivisione, più accessibili e veloci. Basta pensare a Wikipedia. Oppure al modo in cui è stata gestita l’elezione di Obama a presidente degli Stati Uniti d’America o al fenomeno della Primavera Araba: in tutti questi casi i social network, collegando le attività locali e gli abitanti della città, sono divenuti un potente catalizzatore d’azione. In un momento economico difficile come quello che attualmente il mondo sta vivendo, è possibile pensare alle smart cities come nuove opportunità di crescita? Certamente, il primo aspetto è legato alla riduzione dei costi della città. Ad esempio in Spagna, dove stiamo lavorando con diverse amministrazioni pubbliche e con la società Ferrovial, vediamo che la crisi sta spingendo verso l’adozione di nuove tecnologie alla scala urbana, per ridurre i costi e ottimizzare gli sprechi. Un esempio? La raccolta dei rifiuti: grazie alle informazioni in tempo reale ottenute dai sensori possiamo evitare di svuotare i cassonetti tutti i giorni, ma intervenire solo quando sono pieni o maleodoranti. Ma più in generale gli aspetti economici - che nel tempo si traducono in occupazione - possono essere significativi. Pensiamo a semplici app come OpenTable o Uber, che in poco tempo hanno raggiunto capitalizzazioni superiori al miliardo di euro. D. Cambieranno anche i modi di produrre? R. Certo, un aspetto connesso a smart city è quello legato ai nuovi modi di produzione e alla cosiddetta terza rivoluzione industriale. L’idea è semplice: tutte quelle macchine a controllo numerico che sono state sviluppate negli ultimi decenni stanno oggi diventando disponibili a un pubblico sempre più ampio. E in questo modo stanno prospettando grandi cambiamenti nel mondo della progettazione e della produzione industriale. Il principio di questi sistemi è facile da descrivere: alla base c’è il cosidetto processo file-to-factory, che consente una connessione diretta tra il mondo digitale (un comune PC) e quello fisico - quest'ultimo quasi sempre costituito da un sistema meccanizzato di movimentazione basato su semplici traslazioni o rotazioni. All’estremità di questo meccanismo poi si trova in generale un utensile, che permette di effettuare lavorazioni di tipo diverso: togliere del materiale (come, ad esempio, in una fresa o una taglierina laser) oppure aggiungerlo. Quest’ultima funzione è quella a cui appartengono oggi alcune del-


Smart Environment

Smart Economy Smart People

Smart Governance

le macchine più interessanti: le stampanti tridimensionali, che depositano gocce di materiale una sull’altra e che permettono quindi di mandare in stampa non un foglio di carta ma un oggetto di qualsiasi geometria. È il passaggio dal mondo dei pixel – quadratini colorati sui quali si basano i normali processi di stampa – a quello dei voxel, piccoli cubetti tridimensionali, simili a minuscoli Lego, con i quali si può costruire qualsiasi oggetto. Credo che nel nostro Paese queste macchine possano promuovere nuove eccellenze, una specie di "Artigianato 2.0". Ma si tratta di prendere il treno adesso, mentre sta partendo... D. In Italia non ci sono più di dieci città metropolitane che diverranno smart. Le restanti sono di media grandezza. Si adatteranno a divenirlo allo stesso modo o qualcosa cambierà? R. L’Italia, in quanto a città smart, è sempre un po' a macchia di leopardo, con realtà di eccellenza affiancate ad altre molto meno dinamiche. Ma si tratta di aspetti trasversali rispetto alla taglia, che coinvolgono sia città grandi che città piccole... D. Quale possibile sviluppo è prevedibile per le nostre città? R. In Italia non si tratta tanto di immaginare città futuristiche, quanto piuttosto di ri-progettare le città di oggi. Il modello smart city è un’occasione molto importante per il nostro Paese. In una nazione in cui la

Smart Living

popolazione non cresce e gli standard abitativi non cambiano (anzi, per effetto della crisi la superficie pro capite delle abitazioni potrebbe ridursi), non si può più pensare a espandere le aree urbane come nel secolo scorso: oltre a consumare inutilmente territorio vergine (greenfield, come si dice in inglese) ciò si traduce inevitabilmente nello svuotamento delle aree già edificate, esponendole al rischio del degrado. Importante sarà invece valorizzare il patrimonio esistente, correggendo gli errori urbanistici del secolo scorso e usando le nuove tecnologie. Un esempio è il traffico: abbiamo già auto che si guidano da sole o reti che ci permettono di non sprecare tempo e benzina alla ricerca di un parcheggio. Molti dei problemi si risolvono utilizzando meglio le infrastrutture che già esistono. Con meno asfalto e più silicio. Infine bisogna dire che a prima vista la città di domani non sarà molto diversa da quella di oggi. Come i Romani di 2000 anni fa abbiamo bisogno di piani orizzontali sui quali muoverci e di finestre che ci proteggano dalle intemperie.Tuttavia quel che cambierà di più domani sarà il modo di vivere lo spazio, grazie a nuove forme di condivisione dell’informazione, la carta vincente. Per i progettisti si aprono nuovi scenari, nei quali l’architettura non si occupa solo dei “gusci” costruiti, ma come dicevamo sopra, fa dialogare informatica e scienze sociali.

Pensieri evolutivi

Smart Mobility

Smart Mobility: si riferisce agli spostamenti agevoli; gestione di un trasporto pubblico sostenibile; regolamentazione dell’accesso ai centri storici a favore di una maggiore vivibilità; nuove soluzioni tecnologiche e innovative per regolare soprattutto gli scambi con le aree limitrofe. Smart Environment: riguarda lo sviluppo sostenibile puntando alla riduzione di rifiuti, alla raccolta differenziata, al contenimento delle emissioni di gas serra attraverso la limitazione del traffico. Si occupa, inoltre, della razionalizzazione dell’edilizia, della riduzione dell’impatto del riscaldamento, della climatizzazione, della protezione e gestione del verde urbano. Smart People: indica soprattutto una nuova consapevolezza e partecipazione nella vita pubblica, alti livelli di qualifica dei cittadini, convivenza di diversi portatori di interesse e senso della comunità. Smart Living: significa fondare la crescita della città sul rispetto della sua storia e della sua identità; promuovere l’immagine turistica, il patrimonio culturale e le proprie tradizioni con una presenza sul web; creare percorsi e “mappature” tematiche della città e del territorio. Smart Governance: consiste in una visione strategica del proprio sviluppo; riuscire a coinvolgere i cittadini nei temi di rilevanza pubblica; utilizzare le tecnologie per digitalizzare e abbreviare le procedure amministrative. Smart Economy: si riferisce alla capacità di monitorare e misurare le performance economiche del settore pubblico e privato.

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LORENZO BAR Fondatore nel 1989, assieme a Bruno Visentini, dell'Associazione Italiana del bambù, di cui attualmente è il presidente. Ha progettato, diretto e collaborato alla costruzione di diversi giardini tematici sul bambù: la collezione all'Orto Botanico di Roma, il giardino di bambù a Villa Carlotta sul lago di Como, il labirinto di bambù ai Giardini Trauttmansdorf di Merano. Ha partecipato a diversi concorsi e manifestazioni a carattere nazionale, per paesaggisti e creativi del verde. Ha scritto articoli su riviste specializzate e conferenze sul bambù. Progetta e studia accessori, arredi e strutture inerenti i giardini e il verde pubblico e privato.

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È da circa trent’anni che mi occupo di queste incredibili graminacee perenni, sia per passione che per lavoro, e non finiranno mai di stupirmi. Sono più o meno 1500 specie che vanno sotto il nome generico di bambù e che troviamo in tutti i continenti con eccezione dell’Europa, dove sono scomparse a causa delle glaciazioni. Negli ultimi anni, grazie anche all’interesse verso i nuovi prodotti importati dalla Cina e gli impieghi nei più svariati settori, realizzati con i bambù, è cresciuto enormemente l’interesse e, almeno in parte, sono caduti molti pregiudizi. Sono ora reperibili le prime pubblicazioni in italiano e numerosi articoli illustrativi. Sin dall’inizio dell’importazione dei primi esemplari di bambù dall’Oriente queste piante sono sempre state considerate più per il loro aspetto decorativo che per la loro utilità. I primi boschetti di bambù, le 4-5 specie importate nell’Ottocento, sono ancora visibili ai bordi di grandi parchi o relegati negli angoli dei giardini. Con l’introduzione di nuove varietà, alcune molto decorative e singolari, per forma, culmi e crescita, la scelta e le opportunità di inserimento nei progetti del verde sono enormemente aumentate. Basti citare ad esempio la vasta gamma dei nani o medi tappezzanti, anche variegati, a bassa manutenzione, da utilizzare per estensioni a “prato”. Per i piccoli giardini o dove esistono problemi di contenimento sono reperibili bambù non invadenti, di tipo cespitoso che amano i posti più freddi e bui, dove difficilmente si possono collocare altre piante. Le scelte e possibilità sono tante, potendo persino creare giardini gradevoli, con solo piante di bambù. Oltretutto fiorendo a cicli temporali lunghissimi, anche 120 anni, sono ideali per coloro che soffrono di aller-

gie da polline. Ma anche nel settore dell’ingegneria verde, di riforestazione su aree compromesse, ripe e sponde franose, discariche urbane, terreni inquinati, e altro, si aprono notevoli opportunità per un utile e razionale impiego di queste piante. L’apparato radicale di queste graminacee è molto sviluppato e resistente. Si sviluppa in modo orizzontale, con culmi sotterranei, sino ad una profondità che varia dai 50 ai 100 centimetri e ha un effetto consolidante e di regolazione idrica del suolo. Sono piante sempreverdi e hanno una capacità di assorbimento di CO2 di 15-20 tonn/ha/anno generando il 35% in più di ossigeno di un bosco di latifoglie. Crescono molto velocemente, pressoché su quasi tutti i terreni, non soffrono di particolari malattie o parassitismi per cui non ci sono utilizzi di prodotti chimici o altri inquinanti. Tra i culmi di bambù si crea un microclima fresco e umido che favorisce la presenza di microfauna e di uccelli. Se questo è l’aspetto decorativo ed ecologico-ambientale dei bambù esiste anche quello, non meno importante, dell’utilizzo di queste piante. Gunter Pauli, noto economista, nella sua ultima pubblicazione, sulla Blue Economy, pone la filiera del bambù tra i primi di cento progetti innovativi di questa nuova frontiera di sostenibilità economica e ambientale. Una filiera, quella del bambù, che in Italia è in fase di avvio ma che in alcuni paesi, quali ad esempio la Cina, è in incredibile sviluppo con aumenti, di anno in anno, di tipo esponenziale nella produzione e nell’utile economico e sociale. In Italia le specie che possono adattarsi e crescere bene, dalle isole sino al nord, sono non meno della metà di quelle esistenti. Il bambù in Cina principalmente, ma altre nazioni orientali e del centro America sono in pista, viene coltivato su enormi estensioni e utilizzato nei più svaria-


Pensieri evolutivi ti modi e in pressoché tutti i settori. Per citarne alcuni: palchetti in legno, truciolati, multistrati e compositi vari, fibra tessile - sia tipo viscosa che naturale - per capi di abbigliamento e altro, oli combustibili, aceto e altri sottoprodotti, metanolo dalla trasformazione organica della cellulosa delle piante, produzione di carta e biomassa, carbone vegetale e prodotti vari per gli usi più disparati, dai cosmetici ai dentifrici, germogli freschi e conservati, tè verde, prodotti farmaceutici, nella depurazione di liquami da allevamenti e di scarichi civili, riconversione a verde delle discariche, coadiuvante nei leganti per l’edilizia, ecc. In architettura, nel design e arredamento sono notevoli gli impieghi e innumerevoli le realizzazioni innovative e a volte spettacolari. La produzione in culmi (tronchi) varia a seconda delle zone, coltivazione, climatologia: 15/30 tonn/ha. In Italia la coltivazione del pioppo produce circa 220 T/ha a fine ciclo dei 10-12 anni. Lo svantaggio rispetto al bambù è il costo di impianto e la qualità del legno meno valida qualitativamente, nonché i numerosi interventi antiparassitari e di pulitura che necessita il pioppo. Un bambuseto produce per almeno 70 anni ( sino alla fioritura), senza bisogno di reimpianti e con un prelievo costante tutti gli anni. Detto

in termini economici: si prendono gli interessi e si conserva il capitale. Niente del raccolto viene sprecato e tutto rientra in un ciclo naturale. I nuovi settori su cui si stanno facendo ricerche, studi ed applicazioni: -nella medicina e alimentazione: estratti fogliari (flavonidi), elementi biologici attivi, estratti per additivi bio e miglioranti nei cibi ed alimenti. -industriali: per tessuti, abbigliamento, nano tecnologie, compositi per automotive, plastiche vegetali, tessuti tecnici, ecc.

Alcune foto della BB (Blooming Bamboo) Home dello studio H&P Architects. Un perfetto esempio dell’uso del bambù in architettura. La casa è stata realizzata ad Hanoi, in Vietnam, con lo scopo di realizzare un modulo abitativo con materiali a basso costo che possa rispondere a situazioni di postemergenza molto frequenti in questa zona. La casa può essere assemblata in venticinque giorni e realizzata attraverso moduli prefabbricati

Nel settore del legno e suoi derivati si potrebbero studiare compositi tra bambù e pioppo e lamellari (negli USA se ne producono di ottimi). A livello di economia regionale è stato stimato che una filiera del bambù in Piemonte, su terreni a riposo e/o non pregiati, potrebbe incidere del 1-1,5% sul PIL piemontese. L'Italia potrebbe diventare, per le sue condizioni climatiche e possibilità di coltivazione, il primo produttore ed esportatore in Europa dei prodotti, anche ad alta tecnologia, che deriverebbero dalla filiera completa: i tempi sono ormai maturi.

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GIANFRANCO BOLOGNA Direttore scientifico del WWF Italia e segretario generale della Fondazione Aurelio Peccei. Svolge da 40 anni attività di divulgazione e di didattica sui temi della conservazione della natura e della sostenibilità. È stato dal 1999 al 2009 docente di Sostenibilità dello Sviluppo all’Università di Camerino. Ha scritto diversi libri ed enciclopedie sulla natura e diversi volumi sui problemi della sostenibilità, tra i quali “Pianeta Terra” (Giorgio Mondadori, 1990), “Nelle nostre mani” (Giorgio Mondadori, 1993), “Italia capace di futuro” (EMI, 2000), “Invito alla sobrietà felice” (EMI, 2001), “Manuale della sostenibilità. Idee, concetti, nuove discipline capaci di futuro” (Edizioni Ambiente, seconda edizione 2008).

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Il nostro meraviglioso e complesso pianeta Terra esiste da almeno 4.6 miliardi di anni. Nell’arco di questo lunghissimo periodo di tempo ha subito straordinari sconvolgimenti che hanno continuamente modificato le dinamiche e gli assetti precedentemente raggiunti. Tutte le conoscenze che abbiamo sin qui raccolto ci dimostrano come l’intero pianeta è stato e sarà in continua evoluzione, come accade anche per l’universo. La Terra ha attraversato tantissime fasi diverse che sono state caratterizzate, tanto per fare solo alcuni esempi, da atmosfere costituite da presenze e percentuali di elementi e composti chimici differenti rispetto all’attuale composizione, da scontri con meteoriti di differenti dimensioni e con la produzione di diversi effetti sugli equilibri dinamici presenti nei sistemi naturali di volta in volta esistenti, da incredibili modifiche nella formazione e nella collocazione dei continenti che oggi siamo abituati a vedere apparentemente immobili nel loro assetto illustrato dagli atlanti geografici, da numerosi periodi di glaciazioni seguiti da periodi interglaciali ecc. Insomma, un’evoluzione e un mutamento continui. Circa 150mila - 200mila anni fa si è andata gradualmente diffondendo la nostra specie che abbiamo definito Homo sapiens sapiens. Con il passare del tempo e lo straordinario incremento delle nostre capacità di intervenire sugli ambienti naturali e di utilizzare le risorse per i nostri sempre più complessi sistemi economici e sociali, la relazione tra la specie umana e la natura è andata progressivamente deteriorandosi tanto da raggiungere livelli realmente insostenibili per l’immediato futuro. Oggi l’intervento umano sulla natura e gli effetti prodotti sono paragonati, dalla comunità scientifica internazionale, alle grandi forze geofisiche che, da sempre, hanno modificato, plasmato e anche stravolto il nostro pianeta. L’entità e le dimensioni dei cambiamenti ambientali globali cui abbiamo sottoposto tutti i sistemi naturali della Terra, pongono l’intera umanità di fronte a una sfida assolutamente senza precedenti nella nostra storia. Oggi, infatti, ci troviamo nel pieno di un fenomeno che gli scienziati definiscono Global Environmental Change (GEC) cioè un cambiamento di dimensioni globali che si sta verificando sulla Terra, indotto da una sola specie, la nostra (da cui la proposta di un nuovo periodo geologico da definirsi Antropocene) i cui effetti sono equivalenti a quelli prodotti dalle grandi forze della natura che hanno modificato

la nostra Terra in tutta la sua storia. La nostra specie invece che essere protagonista di un cambiamento ambientale globale che, paradossalmente, potrebbe condurre persino alla nostra estinzione, dovrebbe cercare di fare di tutto per salvaguardare gli equilibri dinamici che, appunto, le hanno consentito la capacità di civilizzazione. Oggi siamo più di 7 miliardi di abitanti e le vere vittime degli stravolgimenti che stiamo producendo ai sistemi naturali siamo soprattutto noi stessi. Il nostro intervento sta infatti trasformando profondamente interi ambienti naturali, sta modificando la “faccia” stessa delle terre emerse, modificando profondamente i cicli biogeochimici degli elementi fondamentali per la vita come il carbonio, l’azoto, il fosforo, sta modificando le reti alimentari, gli equilibri dinamici che si sono andati formando in secoli e millenni e che hanno consentito, soprattutto nel periodo geologico che stiamo vivendo, l’Olocene che è iniziato appena 11mila anni fa, un discreto equilibrio dinamico ambientale e climatico che ha permesso alla nostra umanità di passare da una fase definita di caccia e raccolta, a una fase agricola, poi urbana e industriale e, quindi da una popolazione di qualche milione di individui ad oltre 7 miliardi. Nessuna comunità, nessuna regione, nessuna nazione da sola è in grado di risolvere questi gravi problemi. Nessuno può pensare oggi solo nei termini dei propri interessi personali. Il pianeta costituisce la “casa” dell’umanità e la nostra relazione con i sistemi naturali da cui proveniamo, va curata al meglio per non compromettere le condizioni di vita delle attuali e delle future generazioni. Questa consapevolezza deve condurci a ricercare capacità di gestione delle relazioni tra sistemi naturali e sistemi sociali innovative, visionarie, creative e flessibili. Questa sfida epocale richiede delle leadership e delle classi politiche con delle qualità fuori del comune. Per porre rimedio alla gravissima situazione dell’attuale stato dei sistemi naturali e ai pesanti effetti negativi che subiscono le società umane, tutti parlano da qualche decennio di sostenibilità, di sviluppo sostenibile, di consumo sostenibile. Ma, ancora oggi, nell’accezione comune, il termine sostenibilità non è affatto chiaro. La sostenibilità è un concetto complesso e articolato e viene purtroppo continuamente banalizzato. La complessità che la caratterizza e le oggettive difficoltà di attuare concretamente azioni, comportamenti e politiche che sono in grado di metterla in pratica pro-


La sostenibilità è infatti : ➔ una straordinaria sfida alle nostre capacità di conoscenza, di comprensione e di innovazione, ➔ un coacervo di scienza e di cultura e rappresenta un affascinante incrocio di avanzate conoscenze che derivano da tante diverse discipline che si evolvono continuamente, ➔ una straordinaria sfida alla consapevolezza della complessità delle relazioni esistenti tra gli esseri umani (con le nostre complesse società industriali e tecnologiche) e la natura da cui deriviamo e proveniamo e, senza la quale, non possiamo vivere, ➔ un’incredibile sfida alla nostra capacità di percorrere strade future diverse dalle attuali, alle quali siamo abituati da decenni, ➔ un’affascinante sfida alle nostre impostazioni culturali, al come le abbiamo create e impostate e alla nostra capacità di programmarne di nuove. Volendo ridurre il concetto in una semplice definizione possiamo affermare che la sostenibilità significa imparare e vivere, in una prosperità equa e condivisa con tutti gli altri esseri umani, entro i limiti fisici e biologici dell’unico pianeta che abitiamo: la Terra. Per fare questo dobbiamo individuare dei “tetti massimi” di utilizzo delle risorse e delle emissioni consentite. L’individuazione di questi “tetti” deve derivare dall’analisi dei limiti ecologici e deve essere considerata in base al principio di equità, cioè ogni essere umano ha diritto a un uguale livello massimo di consumo di risorse x o di emissione della sostanza y. È necessario perciò indicare i limiti consentiti di utilizzo di risorse o di possibilità di inquinare. In questo senso può risultare molto utile il modello noto come “contrazione e convergenza”, in cui si definisce una quantità ammessa, pari

per tutti, in modo che ognuno tenda ad allinearsi a un livello sostenibile con chi deve inevitabilmente ridurre e quindi “scendere” e chi, invece, può “salire” per raggiungere il “tetto” indicato. È un approccio parzialmente adottato per le emissioni in atmosfera dei gas che alterano il sistema climatico, ma si potrebbero stabilire tetti simili anche per l’estrazione delle risorse non rinnovabili scarse, la produzione di rifiuti (in particolare rifiuti tossici o pericolosi), il consumo di acqua fossile, il consumo di suolo e il tasso di sfruttamento delle risorse rinnovabili. Si dovrebbero anche prevedere meccanismi efficaci per il raggiungimento degli obiettivi al di sotto di questi tetti. Il concetto dei “tetti” ambientali è praticamente simile a quello di spazio ambientale e cioè il quantitativo di energia, di risorse non rinnovabili, di territorio, di acqua, di legname e di capacità di assorbire inquinamento che può essere utilizzato a livello mondiale o regionale a livello pro capite, senza determinare danni ambientali, senza mettere a rischio le generazioni future, senza ledere il diritto di tutti di accedere alle risorse e a una buona qualità della vita. La teoria dello spazio ambientale si basa su di una valutazione quantitativa e qualitativa dell’uso delle risorse a livello nazionale, comparando i risultati con una “quantità equa” calcolata a livello mondiale e regionale. Da questa valutazione deriva l’elaborazione di politiche adeguate ad assicurare lo sviluppo sostenibile purchè basato su di un equa condivisione. I diversi studi sin qui realizzati, hanno anche posto bene, all’attenzione di tutti, la necessità che le politiche di sostenibilità vengano basate su due grandi ambiti complementari e inscindibili e cioè quello mirato all’efficienza, che significa ottenere gli stessi beni e servizi con un minor impiego di energia e materiali (ci serve a guadagnare tempo ma non certo a risolvere i problemi, considerato l’incremento della popolazione e l’incremento dei consumi e delle pressioni sui sistemi naturali) e quello mirato alla sufficienza, che significa ottenere benessere riducendo i livelli di consumo e migliorandoli qualitativamente (è la strada obbligata per l’immediato futuro, soprattutto per quella quota di umanità che oggi si trova a livelli di consumo troppo elevati). I principali criteri per una corretta gestione delle relazioni tra i metabolismi dei sistemi naturali e quelli dei sistemi sociali riguardano la minimizzazione dell’input dell’utilizzo di materia ed energia, l’ottimizzazione della vita dei prodotti attraverso la loro durata, la loro possibilità di riuso e la possibilità di riciclo. Sappiamo quindi che l’applicazione concreta delle politiche di sostenibilità dovrà rispondere a criteri di efficienza, efficacia e sufficienza. Si tratta di agire con un mix di interventi e azioni. La sufficienza costituisce un elemento fondamentale di questo processo. Non può proseguire all’infinito il meccanismo della crescita continua e non possiamo pensare che i nostri sistemi sociali possano mantenere o, addirittura incrementare, la situazione di spaventosa ingiustizia sociale planetaria attuale. È ora di cambiare strada.

Pensieri evolutivi

vocano molta confusione, persino nell’individuare una sua definizione. Molti pensano che sostenibilità voglia dire ridurre le emissioni di gas serra che modificano la composizione chimica dell’atmosfera incrementando l’effetto serra naturale e provocando l’attuale riscaldamento climatico. Altri pensano che per soddisfare la sostenibilità sia bastevole attuare la raccolta differenziata di rifiuti. Altri ancora ritengono che per essere “sostenibili” sia necessario mangiare meno carne o acquistare un’auto a basso consumo. È evidente che ciascuno di questi esempi può essere considerato una modalità importante per ridurre il proprio impatto sui sistemi naturali. Tutto ciò contribuisce alla sostenibilità. Ma è necessario essere consapevoli che la sostenibilità non si esaurisce in uno o più semplici gesti. La sostenibilità ci impone una vera trasformazione culturale. La sostenibilità è costituita da tanti elementi che devono essere sempre tenuti in connessione tra loro e già questo costituisce una notevole sfida alla nostra mentalità abituata a pensare seguendo logiche lineari di causa ed effetto e ai nostri conseguenti comportamenti.

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COME SOSPESA TRA CIELO ETERRA

Foto di Nelson Kon

CIDADE DAS ARTES / Christian de Portzamparc



Foto di Andre Viera

Foto di Andre Viera

Foto di Nelson Kon

Foto di Nelson Kon

RIO DE JANEIRO (BRASILE). La spiccata orizzontalità e matericità nulla toglie all’ariosità della struttura. Volumi, vele e diaframmi si alternano con magniloquente alterità segnando lo spazio. Uno spazio compresso, quasi schiacciato, coperto e severamente controllato dal piano orizzontale della copertura. Due livelli e tra loro la creatività, l’arte rappresentata e accolta tra un dentro e un fuori fatto di cemento armato, vento e luce. Una piazza e un paesaggio. È la Cidade das Artes, la città dell’arte, progettata da Christian de Portzamparc a Rio de Janeiro: un ampio spazio versatile e strutturato con all’interno sale espositive, cinema, auditorium e altro. Una struttura dalle diverse e ramificate complessità e implicazioni storico-lessicali, a partire dallo stesso sito. In quale parte della città di Rio è stata costruita questa nuova struttura? La Cidade das Artes sorge a Barra da Tijuca, un nuovo quartiere dotato di centri commerciali ed eleganti condomini vetrati con ampie viste sia sulle montagne sia sulla più lunga spiaggia della città. Barra da Tijuca è dai brasiliani considerata alla stregua di Miami: è qui che abita la nuova classe media di Rio. È qui che le nuove generazioni si sono spostate per far carriera e crescere famiglia lontano dal centro della città. E qui nel 2016 si svolgeranno le Olimpiadi estive. Barra da Tijuca è il nuovo quartiere il cui progetto, alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, è stato curato dal famoso architetto Lucio Costa: il direttore della Scuola Nazionale di Belle Arti che riuscì a convincere Le Corbusier, nel 1936, a venire in Brasile per

esprimere una sua valutazione sulla nuova sede del Ministero della Pubblica Istruzione e che più tardi, negli anni ’40, ha progettato, insieme a Oscar Niemeyer, il padiglione brasiliano al New York World's Fair. Il nuovo edificio, la Cidade das Artes, sorge tra il mare e le montagne, tra quattordici chilometri di pianura, su un lotto posto al centro di un incrocio viario delimitato da due arterie che attraversano il quartiere. L’edificio è organizzato come una piccola città posta su una terrazza a dieci metri dal suolo. Sorge sopra un parco pubblico, un giardino tropicale e uno specchio d’acqua, elementi caratterizzanti la struttura nella sua interezza e progettati dal noto paesaggista Fernando Chacel, il naturale successore di Burle Marx, scomparso nel 2011. La terrazza, oltre ad assolvere la funzione di spazio pubblico, è un punto di ritrovo dal quale si accede ai diversi spazi della Cidade: sale da concerti trasformabili in teatro d’opera e di prosa o in sale per la musica da camera e popolare, spazi per il cinema e la danza, sale prove, spazi espositivi, ristoranti e anche una biblioteca multimediale. Cidade das Artes è una grande casa. Un nuovo cuore pulsante per la città. Ma è anche una veranda su Barra da Tijuca, un punto di attenzione da cui cogliere il paesaggio urbano e il suo intorno. La Città delle Arti è un omaggio all’archetipo dell’architettura brasiliana. Tra le due superfici orizzontali, terrazza e copertura, si sviluppano e avviluppano grandi pareti curve in cemento, che nel creare giochi di pieni e di vuoti accolgono e racchiudono al loro interno le sale dalle versatili funzioni. È un’opera che,

Sopra: quattro scorci dell’esterno della Cidade das Artes. I volumi, le vele e i diaframmi alternandosi segnano tutta la struttura. Dei due piani orizzontali il primo, tagliato dalle vele di cemento armato, è la piazza posta a dieci metri dal suolo. A destra: particolare dell’esterno SCHIZZO PREPARATORIO

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Foto di Nelson Kon


Foto di Nelson Kon

Foto di Andre Viera

In questa pagina: quattro immagini che riprendono il primo livello, la piazza della Cidade das Artes. Lo spazio, coperto da un piano orizzontale, ha funzione di punto di ritrovo ed è da qui che si accede alle sale da concerto, agli spazi per il cinema e la danza, alle sale prove, agli spazi espositivi, al ristorante e anche alla biblioteca


Foto di Nelson Kon

Foto di Nelson Kon


A sinistra: tre diverse sale. La sala da concerto (la prima in alto) ha anche i pannelli fono-assorbenti, realizzati comunque in legno, che ne rivestono la copertura. Il “beton brut”, il cemento faccia a vista, è presente anche all’interno del foyer e degli spazi comuni. Con questo materiale si delineano molti elementi caratterizzanti, principalmente le scale (foto a destra) e alcuni setti che segnano l’interno delle sale (foto a sinistra nel centro). Le sale da concerto si possono trasformare in teatro d’opera, di prosa, sale per la musica da camera (Foto di Nelson Kon)

come dice lo stesso progettista, geometricamente fa riferimento alle suadenti linee curve della Sierra Atlantica e alla orizzontalità del mare. Questa nuova opera può essere considerata un nuovo landmark. E giungendovi in treno dall’Ayrton Senna Avenue appare come la porta d’ingresso per Barra da Tijuca. Nella realtà la Cidade das Artes è un’opera che risponde pienamente ai principi del regionalismo critico adottato nell’America del Sud. Quel regionalismo che ha anteposto ad ogni altra cosa l’ambiente, il paesaggio, la storia, i materiali e lo stile di vita locale considerando queste imprescindibili attitudini, predisposizioni per un progetto. Caratteristiche che non pongono l’enfasi sull’edificio visto come oggetto isolato, bensì attribuiscono una particolare importanza al territorio su cui si insedia la nuova struttura. Una condizione che conduce l’architettura a divenire espressione sintattico-tettonica del costruire. Il nuovo edificio progettato da Christian de Portzamparc è un esempio di regionalismo critico e in quanto tale ha un “carattere” che accentua alcuni fattori specifici del sito quali la topografia, la luce e le condizioni climatiche. Ma se la scelta, difficile dire se stilistica o meno, ricade sulle peculiarità tipizzanti il luogo, così che il progetto possa risultarvi inserito, allora, come non prendere in considerazione anche il cemento faccia a vista, tipica specificità e anche prerogativa dell’architettura di questo paese? Difatti la Cidade das Artes è completamente realizzata, come buona parte degli esempi del brutalismo brasiliano, con il beton brut, il cemento armato lasciato a nudo senza intonaco: una condizione che nella sua “concretezza” evidenzia le caratteristiche strutturali e strutturanti l’edificio. Si parla dunque di una delle peculiarità più salienti dell’architettura brutalista - paulista, una corrente avente un linguaggio crudo, netto e materico. Diretto. Un linguaggio che ha segnato le scene brasiliane per più di un ventennio, per l’esattezza dai primi anni ’50 agli anni ’70 del secolo scorso. E che Christian de Portzamparc ha adottato, rivisto e reinterpretato per una architettura del primo decennio del XXI sec. (di Iole Costanzo) 76



PROSPETTO SUD

PROSPETTO NORD

SEZIONE TRASVERSALE CREDITI Progetto Cidade das Artes: centro polivalente Progettista Christian de Portzamparc Committente Rio de Janeiro Acustica Xu Acoustique, Acustica & sonica Scenografia Jacques Dubreuil, Ze Augusto Nepomucen Progetto verde CAP, Fernando Chancel Superficie struttura 46 000 mq. Filarmonica da 1800 posti trasformabile in sala per l’opera; musica da camera 500 posti; elettroacustica 180 posti; 3 sale cinematografiche

PLANIMETRIA PRIMO LIVELLO

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SEZIONE LONGITUDINALE

SCHIZZI PREPARATORI DEI DUE PROSPETTI PRINCIPALI

SPACCATO ASSONOMETRICO DEL PRIMO LIVELLO

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IMPONENZA FORMALE E ANCHE ECONOMICA

QUARTIERE GENERALE PER LA SHENZHEN STOCK EXCHANGE / Oma

SHENZHEN (CINA). Il progetto dello studio OMA è stato selezionato a seguito di un concorso bandito nel 2006 e la sua realizzazione ha avuto inizio nel mese di ottobre 2008. Ha tratto ispirazione e tentato quindi di restituire nella sua formalità, l’impressionante fenomeno di trasformazione del delta del fiume Pearl nel corso degli ultimi trenta anni, elemento caratterizzante questo territorio. L’impatto di questo nuovo edificio è certamente imponente e domina sulle dimensioni delle costruzioni adiacenti. La forma complessiva e molto espressiva è maggiormente comprensibile se si analizza l’architettura inserita nel suo quadro economico, politico e sociale e questo è stato possibile anche grazie alla stretta collaborazione con la sede OMA di Hong Kong e lo studio di base a Shenzhen, che hanno lavorato a stretto contatto con il cliente e con le imprese appaltatrici per l’intera durata del processo costruttivo. L’intero edificio raggiunge un’altezza finita di 246 metri e sorge, come simbolo riconoscibile, sopra una nuova piazza pubblica, punto d’incontro dell’asse nord-sud tra il Monte Lianhua e Binhe Boulevard e l’asse estovest di Shennan Road, arteria principale della città. La purezza formale dei due imponenti parallelepipedi intersecati dialoga perfettamente con i volumi circostanti dei grattacieli esistenti. Dall’ampia piazza pubblica che si è creata, come conseguenza al sollevamento della parte a sbalzo dell’edificio, è ben visibile l’affascinante skyline dei grattacieli attorno. Nonostante l’importante presenza di questo nuovo manufatto, esso lascia una libertà di osservazione che

permette di godersi la vista della città da un nuovo spazio pubblico arricchito da una progettazione del verde. L’edificio ha una superficie di 180mila mq distribuiti secondo la tradizionale tipologia edilizia della torre su basamento. È stata, infatti, realizzata una base di tre piani completamente a sbalzo posta a un’altezza di 36 metri da terra, consentendo inoltre di sfruttare anche un rigoglioso giardino pensile sul tetto. La vista della città, infatti, è riproposta sulla copertura della parte a sbalzo, in corrispondenza della base della torre che si staglia fino all’ultimo dei piani. Il basamento rialzato ospita la sala quotazioni e gli uf-

A destra: la purezza formale del prospetto dell’edificio composto di una torre centrale intersecata al basamento trasversale sollevato di 36 metri da terra. A sinistra: vista serale dell’edificio dalla piazza pubblica sottostante. Grazie alle numerose vetrate, comunica visivamente con il resto della città

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fici della Borsa. Si tratta di un modo di comunicare in maniera trasparente le attività del mercato azionario al resto della città. La facciata si distingue grazie alla materialità del rivestimento caratterizzato da uno strato traslucido di vetro che avvolge la griglia della torre e il podio rialzato, rendendola misteriosa ed enigmatica e rivelando l’imponente struttura che sostiene l’intero edificio. L’effetto satinato del rivestimento esterno cambia in base ai colori e alla luminosità delle condizioni atmosferiche, diventando, così, un riflesso del suo stesso ambiente. La struttura della torre è una robusta griglia esoscheletrica che favorisce un alto grado di stabilità all’intero edificio e, grazie alla trasparenza delle vetrate, rivela il dettaglio e la complessità della costruzione. La travatura reticolare è composta da un insieme di aste complanari, vincolate ai nodi in modo da costituire un elemento resistente e indeformabile. Tali elementi obliqui sono visibili sia dall’interno sia dall’esterno dell’edificio. La stessa imponenza espressa dalla struttura e dalla formalità dell’involucro è chiaramente ripresa anche negli spazi interni. Tonalità fredde dal beige al grigio chiaro rivestono, intonacate o mediante ampie pannellature, le diverse superfici degli spazi di lavoro, riprendendo quella severità formale che connota l’edificio. Dalle numerose

aperture che si rincorrono per tutta la costruzione, permea la luce naturale apportando leggerezza all’edificio e trasparenza fra gli ambienti interni. La stessa copertura dell’elemento a sbalzo è rivestita da lastre di vetro così da permettere alla luce naturale di filtrare anche dall’alto e non solo dalle vetrate delle facciate. L’ampio atrio d’ingresso accoglie gli addetti ai lavori con un’altezza di almeno trenta metri dal pavimento e una visuale permeabile da un lato all’altro dell’edificio a torre. Quest’architettura, così com’è stata progettata e realizzata, è tra i primi progetti che otterranno le tre stelle verdi grazie al rispetto degli standard elevati di sostenibilità ambientale in Cina. Essa sfrutta, infatti, l’ombreggiatura passiva attraverso le profonde aperture a incasso poste in facciata, riducendo al minimo la quantità d’irraggiamento del calore solare penetrante all’interno dell’edificio, migliorandone l’illuminazione naturale giornaliera e riducendone il consumo energetico. Illuminazione quest’ultima che, tramite l’applicazione di sistemi intelligenti, è in grado di arrestarsi quando gli spazi interni non sono frequentati da persone. Altro dettaglio progettuale molto importante che tiene conto del risparmio energetico riguarda il sistema di raccolta delle acque piovane, che vengono reinserite all’interno del ciclo impiantistico dell’intero edificio, non sprecandole. (di Federica Calò)

Sopra: il processo d’ideazione e creazione dell’edificio che, rifacendosi alla tipologia della torre su basamento, accoppia l’elemento verticale a un elemento trasversale, permettendo così la possibilità di creazione di un nuovo spazio pubblico. A sinistra: due viste della piazza arricchita a verde e del rapporto costruttivo fra la torre e il suo basamento

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CREDITI Progetto The New Headquarters for the Shenzhen Stock Exchange Progettisti Rem Koolhaas and David Gianotten, in collaborazione con Ellen van Loon and Shohei Shigematsu Cliente Shenzhen Stock Exchange Luogo Shenzhen, China Superficie 180.000 mq Struttura Arup

A destra: concept di progetto che esprime il collegamento fra il contenitore e il suo contenuto. Un edificio, questo, che racchiude in sé il tentativo di restituire, attraverso la facciata, l’andamento storico, culturale ed economico di una realtà in crescita

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Skyline di una parte della città di Shenzhen dove è visibile l’integrazione formale di questo nuovo manufatto con gli edifici esistenti, pur essendo stata proposta una tipologia differente

1952 - 2000. UN CONFRONTO Lo schema sottostante mostra una comparazione fra edifici degli ultimi vent’anni della storia dell’architettura che, in diverse megalopoli del mondo, si sono confrontati con il ruolo e la posizione del basamento rispetto al corpo centrale. Si è sempre avuta una tendenza a lasciare il basamento ancorato a terra. Lo Studio OMA ha voluto ottenere un maggior dialogo fra questo edificio di rappresentanza e il resto della città, sollevando il basamento e realizzando un ampio spazio pubblico e fruibile sotto a esso, oltre a fargli anche da copertura. L’effetto è d’indubbia originalità, se paragonato soprattutto all’estetica spesso omogenea che contraddistingue la maggior parte degli edifici a torre.

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Dalla vista della piazza a quota terreno di sotto al basamento sopraelevato è ben visibile l’intero skyline degli edifici circostanti, nonostante l’importante presenza materiale dell’edificio in questione. Un’ampia visuale si prospetta quindi dal centro di questo nuovo edificio

La stessa imponenza espressa dalla struttura e dalla formalità dell’involucro è chiaramente ripresa anche negli spazi interni. Tonalità fredde dal beige al grigio chiaro rivestono, intonacate o mediante ampie pannellature, le diverse superfici degli spazi di lavoro, riprendendo quella severità formale che connota l’edificio

Il differente punto di vista offerto dal progettista modifica la percezione della costruzione di questo nuovo grattacielo, contenente un’importante funzione sociale ed economica. L’osservatore esterno ha quasi la possibilità di poter accedere all’interno dell’edificio grazie alla creazione della pianta libera

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appuntamenti

ARCHITETTURA, ARTE E DESIGN porzione e del rigore compositivo, del «colore in quanto colore» e delle «forme in quanto forme». Il fulcro della mostra è rappresentato dalla ricostruzione del bassorilievo realizzato per la Sala del Direttorio della Casa del Fascio di Como, progettata da Giuseppe Terragni nei primi anni Trenta, e all'approfondimento del sodalizio con Cesare Cattaneo, il giovane e geniale architetto con il quale Radice realizza la famosa Fontana di Camerlata, costruita in prima soluzione nel 1936 al Parco Sempione per la VI Triennale di Milano. Rovereto, Mart / Mario Radice. Architettura, numero, colore / dal 15/2 all’8/6 2014

Roma, Museo di Roma in Trastevere / Il paesaggio italiano. Fotografie 1950-2010 / fino al 20/4/2014

VIAGGIO VIRTUALE A MANTOVA

MARIO RADICE AL MART La mostra, curata da Giovanni Marzari, nasce dalla volontà di valorizzare la preziosa documentazione del Fondo Radice, donato dalle figlie dell’artista al Mart e conservato nell’Archivio del ‘900. Un patrimonio composto da circa 1.700 pezzi, in prevalenza disegni e schizzi per opere pittoriche, progetti di architettura e design. Il nucleo di materiali autografi, tra cui si contano anche numerose fotografie, è qui esposto per la prima volta e messo a confronto con opere straordinarie provenienti dalla collezione del Mart e da altri musei e istituzioni nazionali. Il percorso artistico di Mario Radice (Como 1898 - Milano 1987), alla luce dei ricchi e inediti materiali archivistici, suggerisce una rilettura storico-critica sull’astrattismo italiano che non solo approfondisce le vicende delle origini, radicate nel clima degli anni Trenta, ma getta nuova luce sui fitti intrecci con la grande stagione architettonica del Razionalismo. La mostra Mario Radice. Architettura, numero, colore, nel delineare il profilo di uno tra i massimi esponenti del gruppo degli astrattisti comaschi, precursore e figura di spicco nel panorama culturale italiano del '900, si sviluppa lungo un percorso costruito sia all'interno della biografia dell'artista, sia grazie al confronto con le opere di quegli architetti e pittori che costituiscono le punte più avanzate dell'avanguardia artistica italiana. Così, attraverso la figura di Mario Radice, si possono interpretare i fermenti e gli esiti di quel movimento dell’arte italiana, cresciuto tra le due guerre, dominato dalla ricerca dell’armonia, della disciplina e dell’ordine e regolato dal culto della geometria, della pro-

ni all’estetica Crociana (Giuseppe Cavalli, Piergiorgio Branzi, Alfredo Camisa, Giuseppe Moder, Raffaele Rotondo, Dino Bruzzone), e gli aderenti a La Gondola (tra cui Gianni Berengo Gardin, Elio Ciol, Fulvio Roiter, Gino Bolognini, Giuseppe Bruno); i neorealisti (Luigi Crocenzi, Gianni Borghesan e Nino Migliori all’inizio della sua carriera artistica) e i paesaggisti del Touring Club Italiano (Bruno Stefani, Toni Nicolini, Ezio Quiresi e negli anni successivi Francesco Radino).

L’ITALIA FOTOGRAFATA

Il paesaggio italiano è l’indiscusso protagonista delle 134 fotografie della mostra a cura di Walter Liva. Nella storia dell’arte il paesaggio appare relativamente tardi, nel Rinascimento, quando Leon Battista Alberti descrive scientificamente la prospettiva nel suo De Pictura e di conseguenza si apre al mondo la rappresentazione della città, delle sue forme e delle sue geometrie. In fotografia invece il paesaggio compare con grande enfasi fin dalle origini del mezzo e l’atto di fotografare i luoghi diventa parte dell’esperienza dell’ottocentesco Grand Tour ma anche delle avventure coloniali. E, più semplicemente, rende possibile far vedere luoghi sconosciuti. Il paesaggio italiano. Fotografie 1950 – 2010 spazia nell’arco della seconda metà del 900, ed evidenzia i diversi modi con i quali il paesaggio italiano è stato approcciato sulla base delle diverse “scuole di pensiero” alle quali sono appartenuti gli autori. Ci sono i pittorialisti (come Riccardo Peretti Griva o Enrico Pavonello in giovane età) ai fotografi vici-

Leggere un monumento straordinario come Palazzo Te o la basilica di S. Andrea a Mantova, cercando i fili che li legano all’intera storia dell’architettura occidentale: questo l’ambizioso obiettivo della mostra L’ordine e la luce. Un viaggio virtuale nell'evoluzione degli spazi interni nella storia dell'architettura: dai greci al Rinascimento, organizzata dal Centro Internazionale d’Arte e di Cultura di Palazzo Te. Curata da Stefano Borghini e Raffaele Carlani, la mostra è un “mai visto” nella tradizione delle esposizioni in tema di architettura. Qui le nuove tecnologie trasformano un’analisi storica tanto interessante quanto ”distante” per il grande pubblico, in uno spettacolo multimediale in grado di “immergere” il visitatore dentro monumenti che appartengono all’immaginario comune, offrendo la sensazione di muoversi all’interno di essi, con il semplice spostamento del corpo. Attraverso un innovativo sistema di motion sensing input device sarà possibile navigare all'interno di queste architetture proiettate in scala 1:1 su grandi superfici, senza l’ausilio di strumenti quali mouse, tastiere o dispositivi touchscreen. Mediante il movimen-

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appuntamenti to del corpo, si avrà la sensazione di abitare gli ambienti di questi spazi virtuali, riuscendo così a percepirne non solo gli aspetti dimensionali, ma anche ad apprezzare le raffinate soluzioni estetiche che architetti e artisti furono in grado di realizzare nell'antichità. Tutto ciò per capire come si è evoluta la modulazione e la realizzazione degli spazi interni a partire dalle imponenti architetture antiche, per giungere a quella che fu la loro riproposizione ed esaltazione con il Rinascimento. Proprio dal modello greco prenderà le mosse la prima sezione della mostra, che invita ad entrare negli spazi del Partenone per poi proseguire nel Tempio di Apollo Epicurio a Bassae e, ancora, nel Tempio di Apollo Sosiano a Roma. Dal modello architettonico greco si passerà poi a quello romano, nella seconda sezione, che schiuderà le meraviglie degli interni della Domus Aurea e delle Terme di Traiano, tra i massimi esempi della maturità dell’architettura imperiale. Anche qui il viaggio in 3D mostrerà la bellezza degli spazi e decori di due capolavori romani, che, rispetto ai precedenti di origine greca mostrano di essere concepiti pienamente a misura d’uomo. Infine, nella terza e ultima sezione, a essere svelato sarà proprio il legame stretto tra Mantova e l’antico, attraverso materiali e documenti didascalici che mostreranno la stretta derivazione di gioielli come Palazzo Te e la basilica di S. Andrea, tra i massimi esempi rinascimentali, dal modello antico esaminato nelle precedenti sezioni. Mantova, Fruttiere di Palazzo Te / L’ordine e la luce. Un viaggio virtuale nell'evoluzione degli spazi interni nella storia dell'architettura: dai greci al Rinascimento / fino al 16/3/2014

L’ARCHITETTURA MIGRANTE Una lanterna urbana in legno e vetro in Norvegia, una struttura per raccogliere acqua in Etiopia, il MoMA di Chengdu in Cina, un museo in un tunnel per sottomarini in Albania, una casa che si fonde nel paesaggio in Israele. E ancora Brasile, Stati Uniti, Russia, Germania: è Erasmus Effect Architetti italiani all’estero a cura di Pippo Ciorra. Una mostra fatta di viaggi, esperienze e ritorni, per raccontare la storia di tanti architetti italiani che sono partiti e hanno trovato fortuna lontano. L’esposizione documenta un aspetto particolare dell’architettura contemporanea italiana: il numero sempre crescente di progettisti che scelgono di trasferirsi in altri paesi. Il titolo della mostra nasce infatti dalla sug90 ARCHITETTURA&PAESAGGIO

gestione del programma europeo di scambio universitario Erasmus creato dalla Comunità Europea nel 1987 per consentire agli studenti di effettuare un periodo di studio in una università straniera. La mostra però da quel significato letterale si espande sia raccontando espatri storici, come quelli di Bo Bardi, Soleri, Belluschi, sia descrivendo un fenomeno che va ben oltre i confini europei e nel quale ormai il desiderio di esperienze all’estero si intreccia con la congiuntura economica e con le difficoltà dell’architettura in Italia. Il fenomeno dell’architettura italiana “migrante”, di progettisti che aprono i loro studi all’estero e si affermano come professionisti di qualità o autori di rilevo internazionale, non è inedito: dai pionieri come la citata Lina Bo Bardi che in Brasile ha realizzato il Museo d’Arte di San Paolo o Romaldo Giurgola negli USA e poi in Australia (suo il Parlamento a Camberra), le cui storie si intrecciavano con le vicende politiche nazionali e internazionali, fino agli stessi Renzo Piano e Massimiliano Fuksas, che hanno costruito all’estero il successo necessario per poi imporsi in Italia. Tra i più recenti, tanto per citarne alcuni, la mostra presenta Benedetta Tagliabue, attiva a Barcellona da un paio di decenni; i Lot-Ek - autori dell’allestimento della mostra - ed Elisabetta Terragni entrambi a New York, Carlo Ratti a Boston, lo studio LAN a Parigi e molti altri. Roma, MAXXI / Erasmus Effect. Architetti Italiani all’Estero / fino al 6/4 2014

UNSTUDIO AL MAXXI Dal 2011 con la serie di mostre Nature a cura di Pippo Ciorra il MAXXI ha sperimentato un modo diverso di raccontare l'architettura, gli autori più rilevanti, le risposte alle problematiche che caratterizzano la nostra epoca. È la volta di UNStudio, gruppo di architetti olandesi tra i più interessanti sulla scena internazionale. Con Nature 04 | UNStudio_Materia

In Movimento | Motion Matters a cura di Alessandro d’Onofrio, lo studio presenta una installazione site-specific che, come è loro pratica da molti anni, viene intesa come banco di prova per testare una serie di temi cari alle loro ricerche. Dice Ben van Berkel cofondatore di UNStudio: "Quando parliamo di movimento in architettura, non ci riferiamo solo agli edifici e ai loro potenziali effetti ma anche alle trasformazioni o ai bruschi cambi di rotta del fare architettura più in generale: ci riferiamo alle forze mobili che generano il cambiamento e in cui potrebbe trovarsi il futuro dell'architettura. Il movimento racchiude dunque anche il passato, il presente e il possibile futuro della nostra professione". L'installazione non è un oggetto da osservare passivamente bensì qualcosa che interagisce con il visitatore, richiedendone la partecipazione attiva per creare un’esperienza spaziale e dinamica. L'allestimento infatti è concepito come una scatola magica in grado di ingannare la percezione dei visitatori attraverso un sapiente uso della deformazione prospettica e un attento studio del percorso della mostra. Protagonisti della visione sono 10 progetti che rappresentano il meglio dei loro 25 anni di produzione architettonica: il Burnham Pavilion (Millennium Park, Chicago, Stati Uniti), il Centre for Virtual Engineering - ZVE (Fraunhofer Institute, Stoccarda, Germania), il Theatre Agora (Lelystad, Paesi Bassi), la Galleria Centercity (Cheonan, Corea del Sud), le pensiline della Arnhem Central (Arnhem, Paesi Bassi), il MUMUTH Music Theatre (Graz, Austria), la Holiday Home (ICA, Philadelphia, Stati Uniti), l’Education Executive Agency & Tax Offices (Groningen, Paesi Bassi), la Haus am Weinberg (Stoccarda, Germania), e il Mercedes-Benz Museum (Stoccarda, Germania). Roma, MAXXI / Nature 04 | UNStudio_Materia In Movimento | Motion Matters / fino al 13/4/2014


CARPENTERIA STRUTTURALE - FERRO BATTUTO - ACCIAIO Via S. Zenone, 13 - 25040 Monticelli Brusati (Bs) - Tel. 030.652195 - Fax 030.6852961 - www.ofam.it - info@ofam.it


premiazioni A sinistra: Collegio di Milano, 2007/in corso. L’area edificata è di 3mila mq e il progetto è stato commissionato da Fondazione Collegio delle Università Milanesi

Da sinistra: Via Goldoni - showroom e uffici Dolce & Gabbana, Milano, 2000/2002, area edificata 10mila mq, cliente Dolce&Gabbana S.r.l. Metropol, spazio multifunzionale, Milano, 2004/2005, area edificata 3.500 mq, cliente Dolce&Gabbana S.r.l. (Foto di Andrea Martiradonna)

EMBLEMA E VALORE DELL’ARCHITETTO ITALIANO

Sotto, da sinistra: i soci dello studio Piuarch, Gino Garbellini, Francesco Fresa, Germán Fuenmayor e Monica Tricario (foto di Enrico Basili)

Scelto tra 70 candidature, lo studio Piuarch ha ricevuto il premio dell’Architetto Italiano 2013, bandito dal Consiglio Nazionale degli Architetti. Tra le motivazioni risalta soprattutto la grande qualità architettonica e urbana a partire dalla complessità delle forze che oggi agiscono sulla trasformazione dell’ambiente, esprimendo capacità di dialogo con realtà diverse per cultura, aspettative, risorse economiche e tecniche. Lo stesso nome Piuarch, nato per caso durante il loro primo progetto, è testimone dell’eterogeneità del gruppo. Un’apertura allo scambio di opinioni e all’arricchimento di esperienze altre. Una scelta che ha portato alla crescita non di un singolo elemento ma di tutti i componenti. Piuarch è un gruppo formato da 4 soci architetti, undici associati e tanti altri collaboratori che si è provato in differenti campi dell’architettura. Lavora in Italia e all’estero e si è misurato con strutture diverse tra loro: dagli uffici allo show room, alle case popolari, al teatro-centro congressi.Tipologie diverse, nel linguaggio e nei materiali, progettate insieme alla committenza, rispettando la natura del sito e del suo intorno.

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A sinistra: Via Broggi - uffici e showroom Dolce & Gabbana, Milano, 2005/2006, area edificata 5mila mq, cliente Dolce&Gabbana (Foto di A. Piovano)

Sopra: Viale Piave - sede Dolce & Gabbana, Milano, 2009/2012, area edificata 10mila mq, cliente: Dolce&Gabbana S.p.A. (Foto di Andrea Martiradonna)

A sinistra: Bentini Headquarters, Faenza (RA), uffici, 2009/2010, area edificata 6.500 mq, cliente Bentini S.p.A. (Foto di Andrea Martiradonna)

Solo 17 anni di presenza nel mondo dell’architettura italiana e ora il primo premio dell’"Architetto Italiano 2013", bandito dal Consiglio Nazionale degli Architetti. Cosa si prova? Monica Tricario: «Naturalmente siamo molto orgogliosi di questo riconoscimento, che premia il lavoro di tanti anni; il nostro e delle persone che lavorano con noi. Posso dire che ci dà una nuova carica per il futuro, cosa fondamentale, soprattutto in un momento storico che non induce all’ottimismo». Francesco Fresa: «È un riconoscimento che arriva quasi inaspettato a coronamento di un grande impegno e passione. Inutile dire che ci riempie di tanta gioia e che sentiamo di condividere con il nostro team di amici, collaboratori e colleghi con cui abbiamo lavorato in questi anni e con tutti quelli che hanno

creduto nel nostro lavoro e nelle nostre idee». Piuarch: 4 soci e 11 associati. Qual è il legame di questo gruppo? Monica Tricario: «Il legame è dato soprattutto dalla capacità di collaborare. Noi quattro soci proveniamo da un importante studio italiano in cui abbiamo lavorato con molti architetti e abbiamo imparato a collaborare, a confrontarci con mentalità, caratteri e culture molto diversi tra loro, tutti però mantenendo obbiettivi comuni». Gino Garbellini: «Piuarch è un gruppo eterogeneo per formazione e identità; questo per noi rappresenta una grande ricchezza che alimenta il confronto. Abbiamo scelto anche il nome dello studio pensando a questa caratteristica: evitare la personalizzazione, il riconoscimento di un gruppo piuttosto del protagonismo del singolo».

Nel giudizio della commissione del CNA viene sottolineato quanto Piuarch operi in Italia e all'estero e soprattutto quanto operi su temi e scale diverse. Oggi molti studi optano per la specializzazione. A cosa si deve questa vostra diversa scelta? Francesco Fresa: «La scelta di operare in Italia è una decisione voluta a priori, mentre lavorare all’estero rappresenta per noi, non una semplice occasione di lavoro, ma l’opportunità di conoscere luoghi e culture nuove. Siamo curiosi di poterci confrontare con realtà diverse che troviamo molto stimolanti sia a livello professionale sia personale. Questo atteggiamento porta a confrontarsi con temi diversi, a non specializzarsi, e molto spesso questo esula dal tema e dalla ‘scala’ di intervento. Per Dolce&Gabbana abbiamo realizzato boutique ARCHITETTURA&PAESAGGIO 93


premiazioni A destra: Centro Congressi, Riva del Garda (TN), 2007/in corso, area edificata 25.600 mq, cliente Patrimonio del Trentino S.p.A.

A sinistra e sopra: Onda Bianca Porta Nuova, edificio per uffici, Milano, 2006/2013, area edificata 22.500 mq, cliente Hines Italia S.p.A. (Foto di A. Martiradonna)

in diverse città europee, ma anche in Oriente e negli Stati Uniti. Un’occasione che ci ha dato la possibilità di esercitare la pratica, di affrontare le difficoltà e sperimentare le specificità del costruire in paesi diversi». Nel vostro carnet sono presenti diverse architetture. Tutte, a prescindere dalla funzione o da una possibile tipologia, che rapporto hanno o generano con il contesto con il genius loci? Francesco Fresa: «Consideriamo l’architettura nel suo contesto, il luogo è molto importante per lo sviluppo del progetto. Non siamo per una architettura globalizzata né tantomeno di stile». Gino Garbellini: «Le nostre architetture non sono solo legate al luogo fisico. Sono attente ai riferimenti culturali mantenendo un dialogo con gli elementi. Con la committenza, cerchiamo di capire il perché di quel luogo o quel-

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l’edificio, lavorando insieme, più che sul nostro linguaggio, sul modo in cui ci avviciniamo al progetto, affinché il risultato sia riconoscibile, in relazione al contesto e allo stesso tempo universale». Quali materiali sono maggiormente adoperati nei vostri progetti? German Fuenmayor: «Sebbene da una parte è interessante lavorare con nuovi materiali legati alla risoluzione di problemi costruttivi, dall’altra preferiamo incorporare nuove idee all’utilizzo di vecchi materiali. Questa costituisce una sfida più consona con la nostra idea di economicità di mezzi, cercando di adottare il più possibile materiali naturali come il vetro, la pietra o il legno». Gino Garbellini: «Utilizziamo dei materiali con la volontà di dialogare con il contesto. Dialogo che è fatto di riferimenti ma anche di contrapposizioni».

Le nuove logiche costruttive legate alla sostenibilità quanto sono presenti nel vostro modus operandi? German Fuenmayor: «Siamo convinti che oggi sia fondamentale considerare la sostenibilità come concetto determinante per ogni progetto. Partendo da questo punto di vista, l’argomento è sempre presente nei nostri progetti ma più come elemento tecnico funzionale che come elemento enfatizzato nel nostro linguaggio». Come opera lo studio Piuarch quando c’è da progettare una nuova struttura all’estero? Francesco Fresa: «Sicuramente quando lavoriamo all’estero, cerchiamo sempre collaboratori, colleghi o situazioni che ci permettono di entrare in contatto più ‘profondamente’ con il luogo di intervento anche se poi la fase esecutiva viene gestita direttamente da noi,


Sotto: Case popolari, Sesto San Giovanni, 1996/2000, area edificata 4mila mq, cliente Comune di Sesto San Giovanni (Foto di Andrea Martiradonna)

Sopra: Quattro Corti, edificio per uffici, San Pietroburgo, Russia, 2006/2010, area edificata 23.500 mq, cliente Galaxy LLC (Foto di Andrea Martiradonna)

nello studio di Milano. Questo approccio comporta non poca fatica, ma è secondo noi il modo migliore per ottenere il controllo della qualità architettonica. Per esempio, realizzare più di 50 negozi di moda in tutto il mondo è stata una palestra molto utile e preziosa perché ci ha permesso, tra le altre cose, di dialogare con realtà locali e con colleghi di altre città». Quali mezzi di rappresentazione progettuale predilige il vostro studio? German Fuenmayor: «Fondamentalmente, sia nel processo di ideazione che di rappresentazione, prediligiamo l’approssimazione al progetto attraverso i modelli di studio ‘classici’ (plastici) anche se poi attingiamo anche dalle risorse che il virtuale può darci». Piuarch è un grande studio. In totale 35 operatori. Come nasce un vostro progetto, come cresce e si evolve?

Monica Tricario: «I nostri progetti nascono sempre da un confronto comune, dall'analisi del luogo in cui si va ad operare, dalla sua storia, morfologia, tradizioni, materiali, cultura. Il progetto è sempre la risposta a una serie di vincoli e suggestioni piuttosto che l'espressione di un formalismo stilistico codificato. In generale direi che una volta nata l'idea, ci si struttura in gruppi di lavoro che portano avanti le diverse fasi progettuali con periodiche verifiche comuni». Francesco Fresa: «Partendo dal nome per esempio: Piuarch è nato per caso, in occasione del nostro primo progetto. Ora siamo un gruppo di circa quaranta persone, e devo dire che lo spirito è ancora quello degli inizi. Lo spazio dove lavoriamo - che trovo molto bello e al quale siamo legati affettivamente, considerando il fatto che l’abbiamo ‘modellato’ partendo da una specie di rudere - ci rispecchia

molto secondo me. È un ex magazzino nel cuore di Brera, un grande spazio senza divisioni e con grandi tavoli intorno ai quali si lavora, si disegna, si costruiscono plastici, si fanno le riunioni, si mangia o si prende il caffè. A volte un po’ caotico, ma con quella caratteristica molto italiana capace di trasformare la confusione in concretezza». La luce e lo spazio nelle vostre architetture. Che tipo di relazioni cercate nel progettare? German Fuenmayor: «La luce costituisce un elemento fondamentale nella percezione dello spazio, al punto che uno non può prescindere dall’altro. Nei nostri progetti cerchiamo di dare un ruolo protagonista al rapporto fra luce e spazio, a partire dalle facciate, che costitutiscono delle vere e proprie membrane che filtrano e diffondono la luce, facendola diventare il fattore mediatore tra spazio e usuario».

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