Monte Sirente, storia alpinistica.

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Giancarlo Guzzardi

Parco Regionale Sirente - Velino

Monte Sirente

Storia alpinistica

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Giancarlo Guzzardi 2014


Parco Regionale Sirente - Velino

Monte Sirente Storia alpinistica Pochi cenni, qualche schizzo, sporadiche relazioni e qualche foto sbiadita; questa la documentazione solo in parte pubblicata su bollettini e riviste sezionali, in un arco di tempo che riporta indietro fino ai primi anni del 1900. In realtà, gran parte delle notizie storiche sull’alpinismo nei gruppi montuosi del Sirente e del Velino, sono pressoché rimaste sconosciute ai frequentatori della montagna appenninica. E lo sono ancora, se si escludono quelle contenute in alcuni lavori, più sistematici ma parziali, pubblicati nelle riviste di settore dalla metà degli anni '90 ad oggi. Questo breve excursus sulla storia alpinistica del Monte Sirente, messa a disposizione dall’autore in versione digitale, è parte di un lavoro approfondito e di più ampio respiro dedicato ai gruppi montuosi del Velino e del Sirente che, si spera, possa in un futuro non lontano vedere la luce sotto forma di guida alpinistica su carta stampata.


Uno scorcio dalla vetta massima della montagna

Il Parco Regionale Sirente Velino Il territorio del Parco Sirente Velino è ritagliato intorno ai massicci montuosi del Sirente e del Velino. La tendenza a considerare queste montagne come un unico gruppo montuoso è una convenzione utile ad una classificazione geografica, che non trova però riscontro nella realtà. Esse presentano infatti notevoli divergenze ma anche similitudini non solo a livello geomorfologico, ma anche nelle caratteristiche naturalistiche ed ambientali. I monti delle due catene hanno una spiccata individualità, anche se la posizione geografica che occupano non può non generare, specie nelle zone di confine tra i massicci, considerevoli interazioni di carattere ambientale. Le particolarità orografiche di queste montagne hanno in un lontano passato contribuito all’isolamento degli insediamenti umani sorti alle loro pendici, ma sui diversi versanti, fino alla metà del secolo scorso, alcuni impegnativi valichi tra i due massicci erano abitualmente usati da boscaioli, cavatori di ghiaccio, carbonai e cacciatori, che per necessità più che per diletto erano a conoscenza delle zone più appartate dei monti. Il Sirente e il Velino, insieme alle montagne distinte nei sottogruppi dei Monti della Magnola, delle Montagne della Duchessa, della Serra di Celano e di Monte Ocre/Monte Cagno, rappresentano geograficamente il centro del sistema montuoso abruzzese. Il loro insieme orografico è compreso tra le depressioni della Valle del Salto a sud ovest, la Valle dell’Aterno a nord e la conca del Fucino a sud. A est la ridente Valle Subequana mette in comunicazione con la Conca di Sulmona e la Valle Peligna, mentre a nord ovest le Montagne della Duchessa proseguono le loro linee oltre regione, saldandosi ai Monti del Cicolano nel Lazio. Nel Parco è


presente la terza vetta dell’Appennino, il Monte Velino con i suoi 2846 metri; altre considerevoli elevazioni sono il Sirente (2348 m), che sovrasta l’Altopiano delle Rocche, il Costone (2271 m), il Monte Ocre (2204 m), i Monti della Magnola (2200 m), il Murolungo (2184 m). Sulle quote più elevate del Velino, e in misura minore ma evidente anche sul Sirente, i fenomeni glaciali del Quaternario sono ancora presenti con imponenti e caratteristici circhi. Il fenomeno carsico è particolarmente presente specie a settentrione del territorio trattato: doline, campi carreggiati, rocce fessurate e montonate, e ancora vistosissimi fenomeni di grandi cavità carsiche a forma di imbuto (la più celebre è la Fossa Raganesca), di grotte (Grotte di Stiffe), di inghiottitoi (Pozza Caldara) e laghetti relitti di più ampi bacini. Tra le praterie d’alta quota vanno segnalate particolarmente quelle dei Prati del Sirente, dell’Anatella, dei Piani di Canale, della Val d’Arano. Il Sirente, a causa della permeabilità del suolo, è particolarmente povero di acque superficiali e ha scarsissime sorgenti. I ruscelli che si incanalano sono attivi solo nella stagione invernale e primaverile. Di essi permane tutto l’anno solo il Rio Gamberale, che si versa nella Pozza Caldara. Anche tra le fonti e polle d’acqua solo tre restano attive tutto l’anno: Fonte dell’Acqua (1156 m), Fonte Anatella (1404 m) e Fonte Canale (1352 m). Il paesaggio è alquanto omogeneo come tipologia su entrambi i versanti settentrionali dei due massicci, ma non mancano di certo gli aspetti peculiari che lo differenziano dalle altre montagne appenniniche: pareti rocciose che si innalzano a picco direttamente dalla faggeta sottostante, l’allineamento parallelo delle valli glaciali orientate a nord est, lo stesso isolamento geografico delle due montagne ai margini di ampie conche alluvionali del Pleistocene (del Fucino ad occidente e dell’Aterno a oriente). Una ulteriore similitudine deriva dalla estrema aridità ambientale sui versanti meridionali dei due massicci, dove solo a nord si sono mantenute integre oasi di folta vegetazione, essendo quest’ultimo versante caratterizzato da un’esposizione più fresca e da una maggiore umidità. Viceversa, i versanti esposti a sud ovest sono costituiti da una vegetazione tipica di clima secco, meno evoluta a causa della forte insolazione e della conseguente ridotta umidità. Nonostante la forte antropizzazione nel corso dei secoli, gli ambienti sono ancora in parte miracolosamente intatti, malgrado la vicinanza della Capitale, di grossi agglomerati urbani, delle autostrade e della incombente presenza di impianti e infrastrutture per il turismo invernale. Un microclima particolarmente rigido, difficilmente mitigato dalla presenza dei due mari Tirreno e Adriatico, consente un innevamento particolarmente abbondante fino a primavera inoltrata. La presenza ricca di essenze vegetali rintracciabili su rilievi non eccessivamente elevati, forniscono i presupposti per la formazione di importanti corridoi faunistici. La fauna selvatica in questi ultimi due decenni ha lentamente ricolonizzato tutti i più alti massicci appenninici, compresi quelli nel territorio del Parco Sirente - Velino. Sempre più frequenti sono le segnalazioni che riguardano la presenza dell’orso marsicano, del lupo, del gatto selvatico. Volpi, donnole e faine non sono rare. Molto ricca è anche l’avifauna con la presenza di coppie di aquila reale, poiane, sparvieri, gheppi e numerosi uccelli di passo, tra cui


in alcune stagioni figurano anche cicogne e gru. Comune è la vipera dell’Orsini, il ramarro e la salamandra. Indubbia è la presenza dell’istrice. Data la presenza diffusa di carnivori e in assenza di ungulati, al fine di ristabilire l’equilibrio biologico dell’area negli anni passati è stata pianificata dall’Ente Parco la reintroduzione di cervi, caprioli e camosci. Dagli anni ‘80 del secolo scorso i cieli sono tornati di nuovo ad essere terreno di gioco per il volo planato del grifone. Anche la vegetazione del Parco è particolarmente ricca: tra i fiori più comuni, ma anche più caratteristici, va ricordato il Narciso, che nella tarda primavera ricopre le praterie degli Altopiani delle Rocche. Assai numerose anche le piante officinali quali la Genziana maggiore, la Belladonna, l’Iperico, l’Olmaria e la Frangola. Varie e cospicue le fioriture d’alta quota con l’Adonide curvata, la Linaria alpina, il Ranuncolo della Majella e sui prati più alti e nei brecciai sommitali la classica Stella alpina appenninica. Abbondanti sono anche i frutti del bosco: fragole, more, lamponi e ribes e da non dimenticare i funghi, abbondanti su tutto il territorio e i tartufi della Valle dell’Aterno. I boschi di faggio rappresentano una delle maggiori caratteristiche di questo parco naturale; primo fra tutti quello sul versante nord del Sirente, che si estende per oltre 12 chilometri, da Rovere fino a Gagliano Aterno. Vanno anche ricordate le faggete ai margini della Val d’Arano, Capo Pezza, Valle Majelama e Vallone di Teve. Tra queste essenze arboree non sono rari gli esemplari di grande altezza e plurisecolari, soprattutto tra l’Anatella, i Prati del Sirente e a Capo Pezza. Molto ricco è anche il sottobosco. Numerosi sono anche i boschi di cerro e le zone di rimboschimento a Pino nero. Non mancano l’orniello, la quercia e il carpino. Di notevole interesse botanico sono alcune stazioni relitte di betulle nella Valle di Teve e in alcune vallette nel bosco alla base dei canaloni S. Vincenzo e di Monte di Canale al Sirente. Oltre ai valori naturalistici e ambientali il Parco Sirente Velino conserva notevoli interessi ed emergenze storiche e archeologiche. Numerosi sono i castelli distribuiti su tutto il territorio, come quello di Celano o i resti del Castello di Ocre. Chiese e conventi abbondano nelle vicinanze dei centri abitati. Elementi architettonici medievali sono presenti nei centri storici più conservati, come a Fontecchio e a Castelvecchio Subequo.


Monte Sirente

Il versante nord della montagna dai Prati del Sirente

“Il Sirente è una montagna bellissima. Quando nasce, nel mezzo dell'Altipiano delle Rocche, sembra un colle come tanti, ma poi il suo crinale invece di scendere dall'altra parte, continua a crescere e salire senza posa, disegnando una enorme mole allungata che si protende verso sud est per chilometri. Ai piedi del ripido e verdissimo fianco nord est si adagia una serie di stupendi pianori carsici: i Prati del Sirente. Tra questi e le pareti che sorreggono la cresta si distende un'ampia e rigogliosa faggeta che con morbide ondulazioni fascia tutta la montagna.â€? Manilio Prignano


Il settore dello Spalto della "X"

Per chi percorre d’inverno la strada provinciale dell’Altopiano delle Rocche, una visione inaspettata si offre allo sguardo: severa e imponente la parete nord del Monte Sirente troneggia al di sopra di prati e ampi dossi boscosi. Appicchi rocciosi che scompaiono nella fitta faggeta, canaloni profondi e solitari, rupi tagliate in mille forme di guglie, torrioni e monoliti, gioghi di prestigio di creste dentellate ed aeree; questo è il colpo d’occhio mozzafiato, affascinante e severo al tempo stesso, che in passato è valso alla montagna l’appellativo di “Dolomiti d’Abruzzo”. Considerando che questa regione non è affatto avara di scorci paesaggistici ammirevoli, di luoghi dove è possibile ancora oggi trovare ambienti che mantengono la loro bellezza inalterata, non sono poi tante le montagne che possono vantare quel pathos arcano e inusuale che solo la presenza della roccia riesce a dare. Il versante nord del Sirente affascina con le sue alte pareti, la conformazione labirintica, una cresta apparentemente difficile da guadagnare.

Inquadramento generale Con una quota rispettabile di 2348 metri il Sirente è geograficamente al centro dell’Appennino abruzzese. Per le sue spiccate caratteristiche, a ragione è da considerare catena montuosa a parte anche se, insieme al Monte Velino, a cui è unito dal tormentato territorio della Serra, forma orograficamente un unico gruppo montuoso, il cui complicato sistema di crinali e valloni, mette in comunicazione le montagne abruzzesi con i Monti Carseolani nel Lazio. A est del Velino, si erge con una lunga e compatta dorsale orientata in direzione nord ovestsud est nella quale, insieme alla sommità principale, topograficamente si rilevano alcune elevazioni poco distinte: Mandra della Murata (1949 mt), Punta Macerola (2258 mt), Monte di


Canale (2207mt), Monte San Nicola (2012 mt), a formare un’interrotta giogaia lunga circa 20 chilometri, che si allunga dall’abitato di Rovere alla Piana del Baullo. A far da contraltare al dolce e sonnacchioso versante meridionale che scende verso Ovindoli, a nord la montagna precipita bruscamente con un impressionante muro roccioso che si estende per quasi 10 chilometri e nella sua parte centrale supera d’un fiato un dislivello di oltre 600 metri. In questa discesa a picco è interrotta solo da alcuni ampi e ripidi canaloni, sedi di antichi ghiacciai nel Pleistocene. La lunga dorsale che la montagna sviluppa con direzione NO-SE, si affaccia sulla Valle Subequana e sull’alta Valle dell’Aterno con un fronte roccioso che è in effetti la faglia di scorrimento messa a nudo dai movimenti tettonici. Notevole dunque è la dissimmetria dei due versanti, poiché quello affacciato sulla piana di Ovindoli si presenta con una morfologia molto poco accentuata e piuttosto uniforme, di chiara origine carsica. Poco accennate risultano anche le formazioni vallive, riconoscibili solo in grandi depressioni carsiche chiuse. Tra queste i Prati del Sirente e la conca di Fonte Canale, entrambe originatesi dalla cattura per via sotterranea di corsi d’acqua superficiali. La depressione ne conserva appunto la forma allungata, oltre ai residui laghetti relitti di un preesistente bacino. Parlando del territorio del Parco si è già accennato alle differenti caratteristiche orografiche e ambientali delle due catene montuose Velino e Sirente, ma occorre ricordare la grande copertura boschiva di quest’ultimo sul suo versante nord est, riscontrabile altrove solo nei territori della Duchessa e di Campo Felice. Per tutta l’estensione della dorsale montuosa, dall’abitato di Rovere al Passo di Forca Caruso, le pendici della montagna risultano ricoperte da una fitta faggeta. A fare da contrasto è la scarna o inesistente vegetazione sul versante sud della montagna, caratterizzata essenzialmente da praterie d’alta quota.

Le vallecole nei pressi di Mandra Murata


Cenni di geologia e climatologia Il Sirente ha la stessa natura geologica riscontrabile nel massiccio del Velino; è costituito da rocce calcaree con sporadici affioramenti basali di dolomie (E. Beneo, 1943). Nella parete NE sono stati riscontrati strati litici risalenti al medio Giurassico (160 milioni di anni), ma la gran parte dei tipoliti è costituita da rocce sedimentarie di tipo marino risalenti al Cretaceo inferiore (65 milioni di anni). Si tratta di calcari organogeni, spesso compatti e ricchi di fossili (molluschi, coralli, alghe), originari di un mare basso a clima tropicale, scenario primordiale comune ai grandi massicci montuosi dell’Appennino centrale. Il periodo Quaternario è ben rappresentato in zona da alcune manifestazioni: sedimenti di origine lacustre nelle valli, coni di deiezione e glacialismo alle alte quote. Ammassi di pietre e ghiaie (clasti) nelle diverse pezzature, effetto dell’erosione superficiale caratterizzata dalla frammentazione delle strutture rocciose dovute all’alternarsi di gelo e disgelo, sono presenti ovunque sul Velino e sul Sirente, in grandi dimensioni e riscontrabili in particolar modo sui versanti settentrionali e a quote oltre 1500 metri. Manifestazioni di glacialismo sono evidentissime sul versante nord est del Sirente, dove 5 nicchie di discrete dimensioni si aprono sul fronte della montagna: canaloni di Monte Canale, San Vincenzo, Neviera, Valle Lupara, Majore, insieme a colate di più modeste dimensioni (canali Gemelli). Da queste discendevano altrettanti piccoli e veloci ghiacciai, tenendo conto dell’attuale ripidezza dei pendii. Intorno a quota 1500 metri se ne riscontrano ancora oggi i resti delle morene frontali, ma le lingue di ablazione dovevano spingersi al di sotto di questa quota; infatti nel fitto della faggeta spesso si riscontra un buon numero dei cosiddetti “massi erratici”. La cresta sommitale della montagna mostra in modo inconfondibile la classica linea a mezzaluna delle antiche sedi glaciali, soprattutto in corrispondenza degli attuali canaloni. Sul Monte Velino il circo glaciale della Valle dei Briganti è uno dei più estesi delle montagne abruzzesi, insieme ai solchi vallivi della Val di Teve e di Valle Majellama, sedi di cospicui ghiacciai. A causa dell’orografia complicata del territorio, nell’area ricompresa tra i monti Sirente e Velino si assiste ad una presenza marcata di microclimi che caratterizzano i versanti meridionali e settentrionali. Sul Sirente è possibile osservare in generale quella stessa tipologia climatica riscontrabile anche per il massiccio del Velino, per il quale la linea di demarcazione dal quale è separato è puramente convenzionale, esistendo geograficamente un continuum orografico attraverso il solco delle Gole di Celano, la Serra e i piani carsici delle Rocche. Sul versante settentrionale del Velino si rileva un clima di tipo temperato suboceanico; lo stesso con il quale si classifica tutta la catena appenninica, apportatore di umidità attraverso le correnti provenienti dall’Atlantico. Parallelamente, uno spiccato microclima caratterizza le zone del massiccio esposte a sud e a ridosso della piana del Fucino (a questo proposito si ricorda come il prosciugamento del lago effettuato alla fine del 1800, abbia apportato un ulteriore radicale cambiamento, per cui quest’area risente oggi di periodi più o meno lunghi di aridità estiva di tipo mediterraneo). Rivestono oltremodo particolare interesse i fenomeni climatici che caratterizzano il versante N-NE del Sirente, l’Alta Valle dell’Aterno e la Valle Subequana. La


prima in special modo, risente ancora del clima mediterraneo, a causa di un influsso mitigante delle correnti che spirano dall’Adriatico e che, attraverso le Gole di Popoli e di San Venanzio, portano un clima più temperato ai paesi che si allineano lungo l’alta Valle dell’Aterno. Oltre l’abitato di Stiffe invece, il territorio si chiude con un brusco dislivello che separa la Valle subequana dalla piana aquilana. A sud ovest, un’altra dorsale che culmina in Monte Castello (1403 m), impedisce di fatto alle correnti più miti di penetrare sulla piana del Sirente e di raggiungere quindi l’Altopiano delle Rocche.

Ultima luce sullo Sperone di Mezzo


Pagine di storia Una prima insolita, in notturna. Volevamo concludere in bellezza una stagione alpinisticamente molto attiva: Rimpfishhorn, Strahlhorn, Via Dufour al Monte Rosa, diverse arrampicate nei gruppi del Pelmo, Bosconero, Spiz di Mezzodì nelle Dolomiti zoldane ed ancora al Gran Sasso, al Costone di Pezza, la Montagna Spaccata di Gaeta, Leano e tanta palestra. Una stagione che meritava una degna conclusione, avevamo studiato la possibilità di una via nuova al Costone, sul pilastro centrale, poi con i primi freddi ogni velleità andò spegnendosi pian piano, già si pensava alle prime nevi, agli sci, alle gare di fondo, di discesa. La conclusione eccezionale venne senza particolare programmazione. Un sabato sera decidiamo di andare a vedere la parete nord del Sirente, la guida da’ una via che sembra abbastanza interessante: direttissima alla quota 2200 Cavallini Vecchietti. Raggiungiamo i Piani del Sirente in macchina e presto siamo nel fitto bosco che copre le pendici del monte. Quando finalmente ne usciamo, dopo una buona ora, ci troviamo davanti una parete frastagliata, solcata da numerosi canaloni. Con un po’ di difficoltà riusciamo a trovare il camino dove sale la via che ci da’ subito il benvenuto scaricando un pietrone a pochi passi da noi. Attacchiamo il caminaccio strapiombante. L’uscita è strettissima e bisogna abbandonare ogni raffinatezza stilistica (e diversi bottoni) per riuscire a raggiungere il terrazzino sovrastante. Di qui la via prosegue lungo il fondo del canalone, su varie placche levigatissime e molto inclinate dove risulta difficilissimo trovare appigli per le mani o buone fessure per un chiodo. Il canalone si biforca. Proseguiamo sulla sinistra fino ad un evidente punto di sosta dove troviamo un vecchio chiodo in una fessura spaccata dal tempo. Sarà l’unico segno di una precedente salita che troveremo. Di qui per un altro salto ben levigato si raggiunge un meraviglioso arco naturale di roccia alto una trentina di metri, tutt’intorno un ambiente sorprendente, guglie, pareti strapiombanti, veramente inconsueto per un paesaggio appenninico. Finora una bella ascensione di IV grado, Proseguiamo a sinistra per raggiungere facilmente una sella, ottimo punto di osservazione per studiare la via di salita. Solo ora ci accorgiamo che il sole se n’è andato da tempo, comincia a imbrunire e la quota 2200 della guida, da quanto riusciamo a vedere è ancora lontana, siamo forse a metà via. Decidiamo di scendere per due ragioni, primo non conosciamo la via, secondo dal punto dove ci troviamo non riusciamo a individuarla. La parete si allarga in cento piccoli canaloni, spigoli e paretine, troppe possibili soluzioni per proseguire avanti. Ripercorrere la via di salita ci sembra troppo difficoltoso per tutte quelle placche levigate. Sulla sinistra un facile canalone c’invita a tentare una nuova via di discesa. Dopo circa 200-300 metri ci troviamo davanti un primo strapiombo. E’ già buio. Decidiamo per una corda doppia ed in breve siamo circa 25 metri più in basso. Dopo una ventina di metri un secondo strapiombo troppo alto per la nostra corda, ci preclude definitivamente la discesa. Siamo in un bel guaio, in basso una parete di 60-70 metri, sopra le nostre teste quei 25 metri di parete appena superati con una facile corda doppia. E’ definitivamente notte. Strano, ma pensiamo alle nostre madri. Ci prepariamo a bivaccare, giacca a vento, cappuccio di lana e via a cantare, tutto il repertorio del coro. La luna non si vede. Un’ennesima aggravante, nella nostra perenne disorganizzazione logistica dimentichiamo spesso acqua e viveri. Mangiamo l’unica mela rimasta. Siamo quasi a digiuno, assetati. Comincia a far freddo e cerchiamo di muoverci come possibile, poi solo per scaldarci andiamo a mettere le mani su quella paretina di 25 metri che ci chiude la via di salita. Un primo appiglio, sulla destra la possibilità di spaccare, quindi con maggiore sicurezza qualche passo verso l’alto, un primo chiodo, ancora un’altro ed un altro ancora, forse è possibile, arrampicata cieca!!! Non ci sembra vero ma siamo fuori, abbiamo lasciato almeno 5 chiodi sotto di noi. Siamo molto soddisfatti, ma raggiunta la selletta da dove avevamo cominciato la discesa, ci rendiamo conto che il problema si è spostato più in alto ma rimane lo stesso. Escludiamo la discesa e prendiamo l’unica soluzione possibile, direi anche la meno rischiosa, cominciamo a salire con la massima precauzione, cercando nel buio una via di salita. Una relazione sulle 3 o 4 ore di arrampicata che seguono è impossibile, siamo saliti per dove si passava, spigoli, diedri, paretine, qualche chiodo, cercando sempre di seguire le cenge verso destra, per uscire a quote più basse. Più volte trovata una chiazza erbosa, o una comoda roccia abbiamo dovuto reagire ad un pericoloso sopore. Poi quasi improvvisamente, usciamo in cresta, un fresco venticello di ridà forza, siamo sotto l’anticima del Sirente. Un’ultima decisione se scendere a Rovere o Ovindoli, ma Ovindoli è laggiù con le sue luci e le sue case, la strada è nota, non abbiamo indugi. Scendiamo cantando verso Val D’Arano dove troveremo finalmente, da un tubo bucato dell’acquedotto, ristoro per la nostra gola arsa. Ad Ovindoli riusciamo finalmente a vedere l’ora, sono le 3 e mezza. Andiamo a svegliare la signora Renata, e chiediamo alloggio e qualcosa da mettere sotto i denti. Più che alle parole la brava ospite crede alle nostre facce. Vino, salame, pane, formaggio ed un indimenticabile …letto. Morale: non sottovalutare le pareti nord del Sirente. Vittorio Kulczicki (SUCAI Roma)


Roberto Franceschetti (CAI Valzoldana)

In Valle Pretosa, sotto gli appicchi rocciosi della Parete Nord


L’alpinismo in zona La storia alpinistica del Sirente ha le sue cronache d’annata, uno stillicidio di ascensioni a volte di pregio, nella più pura tradizione di un alpinismo che in passato è stato soprattutto esplorazione. Un vagabondare negli angoli più nascosti della montagna, alla ricerca di linee di salita attraverso creste, speroni e pareti inviolate e lontane dall’affollamento di altri santuari dell’alpinismo appenninico. Un ambiente dove la performance sportiva, le tendenze e la scala delle difficoltà perdono valore, a favore di un appagamento spesso del tutto personale. Un’attività a volte febbrile e in gran parte sconosciuta, da parte di un pugno di cordate avvicendatesi nel tempo. Il versante nord est, con le sue alte pareti solcate da una miriade di speroni, guglie e colatoi, non può non destare sorpresa nell’occhio dell’osservatore, in un paesaggio dolce e armonioso, fatto di pascoli, pianori e colline boscose. Il desueto appellativo di “Dolomiti d’Abruzzo” è più che giustificato, specie se si osserva questo versante con particolari condizioni di luce e in alcuni periodi dell’anno. Tra le montagne dell’Appennino centrale riveste un posto di pregio tra gli ambienti squisitamente d’aspetto alpinistico. Più modestamente, in passato la montagna ha raccolto le briciole delle attenzioni e delle realizzazioni alpinistiche, con una serie di salite che poco o nulla hanno lasciato alle cronache scritte. Sicuramente questo vuoto è frutto dell’ingombrante presenza del vicino Gran Sasso, ma anche del disinteresse di molti frequentatori a testimoniare e a tramandare eventi e attività alla memoria collettiva. Il resto, è da imputare senza dubbio ad una carenza da parte degli addetti ai lavori, riviste di settore, mass media, associazioni come il Club Alpino Italiano, di quanti insomma ruotano intorno al panorama montagna, che hanno mancato di portare all’attenzione del grande pubblico e ad incentivare un’attività in Appennino sotto molti aspetti preziosa e non banale. Ma l’impulso lanciato da un pugno di salite e da poche cordate nelle ultime decadi, ha in tempi più recenti stuzzicato la curiosità, la passione e l’intraprendenza di più giovani leve dell’alpinismo del centro Italia, in parte in fuga dai luoghi classici dell’arrampicata. La storia di oggi è quella di cordate che hanno ripreso il filo della tradizione di un entusiasmante esplorazione, come un ritorno alle origini, regalando al Sirente il giusto posto che merita nel contesto alpinistico.


Alla testata del Canale Majore Già la prima salita storica che si ricordi viene effettuata in inverno, quasi a voler suggellare le caratteristiche della montagna in questa stagione, che saranno tra le più apprezzate successivamente. Così Enrico Abbate ed Edoardo Martinori, accompagnati da Benedetto Petrarca, effettueranno la prima salita invernale il 23 febbraio 1881; quella ufficiale almeno, in quanto l’attività dei locali sui diversi versanti è stata intensa fino alla metà del 1900 e le zone più appartate della montagna erano conosciute e frequentate per la sussistenza delle comunità, da boscaioli, cavatori di ghiaccio, carbonai, cacciatori. Trascorrono 28 anni e una nuova salita, questa volta più tecnica, si svolge lungo un imprecisato itinerario nella zona del Canale Majore: è il 1909 quando E. Gallina ed E. Segre salgono alla vetta massima attraverso un canale con passaggi di II grado nella parte alta del Majore. Silenzio ancora per quasi tre decadi, fino alla lunga e difficoltosa salita di Dario Cavallini ed Enrico Vecchietti a Punta Macerola. In seguito, proprio la conformazione del versante nord della montagna, favorirà lo sviluppo di un’attività alpinistica soprattutto in inverno, regalando a pochi pretendenti un ricco terreno di gioco, la cui preziosità costituisce solo una modesta parte delle potenzialità offerte da un ambiente in cui la progressione su misto, roccia-neve-ghiaccio, è la regola. In questo senso, tenendo conto delle dimensioni della montagna, delle sue caratteristiche morfologiche e climatiche, il Sirente rappresenta nell’Appennino centrale uno tra i luoghi in cui è possibile conoscere e vivere appieno gli aspetti peculiari di un alpinismo che, specialmente in inverno, nulla ha da invidiare a quello da sempre praticato a più alte quote. Secondo i canoni tradizionali dell’alpinismo, chi predilige le salite in questo ambiente complesso e mutevole è sicuramente un “occidentalista”. Fino agli anni ’70 l’attività alpinistica sul Sirente risente di quel concetto imperante, specialmente in provincia, che vuole l’alpinismo esclusivo appannaggio dell’arco alpino dove, fin dalla sua nascita, questa tradizione non si è mai fermata dall’800 ad oggi. Sono cadute dapprima le vette più celebrate poi i vari versanti delle montagne, per approdare infine alle linee più deboli e logiche delle strutture rocciose. Con il passare degli anni l’uomo ha continuato a misurarsi sempre più con le difficoltà, in un rapporto per metà sportivo e per altri versi intimo e spirituale. Dopo le fessure, i camini, i diedri, le rampe e i canali, sono le pareti aperte a sfidare un’attività che ha continuato a crescere di pari passo alla preparazione atletica


e all’evoluzione delle attrezzature. Ma se in Appennino l’attività in taluni luoghi come il Gran Sasso e i Monti Sibillini, a fatica è riuscita in passato a colmare quel divario materiale e concettuale che la separava da quella praticata sulle Alpi occidentali e Dolomiti, lo stesso non può dirsi per quei monti a torto sempre ritenuti “minori”. Luoghi questi, che al massimo venivano considerati come palestra di allenamento per più ambite mete, in un atteggiamento di assoluta timidezza e soggezione in cui l’alpinismo di provincia si è auto relegato. Parlare o, peggio ancora relazionare una salita su questi monti, per anni è stato considerato con sufficienza, se non con ironia. Un complesso di situazioni quindi, che per decenni ha portato ad un affollamento sempre più massificato delle pareti accessibili del Gran Sasso, mentre pochi riservati personaggi fuori tendenza sgroppavano faticosamente per esplorare e risalire pareti perse negli angoli meno frequentati e sconosciuti dell’Appennino.


Sulla Via Graziosi/ Mainini in inverno Dopo estemporanee visite da parte di alcuni alpinisti di spessore come Sandro Graziosi di L’Aquila e Giuliano Mainini di Macerata, che negli anni a cavallo tra il 1969 e il 1971 compiono alcune salite nell’angolo piÚ conosciuto ed accessibile del Sirente (quello tra il Canale Majore e


la vetta massima), occorrerà attendere dieci anni per vedere altre cordate dedicarsi a salite più che altro di stampo invernale. Andrea Gulli, i fratelli Bruno e Stefano Tribioli e qualche altro arrampicatore di punta provenienti dalla capitale, nell’intervallo della loro cospicua attività sulle pareti del Gran Sasso, portano a termine alcune belle grande course risalendo i lunghi speroni rocciosi che bordano su entrambi i lati il Canale Majore. La Cresta Nord Est dello Sperone di Mezzo e la Direttissima alla Vetta rimarranno per diversi anni le uniche conosciute del Sirente, fino a diventare classiche discretamente frequentate. In precedenza, sempre in modo occasionale, due giovani alpinisti, Vittorio Kulckzjcki della SUCAI di Roma e Roberto Franceschetti della Val di Zoldo, avevano toccato con mano le difficoltà tecniche e d’orientamento che il versante nord del Sirente sa opporre, nel tentativo di ripetere la prima via con vere difficoltà alpinistiche che le cronache scritte ricordano: quella aperta da Dario Cavallini ed Enrico Vecchietti nel lontano 1934. Una via che, con grande intuito, risale l’alta bastionata rocciosa di Punta Macerola con difficoltà all’epoca valutate di IV grado. Dal Lazio ancora, arriveranno altre cordate a rimarcare la tradizione di un alpinismo che prende spunto dalla città, per approdare con anni di ritardo nei piccoli centri della provincia abruzzese. Armando Baiocco ed Ettore Pallante, in compagnia di compagni vari, porteranno avanti tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80, un’attività esplorativa ancora più estesa e puntuale, che si spingerà a toccare angoli del Sirente mai frequentati in precedenza. In particolare le loro salite si svolgeranno in luoghi davvero appartati, come la Montagna di Canale, la zona della Neviera o la zona dei canali Gemelli. Non più solo la tendenza ad esplorare quindi, ma anche l’intento a disegnare linee di salita e a superarne le difficoltà; nascono così alcune belle vie su roccia come la Via dei Vecchiacci al 3° pilastro dello Sperone centrale della Neviera, l’ardito Spigolo Nord della Pala di Monte di Canale, lo Spigolo Est della Punta Rossa allo Sperone di Mezzo. Ad interrompere lo snobismo che caratterizza l’ambiente alpinistico abruzzese nei confronti di questa montagna, penserà la cordata marsicana di “Toto” Capassi e Domenico Mancinelli, che con altri compagni daranno vita alla Via dell’Imbuto in un settore assolutamente vergine della parete nord. Ma sarà un evento estemporaneo nella loro pur interessante attività in Appennino Centrale. Nuovamente un forte arrampicatore della provincia romana, a metà degli anni ’80, traccerà alcuni itinerari lasciando la propria firma su alcuni settori importanti della parete nord, quelli di Punta Macerola e dello Spalto della “X”. Con grande intuizione Guglielmo Fornari di Palestrina, con Giancarlo Lombardozzi e Cesare Giuliani, aprirà in inverno un nuovo itinerario nel canale in parte risalito dalla via del 1934, quello dove uno splendido arco di roccia fa’ bella mostra di se dando il nome alla via: Diretta all’Arco naturale. Sempre in inverno, la stessa cordata si ripete salendo una bella linea logica in un settore della parete dove due canali diagonali incrociati formano una grande “X”. Essi ne risalgono il Braccio destro, aprendo un itinerario che negli ultimi anni è diventata un’altra classica.


Lunghezze impegnative sulla Via dei Nibelunghi L’esplorazione continua e la ricerca di linee logiche che risalgono il versante nord della montagna, viene portata avanti da altre cordate di fuori regione. Ancora tra la fine degli anni ’80 e gli inizi dei ’90 sono Vincenzo Abbate ed i fratelli Manilio e Ignazio Prignano a dare un apporto a quest’attività, mossi da una straordinaria passione per l’Appennino e per luoghi poco


conosciuti e solitari. Nel 1987 i fratelli Prignano salgono uno splendido pilastro di ottima roccia sulla struttura dell’Altare, “Quanto silenzio” è il nome che daranno alla via, un appellativo che riecheggia l’atmosfera in cui si è immersi quando si arrampica su questa montagna. Manilio qualche anno dopo salirà un altro bell’itinerario di cresta nella zona della Neviera, salendone con Stefano Cottarelli lo Sperone Centrale per un itinerario che successivamente prenderà il nome di Via XXV Aprile. Vincenzo Abbate, attivissimo in particolar modo sul massiccio montuoso del Velino, già nel 1977 con la Via dei Tiburtini aveva salito in compagnia di Baiocco e Pallante un bel canale nella zona dei Gemelli e l’anno successivo, sempre con gli stessi compagni, ripete la Via Grazioni/Mainini alla Cima Sud dello Sperone di Mezzo . Tornerà nel 1994 assieme a Massimo Risi per salire un canalino in una zona assolutamente appartata della montagna; la via, Sogno di primavera, corre parallela allo Spigolo nord della Pala. Nel gennaio del 1988 anche il forte Massimo Marcheggiani, in compagnia di Massimo Risi, non disdegna di salire un itinerario di misto alla Punta Rossa dello Sperone di Mezzo. Il Canalino Nord per la sua accessibilità si rivelerà un itinerario destinato ad essere di tanto in tanto ripetuto e ad avere addirittura una prima discesa con gli sci, portata a termine da Rinaldo Le Donne il 18 aprile 2010. Sicuramente un exploit nel suo genere.

Belle realizzazioni finora, ma frutto di una frequentazione discontinua nell’arco di più di venti anni. Una svolta decisiva all’attività esplorativa portata avanti con una certa continuità ed in qualche modo con puntuale ricerca si avrà all’inizio degli anni ’90, quando alcune cordate che gravitano intorno alla figura di Giancarlo Guzzardi, torneranno a “riconsegnare” la montagna all’alpinismo abruzzese. Egli fa la sua comparsa in zona già nel 1984, in compagnia all’epoca del suo compagno di cordata Paolo Mosca, deceduto un anno più tardi in un fatale incidente di arrampicata. Essi esplorano quella bastionata rocciosa che culmina nella Punta Macerola in una tempestosa giornata di gennaio, quando slavine di neve polverosa spazzano di continuo i tetri colatoi alla base della parete. E’ un’immagine da tregenda quella che si presenta, da loro mai vista; un labirinto di rocce rese scure dall’assenza di luce e dallo stillicidio di acqua e ghiaccio di fusione, spazzato di continuo da slavine di neve polverosa, ma è una immagine che si imprimerà indelebile nell’animo di entrambi e tornerà successivamente a rodere come un tarlo la mente di Guzzardi. Alcuni itinerari non difficili saliti nella zona del Majore con compagni vari nel 1988: lo Sperone degli Angeli, la Via della Sorpresa, poi l’anno successivo la prima via salita con Enzo Paolini e Luca Balassone a Cima L’Aquila, per un itinerario marginale a sinistra della Punta Rossa. Da questo momento l’esplorazione della montagna, la ripetizione di alcuni


Il "Canalino diretto in vetta" dalla cresta dello Sperone di Mezzo itinerari esistenti e i progetti di apertura di vie nuove, assorbiranno completamente la sua attivitĂ alpinistica, contribuendo a restituire al Sirente la giusta attenzione. Il sodalizio di


Guzzardi con Paolini darà per qualche anno origine ad alcune belle vie e ad una intensa esperienza, umana e alpinistica insieme. Il 19 febbraio del 1995 viene ripetuta in prima invernale la lunga e affilata Cresta nord di Quota 2151, salita da Baiocco e Pallante pochi anni prima. Nel settore della “X” lo stesso inverno aprono la Via degli Irriducibili, superando un evidente camino e una rampa-canale ancora inviolate. Già nell’inverno precedente i due avevano portato a compimento la lunga cavalcata dello Sperone Sinistro della Neviera, rinunciando all’uscita in cresta per il sopraggiungere della notte. La cordata nel buio ripercorre in arrampicata e con alcune doppie l’esatto percorso di salita, con una percorrenza non stop di 15 ore e una temperatura notturna di -14°C. Un’esperienza e una lezione fondamentale che si rivelerà molto utile. Sempre nel dicembre del 1993 è la volta dello Sperone Destro ad essere salito per la Via Grande nord. Cosa importante, in questi anni si assiste ad un puntuale resoconto delle salite, che iniziano ad avere una eco sulle riviste di settore. L’anno successivo nascono in successione alcune brevi vie su roccia di media difficoltà: la Diretta all’anticima di Quota 2151 di Monte Canale che Guzzardi sale con Paolini, la Via della Cresta Sud della Pala e la Via Chico Mendes al Pilastro dei Peligni con Giulio Scalzitti. Col sopraggiungere dell’inverno prende corpo un nuovo progetto di salita sull’inviolata struttura dell’Altare, una bella e tozza torre nella zona della Neviera. Il 3 e 13 marzo vengono portati a compimento due tentativi con Paolini e Scalzitti, che si arenano al di sotto dei difficili salti terminali. Si dovrà attendere il marzo del 1996 per il completamento insieme ad Angelo Angelilli, in compagnia del quale Guzzardi effettuerà sulla montagna alcune belle realizzazioni. Angelilli fa la sua comparsa nel 1994 sulla scena del Sirente, realizzando con Gabriele Davide la Via Cumbre al Pilastro nord ovest dell’Altare. Forte arrampicatore su roccia, che di lì a poco trasferirà la sua bravura sulle big wall negli States, egli era all’epoca alle prime armi con il terreno misto e l’ambiente invernale. Salirà con Guzzardi tra il 1995 e il 1998 diverse vie, tra cui la Via dei Nibelunghi al Pilastro Basso del Majore, unico itinerario tuttora esistente su questa struttura, aperto in condizioni ambientali durissime. Effettueranno ancora una ripetizione della classica Via Gulli alla vetta per una interessante variante bassa, la ripetizione integrale della Via Sotto il segno di Orione e la salita in condizioni invernali della Via Graziosi/ Mainini alla Cima Sud dello Sperone di Mezzo. Sempre nella zona del Majore, i due in compagnia di Gabriele Davide salgono Ritorno al Sole, breve e non difficile itinerario che condensa in piccolo il tipo di terreno e l’ambiente delle salite invernali al Sirente. Anche questo si avvierà a diventare un itinerario conosciuto e frequentato. Insieme a Gabriele Davide, i due apriranno ancora la Via dello Spigolo al 2° Pilastro dello Sperone Centrale della Neviera. Il 1996 è l’anno dell’apertura di un’altra bella via nel settore della X, dove Guzzardi in compagnia di Giulio Scalzitti percorrerà un itinerario che collega una serie di incassati canali; nasce così Supercanaleta. Nel frattempo, sembra che sulla montagna non vi siano altri e diversi pretendenti. Enzo Paolini torna in successione e sale con Manilio Prignano il Pilastro dell’Indio allo Sperone


Primi anni '80, arrampicata in Valle Lupara Centrale della Neviera, Vette d’Argento sulla bella struttura del Palazzo ed ancora un’altra via su quest’ultima struttura salita per il pilastro centrale. Si è ormai quasi alla fine degli anni ’90; in questo periodo si assiste anche ad una serie di ripetizioni solitarie di molti itinerari di media


difficoltà; attività forse motivata dall’ambiente locale poco ricettivo a livello alpinistico e alla conseguente difficoltà a reperire compagni giustamente motivati per effettuare salite in un ambiente che richiede enormi sacrifici, in termini di complessità tecnica e sfiancanti tentativi. Così di seguito Guzzardi il 4 gennaio del 1996 ripete in solitaria la Via dei Cinque e il 27 febbraio il Braccio Destro nel settore della X, mentre Enzo Paolini il 3 marzo ripete la Cresta Nord di Quota 2151. Ancora il 5 dicembre dello stesso anno Guzzardi apre da solo un breve itinerario sull’Altare, denominato Passaggio segreto per via della sua ubicazione nascosta. Il 23 febbraio 1997 sempre Guzzardi sale integralmente la Via XXV Aprile, seguita il 4 marzo dalla ripetizione integrale della Cresta NE dello Sperone di Mezzo. Lo stesso, il 12 marzo 1995 aveva già ripetuto in solitaria la Diretta all’Arco per la facile variante Baiocco/Pallante. Si è alla fine del 1999, gli stessi Guzzardi e Paolini continueranno i loro trip solitari salendo: Guzzardi la Via Grande Nord il 4 aprile e Paolini Vette d’Argento il 28 novembre. Ad una sola settimana di distanza, quest’ultima via verrà ripetuta in solitaria anche da Guzzardi. Se si eccettua la salita di Sergey Pustovarov del Canalino a destra del Camino a NE nel febbraio 2000, non si è a conoscenza di salite solitarie effettuate da altri alpinisti, a rimarcare il concetto che non è possibile un approccio a questa montagna se non si è sviluppata con essa un’intima

conoscenza

e

una

dimestichezza

con

l’ambiente,

frutto

di

una

costante

frequentazione. Quest’attività solitaria culminerà per Guzzardi con l’apertura di Antartica, via non banale sulla bastionata di Punta Macerola, salita il 28 febbraio 2003. Certamente, si è trattato del coronamento di una lunga e intensa attività e, senza dubbio, di un momento di grazia nella determinazione interiore a superarne le difficoltà. Anche in questo caso, l’itinerario è stato salito dopo innumerevoli tentativi precedenti. Si chiude così uno scorcio di secolo ed insieme ad esso un periodo della storia alpinistica al Monte Sirente. E’ evidente la fine di una fase in cui l’attività si è trasformata strada facendo; non più o non solo esplorazione, ma ricerca sistematica e ideazione di vie nuove in tutti i settori della montagna.

Nel numero novembre/dicembre 1998 della “Rivista” del Club Alpino Italiano, esce un breve ma esaustivo articolo a firma di dello stesso Guzzardi, che ripercorre le tappe della storia alpinistica più recente al Sirente. Tra le altre cose in questo articolo si tracciano quelli che all’epoca risultavano essere i problemi più evidenti da affrontare in un imprecisato futuro e alcune delle strutture ancora inviolate. Quando Cristiano Iurisci, fa la sua comparsa al Sirente nasconde dentro una passione acerba ma tanta determinazione. Egli si guarda intorno e cerca di carpire le prime informazioni su questa montagna su cui è difficile orientarsi e le cui strutture ed itinerari di salita sono di difficile individuazione. Tra il 2004 e il 2005 ripete alcune vie brevi di media difficoltà: una via al Pilastro ovest dell’Altare e il canalino di Ritorno al Sole; quest’ultimo contribuirà a svelargli in scala minore i segreti dell’ambiente invernale su questa montagna. Dopo aver sfatato il timore reverenziale che la parete nord incute al primo


approccio, e dopo la ripetizione di alcune tra le vie più conosciute e belle come la Via Gulli, la Diretta all’Imbuto, Antartica, Supercanaleta, la Via dell’Arco naturale, Iurisci si dedica nel corso degli anni a demolire con metodo e perseveranza i problemi che ancora si oppongono all’apertura di più arditi itinerari e ad innalzare il grado delle difficoltà superate sulla montagna. Sono nate così alcune difficili vie, molte delle quali ancora irripetute. Un silenzioso passaggio del testimone; egli stava semplicemente raccogliendo l’eredità di lunghi anni di sacrifici, di faticose sgroppate, di tensione, di snervanti tentativi, di ritirate e a volte di successi, che avevano segnato il percorso di poche altre cordate, mosse dalla stessa concezione di alpinismo, lo stesso piacere sottile per gli ambienti silenziosi ed appartati, in cui la montagna mostra davvero la sua faccia distaccata ed imparziale. Dopo avere avuto ragione nel 2006 del difficile diedro-camino dell’attacco originario della storica Via Cavallini/Vecchietti, mai ripetuto in inverno, il 2009 è forse l’anno più significativo per la sua attività. Con Nicola Carusi sale a distanza di poco tempo la Via Iurisci/Carusi a sinistra del grande Imbuto e la Via Artica, che al centro della parete nord fa da contraltare ad Antartica. Nello stesso inverno, sempre in compagnia di Carusi e Luca Luciani apre la Via Transiberiana, che risale un ampio diedro nel Settore della X, già oggetto di tentativi infruttuosi nel 1997. Nel dicembre dello stesso anno, Iurisci e Massimo Marcheggiani mettono piede per la prima volta nel settore della Neviera e sullo Sperone Sinistro con compagni vari aprono la Via Desertica, una via di misto che in alto si ricongiunge con l’originaria via Sotto il segno di Orione. Di nuovo nel settore della Neviera, sempre nel febbraio 2011 viene ripetuta da Iurisci e Carusi la Via XXV Aprile sullo Sperone centrale, con l’apertura di una difficile variante d’uscita. Questa invernata proficua si chiude con un’altra via salita da Iurisci in compagnia di Ares Tondi, Roberto Berardi e Luigi Ferranti; l’itinerario incrocia e parzialmente segue il percorso di Supercanaleta, per svilupparsi autonomamente nella parte superiore, affrontando impegnative goulotte e colate di ghiaccio. Nel frattempo, il 10 aprile 2010 la cordata Funicelli, Paoloni, Pontecorvo aveva raddrizzato parzialmente l’attacco della Via Antartica con tre difficili lunghezze di corda. Tra una spedizione e l’altra anche Marcheggiani torna nuovamente in zona ed insieme a Lynn Iacobini nel gennaio 2011 sale la Via Touareg, sempre sullo Sperone Sinistro della Neviera. Le buone condizioni di un periodo di freddo intenso e l’alta pressione favoriscono la realizzazione di nuovi progetti. Nel mese di febbraio Guzzardi torna con Alfredo Dionisi a chiudere una partita rimasta in sospeso nel settore dell’Imbuto aprendo la Via Avatar. Questa a grandi linee le attività più salienti, in particolar modo su terreno misto, quello più ostico e così particolare in inverno sulle montagne appenniniche. Ma alcune ardite strutture solleticano ugualmente l’interesse per progetti di salite esclusivamente su roccia. Nell’ottobre del 2011 nasce così Nostalgia del futuro, salita da Iurisci con Stefano Supplizi e Manilio Prignano sulla verticale parete che lo Sperone Sinistro della Neviera affaccia ad ovest,


Durante la prima invernale della Cresta Nord di Monte di Canale

sfruttando una sequenza di diedri e fessure. Siamo ormai ai giorni nostri; nell’estate del 2012 Iurisci calca la roccia piÚ conformata dell’Altare, un torrione isolato che si erge nel bel mezzo


dei canaloni che discendono dalla cresta sommitale in prossimità della Neviera. E’ con Supplizi che apre una via al centro della parete rivolta a nord, per ricongiungersi nell’ultimo tiro alla Via Emiliano Zapata. Nell’ottobre del 2012 infine, la notizia di una nuova difficile via aperta sulla tozza ed elegante struttura del Tempio, rimbalza sulle pagine web. E’ una vera e propria chicca quella messa a segno da Iurisci e compagni, che in tre tentativi hanno avuto ragione di un altro dei problemi ancora irrisolti sulla nord del Sirente. Questa volta le difficoltà dell’itinerario sono davvero dure e sostenute. Suoi compagni di cordata sono Domenico Totani, Gabriele Basile e Stefano Supplizi. Le ultime cronache ci rimandano ancora agli echi della stagione bianca, con la seconda ripetizione invernale del percorso integrale della Via Sotto il Segno di Orione, da parte di Lorenzo Camosi e Valerio Battisti nel marzo del 2013. Si chiude così questo sommario di storia alpinistica, con una via di sicura concezione moderna e con l’attività controcorrente di un pugno di personaggi che sulle rocce a volte malsicure e sugli esili fili ghiacciati del Sirente hanno saputo negli anni condurre una ricerca che continua ad unire il presente ad un trascorso storico nel quale, su ogni montagna, l’alpinismo ha costruito da sempre i suoi valori fondamentali.

Un tiro delicato sulla Cresta Nord di Monte di Canale

Pagine di storia


Via Avatar, il sudore, il silenzio, l’affanno. L’auto arranca con difficoltà sui tornanti, la strada è viscida e gelata. Alla luce dei fari tutto brilla di cristalli di neve, ma intorno le ombre si rincorrono come fantasmi. D’improvviso ad una svolta della strada, la montagna, presenza incombente nel buio. Se ne intravedono i contorni, si indovina la mola ancora avvolta dalle tenebre, si distingue appena il biancheggiare della neve, la bava fine dei canalini che serpeggiano verso l’alto tra speroni di roccia, cenge e terrazzini come bianchi fazzoletti e in alto la sagoma minacciosa delle cornici. E’ un altro mondo lassù, in un labirinto minerale dove la natura gioca indisturbata, nel silenzio c’è uno scrigno di segreti. Oggi è ancora la nostra meta. Fa un freddo cane, a -10° indossare gli scarponi, le ghette, stringere le cinghie dei ramponi è un sacrificio che costa subito la perdita di sensibilità nelle mani, mentre l’alito si condensa in perle di vetro sulla barba. Fare i primi passi è una liberazione. Una marcia estenuante nella neve alta e crostosa ci porta fuori dal bosco, sui pendii sottostanti la parete. L’itinerario è là, disegnato in una serie di goulotte che attraversano salti rocciosi a destra del Tempio, sale su esili terrazzini nevosi, per perdersi poi in un filo ghiacciato nascosto. Scartato a priori un bivacco gelido, abbiamo optato per una soluzione in giornata, che pone comunque il rischio di uscire col buio o dover rinunciare, effettuando una discesa forse ancora più complessa. Il rintocco metallico del primo chiodo nella roccia rompe il silenzio ovattato; a oriente il cielo è chiaro, ma nella valle ancora regna il buio ed aleggia una leggera foschia. Lassù in alto i primi raggi del sole, bellissimi, lambiscono la punta di pinnacoli e crestine nevose. Quei raggi oggi non ci scalderanno e l’uscita da qui appare maledettamente lontana. In posizione d’attesa fa molto freddo; la corda scorre lenta ma continua, le mani sono per ora al caldo nelle muffole. Sposto lo sguardo verso valle, ad abbracciare un paesaggio che si accende di luce che avanza pian piano e lambisce colline, strade, paesi, campi, rivestendoli di colori caldi e brillanti. -“Vienii!”- Il grido improvviso e rauco di Alfredo suona irreale nell’aria, risvegliandomi dal torpore. Un chiodo non vuol saperne di venir via, carico lo zaino ed eccomi arrancare sui primi metri, infreddolito e svogliato. Inizio a carburare pian piano e alla fine del tiro arrivo alla sosta ansimando. Dopo il traverso sul terrazzo nevosa tocca a me. Il canale si chiude in una strozzatura rocciosa, troppa poca neve nel fondo che lascia scoperte chiazze di ghiaccio di fusione e roccia. Mi apro in spaccata con le punte dei ramponi che graffiano sulla roccia, sfilo le muffole e cerco di piazzare una protezione indispensabile. Il sudore, il silenzio, l’affanno nello sforzo, sono le uniche cose che mi circondano chiudendomi in una bolla che mi separa dalla realtà. Il tempo vola indifferente; per qualche ora ci impegniamo sui tiri che si riveleranno quelli chiave della salita, una lunga ripidissima goulotte, la sola che permette di accedere ad un’aerea forcella, oltre la quale le difficoltà diminuiscono e la salita può procedere più spedita. Non c’è soluzione di continuità nell’alternarsi al comando e parte della parete resta sotto di noi, con il passare del tempo che scorre con una scansione tutta sua, insieme a vari tiri di corda, di cui qualcuno delicato a causa di ostici passaggi su misto. Intanto recupero Alfredo; da questa posizione non lo vedo, coperto com’è da una costola rocciosa, ma lo sento salire dal tintinnare della ferraglia, mentre sfila via i rinvii che spesse volte vengono via troppo facilmente. Un errore di valutazione ci porta fuori percorso, facendoci perdere del tempo prezioso. Una breve doppia fino ad un intaglio tra un avancorpo roccioso e la parete, poi un ripido traverso per prendere un canalino che si vede scomparire verso l’alto, dietro le quinte di roccia che sostengono il colletto del Tempio. Fortunatamente abbiamo con noi un discreto numero di chiodi da roccia, perché quelli da ghiaccio pendono inutilizzati dalla cintura. Non contiamo più i tiri di corda che si susseguono uno dopo l’altro e che, per la conformazione della parete, spesso necessita accorciarne la lunghezza. Quando la stanchezza comincia a farsi sentire, una sosta provvidenziale su un plateau nevoso è un momentaneo sollievo, per riposare le gambe, per mandare giù un po’ di calorie. La gola secca e irritata cerca solo liquidi, purtroppo il tè bollente della mattina tintinna ora in piccoli ghiaccioli dentro la borraccia. Stare fermi all’ombra gela il sudore addosso in un modo davvero spiacevole. Prima di riprendere la salita guardo verso l’alto: la parete si apre in ampi anfiteatri, comincia ad appoggiarsi fino ad aprirsi in pendii nevosi sotto la cresta sommitale. In questa zona c’è una neve splendida da ramponare, non ghiacciata, ma compressa, resa dura dall’azione delle slavine, che qui sono tutt’altro che rare. E’ un piacere procedere in un susseguirsi di canali con inclinazioni moderate, che consentono di assaporare appieno la bellezza dell’arrampicata. Decidiamo di slegarci, ma il rischio di un errore è sempre presente: partire su questi scivoli è un rischio da non sottovalutare; d'altronde il più delle volte le soste non sono molto affidabili o ci si assicura con un bloccante all’imbrago. Evitiamo alcuni risalti che si parano innanzi, aggirandoli in un modo o nell’altro. Ormai vicina la cresta orlata di cornici ricamate di luce si staglia nitida sopra di noi, in un contrasto incredibile con l’azzurro del cielo che sfuma pian piano verso un color malva acceso. Il sole gioca di sbieco su grandi cornici sospese, le nervature rocciose nella luce calda sembrano pulsare di vita, spettacolo affascinante per chi sale da un versante esposto all’ombra e al gelo. Sui pendii di neve ventata spaziamo senza via obbligata, salendo di conserva e puntando ad un piccolo dorso nevoso che adduce in cresta, spezzando la continuità delle cornici. L’ultimo tiro ancora in sicura per superare il muro di neve verticale, con gli attrezzi solidamente ancorati sulla cresta pianeggiante e piena di luce ed il corpo penzolante nell’ombra bluastra. Abbagliato dal sole, sfinito da questo ultimo sforzo richiesto


ai muscoli, per un istante mi sento come svuotato di ogni cosa, ma comprendo distintamente tutte le ragioni per cui mi trovo in questo luogo e perché per tanti anni ho continuato a salire questa montagna Mentre districhiamo il garbuglio di spire di corda e sistemiamo il materiale che penzola disordinato, ci rendiamo conto che quei raggi di sole sono anche gli ultimi, obliqui, infuocati, a colorare di arancione la neve. Giù nella valle già si addensano le ombre proiettate dal profilo dei monti. Abbiamo un’ora di luce, e nel languore lasciato dalla stanchezza e l’appagamento per questa fortunata salita, non sappiamo se godere ancora di questo momento o affrettarci sulla via del ritorno. Nella corsa per raggiungere l’imbocco del lungo canalone che ci porterà d’infilata nel bosco, le gambe sembrano ritrovare una rinnovata energia. Qualche capitombolo nella neve improvvisamente troppo dura o cedevole, corriamo incontro agli alberi e alle ombre. Nel bosco è subito notte e con essa l’aria gelida che soffia dai larghi impluvi della montagna, prende a condensare in nebbiolina i nostri respiri. Giancarlo Guzzardi

Vista sulla sommità della Pala dalla Diretta all'Anticima


Foto di copertina: sulla Direttissima alla Vetta, Via Gulli. Tutte le fotografie sono dell’archivio dell’autore

Il ponte di roccia nel cunicolo dello Sperone di Mezzo


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