Camera straniera

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dalla forma rotonda, centro di forza intorno a cui ruota tutto lo spazio; al di là, nel foglio bianco, c’è il vuoto, inondato da una luce accecante. Forse è solo un’apparizione quella che è ospitata su questo spazio bidimensionale. Il nome dell’albergo di Ginevra è Hôtel de Rive. Lo si vede raffigurato in un’immagine scattata anni dopo da James Lord: un miserabile edificio stretto tra due vie che si incrociano ad angolo acuto. Ci sono altre fotografie di questo luogo che compaiono su Labyrinthe, nel numero del 15 ottobre 1944, la rivista di Albert Skira cui Giacometti collabora. Nella prima fotografia, lo scultore sta modellando una minuscola statua; nella seconda si vede il tavolo, su cui sono appoggiati uno specchio, una caraffa, una bottiglia, un asciugamano, una bacinella; nella terza è il piano di lavoro di Alberto a essere oggetto dello sguardo indagatore della macchina fotografica: lo sgabello da modellatura, su cui è appoggiato un basamento, che a sua volta sostiene il piccolo zoccolo in creta della statuina cui sta lavorando, e poi gli attrezzi da scultore, i fiammiferi e una scatola. Tre anni di lavoro, poi, al momento di rientrare a Parigi, a guerra finita, qualcuno gli chiede come farà a trasportare le statue che ha modellato a Ginevra. Alberto risponde: «Ma le ho con me». Le sculture sono in una boîte d’allumettes, d’un formato un po’ più grande del solito, fiammiferi da caminetto. 1946. Un’altra camera, un’altra scatola e un’altra cassa compaiono nel testo che Giacometti scrive per Labyrinthe: s’intitola “Le Rêve, le Sphinx et la mort de T.”, e in questo scritto poetico e autobiografico ritorna l’ossessione del luogo chiuso della petite boîte.

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