INDIAN ART

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MICHEL DELAHOUTRE

L’ARTE INDIANA


© 2020 Editoriale Jaca Book Srl Tutti i diritti riservati

Sommario

Nuova edizione gennaio 2020

Copertina e impaginazione Break Point / Jaca Book

Prefazione all’edizione italiana pag. 5 Introduzione pag. 7 L’arte indiana nella sua cornice storica pag. 9

Fotolito Target Color, Milano

Lo spirito dell’arte classica pag. 21 La miniatura pag. 49

Stampa e legatura Tiskarna Vek, Koper dicembre 2019

L’arte dell’India e quelle di altre civiltà: corrispondenze e opposizioni pag. 59 Conclusione pag. 65 Tavole a colori pag. 67 Piccola antologia di fonti pag. 207 Bibliografia e indici pag. 223

ISBN 978-88-16-606043 Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su

Riferimenti iconografici pag. 230


Prefazione all’edizione italiana

Il rapporto tra arte indiana e pubblico europeo è in certo qual modo paradossale. Se da un lato è un’arte poco conosciuta, dall’altro, forse come nessun’altra forma d’arte non occidentale, quella indiana è stata fonte di dibattiti tra gli intellettuali a cominciare dalla fine del Medioevo. Che l’arte indiana sia praticamente terra incognita in Europa non è sorprendente, visto che i suoi ideali estetici sono diametralmente opposti a quelli dell’arte occidentale. Non bisogna poi dimenticare che fino al principio di questo secolo pochi studiosi si sono occupati d’arte. L’attenzione dei sanscritisti e dei filologi era puntata su testi filosofici, religiosi e poetici e l’arte, che pur tanto ha a che fare con religione e letteratura, è stata ignorata. Una delle ragioni di questo atteggiamento va forse cercata nella difficoltà di conciliare gli ideali filosofici di meditazione e di rinuncia, celebrati nei testi religiosi, con la gioia di vivere e la sensualità, caratteristiche di quest’arte. Una guida inestimabile per imparare ad apprezzare l’arte indiana in tutta la sua ricchezza espressiva sono i vari trattati in sanscrito, e in altre lingue indiane, su architettura, scultura, pittura e iconografia. Questi testi erano stati compilati probabilmente quali promemoria per gli artisti, e questo spiega il loro linguaggio spesso criptico: si trattava di una letteratura per gli «addetti ai lavori». I testi più antichi sono il Citralaksapa attribuito a Nagnajit, compilato probabilmente verso il vii secolo d.C., e il Vispudharmottara (purapa), le cui date oscillano fra il vii e il x secolo. All’inizio del Vispudharmottara (purapa) è narrata una leggenda che è di notevole interesse perché rivela alcune idee fondamentali sull’arte indiana. Il mitico re Vajra, desideroso di istruirsi, si reca a visitare il famoso saggio Markapdeya. Nel corso della conversazione il re chiede al saggio come sia possibile ottenere la felicità in questo e nell’altro mondo. Il saggio gli risponde che l’adorazione degli dèi è la via sicura per ottenere la felicità. Di qui si passa a una disquisizione sui vari metodi di culto, e Markapdeya sottolinea l’estrema importanza di costruire templi, particolarmente nella nostra epoca, in cui gli uomini hanno perso la facoltà di vedere gli dèi direttamente – una cosa normale in ere passate – per cui ora, più che mai, hanno bisogno di immagini e di edifici adatti a custodirle. Date le circostanze in cui versa l’umanità in questa «età del ferro», è necessario adorare immagini, e queste devono essere fatte secondo ben precise regole. Del resto, conclude Markapdeya, immagini che non siano fatte secondo i canoni dell’estetica non vanno nemmeno prese in considerazione. Il messaggio contenuto in questo brano è chiaro. Il motivo religioso della ricerca di felicità, prima in questo e poi nell’altro mondo, sta alla base dell’ispirazione artistica per quello che riguarda lo sviluppo della scultura e dell’architettura. E le immagini, specie quelle sacre, devono obbedire a ben precisi criteri di estetica. Di qui l’enorme importanza che i trattati danno ai capitoli sulle corrette proporzioni delle immagini e sulla loro iconografia.

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Nonostante la preponderanza dei temi religiosi nella produzione artistica indiana, non bisogna dimenticare tuttavia l’esistenza di numerosi motivi secolari, che sono altrettanto importanti. Nel caso di questi ultimi, però, l’artista era libero di usare la propria immaginazione e quindi tali motivi vengono discussi assai sommariamente nei testi, quali, ad esempio il succitato Vispudharmottara (purapa). Il re Vajra, desideroso di acquistare la felicità attraverso l’adorazione degli dèi, chiede a Markapdeya di istruirlo nell’arte della scultura. Markapdeya gli risponde che se uno non conosce le regole della pittura non potrà mai imparare le regole della scultura. E, d’altra parte, il canone della pittura può essere imparato solo dopo aver studiato danza. E per imparare danza occorre conoscere la musica strumentale, e la conoscenza della musica strumentale è impossibile senza lo studio del canto. Perché, secondo il saggio, chi conosce il canto «è il migliore degli uomini e sa tutto». Ma lo studio del canto dipende dallo studio delle varie lingue e della loro prosodia e metrica. Questo modo di vedere l’arte figurativa come una parte dell’insieme delle arti rispecchia una tradizione prettamente indiana. L’interdipendenza delle varie arti è corroborata da due fatti: dallo studio comparativo dei monumenti, della scultura e della pittura da un lato, e dallo studio dei testi sanscriti sulla danza e sulla drammaturgia dall’altro. Il materiale visivo serve a delucidare i testi, in alcuni casi non particolarmente espliciti, e viceversa. In secondo luogo, l’esempio concreto di questo modo di pensare è il tempio indiano, che è stato ripetutamente definito «casa di tutte le arti». Dall’architettura che ne determina la struttura, alla scultura e alla pittura che ne adornano le pareti. Nel tempio, poi, esistevano – e in alcuni casi esistono ancora – sale per la musica, per la danza, per rappresentazioni teatrali e letture di testi sacri. Questo era il luogo che serviva a soddisfare spiritualità ed estetica allo stesso tempo. E non solo, il tempio serviva anche quale luogo di istruzione popolare, specie per gli analfabeti. Il presente saggio di Michel Delahoutre, L’arte indiana, è un’affascinante introduzione alla visione di tale arte per poterne apprezzare il profondo messaggio. Nei due capitoli che costituiscono la parte centrale del saggio: «Lo spirito dell’arte classica» e «L’arte della miniatura», Delahoutre segue, mutatis mutandis, il pensiero del saggio Markapdeya sull’interdipendenza delle arti. Le opere d’arte commentate dall’Autore sono illustrate da brani tratti dalla letteratura sanscrita, alcuni incorporati nel testo, altri raccolti nella sezione «Documenti». Si passa dai poemi epici ai lavori enciclopedici; dai trattati sui temi più disparati, quali la politica, l’iconografia o l’astrologia, alla poesia. Questa giustapposizione di opere letterarie e opere d’arte aiuta il lettore a entrare nella forma mentis necessaria per apprezzare scultura e pittura indiane, e capire il perché, ad esempio delle numerose braccia e teste di alcuni dèi, o della mancanza di prospettiva – intesa nel senso dell’arte occidentale – nelle miniature. L’opera è una guida indispensabile per tutti coloro che vogliono capire gli ideali estetici che hanno ispirato una delle più grandi civiltà del mondo.

Anna Libera Dallapiccola

Introduzione

Oggigiorno possiamo dire di conoscere sempre più, e soprattutto sempre meglio, l’arte indiana. Mentre un tempo si poteva essere tentati di giudicarla dai pezzi, sovente mediocri, che arrivavano a noi dalle lontane Indie, oggidì i viaggi turistici e le spedizioni archeologiche, il gran numero di eleganti pubblicazioni, le mostre e i musei ci pongono assai spesso di fronte agli esemplari più importanti e rappresentativi di quest’arte. Tuttavia ciò che resta ancora da fare per il pubblico occidentale è introdurlo allo spirito stesso dell’arte indiana. Da molti anni in India sono state date alle stampe opere concepite con questo scopo, poche forse, ma ben fatte: per esempio il saggio lontano di E.B. Havell sugli ideali dell’arte indiana1 all’inizio del nostro secolo, e le conferenze e gli articoli (confluiti in un’opera) di S.N. Dasgupta sui principi fondamentali dell’arte indiana2, che risalgono già a prima della guerra. In Occidente d’altro canto per lungo tempo le considerazioni di chi scriveva di arte indiana vertevano sugli stili piuttosto che sugli ideali o sui principi fondamentali. È per colmare questa lacuna che, a dispetto della costrizione imposta dai limiti di spazio, ho cercato di esprimere qui quanto mi sembrava costituire l’essenziale di quest’arte: una lingua divina che non bisogna ridurre né ai gesti, né alle posture, né agli attributi, ma che si esprime attraverso la forma stessa dei corpi degli dèi, tramite la vita, le proporzioni, lo splendore, la bellezza di questi stessi corpi, tutte caratteristiche che la totalità dei costruttori di immagini ha cercato di rendere e che spesso ha reso con pieno successo. Il mio commento interpretativo si basa su citazioni tratte dai testi indiani: testi di vilpa (vale a dire di architettura e arti plastiche), ma anche della letteratura epica e drammatica. In epoca classica la cultura indiana si presenta come caratterizzata da un’unità tale che risulta facile lasciare che siano gli indiani stessi a esprimersi a proposito dei propri ideali. Ho scelto i testi che mi sono parsi più significativi. Da un punto di vista più personale, aggiungerò che il mio interesse per l’arte indiana risale a prima della guerra, allorquando, per il tramite di pubblicazioni sontuose per l’epoca, le sculture religiose venivano rese accessibili al pubblico francese, mentre le opere che riuscivo a leggere mi trasmettevano briciole della filosofia e della spiritualità indiane. Da allora ho ricevuto moltissimo dall’India sul piano estetico. Le riflessioni suggeritemi dai corsi di Olivier Lacombe sull’estetica indiana e di Jean Boisselier sull’arte induista e buddhista sono state un punto di riferimento costante per il mio lavoro, e mi hanno permesso al tempo stesso di maturare in minima parte quelle convinzioni personali sull’originalità dell’arte indiana che oggi propongo al lettore.

NOTE 1 E.B. Havell, The Ideals of Indian Art, London 1911. 2 S.N. Dasgupta, Fundamentals of Indian Art, Bombay 1969.

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CAPITOLO PRIMO

L’arte indiana nella sua cornice storica


Il fenomeno che siamo soliti chiamare complessivamente arte indiana copre un periodo di più di duemila anni, e ancor più se vi comprendiamo le vestigia della civiltà dell’Indo che si è sviluppata tra il 3000 e il 2000 prima della nostra era. È evidente che durante un arco di tempo di tale estensione abbiano avuto luogo numerosi eventi storici suscettibili di influenzare in modo determinante l’arte. Tra questi occorre considerare in primo luogo le molteplici invasioni dilagate sul territorio dell’India. 2000 a.C.

La prima e più importante di tutte fu l’invasione indoeuropea avvenuta verosimilmente intorno al 2000 a.C., in seguito alla quale elementi Indoeuropei penetrarono nel bacino dell’Indo precipitando forse il declino e la rovina delle antiche città che gravitavano intorno ai centri di Mohenjo-Daro e di Harappa. Quest’invasione penetrò successivamente nel bacino del Gange sino a estendersi, questa volta sostanzialmente in maniera pacifica, in tutto il resto del subcontinente indiana. Ne risultò un amalgama e una mutua compenetrazione di due culture principali: quella Indoeuropea degli invasori arya e la cultura o le culture dell’India di quel tempo, in particolare la cultura dravidica. Oggigiorno è molto difficile determinare cosa appartenga all’una o all’altra di queste culture sul suolo indiano. 325 a.C.

La seconda invasione, tutt’affatto differente, fu quella greca. In effetti Alessandro, desideroso di percorrere l’impero persiano che aveva da poco sconfitto, spinse le sue truppe sino alle rive dell’Indo, dove si scontrò vittoriosamente contro un esercito indiano nel 325 a.C. Non poté proseguire il cammino fino all’India propriamente detta, che era allora costituita da una pleiade di regni indipendenti. Ripartito per l’occidente, morì due anni dopo. Il territorio che aveva conquistato nella regione dell’Indo era stato diviso in due governatorati: Gandhara e Sind. Alla sua morte i suoi generali si spartirono l’impero e cercarono di conservare le sue conquiste, ma il re Candragupta vanificò quella dell’Indo. Seleuco Nicatore fu costretto a venire a patti con lui e i due si spartirono le rispettive zone d’influenza tra nord e sud lungo una linea che tagliava a metà l’attuale Afghanistan. L’invasione greca ebbe un influsso determinante sull’India, limitato tuttavia a determinati ambiti circoscritti, come quelli della politica, dell’urbanizzazione delle città e dell’arte. 250 a.C.

Monumenti e principali località dell’India; a destra in basso l’area di espansione dell’arte indiana nel sud-est asiatico con la localizzazione dei monumenti della regione raffigurati nelle tavole a colori.

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In ambito politico le sue conseguenze furono quasi immediate: Candragupta reagì preparando il terreno a una prima unificazione dell’India, che si realizzò sotto il regno del nipote Avoka, a metà del iii secolo a.C. L’impero maurya di Avoka si estendeva dall’Aracosia, l’at-

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tuale regione di Kandahar, fino al centro dell’India odierna, esclusi i regni tamilici del sud. E all’epoca maurya che risalgono i celebri pilastri di Avoka, sculture a tutto tondo che rappresentano divinità locali maschili e femminili (yaksa e yaksi) e oggetti in terracotta. Nei pilastri di Avoka l’ispirazione persiana è responsabile dell’elaborazione di capitelli a forma di campana e di altri teriomorfi, ma l’ispirazione complessiva è a un tempo buddhista e indiana. 185 a.C.

Ai Maurya successero gli Vunga (185-72 a.C.), che dovettero anzitutto fronteggiare un’invasione greca dalla Battriana e favorirono il brahmanesimo. Nello stesso periodo la dinastia degli Vatavahana regnava nell’India centrale, tra il ii secolo a.C. e il ii d.C. Risale a quest’epoca la fioritura di una scuola d’arte le cui realizzazioni sembrano essere esclusivamente buddhiste. Quest’arte è oggi designata con il nome di «arte andhra» o «stile di Amaravati», dal nome della regione o della città in cui si trovano le rovine di un celebre stupa. Agli inizi dell’era cristiana la storia dell’India prese un nuovo corso sotto l’influsso di invasioni risultanti da vaste migrazioni che interessavano l’intero territorio. I Kusapa ellenizzati fondarono allora un ampio impero situato a cavallo tra l’India occidentale e l’Iran nord-orientale. ii

secolo a.C. - ii secolo d.C.

Sotto gli Vunga e i Kusapa, che regnarono dalla fine del ii secolo a.C. fino al ii secolo della nostra era, la scultura a tutto tondo presenta temi propriamente buddhisti o induisti, che prefigurano le caratteristiche dell’arte classica. Sotto gli Vunga proseguono i lavori ai grandi complessi architettonici di Bharhut e Sañci, nell’India settentrionale e centrale. In epoca kusapa, nella seconda metà del II secolo d.C., iniziano a fare la loro apparizione le prime rappresentazioni del Buddha in forma umana. In realtà fino ad allora, come a Bharhut e a Sañci, il Buddha non era stato rappresentato che in modo simbolico. La sua presenza veniva suggerita dal trono vuoto, dall’orma delle estremità, o da altri simboli quali il parasole regale. D’ora in avanti venne rappresentato con sembianze umane, già caratterizzato dai segni augurali del Grande. Lo stesso fenomeno si verifica contemporaneamente al di fuori dell’India propriamente detta, nel Gandhara. Ci si può domandare se una simile audacia nel rappresentare in questi termini il Predestinato non possa essere dovuta a un influsso greco, dal momento che lo spirito ellenico predilige i personaggi umani e le divinità antropomorfe. Comunque sia, occorre notare che questa importante innovazione si constata pressoché nello stesso periodo in India, a Mathura, e nel Gandhara. iii

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secolo d.C.

Dopo un periodo alquanto oscuro, che copre la maggior parte del ii secolo, fa la sua comparsa la dinastia dei Gupta. Il succedersi di abili guerrieri e capaci sovrani assicura la pace e la prosperità del paese da un litorale all’altro durante i due secoli. iv-v

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secolo d.C.

Questa stabilità politica ed economica fu favorevole alla fioritura artistica. Il genio indiano si affermò in quest’epoca nei più diversi ambiti.: filosofico, letterario, plastico,

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1. Svastika, simboli benefici. Harappa. 2500 a.C. circa. British Museum, Londra. La struttura di questi simboli è chiara: essi sono a un tempo centrati, organizzati intorno a un centro, irraggianti e roteanti. Hanno tutto quel che serve per essere benefici. Interpretati come simboli solari, suggerirebbero il movimento del sole che attraversa il cielo. In sanscrito, questo segno si chiama svastika, letteralmente «fattore (suffisso kaj di (su) essere (asti)». 2, 3, 4. Rito sacrificale. Sigillo. 2500 a.C. Harappa; il Signore degli animali. 2500 a.C. circa. Sigillo, Mohenjo-Daro; animale di fronte a un recipiente su supporto (incensiere?), Mohenjo-Daro. 5, 6. Scimmia in terracotta. Mohenjo-Daro; bufalo in bronzo, Mohenjo-Daro. 7, 8. Dea madre. Terracotta. MohenjoDaro; danzatrice in bronzo. MonhenjoDaro, National Museum, New Delhi. Se gli scavi archeologici nei siti di Harappa e Mohenjo-Daro rivelano una civiltà molto avanzata, i piccoli oggetti denotano un’arte dalla funzione liturgica, mentre i simboli astratti, come lo svastika, si prestano più facilmente a interpretazioni estetiche o pratiche.

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9. Capitello di Avoka. iii sec. a.C. Arenaria lucidata. Da Rampurva. Rashtrapati Bhavan, New Delhi. 10. Capitello con leoni. iii sec. a.C. Arenaria lucidata, Museo di Sarnath.

11. Sito di Sarnath. Al di sotto dei capitelli a forma di campana, di ispirazione persepolita, i tamburi fanno da supporto a figure di animali: un bue o quattro leoni ruggenti. Destinati, per ordine di Avoka, a figurare in cima alle colonne che egli fece erigere nei punti strategici del suo Impero, hanno un significato più imperiale che religioso. Il capitello con i leoni ruggenti è stato scelto come simbolo dell’India indipendente. La sua ruota compare sulla bandiera indiana. A Sarnath, il cui nome indù significa il "Signore ínatha dei cervi ósarangaj", ha rimpiazzato i nomi buddhisti, tra cui quello di Parco delle Gazzelle, non restavano che rovine, fino alla recente ondata di nuove costruzioni. È là che il Buddha predicò per la prima volta. 11

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12. Da sinistra in senso orario: Yaksa ridente. ii-i sec. a.C. Arenaria 103x60 cm. Pitalkora, Maharashtra, National Museum, New Delhi. 13. Donna che regge un oggetto a forma di tamburo. Terracotta. ii-i sec. a.C. altezza 27 cm, Patna. 14. YaksiCandra. Arenaria rossa. Stupa di Bharhut. ii sec. a.C. Indian Museum, Calcutta. 15. Yaksi che ascolta un pappagallo. Bhuteshar. ii sec. d.C. Indian Museum, Calcutta. 16. Venerazione del Buddha. Amaravati. Satavahana. ii sec. a.C. Calcare, Museo di Madras. 17. Il Buddha doma l’elefante Nalagiri. Amaravati, ii sec. d.C. Calcare, Museo di Madras. (fig. 16) Ad Amaravati si ergeva uno stupa notevole. Purtroppo esso fu spogliato e devastato dagli abitanti dei villaggi alla fine del xviii e all'inizio del xix sec. Quel che restava fu trasferito al museo di Madras. 18. Mahakapijataka. Vuñga. Dallo stupa di Bharhut. ii sec. a.C. Indian Museum, Calcutta. 19. Visita dell’imperatore Asoka all’albero della Bodhi. Una delle architrave del Portico Orientale dello stupa di Sanci. L’imperatore scende dall’elefante e si avvicina all’albero sotto il quale il Buddha aveva conosciuto il Risveglio. Un esemplare di Ficus

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religiosa, riconoscibile dalle foglie, circondato da una balaustra. 20. Ricostruzione dei principali monumenti di Sanci. In primo piano lo stupa 1 riconoscibile dalle grandi dimensioni e dai quattro portici. Fatto costruire da Asoka, aveva una scalinata per far accedere i pellegrini al “sentiero della circumambulazione”. Sañci è testimone di un’epoca in cui il Buddha non è ancora rappresentato in forma umana ma bensì venerato attraverso i luoghi in cui ha vissuto. Questi erano i quattro grandi luoghi di pellegrinaggio: il luogo della nascita, quello del Risveglio, quello del primo sermone e infine quello della sua completa estinzione.

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architettonico. L’India visse in questo periodo la sua età aurea, il periodo classico. Ancor oggi, se si evoca l’immagine del Buddha, è il tipo gupta che si presenta spontaneamente all’attenzione. La dinastia gupta, dopo aver conosciuto il suo apogeo nel iv-v secolo, prese a declinare nel vi e sopravvisse fino al termine del vii ritirandosi nel Magadha, culla della stirpe. Contemporanei dei Gupta e loro alleati mediante matrimonio, i Vakataka governarono il Deccan dal iii al vi secolo. Sotto il loro regno si pose mano alla trasformazione architettonica di un certo numero di grotte ad Ajanta, Ellora, Elephanta, per non citare che le più importanti, che fanno ugualmente parte dell’arte classica. vi-vii

secolo d.C.

Lo stile gupta sopravvisse alla dinastia omonima. L’India ridiventò uno stato feudale caratterizzato dall’esistenza di numerose dinastie locali, con l’eccezione del regno di Harsa, sovrano di un piccolo principato del nord che riuscì a ritagliarsi nel corso del vii secolo un vasto impero destinato a crollare alla sua morte. 21

21. Il Buddha insegna assiso sul trono leonino. Epoca kuvana, i-ii sec. d.C., Museo di Mathura. 22. Buddha stante. Epoca kuvana, frammento di balaustra. Musée Guimet, Parigi. L’epoca kuvana (70200 d.C.) è quella in cui è si realizza una rappresentazione iconica del Buddha fondata sui testi. Questi ultimi attribuivano al Bodhisattva, e quindi al Buddha, i tratti caratteristici dei mahapurusa (uomini eminenti), tra i quali: volto ovale, cranio arrotondato con turbante regale a chignon, collo rotondo con pieghe parallele, torso costituito da due parti ineguali (come quello di un leone visto di profilo), ombelico profondo, ecc. Gli artisti indiani, a Mathura e in tutte le regioni di cultura indiana, hanno elaborato delle immagini conformi ai testi. 23. Buddha emaciato, Gandhara. ii sec. d.C. Museo di Lahore. Nel Gandhara, una regione situata all’estremo Nord dell’odierno Pakistan, gli artisti avevano i loro riferimenti estetici all’interno della cultura ellenistica. Da ciò un’arte ibrida che è stata in seguito chiamata arte7,greco-buddhista o indo-greca. 8 Nelle loro sculture, essi evocavano, contrariamente alle regole Indiane, la muscolatura al di sotto della pelle; la capigliatura, invece di essere a riccioli, è ondulata e l’artista indogreco non esita a rappresentare

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Sud: vi-vii secolo d.C.

Tra le dinastie che svolsero un ruolo importante sul piano artistico occorre segnalarne due del sud dell’India e una del nord. Nel sud i primi Caúukya occidentali (dagli inizi del vi fino a metà del vii secolo) si stabilirono a Badami e a Pattadakal, dando nome a uno stile intermedio tra quello gupta del nord e quello meridionale dei Pallava. La dinastia dei Caúukya fu pressoché annientata dai sovrani Rastrakuta che edificarono il Kailasanatha di Ellora. Sud: iv-ix secolo d.C.

I Pallava si stabilirono più a sud, in area tamil, (dal iv al ix secolo), ed ebbero come capitale Kañci. Nord: viii-xii secolo d.C.

A nord i Pala e i Sena regnarono sul Bengala tra il 730 e il 1197, data in cui i Sena furono annientati dall’invasione islamica. È in Bengala, dove all’epoca l’arte gupta sopravviveva in ottima forma anche se con caratteristiche peculiari, e tramite l’intermediazione delle dinastie Pala e Sena, che l’arte induista e buddhista poté trasmettersi al Nepal, al Tibet, alla Birmania, al Siam e all’Indonesia.

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sui volti l’afflizione. L’artista indogreco è il solo a interessarsi al periodo ascetico del Buddha e a rappresentarlo. 24. Testa di Buddha, Gandhara, Musée Guimet, Paris. 25. Stupa nell'abside della cappella n°10 ad Ajapta. Il caitya n°10 è il più grande di Ajanta; è una cappella antica che ha conservato la sua grande apertura ma ha perso la facciata. La sua pianta è identica a quella delle altre tre cappelle: al fondo si trova un'abside occupata da uno stupa monolitico, costituito da una base, da una calotta emisferica e da un'harmika, piattaforma destinata a far da base al parasole reale.

Nord: xii secolo d.C.

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Una volta giunte sino a Delhi alla fine del xii secolo, nel 1192, le orde islamiche trovarono un’India frammentata, ma altamente civilizzata. L’invasione islamica ebbe notevoli ripercussioni sulle arti indiane. Non solo grandi città come Delhi, ma anche imponenti monasteri buddhisti, come quelli di Nalanda e Bodhgaya, furono messi a sacco e devastati. Lo slancio artistico induista si arrestò, ma potè mantenersi ovunque la resistenza dell’induismo si dimostrò abbastanza forte da opporsi, almeno in via provvisoria, alle invasioni. Nell’India centrale, a Khajuraho, la dinastia dei Chandella riuscì a sopravvivere fino agli inizi del xiv secolo, promuovendo ancora a quest’epoca la costruzione di magnifici templi.

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Sud: xiv-xv secolo d.C.

Al sud del paese tra il xiv e il xv secolo si sviluppò un potente impero intorno a Vijayanagar, per opera dei superstiti di una dinastia induista, in un’area che corrisponde approssimativamente all’attuale Maisur. All’estremo sud i sovrani tamil conservavano praticamente un’indipendenza assoluta. La presenza islamica nel nord del paese favorì la realizzazione di roccaforti, palazzi e moschee, giardini e monumenti funebri, a scapito dell’architettura templare induista, i cui elementi venivano reimpiegati nelle nuove costruzioni. Nel frattempo nel Rajputana la dominazione islamica non riuscì mai ad affermarsi del tutto. Proprio in questa regione sopravvissero tradizioni pittoriche indiane parzialmente modificate da apporti persiani e moghul, ma le cui opere sono ancora tipiche dello spirito indiana. Sud: xv secolo d.C.

A est, nella regione dell’Orissa, un’altra dinastia, quella dei Ganga, riuscì a mantenersi al potere e a salvare il regno dall’invasione islamica fino al 1435. Anche dopo questa data i grandi templi di Bhuvanevvara e di Puri continuarono a funzionare, e la vita tradizionale, ivi comprese quella delle arti plastiche e pittoriche, fu ben poco influenzata dall’evento. Nord: xv-xvii secolo d.C.

L’impero moghul merita di essere menzionato con particolare rilievo, non fosse che per il ruolo straordinario svolto dall’imperatore Akbar (1556-1605) in ambito letterario e artistico. Figlio di Humayun e nipote di Babur, fondatore della dinastia, fu costretto a riconquistare l’impero del nonno e si stabilì verso la fine del xvi secolo in una capitale costruita di sana pianta presso Agra, Fathepur Sikri, dove si dedicò a proteggere e far fiorire le arti architettoniche e pittoriche. La fioritura artistica proseguì sotto i regni di Jahangir (16051627) e Shah Jahan (1627-1658), il quale ultimo fece costruire il celebre Taj Mahal. Di converso Aurangzeb (1658-1707), fanatico dell’islam, perseguitò l’induismo costringendo i miniaturisti indiani a lasciare la corte imperiale per cercare rifugio presso altri principi più ospitali. L’India moghul conobbe ben presto un rapido declino nel corso del xviii secolo, e cadde senza opporre resistenza facile preda della dominazione inglese. In occasione dell’ammutinamento del 1857 ebbe termine ufficialmente l’impero moghul. A partire dall’epoca di Akbar l’India si era aperta agli influssi artistici stranieri. A poco a poco nel corso del xix secolo la consapevolezza di avere saputo produrre un’arte originale andò attenuandosi nell’animo degli indiani, e gli sforzi congiunti di numerosi personaggi come Rabindranath Tagore, Abanindranath Tagore, Phanindra Nath Bose e Ananda Kentish Coomaraswamy per far sì che l’India ritrovasse sul piano dell’estetica la sua anima di un tempo furono destinati a fallire.

26. Pianta generale delle grotte di Ajapta. Le quattro cappelle hanno una pianta absidale (10, 19-26) o rettangolare (9) e i monasteri hanno pianta quadrata: sono sale ipostile circondate da celle individualei scavate nella roccia. I sovrani Vakataka, che regnarono sul Deccan nell'epoca gupta, approfittarono dello sviluppo artistico per incoraggiare gli artisti a decorare gli interni di queste cappelle e i magnifici esempi di scultura e pittura al loro interno sono la prova del loro mecenatismo. 27. Da sinistra: la sezione travsersale del Kailasa di Ellora, con al centro la sala dei pilastri; a destra la pianta della grotta principale di Elephanta, scavata e scolpita sotto la dinastia dei Vakataka. La sala grande, al centro della pianta, ha tre ingressi, ciascuno indicato da scalini. È una sala ipostila a venti pilastri. 28. Il Qutb Minar di Delhi, xii-xiii sec., serviva da Torre della Vittoria e da minareto per richiamare alla preghiera. La sua vicinanza a un tempio indù le cui stesse pietre furono utilizzate per la costruzione, è simbolica dell'introduzione dell'Islam in India e della sua giustapposizione alla cultura locale. 29, 30. Templi indù: il tempio di Viva a Tanjore e il grande tempio di Vispu a Jagannatha (Signore dell'Universo), a Puri, xi sec. 31. Il Taj Mahal ad Agra, xvii sec. Fatto costruire da Shah Jahan per accogliere le spoglie dell'amata sposa, questa tomba in marmo bianco ha proporzioni perfette. 32. L'Osservatorio astronomico di Jai Singh ii, Jaipur, xviii sec. L'astronomia indiana è molto antica e risale sin dal Rgveda, nel ii millennio a.C., gli indiani si preoccupavano di dividere il tempo e calcolare la rivoluzione del sole e della luna.

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CAPITOLO SECONDO

Lo spirito dell’arte classica


Il periodo gupta viene considerato a buon diritto l’età aurea della cultura indiana, in modo particolare per quanto riguarda la sfera dell’arte. Lo stile gupta è il più rappresentativo dell’arte indiana. Non è segnato da influssi stranieri, com’è il caso per esempio dell’arte di Mohenjo-Daro o di quella del Gandhara, o ancora, nel corso del tempo, dell’arte di ispirazione islamica. In ogni caso l’elemento straniero è stato perfettamente assimilato e integrato e non è più distinguibile, se non agli occhi degli archeologi alla ricerca di fonti anteriori. È lo stesso stile che sopravvive, sotto una forma particolare ma ancora caratteristica, nell’arte buddhista e induista dei Pala e dei Sena del Bengala, dall’viii all’xi secolo, e che di là si trasmette al Nepal, al Tibet, alla Birmania, al Siam e all’Indonesia. L’arte classica indiana non si limita allo stile gupta che sorse e si sviluppò dal iii al v secolo nella parte settentrionale dell’India. In effetti nello stesso periodo il Deccan era governato da altre dinastie che favorivano anch’esse la vita artistica, laddove al sud Calukya, Rastrakuta e Pallava imprimevano alle arti uno slancio analogo a quello del nord. Questo quadro d’insieme può essere considerato come particolarmente rappresentativo dello spirito indiana. Durante tutto il periodo classico gli indiani erano abituati ad associare strettamente le arti tra loro. Sul piano puramente plastico si può dire che le concepissero nell’ambito di un unico concetto di vilpa: architettura, scultura e pittura. Il regno delle arti plastiche era dominato dall’«architettura». Per amor di chiarezza studieremo separatamente la scultura indiana classica, la pittura murale, i bronzi dravidici e la miniatura. Tuttavia non bisognerà mai scordare che tutte queste arti sono legate tra loro e non costituiscono ambiti separati dal punto di vista indiana. Quanto all’architettura, converrà spendere qualche parola al riguardo prima di affrontare gli argomenti che maggiormente ci interessano in questa sede. Disciplina nota parimenti come vastuvastra «trattatistica dell’ubicazione (del sito architettonico)», ovvero dello sfruttamento razionale dei luoghi, o ancora come vastuvidya «scienza dell’ubicazione (del sito architettonico)», riguarda la lottizzazione delle aree urbane con i loro quartieri, la costruzione di case, palazzi, fortezze, e inoltre in primo luogo la sistemazione dei templi. Il legame tra iconografia e architettura è sottolineato in questo passo del Bhagavatapurana, «L’antica storia dei Bhagavata», i visnuiti che adorano come loro signore Vispu: «Quando mi si vorrà erigere una statua mi si edificherà al contempo un solido tempio, circondato da giardini ornamentali seminati a fiori, e vi si aggiungeranno donazioni di terre e simili, per le necessità del culto quotidiano, dei pellegrinaggi e delle feste religiose1». Ciascun tempio comporta almeno un santuario, più spesso ridotto a una cella di pochi metri quadri, dove viene solennemente collocata l’icona cultuale. Il legame con la scultura è ancor più evidenziato dal modo stesso in cui vengono concepiti i templi. Quelli di

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Bhuvanevvara in Orissa, per esempio, hanno l’aspetto di gigantesche torri, immense sculture che si ergono nella pianura2. La scultura

La maggior parte delle opere del periodo gupta giunte sino a noi è di fattura religiosa. Rappresentano in effetti o il Buddha e scene buddhiste, o divinità e scene induiste, ovvero ancora personaggi o scene jaina. Inesistente il legame con la storia, nel senso che mancano sculture che rappresentino imperatori, re o saggi; o anche qualora questi personaggi vengano raffigurati sono ritratti in atto di venerare figure divine. La ragione di tutto questo ce la fornisce un testo di vilpa che, sebbene relativamente recente, fornisce una regola valida anche per il periodo antico: «Le immagini degli dèi, per deformi che possano essere, sono volte al bene degli uomini. Al contrario le immagini di uomini, per ben costrutte che siano, non sono giammai volte al bene degli esseri umani3». È comunque un fatto che le statue di imperatori e personaggi regali indiani che possediamo oggidì risalgono a un periodo anteriore, all’epoca kuvana, di cui abbiamo conservato tra l’altro la statua di Kaniska, custodita attualmente a Mathura. Quanto alle raffigurazioni plastiche dei re gupta, esse figurano solamente sulle monete, che non rientrano nella stessa categoria della scultura a tutto tondo. Questa considerazione preliminare permette di intravedere alcune tra le caratteristiche distintive della scultura gupta. Si tratta di una scultura eseguita per il bene di coloro che la possiedono o la ammirano. È una forma d’arte benefica, in quanto assicura il bene e la prosperità dei luoghi in cui è installata. Prima ancora di parlare della sua bellezza, occorre fare riferimento al suo carattere benefico (in sanscrito viva). Nelle nostre lingue occidentali saremmo già tentati di parlare di religione o di magia, ma in realtà non si tratta né dell’una né dell’altra. I buddhisti si rifiutano di scorgere nelle statue del Buddha nient’altro che uno dei molteplici strumenti di intermediazione per il tramite dei quali occorre pur passare prima di pervenire all’illuminazione, e gli induisti vedono nella rappresentazione delle divinità una delle molteplici manifestazioni possibili delle medesime figure divine. Ma sia gli uni che gli altri riconoscono certamente il carattere benefico di queste statue. Non si tratta dunque di arte nel senso moderno del termine, vale a dire di arte per se stessa. Una statua ha da essere bella (sundara), ci dicono gli antichi testi di vilpa. Ma questa bellezza, di cui esamineremo le caratteristiche in ogni particolare a proposito della statuaria gupta, è motivata da ragioni che vanno oltre il mero livello dell’estetica. È voluta in quanto strumento suscettibile di condurre alla contemplazione. Gli indiani conoscono due termini per esprimere la meditazione o la contemplazione: il primo è dhyana, il secondo samadbi. Nel dhyana la meditazione è sotto il controllo dello spirito che si fissa su di un oggetto. Nel samadhi si verifica una totale fissità di tutti i fenomeni psichici sull’oggetto della meditazione. Lo spirito, come assorbito dall’oggetto, non deve più essere controllato. È uno stato di estasi, di trance estatica, la pura e semplice contemplazione della realtà in se stessa.

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33. Tre monete gupta. iv-v sec., National Museum, New Delhi. Le tre monete danno una valida idea della regalità: il re ha un parasole, che non è soltanto un privilegio ma un segno di potenza, è colui che unisce tutti i popoli del regno “sotto un solo baldacchino”. Sulla moneta il re ha l’aria di fare una libagione nel fuoco e il suo capo è circondato da un nimbo. Sulle altre due monete è rappresentato mentre compie delle imprese, cacciando il leone e i rinoceronti. 34. Da sinistra: il re Kaniska. Epoca kuvana. ii sec. d.C. Mathura; a destra il satrapo kuvana Chasthana. ii-iii sec. d.C. Mathura. Queste due statue hanno subito notevoli mutilazioni. Monete della stessa epoca e dello stesso re ci permettono di completare la sua immagine, che rimane assai stereotipata. L’identificazione di Kaniska è certa, per via dell’iscrizione in caratteri brahmi, meno certa è quella del satrapo poiché l’iscrizione è danneggiata. 35. Vispu vesasayin. Calukya occidentali. vi sec, Aihole, Prince of Wales Museum. Bombay. Tra i grandi periodi cosmici, quando Vispu rimane solo con quel che resta dell’universo, lo si rappresenta coricato su di un serpente chiamato Vesa o il Resto. È con l’osservazione dei tratti auspiciosi divini che Samudra, il Signore del Mare, inaugurò una scienza che, in seguito, avrebbe portato il suo nome: samudrika, tradizione di Samudra, una scienza praticata ancora oggi dagli astrologhi indiani e che deve essere studiata dai pittori e dagli scultori. 36. Viva «che sorge dal linga» (liñgodbhavamurti). Granito, xii-xvi sec., Tamilnadu, Governement Museum, Madras. Che l’immagine «sorga» dal linga, non si spiega se non con la volontà di Viva di affermarsi di fronte a coloro che contrastano la sua sovranità o vogliono misurare, in altre parole controllare, la sua grandezza. 37. Vispu meditante. Arenaria. xi sec., Khajuraho, Archaeological Museum, Khajuraho. La posa meditante è quella abituale del Buddha o del Jina. È meno frequente per Vispu qui rappresentato come yogin, il respiro controllato, il corpo perfettamente equilibrato. Quanto 7, 8 al perché gli dèi debbano meditare, ciò è spiegato nei Purapa, o Racconti «antichi», dove si vede che lo fanno sia per mantenere, con tale meditazione l’Ordine del mondo, il dharma, sia per dare l'esempio agli uomini.

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La funzione delle sculture buddhiste e induiste è appunto di consentire il dhyana dei fedeli. Esse vengono portate a termine solo per questa meditazione. Allo stesso tempo possono venire impiegate per la venerazione dei fedeli che accorrono per eseguire dei riti che comportano la deposizione di fiori, di grani di riso, di sostanze coloranti, o l’accensione di bastoncini di incenso. Ma il principale obiettivo resta il dhyana. Costruite per la meditazione, è dalla meditazione che queste immagini provengono. Si può forse pensare agli esercizi spirituali che gli artisti devono compiere prima di dedicarsi all’esecuzione di una statua. Ma occorre spingersi più lontano: questi ultimi sono essi stessi guidati nella propria meditazione da quegli altri che, prima di loro, hanno riflettuto su questo o quel personaggio divino. Questi tipi di dhyana venivano trasmessi oralmente dagli vilpacarya, maestri di bottega o meglio precettori che conoscevano le regole dello vilpa. I loro insegnamenti si trovano attualmente codificati negli vilpavastra. Uno di questi trattati4 per esempio contiene i dhyana di ventiquattro forme di Jagannatha o Visnu. Si tratta sempre di una esposizione particolareggiata di uno degli aspetti di Visnu, e dunque della descrizione di un’immagine. L’artista non è dunque libero di immaginare un personaggio divino lasciandosi guidare dalla propria fantasia. Deve anzi seguire con precisione la descrizione fornita dal dhyana della divinità che si prefigge di rappresentare, senza omettere alcuna delle caratteristiche o laksana di tale figura divina. Solo una perfetta conformità tra l’immagine portata a termine e il modello offerto da questa meditazione può assicurare il carattere benefico dell’opera e permettere ai fedeli che vi si accosteranno per meditare di entrare in contatto con la divinità. Cionondimeno non bisogna credere che l’artista si limiti a copiare servilmente un modello già rigidamente fissato in ogni particolare. In realtà i dhyana si limitano a fornire i tratti caratteristici essenziali del personaggio, le sue attitudini, gli attributi che gli sono peculiari e così via. È compito dell’artista immaginare il resto, vale a dire formarsi dapprima in cuor suo, e poi trasferire nella materia, un’immagine più precisa. Le regole da seguire sono di tipo operativo, tali cioè da fornire una guida al lavoro senza per questo porre ostacoli alla libertà dell’esecutore. Un semplice sguardo alle sculture del periodo gupta è sufficiente a farci comprendere che laddove esse rappresentano il medesimo personaggio con le stesse caratteristiche, non sono per ciò stesso identiche, ossia sono ben lontane dal poter essere considerate «copie» nell’accezione occidentale del termine. Non si trovano due statue identiche in ogni particolare, sebbene ve ne siano di molto simili, che rappresentano addirittura il medesimo personaggio. Donde provengono in definitiva i dhyana che ci forniscono la descrizione del Buddha e delle divinità dell’induismo? Li si rinviene oggidì nella letteratura specialistica dello vilpa, ma anche nelle fonti epiche, poetiche e drammatiche dell’epoca gupta. Esiste in effetti un vasto consenso tra tutti gli autori, sì che il medesimo personaggio ci viene presentato con descrizioni identiche. È dunque possibile illustrare oggi una scultura mediante una descrizione tratta da un’opera poetica, drammatica o epica5. Per esempio Parvati, sposa di Viva, è descritta come segue nella Nascita di Kumara, opera di Kalidasa, autore del iv-v secolo: – «Le sue gambe erano rotonde, simmetriche, di giusta lunghezza, perfette (...) – Le proboscidi degli elefanti hanno una cute troppo ruvida, i tronchi di banano sono troppo lucidi, e malgrado la forma tondeggiante che li caratterizza sono entrambi indegni di essere confrontati con le sue cosce (...)

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– La linea sottile di peluria novella occupava baluginando il lungo incavo dell’ombelico; oltre il nodo della cintola, pareva irraggiare dal gioiello centrale nero-bluastro. – In vita, che era stretta quanto una vedi, la giovane era ornata da una fascinosa triplice piega (...) – Di Uma7 dagli occhi di loto blu, le due mammelle, pallide e opulente l’una contro l’altra premevano, così rigogliose che neppure una fibra di loto si sarebbe fatta spazio tra le loro punte scure. – Ancor più delicate dei fiori di virisa erano le sue braccia. – Imparentato al seno, il suo collo recava un filo di perle (...) – Se un fiore potesse far mostra di sé su di un giovine virgulto, o una perla nascere dall’albero del corallo, allora si potrebbe riprodurre la luce che le sue labbra vermiglie spandevano in un chiaro sorriso (...) – Lo sguardo instabile di Uma dai lunghi occhi era simile a un loto blu squassato dal vento: l’aveva rubato alle gazzelle, o non erano le gazzelle che l’avevano sottratto a lei? – La lunga linea delle sue sopracciglia eguagliava in perfezione quelle create da un pennello con il belletto: consapevole della loro grazia, Amore fu spogliato dell’orgoglio che lo splendore del suo arco gli conferiva. – Se lo spirito di un animale potesse provare vergogna, certo le camari, vista l’opulenza delle chiome della figlia del re dei monti10 avrebbero smarrito la stima che dimostravano verso le loro code11». Questa descrizione, che occupa troppo spazio per poter venire citata nella sua interezza, può ancor oggi applicarsi a una statua di Parvati. Esistono raffigurazioni congeneri nell’epica o nell’ambito delle antiche storie (purana), il che dimostra che all’epoca uno stesso personaggio veniva rappresentato in maniera identica in sfere che oggi a noi possono sembrare estranee o parallele: danza, poesia, teatro, parti descrittive dell’epica, sculture, pittura e via elencando. Lo scultore o il pittore, la cui immaginazione si lasciasse appoggiare e guidare dalla cultura dell’epoca, non avrebbe dunque trovato difficoltà nel portare a termine un’opera conforme al modello tradizionalmente tramandato. Esisteva pertanto, nella mitologia come altrove, una sorta di verità immutabile, tradizionale, e la sola possibilità per l’artista o il semplice fedele consisteva nel verificarne la realtà, raggiungendo la condizione di dhyana e successivamente di samadhi rispetto alla divinità oggetto di culto12. È dunque lecito segnare finalmente all’attivo di poeti, saggi e veggenti, nonché alla fedeltà degli vilpacarya, la minuziosità delle descrizioni delle divinità di tutto il repertorio dell’induismo. E si tratta di un repertorio particolarmente abbondante. Il semplice elenco di tutte le divinità dell’induismo che figurano nelle sculture o nei bassorilievi comprenderebbe più di un centinaio di nomi, e, per i grandi dèi come Viva e Vispu, parecchie dozzine di scene differenti note come murti, termine che indica una «manifestazione», una forma del divino. In effetti una divinità superiore quale Viva possiede una molteplicità di aspetti che si manifestano assumendo una varietà di forme. Quando viene rappresentata sotto sembianze umane, può manifestarsi come asceta, come creatore dell’universo, come divinità regnante, come dispensatore di grazia, come maestro delle arti e della danza; la forma del corpo si presen-

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38, Surya, il Sole. Tempio di Konarak. 39. Surya, Hoysala. xii sec. Proveniente da Halehid, Victoria and Albert Museum, Londra. 40. Agni. Dio del Fuoco. Frammento di stele. xi sec., Musée Guimet, Parigi. Agni regge un oggetto: un mantice o un pezzo di legno per l’accensione del fuoco? Le altre braccia, spezzate, dovevano reggere un’ascia, un cucchiaio, una fiaccola, tutto quello che è necessario per fare un’oblazione. Agni è al centro della liturgia vedica e il suo ruolo non si è indebolito nella liturgia moderna. Qui è venerato da personaggi celesti in volo mentre altri personaggi, degli uomini, gli portano delle offerte. 41. Sarasvati. Avorio moderno. Rappresentata di frequente in questa forma ai giorni nostri: una giovane donna affascinante, abbigliata secondo la moda indiana, tiene in due delle sue mani un libro e un rosario e suona la vipa con le altre due mani. È la dea del Sapere e la patrona della creazione artistica, e durante la sua festa, non si può leggere né suonare strumenti musicali. 42. Il dio vedico Varuna. Scultura in pietra. xi sec. Varuna è il guardiano dell’Ordine morale 43. Usas. l’Aurora. Scultura lignea, India meridionale, Musée Guimet, Parigi. La dea regge un arco e una freccia. È spesso raffigurata mentre precede il Sole 44. Indra. Scultura lignea, India meridionale, Musée Guimet, Parigi. In cima alla gerarchia degli antichi tempi vedici, quando gli indù lo veneravano come capo del clan ario, Indra ha perduto la sua importanza. La sua cavalcatura è il cane da caccia e la sua arma il vajra (la folgore). 45. Nagaraja. Il Re dei Serpenti. Pietra. ii sec. d.C. circa, Musée 7, 8Guimet, Parigi. Il Re Naga ha qui un corpo umano raddoppiato da un corpo di serpente. I Naga sono rappresentati di frequente per evocare i fiumi e sono presenti nelle scene di venerazione di divinità e di grandi personaggi religiosi. L’associazione con l’acqua e con la forma umana conferisce un’estrema agilità ed eleganza alla scultura.

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ta sempre con i medesimi tratti fondamentali, Può inoltre venire raffigurata in forma non umana, nel Unga che sta a simboleggiare la sua energia creatrice. Un semplice repertorio delle divinità e delle rispettive murti costituirebbe un inutile fastidio in questa sede. Ogni volta che se ne presenterà l’occasione non mancheremo di illustrare l’una o l’altra di queste forme. Nella scultura induista è la forma umana che predomina. Le divinità sono antropomorfe. Ma in realtà agli occhi del fedele induista la forma umana è essa stessa divina. Avremo modo di tornare più volte su questo punto. Assumono egualmente forma umana le divinità che personificano le grandi forze e le grandi realtà della Natura. I fiumi sono rappresentati sotto spoglie femminili: la Ganga e la Yamuna figurano di frequente in sculture e bassorilievi, associate o meno a Viva. La Sarasvati è un altro fiume che viene al contempo identificato con la dea del sapere. L’Oceano invece è un personaggio maschile che si presenta sotto spoglie regali. Anche le montagne vengono personificate. Il dio dello Himalaya, Himavat, è un re. I serpenti maschi e femmine, i Naga e le Nagini, sono una sorta di geni rappresentati con un corpo ovvero un tronco umano maschile o femminile e una testa sormontata dal cappuccio di un cobra. Gli alberi e le piante rampicanti possono occasionalmente venire anch’essi personificati. Anche gli dèi vedici sono conservati e rappresentati nel repertorio induista: il dio dell’uragano Indra, il dio del fuoco Agni, il dio sole Surya, la Terra personificata come giovane donna. Tutti questi esseri divini, rappresentati con sembianze umane, sono dotati di corpi assolutamente perfetti, non solo perché belli e ben proporzionati, ma perché si ritiene realizzino in sé una perfezione sovrumana, divina. Quando gli occidentali, abituati alle opere d’arte antiche e rinascimentali, presero contatto per la prima volta con le statue buddhiste e induiste, credettero che gli artisti indiani ignorassero del tutto l’anatomia. E in effetti sul corpo degli dèi non si può mai scorgere l’impianto delle ossa, delle vene o dei tendini. L’ossatura e la muscolatura non compaiono. Contemplando le opere indiane si ha l’impressione che la struttura interna del corpo o del capo sia annegata nella carne, che resta sola a fare la sua comparsa all’esterno. Questa impressione dimostra unicamente una totale miscomprensione dell’estetica induista, e un irragionevole attaccamento a quella occidentale antica o moderna. Non solo gli indiani conoscevano l’anatomia quanto i migliori artisti nostrani, ma la modificazione dell’aspetto del corpo umano è da ritenersi in loro volontaria, mossa dal desiderio di rappresentare non degli uomini, ma degli dèi. L’anatomia di questi ultimi è dunque più che naturale o, se si preferisce, soprannaturale. Il corpo divino è interamente perfetto, almeno a giudicare dai criteri indiani che conosciamo così bene dai trattati di medicina e di astrologia13. Questi libri ci spiegano che un corpo è da considerarsi ben formato quando vi sia adesione e stretta unione tra tutte le sue componenti: ossa, muscoli, tendini, vene e giunture. Qualora le membra si presentino con le loro parti costituenti in perfetta armonia tra loro, unificate all’interno come per mezzo di uno yantra, uno strumento che le rinserri e le contenga, solo in questo caso possono dirsi belle. Appaiono allora nella pienezza e nella solidità della propria forma14. In altri termini, ossa, vene, tendini o giunture non si de-

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vono scorgere all’esterno, dal momento che rappresentano parti costituenti interne al corpo. All’esterno deve apparire unicamente la forma complessiva delle membra, al di sotto di un’epidermide fine e priva di asperità. I testi precisano le zone del corpo ove queste regole si devono applicare nel caso degli dèi o dei grandi personaggi di rango divino: sulla parte superiore e sul dorso della mano le vene e i tendini devono restare invisibili. Nel punto di giunzione del collo con le spalle non si devono riscontrare protuberanze o depressioni: le clavicole non si vedono. Il collo è perfettamente arrotondato. Il dorso non presenta asperità nei dintorni della colonna vertebrale, scapole e caviglie sono invisibili. In tutto il corpo, l’unica eccezione alla regola è costituita dalla rotula del ginocchio, rotonda e ben sviluppata. L’iconografia buddhista e induista classica segue molto rigidamente queste regole: muscolatura e ossatura dei personaggi divini restano invisibili al di sotto della cute. Ma nell’intenzione dell’artista ciò dev’essere segno di una solidità a tutta prova. Vi sono altre ragioni per cui i corpi divini si presentano con simili caratteristiche. Gli dèi sono esseri percorsi da un’intensa linfa vitale, ma che non conoscono la tensione nervosa somatica, e neppure le emozioni e le passioni che scuotono il corpo dell’uomo comune. Anche quando Viva esegue la danza cosmica, o quando Durga dà la caccia all’antidio Mahisa, tutte le energie del dio o della dea sono per così dire contenute, controllate dall’energia vitale interiore. La struttura ossea o muscolare, i tendini e i nervi che negli esseri ordinari compaiono alla superficie del corpo in stato di tensione, rimangono invisibili. La sostanza muscolare sembra fondersi e sparire rimanendo sostenuta e trasformata dall’energia vitale che si dispiega nell’universo o contro un nemico. Si può riscontrare una certa quale analogia tra questo tipo di flusso vitale e quello che pervade alberi e piante, particolarmente i rampicanti. Non vi è rottura, né discontinuità. Il flusso vitale scorre senza mancare di legami da una parte all’altra. Lo stesso accade nel corpo degli dèi, ove si precisa che le cosce sono rotonde come il tronco di giovani banani, che le articolazioni sono solide e dense, e che il braccio intero, dalla spalla ove la giuntura è spessa sino all’estremità delle dita, rappresenta una struttura continua, simile a una proboscide di elefante. Questo sereno possesso di forza interiore non costituisce affatto un’assenza di energia. Non si ha a che fare con una superficie al di sotto della quale ribollono energie incontrollate. Si presuppone al contrario la presenza di energie assoggettate, sottomesse, pacificate dalla loro canalizzazione, all’occorrenza rivolte verso un fine. È la calma (vama), il sereno possesso dell’energia, o meglio ancora la santi, l’intima quiete che nasce dalla contemplazione della realtà suprema o dalla liberazione interiore. Le immagini buddhiste e induiste non sono tutte egualmente impregnate di questo sentimento di pace interiore, ma si può affermare che nell’insieme, e principalmente in epoca gupta, gli artisti si sono sforzati di rendere le immagini propizie, belle e gradevoli, serene e in grado di donare serenità. Erano consapevoli che gli dèi sono esseri calmi. Viva viene detto vamavama, «che gode pace eterna». Questo è il mondo divino su cui l’iconografia ci apre uno spiraglio. Quando gli dèi o i personaggi divini ci vengono presentati in una posizione propria allo yoga, ossia in un atteggiamento che si prefigge lo scopo di procurare questo stato di calma, la loro immagine è particolarmente quieta e tranquillizzante. «Quando Viva contempla se stesso come asceta, lo fa per la pace del mondo15».

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Vispu disteso sul serpente si trova «nel profondo torpore dello yoga16». Le loro immagini sono costruite sul modo contemplativo e, per poter essere portate a termine o comprese, presuppongono un atteggiamento di contemplazione: «La caratteristica di un’immagine consiste nella sua attitudine a promuovere la meditazione e lo yoga. L’artigiano umano deve dunque dedicarsi alla meditazione. Al di fuori di essa non vi è alcun altro strumento che consenta di conoscere il carattere di un’immagine. Anche l’osservazione diretta si rivela incompetente17». Il Buddha ha raggiunto la pace interiore non per il tramite dello yoga, ma grazie alla scoperta della verità a proposito del dolore dell’uomo. In India, secondo una tradizione che risale a un’epoca sicuramente prebuddhista, colui che scopre la verità gode per ciò stesso di una pace radiosa, i cui segni si possono percepire sul suo viso e nel suo atteggiamento esteriore. Gli artisti conoscono bene questa tradizione, anche se forse non sempre sono riusciti a rendere con altrettanta fortuna questa sensazione di pace. I Buddha di Mathura di epoca gupta sono senz’altro già fortemente impregnati della stessa profonda pace che si irradia da tutta la statuaria contemporanea di Sarnath. La celebre statua in arenaria di Chunar, per esempio, databile al vi secolo e conservata nel Museo Archeologico di Sarnath, è l’immagine del Buddha riprodotta più spesso, perché meglio di altre esprime la pace buddhista. Il maestro è assiso nella postura di un asceta (yogin), le piante dei piedi volte verso l’alto. Le mani si atteggiano a formare la dharmacakramudra, il gesto che indica la messa in moto della Ruota della Legge, vale a dire la predicazione della verità testé scoperta. Tutto il corpo è quieto. Le articolazioni, ossia il collo, le spalle, i gomiti, la parte anteriore delle ginocchia, sono massicce e arrotondate, per meglio indicare che l’energia vitale interiore scorre in tutto il corpo come un flusso che raggiunge senza scosse le estremità del corpo. Il viso è ovale, radioso e leggermente sorridente. La fronte si armonizza perfettamente con il resto del volto. La struttura ossea non si lascia intravedere da nessuna parte. Le sopracciglia sono due archi senza increspature. Gli occhi sono grandi, ma lo sguardo è celato dalle palpebre, il che indica che il Maestro sta riflettendo sul proprio insegnamento, non per custodirlo in sé ma per trasmetterlo, sì da comunicare agli altri la sua stessa pace interiore. Da tutta l’immagine promana un afflato di dhyana, di contemplazione. Le statue buddhiste di fattura contemporanea delle scuole greche del Gandhara non producono la stessa impressione. Non sono né di buon auspicio (viva), né di bell’aspetto complessivo (sundara), né quiete e tranquillizzanti (vanta). Il motivo è da cercare in un insieme di tratti ereditati dall’estetica greco-latina, che differisce profondamente da quella indiana. Avremo modo di tornare più oltre su questo punto fondamentale. Occorre precisare un certo numero di particolari a proposito della rappresentazione dei corpi degli dèi e di esseri straordinariamente prossimi al divino quali il Buddha e il Jina18. I loro corpi sono caratterizzati da una perfezione sovrumana, il che implica indubbiamente che quanto fa già parte della perfezione umana si ritrova presso gli dèi in misura superiore. Si tratta di corpi compiuti e perfettamente completi in ogni loro parte. I trattati di iconografia insistono sulla prima caratteristica: «L’immagine (pratima) deve essere eseguita per poter ricevere culto (puja) e onori (satkara); deve comprendere tutte le sue membra principali (anga) nonché le parti secondarie (upañga)19».

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46. Makara che lascia uscire un giovane naga dalla gola. Arenaria rossa, ii sec. d.C. Mathura. Animale mitico tra il pesce, il drago e il coccodrillo, il makara serve come cavalcatura a Ganga. La sua forma, che può essere allungata o accorciata a piacere, è molto adatta ad architravi e basi di scalinate. 47. Buddha stanti, da sinistra in senso orario: la prima statua proveniente da Mathura, gupta v sec., National Museum, New Delhi; Buddha stante, gupta v sec., Mathura. Lo stile Gupta si segnala all’attenzione degli appassionati d’arte per diversi tratti interessanti: il Buddha è in piedi, in samapada. Egli non si rivolge più a un uditorio, come nelle epoche precedenti, ma offre la testimonianza di una profonda meditazione. Il suo sguardo è interiorizzato, le palpebre sono semichiuse. La sua mano non dà l’insegnamento ma rassicura; Buddha stante, arenaria, vi sec. d.C., Somnath, Uttar Pradesh, Archaeological Museum. Sarnath; Buddha stante, gupta, v sec., Sarnath. Stessi tratti generali dei Buddha precedenti, ma il collo è meno massiccio, il volto meno tondo diviene invece ovale. Il cerchio di luce (prabhamapdala) è anch’esso ovale per meglio esprimere che la «luce» (bha) che il corpo emana «davanti» (pra) a sé, dal centro verso l’esterno in forma di mapdala, proviene dal corpo nella sua interezza. 48. A sinistra, Bodhisattva stante. viii-ix sec., Musée Guimet, Parigi. A destra, torso di Bodhisattva che tiene in mano la folgore viii-ix sec., Musée Guimet, Parigi. 49. Bodhisattva stante. viii-ix sec., Musée Guimet, Parigi. «La nobiltà dell’atteggiamento semplice e naturale e il profilo armonioso del corpo apparentano da vicino quest’opera all’estetica gupta. La lunga veste monastica sapghati aderisce al corpo disegnandone le forme. Il drappeggio, trattenuto dall’avambraccio e dalle mani, ricade con vigore sui fianchi». Odette Monod, Guide du Musée Guimet, at., p. 69. 50. Testa di Buddha. Arenaria di 7, 8 India settentrionale, Sarnath, Chunar, stile gupta, Musée Guimet. Questa testina di epoca gupta «si impone per la delicatezza della sua esecuzione e per la sua espressione di dolce e profonda meditazione». Odette Monod, Guide du Musée Guimet, Paris 1966, p. 14.

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La ragione di tutto ciò è molto semplice, e ce la forniscono i testi di vilpa che parlano del carattere benefico delle immagini: un corpo mal fatto o incompleto è sintomo di sventura. È un fatto che non si trova mai una scultura a tutto tondo che rappresentasse in origine solo una testa, un torso o qualunque altra parte del corpo, come accadeva correntemente nel mondo greco. Occorre però precisare che per quanto riguarda Siva si trovano talvolta, integrati a un insieme di statue che lo rappresentano in figura intera, dei bassorilievi su cui se ne distingue il busto tricefalo, emblema delle tre manifestazioni (murti) del personaggio. La più celebre di queste sculture è la Trimurti di Elephanta. Questa eccezione alla regola generale non creò forse alcun problema a occhi induisti, grazie alla presenza nel medesimo sito di molteplici quadri in cui Viva viene rappresentato nella sua interezza. Un altro punto meritevole di interesse riguarda l’età degli dèi, o più esattamente la loro giovinezza. I trattati di vilpa ci dicono che le immagini devono sempre rappresentare le fattezze di un giovane, molto raramente di un infante, ma mai di un vecchio20, e inoltre che gli dèi hanno l’aspetto di adolescenti di sedici anni21. Ancora una volta saranno ragioni di carattere estetico che permetteranno di motivare questa scelta, molto diversa da quella operata dai Greci, e meritevole di una spiegazione particolareggiata. Secondo l’estetica indiana una forma quale che sia, animale o vegetale, nasce, si sviluppa, declina e scompare come una pianta o un fiore. Nel corso di questo sviluppo esiste un periodo, breve ma essenziale, in cui la forma del fiore appare in tutto il suo splendore. È il momento in cui il fiore si dischiude. In questo preciso istante, spiegano i filosofi, il fiore si trova nella sua condizione vyaktavyakta, manifesta e immanifesta a un tempo. Lo stesso accade durante il processo di sviluppo del corpo umano: vi è un periodo, breve ma essenziale, in cui il corpo, raggiunta la statura che gli è peculiare, è interamente occupato a svilupparsi per occupare maggiore spazio. In tale momento tutte le energie sono per così dire contenute dalla superficie che appare paffuta perché ancora in fase di estensione. È per gli indiani il periodo dell’adolescenza al suo culmine, il solo che permette di sfociare nell’età adulta. Nel passo citato dalla Nascita di Kumara, Kalidasa presenta così la figura di Parvati:

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«Come un quadro prende forma sotto il pennello del pittore, come il loto si dischiude sotto i raggi del sole, perfettamente equilibrato dalla sua giovinezza al limite, il suo corpo appariva pieno di fascino, armonioso in ogni sua parte22».

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Il momento prescelto dal poeta per descriverci la sposa di Viva è dunque quello del limitare della sua giovinezza. D’altro canto, dèi e dee non conoscono altra età, giacché vivono un’eterna giovinezza, e il loro corpo è come quello di un giovine o di un adolescente, radioso di vita. Anche il Buddha è rappresentato come fisicamente giovane, in evidente contraddizione rispetto ai testi canonici secondo i quali scoprì la verità all’età di trentacinque anni per morire a ottanta. Ma sculture e dipinti lo rappresentano come eternamente giovane. Le sculture di Borobudur, al centro di Giava, lo raffigurano con i tratti di un adolescente d’aspetto tondo e colorito, in cui la giovinezza nulla toglie alla spiritualità. Gli dèi sono costantemente dotati di vesti e ornamenti, ma non è questa l’impressione che si può ricavare da una prima osservazione delle loro icone. In realtà danno l’impressione di una parziale nudità. Ciò è dovuto al modo di trattare il vestiario, che dev’essere trasparente e tale che sia impossibile distinguerne i bordi.

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«I tessitori indiani andavano orgogliosi della loro abilità nella produzione di stoffe di cotone straordinariamente leggere, quasi trasparenti. (...) Naturalmente le stoffe di questo genere erano le più costose; e poiché l’eleganza delle vesti era una caratteristica della casta, si pensava che gli dèi e i personaggi leggendari effigiati nelle opere d’arte non indossassero che tessuti meravigliosi23». A questo motivo se ne aggiunge un altro, anch’esso importante. Gli dèi sono gli esseri più elevati del mondo della forma e possiedono un corpo luminoso. Sono esseri che rilucono di luce propria. Lo splendore dei loro corpi non proviene dal sole o dalla luna, bensì dall’interno, e traspare attraverso le vesti. Il Buddha non ha nulla da invidiare a questi esseri celesti, dal momento che la leggenda gli attribuisce un «colore dell’oro», e che in due occasioni, al momento del Risveglio e un po’ prima del Mahaparinirvana, questo colore si caricò di un particolare fulgore, al punto che le vesti d’oro offertegli dai discepoli perdevano il loro splendore in confronto con quello emanato dal Buddha. Gli artisti indiani non hanno tardato a trovare il modo di conciliare questi dati contraddittori. Hanno rappresentato gli dèi e il Buddha con abiti trasparenti, con bordi e pieghe ben determinati. I testi buddhisti precisano che gli dèi nascono vestiti e ornati. Gli ornamenti non costituiscono solamente indice del rango sociale di appartenenza, ma vengono considerati parte essenziale della bellezza del corpo. Gli indiani non si sono mai permessi di rappresentare uomini o donne interamente nudi, per il puro piacere di ammirare un bel corpo maschile o femminile. Hanno un senso troppo intenso della necessità di un intervento umano nella natura, per consentirne la compiuta perfezione. Ogni fenomeno naturale deve essere samskrta, «portato a compimento» dall’uomo per poter essere «perfetto». Il corpo umano per essere bello deve arricchirsi di ornamenti che vi si adattino alla perfezione per consentirne il pieno rigoglio della bellezza. Collane, bracciali, cinture, anelli, ghirlande e simili completano dunque di necessità il corpo, ma l’ideale è che giungano a comporsi in armonia con quest’ultimo in modo tale da divenire un tutt’uno con esso. Un altro bel testo di Kalidasa illustra questa regola. Ecco cosa dice il poeta a proposito di Parvati: «Imparentato al seno, il suo collo recava un filo di perle: lo splendore che l’uno rinviava all’altro faceva sì che i due fossero a un tempo ornamento e oggetto ornato24». Una tale armonia arriva in realtà a instaurarsi tra corpo e ornamenti, che non è più possibile dissociare l’uno dagli altri. Il corpo reca su di sé gli ornamenti senza che questi costituiscano un carico supplementare per la vista. Quando, per ragioni specifiche, gli indiani hanno dovuto rappresentare dei corpi privi di ornamenti, li hanno considerati ornati senza bisogno di fare ricorso ad acconciature di sorta. Il corpo di Parvati era così bello che «era ornato senza ricorrere ad alcun orpello», secondo quanto precisa ancora una volta Kalidasa 25. Che significa questo? Dalla sua poesia noi possiamo ricavare una pleiade di caratteristiche possedute dal corpo della futura sposa di Viva, che si ritrovano nella totalità di figure divine maschili e femminili, come pure presso quegli esseri straordinari come possono essere il Buddha o il Jina. Secondo un metodo tradizionale in terra indiana, cominceremo la descrizione dai piedi.

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«(...) L’unghia rilucente dell’alluce aveva lo splendore delle altre, e diffondeva intorno la porpora (...)». Lo stesso viene detto del Buddha e del Jina, le unghie dei quali erano colore del cuoio. Il poeta parla «del lungo incavo dell’ombelico». Tutte le sculture indiane ci presentano dèi, dee, uomini e donne «dall’ombelico profondo», raffigurato nell’iconografia come una piccola conca. «In vita, che era stretta quanto una vedi, la giovine era ornata da una fascinosa triplice piega: lì l’aveva collocata la giovinezza, nuova venuta, come una scala, sì che Amore potesse salirvi». La triplice piega del ventre è un segno femminile, menzionato del pari nel caso di soggetti maschili. «Imparentato al seno, il suo collo recava un filo di perle». Kalidasa vuole con ciò dirci che il collo e il seno di Parvati erano particolarmente tondeggianti. Il secondo tratto è caratteristicamente femminile, laddove il primo è patrimonio comune di uomini e donne. Nessuna scultura tralascia la raffigurazione di un collo ben tornito, solitamente segnato da due o tre pieghe perfettamente circolari. Questi pochi tratti peculiari ci permettono di intravedere quanto gli indiani abbiano cercato di trarre profitto dal corpo per sottolinearne la bellezza. Non è possibile elencare con ogni particolare tutti i tratti caratteristici (laksana e anuvyañjana) di dèi, dee, Buddha e Jina. Il Buddha da solo è detentore di trentadue caratteristiche principali e ottanta tratti specifici secondari. Rama ne ha altrettanti. Possiamo essere ben sicuri che gli artisti li conoscessero a menadito, dal momento che costituivano parte integrante del loro repertorio. Non è dunque per mancanza di nozioni di anatomia, come si è talvolta sostenuto, che gli indiani hanno rappresentato i corpi in modo differente da quello tipico della scultura e della pittura occidentali. Piuttosto questi artisti hanno voluto offrire a modo loro un’idea dell’essenza degli dèi, esseri eccezionali quant’altri mai. Le immagini indiane si prefiggono dunque lo scopo di fornirci una certa concezione del divino o, nel caso del Buddha, della perfezione della condizione raggiunta tramite il Risveglio. Il loro significato va cercato sul piano dell’ideale. Non si tratta di copie della realtà che vediamo intorno a noi. Gli artisti indiani rifiutano di sottostare alla dipendenza e alle variazioni insite nel modello vivente; ma compongono le proprie opere a partire da dati specifici forniti loro dai maestri, gli vilpacarya, nonché da segni di bellezza che si possono occasionalmente ammirare nei giovani. Sono nondimeno riusciti, come i veggenti e i poeti, a far vivere le loro opere impregnandole della propria ispirazione. Senza essere costretti a seguirli sul piano della mitologia, e senza per questo dover riconoscere tutte le implicazioni spirituali delle loro opere, gli amatori occidentali dell’arte indiana sono fatalmente obbligati a seguire il percorso indicato dai testi per riuscire a comprenderla. E pertanto necessario che, non fosse che per un momento di contemplazione, si dedichino a coltivare la modalità meditativa della conoscenza. La pittura murale

Ben poco ci resta della pittura gupta. I dipinti della grotta di Bagh, attualmente molto danneggiati, appartengono allo stesso stile di quelli di Ajanta risalenti alla fine del vi o inizio del vii secolo26, portati a termine sotto i Vakataka, contemporanei dei Gupta. I dipinti in caverna di Ajanta costituiscono come tutti sanno il complesso più impressionante e più

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51. Gommatevvara. Statua scolpita da una roccia di granito grigio, Ganga occidentali, x sec., Vravana Belgola, Karnataka. 52. Tirtbankara in meditazione. Arenaria rossa, v sec. d.C., State Museum, Lukhnow. 53. Vantinatha, il sedicesimo Tirtbankara. xii sec. d.C., Victoria and Albert Museum, Londra. I jaina non sembrano aver avuto le stesse reticenze dei buddhisti nel rappresentare i loro fondatori umani in forma umana nelle statue di pietra, poiché abbiamo, sin dall’epoca Maury (iii a.C.), il torso di un Tirtbankara conservato al museo di Patna. Essi hanno da sempre coltivato l’osservazione dei segni fisici degli uomini e delle donne allo scopo di determinare quali siano «i migliori» tra gli esseri umani. 54. Sculture della facciata del tempio di Viva. Prambanan. Giava centrale. ix sec. L’induismo e il buddhismo furono introdotti a Giava sin dai primi secoli dell’era cristiana. Non ci resta nulla delle costruzioni religiose dell’epoca. Più tardi, nei secoli viii e ix, furono costruiti dei santuari buddhisti, come il Capdi Sewu (tav. 71) e il Candi Borobudur (tavv. 52-61). Nel ix sec., una dinastia indù unificò Giava centrale e fece costruire dei templi, tra cui il Capdi Viva (tavv. 63, 70) e il Capdi Sambhishri (tav. 72). Profondamente influenzata dall'arte dell’India meridionale (arte Fallava) e da quella dell’India settentrionale (arte post-gupta e pala), l’arte indo-giavanese di quest’epoca è assai originale: presta grande attenzione al decoro, ma è il bassorilievo che può essere considerato come la modalità espressiva preferita dagli scultori indonesiani. 55. Figura femminile. Jaipur? Rajasthan, fine x sec., Musée Guimet, Parigi. Si tratta della dea Sarasvati, patrona della musica e delle arti. In ogni caso, questa giovane donna teneva, nella mano sinistra, uno strumento musicale (vipa), del quale rimane un frammento. 56. Buddha con paramenti, Bengala, fine xii sec., stele, Musée Guimet, Parigi. Il Buddha ha sempre goduto, nell’iconografia che gli è stata 7, 8 consacrata, delle insegne della regalità (parasole reale, seggio reale dei leoni, ecc.), per non parlare dei segni fisici che lo accomunano agli uomini eminenti e ai re. In certune sculture, a Karla per esempio, si vedono apparire dei

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conosciuto della pittura murale classica. Nello stesso stile di Ajanta troviamo ancora, questa volta a Ceylon, a Sigiriya, una serie di affreschi raffiguranti giovani donne dalle forme voluttuose, principesse con le loro domestiche. Parimenti poco numerose sono le pitture conservateci di periodo post-gupta. Ne troviamo a Ellora (viii-ix secolo), nel Travancore (viii secolo), a Tanjore (Tanjavur; xi-xii secolo), a Ceylon (viii-xiii secolo). Le pitture murali possono avere ispirazione religiosa ovvero profana. Più precisamente si tratta di dipinti buddhisti, vivaiti, jaina, ovvero di pitture che rappresentano scene di corte. Dal mero punto di vista dell’importanza quantitativa e qualitativa le più numerose sono quelle religiose, tra le quali primeggiano quelle buddhiste di Ajanta. Ajanta è il sito archeologico indiana più noto agli occidentali, a buon diritto d’altronde, giacché merita uno studio particolare e illustra al meglio lo spirito del periodo classico. Ci restano anche, per comprendere queste pitture, voluminose opere di silpa del medesimo periodo, in cui alcune sezioni sono dedicate all’arte pittorica27. Trattandosi di testi a uso degli vilpin, le annotazioni abbondano con riferimento alle tecniche, alle istruzioni da seguire, alle misure da verificare, ai paragoni da utilizzare. Sono molto meno precisi su quanto maggiormente ci interessa in questa sede, vale a dire lo spirito e lo stile. Si tratta tuttavia di materiale estremamente illuminante, e non si può dire che fino a oggi gli studi si siano spinti a tal punto da poterne derivare il massimo possibile di insegnamento28. I trattati di vilpa insistono sull’importanza del tracciato:

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«Nella tecnica tradizionale di pittura indiana il tracciato del disegno costituisce un elemento fondamentale, cui, contrariamente che in altre tradizioni, si era conferita un’importanza tale che tutti gli altri costituenti, inclusa l’applicazione del colore, sembrano essere stati lasciati in secondo piano. In India il disegno è ben lungi dal costituire una semplice indicazione con valore esclusiva- mente strumentale alla corretta applicazione delle tinte. Già dall’inizio dell’opera, il disegno fornisce la delimitazione definitiva dell’oggetto fino nei suoi minimi particolari, e stabilisce tutte le relazioni spaziali di quest’oggetto con gli altri che costituiscono la composizione. Non svanisce sotto il colore, ma si mantiene piuttosto durante l’intera esecuzione del lavoro, per venire infine ricostituito come tocco finale con una linea nera29». Come conseguenza di questa grande importanza del disegno assume un ruolo rilevante la preparazione mentale del pittore. Quest’ultimo, trovandosi di fronte al muro che è stato incaricato di affrescare e che è stato preparato a tal fine, deve già conoscere fin nei minimi particolari il quadro che intende raffigurare:

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personaggi celesti che gli portano una corona. Qui egli indossa i paramenti: ha in testa una tiara, insegna della

regalità (chiamata in sanscrito mukutaj. Per il resto, la sua figura continua l’iconografia dei secoli passati.

«Pertanto il Visnudharmottara gli raccomanda la concentrazione fisica e mentale di porre mano all’opera. Lo Silparatna30 esige che il pittore padroneggi il proprio spirito per poter richiamare alla mente più e più volte ogni particolare. Secondo l’Abhilasitarthacintämani1 la misura va meditata (dhyata) a lungo prima di fissare le forme sul muro32». Ci sarebbe molto da dire su quest’attività del pittore così come concepita in India, ed apparentata alla sfera dello yoga. L’opera d’arte viene elaborata mediante operazioni di tipo

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contemplativo e mistico33, ma questo non significa che il pittore sfoci in una specie di estasi, perlomeno nell’India classica. L’attività del pittore si ferma a un livello di mera operatività, laddove l’opera d’arte viene atteggiata in primo luogo nell’immaginazione34. Quando il pittore possiede il soggetto fin nei minimi particolari può finalmente mettersi all’opera, tracciando il disegno e sovrapponendovi i colori. Il contorno viene eseguito in modo tale che il rapporto tra i tracciati all’esterno indichi la presenza di una massa tondeggiante all’interno. Per esempio il volume di un braccio è suggerito dalla presenza di un tracciato formato da due linee che ne seguono il contorno, dando l’idea di una massa ben tornita. È il profilo di una massa suggerita da linee che potrebbe essere un disegno che ne rappresenti una scultura. La relazione tra pittura e scultura è d’altro lato assai stretta. Se si contemplano per esempio i mille Buddha della grotta 2 di Ajanta, si pensa a delle statue. Tuttavia la dipendenza rispetto alla scultura non è mai così profonda come nella pittura dell’Asia centrale, per esempio a Qyzyl, dove con ogni evidenza il pittore si è limitato a riprodurre su disegno una copia conforme del modello scolpito35. L’applicazione dei colori segue cronologicamente il tracciato del disegno. L’espressione impiegata precisa che si tratta di riempire (radice pr) lo spazio esistente tra le linee. I colori vengono stesi in piano. Il volume è suggerito da leggere variazioni di tono per sottolineare il modellato, ma nessuna figura proietta ombra. In realtà ogni personaggio e ogni oggetto gode di una luce che gli è propria, il che non vuol dire che una sola stessa luce si irraggi identica su tutte le parti del quadro. Gli dèi non sono fisicamente identici, distinguendosi per colore, abiti, ornamenti e simili36. Gli esseri umani hanno taglie diverse, e con ciò si spiega il fatto che sia possibile diversificare i personaggi a seconda del rango sociale, come accade nelle pitture murali di Bagh o di Sigiriya. Ma ogni personaggio irradia luce. Sugli affreschi di Ajanta i personaggi regali, i Bodhisattva e i Buddha appaiono radiosi di splendore. Un testo di vilpa sostiene che in pittura «il cakravartin va rappresentato simile all’oro del fiume Jambu, come l’involucro del loto dischiuso, come il colore brillante del campaka1». E ancora: «Il suo volto è bianco come la luminescenza del disco lunare. Ed ecco che il mondo degli uomini, in una sera di luna chiara, diviene simile a un mondo che possegga due lune38». Nel caso del Buddha la luminosità del volto è suggerita da un’aureola tonda od ovale che circonda il capo, e che ha come suo centro l’urna, un pelo bianco tra le sopracciglia, donde tale luce promana39. A questo proposito, i pittori si sono forse limitati a trasporre un dato già esistente nella scultura dalla metà del secondo secolo, stando a quanto si può giudicare dalle sculture di Mathura dai bassorilievi di Amaravati. Ciò che balza agli occhi nell’arte di Ajanta sono lo spazio pittorico e la composizione delle scene. Il pittore obbliga i suoi personaggi a fronteggiarlo, facendoli avanzare verso di lui. Nel caso in cui più personaggi siano in relazione tra loro, per esempio quando un re riceve un messaggero, ci si trova di fronte a un insieme di personaggi interessati da un medesimo avvenimento e si trovano collocati in modo tale che li si può vedere e contemplare nelle condizioni migliori per apprezzarne il comportamento. Non vi è dunque prospettiva come nell’arte occidentale del Rinascimento, ove il pittore si identifichi con uno spettatore posto

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57. Il Buddha Cosmico, Vairocana. Dipinto murale. Colore su intonaco, 76x57 cm, Balawaste, Khotan, iv sec., National Museum, New Delhi. Specialmente all’epoca dei Kuvapa, il cui immenso impero si estendeva dall’India settentrionale fino alle propaggini dell’Asia centrale, la Via della Seta servì da tramite per il passaggio e l’attecchimento delle correnti intellettuali e religiose indiane. 58. Lotta tra bufali. Ajanta grotta 1. (Copia di S. Katchadourian, 1938), Musée Guimet. 59. Elefante dentro uno stagno coperto di fiori di loto. Ajanta, soffitto. In alto particolare dell’affresco dei mille Buddha. Ajanta, grotta 2; al centro da sinistra: Bodhisattva Padmapani (che tiene in mano un fior di loto). Ajanta, grotta 1, e Bodhisattva (copia di S. Katchadourian, 1938, su modello di un affresco di Bãgh), Musée Guimet; in basso: monaci che ascoltano un sermone. Ajanta, grotta 18. 60, 61. Ajanta, soffitto. In alto particolare dell’affresco dei mille Buddha. Ajanta, grotta 2; a destra: Bodhisattva Padmapani (che tiene in mano un fior di loto). 62, 63. Ajanta, grotta 1, e Bodhisattva (copia di S. Katchadourian, 1938, su modello di un affresco di Bãgh), Musée Guimet; a destra: monaci che ascoltano un sermone. Ajanta, grotta 18. 64. Esseri celesti. Pittura murale. ix sec. Ellora, grotta Indrasabha (jaina). 65. Elefante (particolare del soffitto dipinto) viii sec. Ellora, ingresso del Kailasa. A Ellora, il sito è stato occupato o protetto 7, 8 al punto che vi si trovano ancora dei dipinti. Le credenze jaina si conciliano a quelle nell’esistenza di esseri celesti. Quanto al Kailasa, esso conserva dei dipinti murali in cui si vedono scene di battaglia e processioni reali nelle quali l’elefante appare in primo piano.

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in una determinata posizione, che di là getta il proprio sguardo sulla scena in cui si sviluppa una teoria di oggetti e persone che sono poste a una maggiore o minore distanza da lui, e che di conseguenza appaiono di minori o maggiori dimensioni. Nell’arte di Ajanta, a parte alcuni dipinti in cui il personaggio principale, Buddha o Bodhisattva che sia, viene considerato come una vera e propria icona e pertanto rappresentato con proporzioni maggiori rispetto al suo seguito, nella maggior parte dei riquadri i personaggi sono sensibilmente della stessa taglia. I soli elementi soggetti alle leggi della prospettiva sono gli edifici e le rocce. Ma il modo in cui sono disegnati presuppone che il pittore si sposti ogni volta per meglio osservarli e di conseguenza renderli. In altre parole il punto di fuga si sposta lungo l’orizzonte non solo a ogni diversa scena, ma in ogni porzione di riquadro collocata in un singolo edificio40. Quanto alle scene di un racconto, «si succedono sulla parete senza alcuna separazione lineare, ognuna centrata intorno a uno o più personaggi, e la transizione da una scena all’altra ha luogo grazie a personaggi secondari che mediante i propri gesti, l’orientamento dello sguardo e la flessione del corpo, appartengono in certo modo a due gruppi contigui. Questa disposizione non potrebbe venire compresa senza un certo sforzo di ‘partecipazione’. Lo stesso vale per gli effetti prospettici che presuppongono che lo spettatore si sposti di continuo41. In un’opera notevole42, Stella Kramrisch ha voluto accostare questa concezione dello spazio pittorico propria di Ajanta a quella del pensiero buddhista contemporaneo, secondo la quale si ipotizzava l’esistenza di una pluralità di mondi autonomi caratterizzati da differenti stati dello spirito. I dipinti di Ajanta sono concepiti nello stesso modo, ogni scena è proiettata in piena autonomia, senza venire costretta in una cornice, ma rientrando tuttavia in un ritmo d’insieme. Non si tratta di uno spazio astratto o matematico, ma di uno spazio interiore, delimitato per ciascun individuo dal proprio organismo e costruito secondo le proprie esperienze. Gli affreschi ci narrano la vicenda del Buddha e delle sue vite anteriori (jataka). Tutti questi soggetti erano già abbondantemente presenti nell’iconografia di Amaravati (ii secolo a.C.), di Bharhut (ii secolo a.C.), e Sanci (ii secolo a.C.), ma ad Ajanta vengono presentati non solo con intento narrativo, ma con lo scopo di «edificare» i fedeli, nel senso più nobile del termine. Qui il buddhismo impregna i dipinti di un sentimento di pace (santi) che secondo i testi non rappresenta solo la quiete che si prova entrando in un romitaggio, ma la sensazione di tranquillità e pace interiore che nasce in seguito alla comprensione della vacuità dei desideri terreni. Forse alcune scene degli jataka ci descrivono le gioie mondane, ma al solo scopo di sottolinearne la vanità ultima. A mano a mano che tali brame trovano requie fa la sua comparsa il desiderio della liberazione. I bronzi dravidici

I bronzi di epoca indiana classica giunti sino a noi, compresi in un periodo tra il iv e il xii secolo, non sono tutti dravidici. Ne possediamo alcuni di scuola Pala, dell’India settentrionale, dell’viii-ix secolo, che raffigurano il Buddha, Tara, Viva e Visnu. Tuttavia gli esemplari più famosi e di maggiore interesse sono quelli dell’India del sud: i bronzi dravidici. Ne distinguiamo tre stili, che prendono nome dalle dinastie che regnavano all’epoca nel Deccan: Pandya, Pattava e Cola. Oggigiorno molti di questi bronzi figurano in musei tra i quali il più famoso è quello di Madras, che possiede una collezione unica al mondo. Seguono il Museo di Tanjore e il Museo Nazionale di New Delhi. In Occidente i musei più im-

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portanti sono fieri di esibire bronzi dravidici. Il Museo Guimet ne custodisce alcuni molto belli, tra cui un celebre Viva danzante, noto in tutto il mondo. L’arte del bronzo dipende a un tempo dalla modellatura e dalla lavorazione dei metalli per fusione. In un primo tempo l’artista modella un’immagine in cera che serve successivamente a dare forma a uno stampo. Solo in seguito il metallo potrà finalmente essere fuso, secondo una tecnica detta «a cera perduta». Il bronzo è in grado di restituire con estrema fedeltà i più piccoli particolari dell’immagine modellata nella cera, e per questo gli artisti sono stati sollecitati dalla stessa tecnica impiegata a creare forme molto più raffinate di quelle consentite dalla statuaria lapidea. Inoltre il metallo è dotato di un’elasticità e di una robustezza sconosciute alla pietra. Gli vilpin potevano pertanto concepire progetti di un’audacia impensabile per altre tecniche. Per questo motivo i bronzi ci comunicano talvolta la sensazione di essere sottoposti a regole particolari, restituendoci immagini differenti da quelle offerte dalla scultura o dalla pittura. Quest’impressione è falsa, perché in realtà i bronzi seguono mutatis mutandis, le medesime norme. Le immagini di bronzo sono anche animate da una particolare mobilità: è possibile spostarle con minore disagio rispetto alle statue in pietra, che di solito sono parte integrante di un complesso architettonico. Esse sono vere e proprie icone, destinate alla venerazione nei templi, sovente di notevoli dimensioni, spesso superiori al metro di altezza. Sono del pari destinate al trasporto nel corso di processioni trionfali, come è dimostrato dagli alloggiamenti riservati ai tronchi di bambù o dagli anelli che hanno la funzione di consentire il passaggio di un bastone fissato a uno zoccolo ligneo sul quale viene collocata l’immagine. Nel tipico tempio vivaita, oltre al linga nel santuario principale, si rinvengono sui muri esterni sculture che rappresentano le diverse manifestazioni (murtï) della divinità, e inoltre un’icona della cavalcatura di Viva, il toro Nandi, collocata di fronte all’ingresso del santuario. Quanto all’immagine in bronzo dello Viva danzante, si preferisce in genere riservarvi un santuario secondario, situato nel medesimo corpo dell’edificio principale, nella parte nordorientale43. È importante ricordare questa funzione liturgica delle immagini, dal momento che la bellezza del loro modellato suscita presso gli occidentali un piacere estetico che non è quello cui miravano gli artisti che le hanno create. Costoro certo desideravano che le proprie opere fossero belle, piene di grazia e di vita, ma non intendevano porre mano ad altro che a delle murti, vale a dire rappresentare differenti aspetti del divino. La loro arte è al servizio della religione, ed essi continuano a seguire le regole che oggigiorno i trattati di vilpa ci forniscono sotto forma codificata, ma che sono nate poco alla volta tramite la pratica stessa dell’arte. I bronzi dravidici ci consentono di cogliere nella loro concretezza una pluralità di canoni estetici peculiari dell’arte indiana. Anzitutto il modellato del corpo non è ingenerato dall’apparire sotto pelle della struttura ossea o muscolare. Sussiste forse una certa qual differenza tra statuaria lapidea e bronzea. Nel primo caso è sottolineata l’assenza totale di rilievo di ossa, muscoli, vene e tendini. Lo stesso accade per i bronzi. Ma in quest’ultimo caso la forma globale delle membra è completata da una più marcata notazione delle articolazioni. Per esempio nella scultura in pietra la curva delle cosce si ricongiunge a quella delle gambe in modo continuo, come per indicare che una medesima linfa vitale nutre il corpo intero; inoltre, se la gamba è piegata, il ginocchio viene trattato come un mero elemento di transizione. Nei bronzi invece le giunture del corpo assumono particolare rilievo: ginocchia, caviglie, parte superiore delle brac-

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66. Buddha. Bronzo, gupta, vi-vii sec., Museo di Birmingham. Senza dubbio uno dei più antichi bronzi dell’arte buddhista. Appartiene alla fase tarda dell’arte gupta, La produzione dei bronzi buddhisti in India sarà bruscamente interrotta dalle invasioni islamiche ma continuerà in Nepal e in Tibet, seguendo i modelli di epoca pala. 67. Vispu stante in atteggiamento frontale, bronzo dravidico, Musée Guimet. Il dio è qui in piedi in samapada, ovvero con entrambi i piedi ben poggiati. Il volto è sorridente, come si conviene a “Colui che occupa tranquillamente lo spazio”, il suo nome significa infatti Colui che penetra tutto o che si insinua ovunque. Egli regge come attributi il disco solare, la conca, con una mano rassicura mentre l’altro braccio scende lungo il corpo lasciando la mano rivolta in avanti. 68. Nataraja, il Signore della danza, bronzo, x-xi sec., National Museum, New Delhi. 69. Nataraja, il Signore della danza, bronzo, xii sec., Amsterdam, Rijksmuseum. Tutti i musei del mondo dedicati all’arte indiana sono fieri di possedere nelle loro collezioni dei Nataraja. Nella pagina seguente: 70, 71. Šiva e Parvati, bronzo. xii sec., Tamil Nadu, Museo di Tanjore. Parvati, «la montanara» ha qui tutti i tratti di bellezza cantati dai poeti. 72. Skanda. Bronzo processionale, xiii sec., Parigi, Musée Guimet. Skanda fa parte dell’entourage di Viva, del quale è il figlio, la proiezione immediata. La sua caratteristica principale è quella di dio della guerra. 73. Ardhanarivvara, «il Signore per metà femmina». Bronzo proveniente da Tiruvankadu (Tamil Nadu), inizio epoca cola, xii sec., Museo di Madras. Si tratta di Viva le cui due parti riunite simboleggiano la Totalità: una metà maschile con un braccio che sembra appoggiarsi al Toro Nandi e la parte femminile, i cui tratti sono facilmente riconoscibili. 74. Ramacandra, bronzo, India meridionale. xii sec., Victoria and Albert Museum, Londra. 75. Krspa che sconfigge il Serpente Kaliya. Bronzo. Victoria and Albert Museum. Londra. Krsna è l’eroe della città di Mathura. Tra le imprese della sua giovinezza figura la vittoria sul Serpente Kaliya che viveva nella Yamuna e terrorizzava gli abitanti dei dintorni. Qui Krspa danza sulla testa di Kaliya. Nel ruolo dell’amante delle gopi o mandriane, egli è spesso rappresentato nelle miniature del Rajasthan.

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cia e gomiti vengono trattati autonomamente, al punto che è possibile scorgere un accenno di modellato. Ma non si tratta affatto di un modellato alla maniera occidentale, perché l’artista si guarda bene dal rappresentare quanto è dovuto all’umana fragilità. Un altro ambito a proposito del quale l’artista prende le distanze dalla natura è quello delle proporzioni. Le regole della scultura e della pittura religiosa gli impongono proporzioni immodificabili e invariabili. Non gli è dunque possibile fare affidamento sulla varietà dei modelli viventi, nei quali le proporzioni delle parti principali e secondarie del corpo differiscono da un soggetto all’altro. Per il corpo degli dèi esistono molteplici canoni proporzionali, che sarebbe troppo lungo elencare tutti in questa sede. Per un europeo, abituato al canone di proporzione occidentale ereditato dalla scultura ellenica, è comunque abbastanza facile constatare il risultato delle misure canoniche. La testa è sempre grande in rapporto al corpo. Quest’ultimo non può mai contenere più di sette volte il capo, mentre nella scultura greco-latina può comprenderlo sette volte e mezza o anche otto. Le braccia sono lunghe, come le cosce, mentre le gambe sono corte. In realtà il corpo degli dèi è talmente soggetto a proporzioni specifiche da differire considerevolmente da quello degli uomini. Il capo ci appare tanto più grande in quanto spesso sormontato da una capigliatura intrecciata, come in Viva, o da una tiara nel caso di Vispu. Anche i personaggi che non sono dotati di una particolare acconciatura, come per esempio il Buddha, hanno una testa di dimensioni rilevanti rispetto al corpo. I bronzi dravidici ci consentono inoltre di capire l’estetica indiana sotto un altro riguardo. Gli dèi possono in determinate occasioni essere dotati di più braccia o più teste. Solo il Buddha Vakyamuni, che è un personaggio storico, e al contrario sempre rappresentato normalmente. Gli indiani hanno sempre considerato le loro immagini come rappresentazioni a un tempo astratte e concrete di idee-forza che si proponevano di venerare e ammirare. Gli yaksa e le yaksi del periodo anteriore all’era cristiana erano stati plasmati come esseri solidi, opulenti, corpacciuti, tali da rispecchiare l’ideale divino dell’epoca. In particolare le yaksi sono donne prosperose dalle caratteristiche femminili esasperate, che a loro modo continuano a rappresentare l’ideale preistorico di vita e di fecondità. La verosimiglianza delle forme cede il passo all’idea che esse devono esprimere: il seno è perfettamente tornito, braccia e gambe sono morbide e flessuose per indicare che la linfa vitale gonfia il corpo dall’interno. Gli indiani hanno quindi imboccato il cammino di un’arte sollecita in primo luogo a veicolare concetti piuttosto che a rappresentare gli esseri così come li percepiamo. A mano a mano che questi concetti si facevano più complessi, che i poeti concepivano gli esseri divini in manifestazioni grandiose suscettibili di rivelarne i molteplici aspetti, è stato inevitabile che, in virtù del principio di compenetrazione delle arti, gli scultori dell’epoca tenessero dietro a questo movimento. Non esitarono di conseguenza a rappresentare gli dèi come dotati di una pluralità di teste o di braccia.

no sempre a coppie, per rispettare il principio della simmetria somatica, e si dipartono dal loro alloggiamento normale alla tintura con il tronco. Sono del tutto identiche alle braccia «normali». Si inseriscono infine in un insieme in cui l’effetto è cercato con cura. Le statue lapidee e bronzee sono lì a dimostrare che gli artisti non hanno mancato di trarsi d’impaccio con eleganza45. Uno dei temi presi in considerazione dagli artisti, in cui gli scultori in bronzo ottennero la palma dell’eccellenza, è quello della danza di Viva. Quando assume questa murti il dio viene chiamato Nateva, «Signore della danza» ovvero Nataraja «Re della danza». Egli schiaccia il male personificato da un antidio. Con un tamburello retto dalla mano destra superiore chiama a sé i fedeli; con la destra inferiore compie un gesto (abhaya) che vale a impartire protezione. Con la mano sinistra inferiore, rivolta verso il piede levato in alto, indica la condizione di rifugio degli esseri umani di quest’ultimo, e con la mano sinistra superiore regge la fiamma della gnosi. Nella sua capigliatura è raffigurato il crescente lunare, che secondo alcuni rappresenta lo sviluppo della conoscenza. Il tamburello simboleggia la manifestazione, la fiamma la distruzione; la danza intera il ritmo dell’universo46. Per portare a termine una murti siffatta, lo scultore doveva conoscere la danza non solo per averla osservata di quando in quando, ma per averla studiata con cura seguendo la tradizione orale. Il Visnudharmottara impone al pittore l’obbligo di studiare l’arte coreutica, e la prescrizione vale del pari per lo scultore. V’è chi si spinge sino ad affermare che tra tutte le arti la danza sia la più importante. Sfortunatamente non si trova a tutt’oggi nessuno studio sul ruolo della danza in rapporto all’insieme delle arti plastiche indiane. I bronzi dravidici che raffigurano Viva Nataraja ci consentono almeno di renderci conto che la danza è legata assai strettamente alle rappresentazioni più profonde di ordine mitologico e religioso.

«Se per tenere i simboli e gli attributi della divinità e delle sue potenze c’era bisogno di una molteplicità di teste o di braccia, la figura ne veniva dotata44». Tuttavia, anche in questo caso, gli artisti si sono sforzati di mitigare le caratteristiche di estraneità della rappresentazione, rendendola in certa misura plausibile. Così le braccia van-

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NOTE 1 Bhagavatapurana xi 27.50. 2 Cfr. M. Delahoutre, Le temple hindou, in «Espace, église, arts, architecture», 3 (1978), pp. 3639. Vukraniti iv 154-7, cit. da P.N. Bose, Principles of Indian vilpavastra, Lahore 1926. 4 Manasollasa «La beatitudine (procurata dalla visione del lago) Manasa», vloka 686ss. Questo testo è noto anche come Abhilasitarthacintamani «Gioiello ideale degli oggetti dei desideri», attribuito a Somevvara o Somadeva e composto nel 1129 d.C. 5 Si vedano nell’Antologia delle Fonti: La visione di Krspa Vasudeva nella Bhagavadgita; e La figura di Rama e Sita nel Ramayana. 6 L’altare sacrificale, scavato al centro. 7 Altro nome di Parvati. 8 Virisa: Acacia sirissa. 9 Femmina dello yak [Borgrunniensis. Ndt], 10 Il re dei morti è Viva. 11 Testo tradotto dal sanscrito da Bernadette Tubini, Kalidasa, La naissance de Kumara (Kumarasambhava), Paris 1958, pp. 50-54. [La resa italiana, pur se controllata sul testo sanscrito, va comunque intesa come semplice traduzione di servizio, ossia strumentale al discorso dell’autore. I riferimenti esatti sono: Kalidasa, Kumarasambbava i 35-36, 38-42, 44, 46-48. Ndt]. 12 Per fornire un esempio recente: Ramakrsna, nel tempio di Daksinevvar, in un certo periodo della sua vita non aspirava che a una sola cosa, ottenere la visione di Kali, la Madre. La conseguì dopo dodici anni di attesa. Cfr. Solange Lemaître, Ramakrsna et la vitalité de l’hindouisme, Coll. Maîtres Spirituels, Seuil, Paris 1959, pp. 60s. 13 Si può provare un certo imbarazzo nel vedere citati qui i libri di astrologia. Occorre precisare che l’astrologia indiana comporta numerosi settori, uno dei quali è consacrato ai segni corporei, in altre parole alla minuziosa descrizione del corpo umano, sia maschile che femminile, bene o mal formato. 14 Samudrikatilaka n 2-5. Quest’opera, pubblicata in India più volte in sanscrito, non è mai stata tradotta in alcuna lingua europea. Risale al xii secolo e riassume parecchi trattati anteriori. 15 C. Sivaramamurti, L’art en Inde, Paris 1974, 1978, p. 80. 16 Ibidem. 17 Vukraniti, cit., iv 147-51. 18 Quanto andiamo dicendo a proposito del Buddha o degli dèi si applica in massima parte anche ai Jina. Talvolta non è facile nell’iconografia distinguere un Jina da un Buddha. 19 Pratimalaksana («Trattato sulle ca-

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ratteristiche delle immagini»), edito da J.N. Banerjea, Calcutta 1932, p. 9. 20 Sukranitisara, ed. da P.N. Vidyasagara, iv 403s. [Cfr. G.S. Oppert, Sukranitisara, vol. 1, Text, variae lectiones etc., Ed. by Govt. Press, Madras 1882; P.J. Vidyasagara, The Sukranitisara, or The elements of polity by Sukracharya, Ed. with a commentary by Saraswati Press, Calcutta 1882, Narayana Press, Calcutta 1890, 1920. L’articolo è ripreso da Coomaraswamy nel capitolo «Aesthetic of the Vukranitisara», in The Transformation of Nature in Art, New York 1956, pp. 111-17; tr. it. (di Grazia Marchiano) La trasfigurazione della natura nell’arte, Adelphi, Milano 1990, pp. 96-100, 163 (note). Ndt], 21 Citralaksana, «Trattato sulle caratteristiche della pittura». 22 Kumarasambhava, ed. cit., i 32. 23 Ph.S. Rawson, La peinture indienne, Pierre Tisné, Paris 1961, p. 12 [versione francese di G. Lambin, comparsa contemporaneamente all’edizione in inglese, Indian Painting, Universe Books, New York 1961; la citazione è dalla versione italiana a cura di Luisa Cobianchi, La pittura indiana, Electa Editrice, Milano 1964, p. 12. Ndt]. 24 Kumarasambhava, ed. cit., I 42. 25 Ibid., vloka 31. 26 Ci si può fare un’idea della grotta di Bagh grazie alla copia di un frammento conservato presso il Museo Guimet. 27 L’opera Visnudharmottara o Visnudharmottarapurana, «La Legge di Visnu (che costituisce) la parte ulteriore (del Garudapuranna)», è un’opera visnuita databile secondo alcuni dal v all’vii secolo, ma la cui compilazione si può situare probabilmente tra l’viii e il x secolo. Testo di carattere enciclopedico, contiene una importante sezione sulla pittura. 28 Per quanto riguarda la tecnica, cfr. S. Gunasinghe, La technique de la Peinture indienne d’après les textes du vilpa, Annales du Musée Guimet, Bibl. d’études t. 62, puf, Paris 1957; nonché A.K. Coomaraswamy, The Technique and Theory of Indian Painting, Cambridge Mass. 1934, pp. 58-89, reprinted from «Technical Studies», vol. iii, n. 2, Boston oct. 1934. 29 Gunasinghe, op. cit., p. 17. 30 Lo Vilparatna, «Tesoro dell’architettura», è un trattato in versi di Vrikumara di epoca indeterminata. 31 L’Abhilasitarthacintamani, «Gioiello ideale degli oggetti dei desideri», è attribuito a Somevvara o Somadeva e fu composto nel 1129 d.C. 32 Gunasinghe, op. cit., p. 21. 33 Lo yoga rappresenta la totale pote-

stà sullo spirito, il dhyana la fissità del pensiero sull’oggetto meditato (dhyata). 34 Samkalpalikhita, espressione citata da Gunasinghe (op. cit.), e che significa letteralmente «dipinto nell’immaginazione». Si definisce samkalpa l’immaginazione creatrice, che tiene conto degli elementi che le vengono forniti dalla tradizione o dalla realtà, e li combina dando vita a una risoluzione precisa dell’animo. È un termine chiave della cultura indiana, che interviene tanto nella vita rituale (la ferma risoluzione di portare a compimento un rito) quanto in quella spirituale (la risoluta decisione dopo la morte di passare a una determinata sfera spirituale) o in quella artistica. 35 Cfr. A. von Le Coq, E. Waldschmidt, Die buddhistische Spätantike in Mittelasien, D. Reimer, 7 voll., Berlin 1922-1933. 36 Vasubandhu, Abhidharmakova iii 5 (trad. L. De la Vallée Poussin, L’Abhidharmakova de Vasubandhu, traduit et annoté par..., Société belge d’études orientales, P. Geuthner, 6 voll., Paris 1923-31). 37 Citralaksana (tibetano Ri-mo’i mchan-nid) 987-90. È un trattato sulla pittura, conservato nella traduzione tibetana dall’originale sanscrito. Il cakravartin è un monarca che ha affermato la propria supremazia su di un insieme di regni; l’oro del fiume Jambu è particolarmente puro e brillante; il campaka è la pianta Michelia champaca. 38 Ibid., 1015s. 39 Ajanta, grotte 1, 2, 9, 19. 40 Cfr. A. Regnier, Marie Thérèse de Malmann, Inde. Les arts, in Encyclopaedia Universalis, Paris 1970, vol. 8, p. 851. 41 A. Regnier, Marie Thérèse de Malmann, art. cit., p. 850. 42 Stella Kramrisch, A Survey of Painting in the Deccan, India Society, London 1937. 43 Cfr. P.S. Filliozat, Çiva et Çivaïsme, in Encyclopaedia Universalis, vol. 4, p. 581. 44 S.E. Lee, L’Art Oriental, Paris-Bruxelles 1966, p. 175. 45 Quanto detto a proposito dei bronzi dravidici vale per tutte le altre immagini policefale: Agni ha due teste, l’una terrifica l’altra benigna e si ripartiscono da una parte e dall’altra della linea mediana del corpo, come se il dio inclinasse il capo per mostrare il proprio doppio volto. Quanto a Brahma, egli ha quattro volti, in cui la simmetria viene rispettata alla perfezione. 46 Secondo F.H. Gravely, C. Sivaramamurti et al., Guide to the Archaeological Galleries. An Introduction to South Indian Temple Architecture and Sculpture, Govt. Press, Madras 19543.


CAPITOLO TERZO

La miniatura


Un gran numero di testimonianze letterarie conferma l’esistenza nell’India classica di pitture facilmente trasportabili costituite da ritratti, alcuni dei quali di piccolo formato. Per esempio, nel celebre dramma di Kalidasa, Sakuntala1, il re Dusyanta mostra un quadro che ha testé terminato, e che rappresenta una giovane che egli ha conosciuto un tempo insieme a due sue compagne. Ha eseguito il ritratto a memoria, ma l’ha fatto così somigliante che le due compagne riconoscono Sakuntala fra le tre figure di giovani rappresentate. Molte altre testimonianze concordano con questa, a confermare l’esistenza di un’arte di corte, ben diversa da quella delle pitture murali proprie di templi e monasteri. Non si può tuttavia perciò concludere che questa ritrattistica secolare, in cui è essenziale l’effettiva somiglianza al soggetto vivente, sia identica a quella occidentale così come la conosciamo. In primo luogo questi dipinti non venivano eseguiti in presenza del modello, ma a memoria. Il ritratto non costituiva l’analisi di un modello in un determinato momento della sua esistenza, quello in cui si presenta esattamente agli occhi del pittore, ma piuttosto la sintesi attraverso la quale l’artista si sforza di rendere l’idea che il modello ha sedimentato in lui. Occorre precisare che una simile restituzione era infinitamente più facile all’epoca che oggi, dal momento che la cultura contemporanea veicolava una pletora di conoscenze scientifiche imparentate alla fisiognomica2. In tal modo, una volta incontrato un soggetto, un’attenta osservazione poteva rendere possibile, fatta salva la conservazione dei suoi tratti essenziali, la creazione di un ritratto a distanza di tempo. Una seconda caratteristica di questi ritratti era legata alla loro funzione, quest’arte essendo prevalentemente al servizio della sfera delle relazioni galanti. Di conseguenza era essenziale preservare il sentimento erotico, nell’una o nell’altra delle sue manifestazioni e sfumature. Questo si verifica per esempio quando il re Dusyanta si innamora di Sakuntala, che aveva incontrato per la prima volta nell’eremo del padre, sotto un mango coperto di frutti, da cui pendevano delle liane. In quel momento un’ape si era accostata al viso della fanciulla, che aveva cercato di scacciarla. L’ape diviene per Dusyanta il simbolo della sua passione, e il gesto di timore di Vakuntala non fa che accrescere il suo desiderio. Ed è così che sceglie di rappresentarla, valendosi forse dei modelli che gli fornivano i dipinti contemporanei, dal momento che i servi notano alla prima occhiata che «le sue braccia pendono come liane, gli abiti ondeggiano sulle sue anche, mentre si appoggia a un albero di avoka3», il che si potrebbe dire di numerose yaksi raffigurate nelle sculture. In questi ritratti il pittore privilegia notevolmente l’ambiente, il paesaggio, non per rendere con fedeltà la cornice reale entro alla quale viveva il modello, ma per rafforzare il sentimento che intende veicolare. Ecco come il re Dusyanta dichiara la sua intenzione di completare il quadro: «Ci voglio una lieta coppia di fenicotteri che litighi. Presso il fiume dai bianchi flutti, che la catena inghirlandata di nevi4 si affastelli, portando bufali sui fianchi;

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voglio che il tessuto di scorza dalle tremule pieghe5 rifulga ondeggiando su questi alberi: la foresta lascerà pendere i suoi rami opimi sugli amori di una gazzella6». Sfortunatamente nessuno di questi fragili dipinti di piccolo formato dell’India antica ci è pervenuto, ma era importante sottolinearne le caratteristiche essenziali dopo aver presentato quelle della pittura murale e della scultura, dal momento che tali tratti sopravvivono oggi nella miniatura. Quest’ultima è di due tipi. Può trattarsi di illustrazioni di testi religiosi buddhisti, induisti e jaina, e in tal caso si continuano a seguire le regole proprie della pittura religiosa indiana. Oppure si tratta di dipinti destinati a narrare le gesta di un re o di un principe, scene cortesi, di caccia o di guerra, al servizio del potere politico o delle vicende galanti. In questo secondo caso l’influsso straniero è avvertibile, dal momento che l’India, invasa al volgere del xii secolo dall’islam, è stata costretta ad adeguarsi alla mutata situazione, non solo sul piano politico ma anche in ambito artistico. Lo stile indiana nella sua purezza si ritrova oggidì nei testi religiosi miniati su foglie di palma, su scorza di betulla o su carta7. Essi si dividono in tre categorie a seconda della diversa origine: – manoscritti del Bengala, del Bihar e del Nepal di epoca medievale; – manoscritti dell’India occidentale; – manoscritti dell’Orissa dal xvi al xix secolo. Le miniature dei manoscritti dell’India orientale (Bengala, Bihar e Nepal) sono soprattutto buddhiste. Alcuni di questi testi, i più antichi, possono essere stati trascritti e miniati nell’India settentrionale anteriormente all’invasione islamica, e salvati dalla distruzione da monaci rifugiatisi in Bengala e successivamente in Nepal. In queste opere gli artisti hanno conservato elementi dello stile gupta e dell’antica scuola medievale di Ajanta. Il tratto e i colori svolgono lo stesso ruolo che nella pittura murale, ma sono più vivi anziché risultare smorzati come negli affreschi. In uno di questi rari manoscritti si può notare l’apparizione di un lievissimo modellato, grazie a un colore che contorna il corpo, e un inizio di paesaggio, rappresentato da nubi o alberi e rocce tratteggiate in modo geometrico, e fa persino la sua comparsa un animale selvatico, un’antilope, la cui presenza suggerisce forse che si tratta di una scena silvestre. I personaggi sono buddhisti: il Buddha o divinità buddhiste rappresentati come nella scultura di epoca successiva allo stile gupta, con un’aureola che circonda il capo e un’aura che avvolge il corpo intero. I manoscritti dell’India occidentale si richiamano soprattutto alla religione jaina. Fortunatamente se ne è conservato un buon numero di quelli appartenenti alla fine dell’età classica (xi e xii secolo) e dell’inizio dell’era islamica (dal xiii al xvi secolo). La pittura jaina si interessa sia di cosmologia che di agiografia. In molte caratteristiche il disegno dei personaggi ricorda le opere jaina delle caverne di Ellora (tra il ix e il x secolo della nostra era), con nasi lunghi e spigolosi. Il volto è visto di tre quarti, gli occhi allungati, a forma di foglia di loto, e il più lungo oltrepassa la curva della guancia. Si tratta di un’arte a un tempo astratta e concreta, dalle forme stereotipe. Ogni cura va riposta per far sì che l’illustrazione fornisca un’idea del mondo visibile senza distrarre dalla lettura del testo che l’immagine accompagna. Ritroviamo le stesse caratteristiche nelle numerose illustrazioni jaina del giorno d’oggi, distribuite nei luoghi di pellegrinaggio.

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I manoscritti dell’Orissa sono cronologicamente recenti, dal momento che i più antichi risalgono al xvii secolo, ma ci fanno conoscere un’arte che affonda le proprie radici nel passato. Il paese donde provengono conosce ancor oggi uno stile di vita tradizionale, e le conquiste dell’islam, tardive in questa regione dell’India, hanno avuto scarso peso sulla religiosità induista della zona. Vi si venera Viva nel tempio Lingaraja di Bhuvanevvara e Vispu in quello di Jagannatha a Puri. Le miniature illustrano in genere la leggenda di Krspa, in particolare gli amori del dio con Radha. Dal punto di vista estetico la composizione delle scene è peculiare, con i visi rappresentati di profilo mentre i corpi sono di fronte. I personaggi si fronteggiano, secondo le scene, e sono vestiti e ornati fastosamente, giusta una tradizione che abbiamo incontrato spesso e che risale all’India antica. Le miniature buddhiste, induiste e jaina dell’India orientale e occidentale e dell’Orissa hanno dunque subito scarsi influssi stranieri. Lo stesso non vale per i dipinti islamici e induisti provenienti dai grandi sultanati dell’India settentrionale, del Panjab, di Delhi e del Rajasthan. Dopo il suo arrivo in India l’islam ha sviluppato nel corso di lunghi secoli l’architettura e l’arte della calligrafia. Si costruirono dunque palazzi, moschee e giardini. Si prepararono magnifiche iscrizioni tratte dal Corano, eseguite da calligrafi di fama e scolpite su pietra. Ma numerose testimonianze confermano che le sale d’udienza erano decorate da pitture murali che rappresentavano scene di guerra e di caccia. Non ce ne rimangono che alcune. La maggior parte dei dipinti indo-islamici consiste in miniature a illustrazione dei manoscritti. La storia della pittura moghul inizia con le opere eseguite da due artisti persiani per Humayun e Akbar, all’epoca in cui l’influsso dell’arte europea era già avvertibile, e la pittura assumeva in India caratteristiche di un realismo fino ad allora sconosciuto. Dal punto di vista strettamente tradizionale, merita in primo luogo la nostra attenzione la pittura rajput dell’epoca. È vero che vi ritroviamo ritratti e scene di corte per la maggior gloria delle dinastie, ma l’interesse di quest’arte pittorica risiede nella sopravvivenza e nell’esaltazione di temi tradizionali tipici dell’induismo: il culto di Krspa e gli sviluppi del sentimento erotico. I due temi sono spesso mescolati. La leggenda di Krspa è ben nota. Fa la sua comparsa in India con il culto di Krspa Vasudeva, che risale a un periodo anteriore all’era cristiana e prosegue acquistando complessità con l’inserimento di elementi bucolici. Il culmine di questa leggenda compare nel decimo libro (davama skandha) del Bhagavatapurana. È una delle più popolari leggende indiane, cui sono stati dedicati poemi di struggente bellezza in Bengala, da autori quali Jayadeva nel xii secolo con il suo Gitagovinda9, e Candidasa nel xv secolo con Gli amori di Radha e Krspa 10. È un tema inesauribile, perché sotto lo schermo degli amori di Krspa e Radha si esalta l’amore di Dio. Nelle pitture rajput Krspa è riconoscibile dal colore scuro, trascrizione visuale del nome del personaggio, che significa «nero, nero bluastro», e può costituire un lontano ricordo di un’origine anaria del culto. Vestito come un principe rajput, acconciato con un turbante o un diadema regale, il dio è più spesso rappresentato in scene in cui si intrattiene con la sua gopi preferita, Radha. Scene d’altro tipo narrano le sue gesta e le sue imprese secondo quanto tramandato dalla leggenda. In fondo, se non fosse per il carattere sacro del personaggio e lo stile proprio delle scuole, queste miniature somigliano a quelle islamiche, dedicate anch’esse alle imprese guerresche e alle conquiste amorose.

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76. La gloria di Vispu, dipinto su carta, Scuola Pahari, primo quarto del xix sec., 22x17 cm, Bharat Kala Bhavan, Benares. La grande originalità di questo dipinto sta nell’importanza dell’ovale che circonda il dio, prima per circoscrivere il suo irraggiamento, poi per diffonderlo lontano. È raro che tale irraggiamento si esprima con dei raggi, come in questo caso. 77. Guerriero dalla lunga sciabola, dipinto su carta, Deccan, metà del xvii sec. Da una bottega di Bijapur, Bharat Kala Bhavan, Benares. Questo dipinto non ha nulla di religioso e rappresenta un genere guerriero o eroico che doveva incontrare il gusto della corte dei sultani di Bijapur. Questa città, l’antica Vijayapura, divenne infatti la capitale dei sultani musulmani dalla fine del xv alla fine del xvii sec. 78. La Dea corteggiata. Foglio del Devimahatmya. Dipinto su carta, 11,4x26,5 cm, terzo quarto del xvi sec., State Museum, Simla. Il Devimahatmya, «Esaltazione della Dea» è un testo antico che narra le imprese di Durga, «l’inaccessibile», la sposa e la vakti di Viva. Tra queste imprese è la vittoria sui demoni. 79. Tre fogli illustrati dei Kalpasutra, Victoria and Albert Museum, Londra. I Kalpasutra sono un testo jaina che tratta, in tre libri, della vita di Mahavira, il primo in ordine di tempo tra i fondatori del jainismo.

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80, 81. A sinistra: Radha e Krspa in intimità su una terrazza. Dipinto su tela di cotone. Terzo quarto del xviii sec. Da una bottega di Kishangarh, Palace Museum, Jaipur, Ili. A destra: Radha e Krspa 7, 8 sull'acqua. Particolare di una passeggiano miniatura del Rajasthan, xviii sec., Scuola di Kishangarh, Palace Museum, Jaipur. 82. Krspa e Radha, manoscritto miniato della Scuola di Mewar (Rajasthan), Victoria and Albert Museum, Londra. Ai

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suoi inizi, la storia di Krspa e Radha si dipanava in un contesto essenzialmente pastorale e campestre, tra i mandriani e le loro mucche. 83. Gli aspri rimproveri di Parvati a Viva, dipinto su carta, Scuola Pahari, terzo quarto del xviii sec. Da una bottega di Basohli, Dogra Art Gallery, Jammu. Riconosciamo Viva dalla sua tenuta di asceta, dal tridente, dalla capigliatura ornata di uno chignon e dal crescente

lunare e dal terzo occhio al centro della fronte. 84. La nascita del crepuscolo, dipinto su carta, Scuola Pahart, secondo quarto del xvii sec., Bharat Kala Bhavan, Benares. Brahma, riconoscibile dai suoi quattro volti, dona la vita, su ordine di Vispu, a ogni sorta di creature, alcune delle quali sono chiare e pure come il giorno, mentre altre sono oscure e malefiche come la notte.

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Le miniature rajput avevano anche lo scopo di illustrare i modi musicali chiamati raga, con un termine sanscrito che significa «colore» e che indica l’uno o l’altro degli aspetti del sentimento erotico. A ciascuno di questi raga è legata una determinata sequenza melodica, un certo momento del giorno, una stagione e una situazione particolare. L’insieme dei raga, ripartito tra modi maschili e loro suddivisioni e modificazioni femminili (ragini), è stato da lungo tempo fatto oggetto di repertorio da parte dei maestri dell’arte musicale11. Per esempio, in una miniatura di scuola mewar, databile intorno al 1760, «una coppia di principi, seduta su di un divano, riceve due musicisti alla corte del palazzo. L’architettura si compone di torri e arcate ed è abilmente stilizzata. Una donna osserva da una finestra dall’alto in basso. In primo piano due gazzelle in atteggiamento amoroso simboleggiano l’‘amore unito’. Il sentimento espresso dalla miniatura è quello dell’amore appagato. In ambito musicale corrisponde al raga Malkosh12, e va interpretato nella stagione invernale, a mezzanotte». Si può pertanto affermare che con le miniature rajput il pittore ha recuperato due fonti di ispirazione tipicamente indiane, la letteratura sacra di Krspa e la rappresentazione del sentimento erotico. Quanto alle scuole, si è soliti indicarle con il nome delle corti regali o principesche in cui avevano sede. Si dividono in tre gruppi principali: – gruppo settentrionale delle scuole del Panjab: Chamba, Mandi, Suket, Garhwal, Basohli, la regione di Guler, e soprattutto Kangra; – il Rajasthan con Udaipur, Jaipur, Jodhpur, Bundi, Bikaner, Kishangarh, la regione di Kotah, quella di Mewar e di Malva; – e per concludere l’India centrale, con Gwalior. Tutte queste scuole seguono stili differenti. La più elegante è quella di Kishangarh, dove a metà del xviii secolo un pittore di genio, Nihal Chand, eseguiva opere di straordinaria raffinatezza, ritraendo personaggi intensamente idealizzati.

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NOTE 1 Più esattamente Abhijñanavakuntala, «(il dramma del) riconoscimento di Vakuntala», disponibile in diverse traduzioni francesi, insufficienti sul piano poetico. [Il lettore italiano può consultare la traduzione di Vincenzina Mazzarino, Il riconoscimento di Vakuntala (Abhijñanavakuntala), Adelphi, Milano 1993. L’episodio riferito si trova in vol. 14, pp. 146s. dell’ed. cit. Ndt], 2 È la scienza samudrika. 3 Jonesia asoca, albero con fiori rosso-arancio dall’intenso profumo notturno. Ndt. 4 Himalaya, letteralmente «dimora delle nevi». 5 Vakuntala, figlia di un eremita, è vestita di scorza d’albero. 6 Vakuntala, trad, di Abel Bergaigne e Paul Lehugeur, Paris 1884, p. 141. [Riportiamo la resa di V. Mazzarino del passo (ed. cit.) per segnalare la differenza tra la traduzione di servizio offerta nel testo e una resa maggiormente rispettosa dell’originale e non priva di valore letterario: «Voglio metterci il fiu-

me Malini / con una coppia di cigni distesi / sulle sue rive sabbiose; / ai suoi lati, le sante pendici / del padre di Gauri, / e gazzelle su di esse adagiate; / poi, sotto un albero, ai cui rami stanno appesi / abiti di corteccia, voglio dipingere / un’antilope che si stropiccia l’occhio sinistro / sul corno del suo maschio nero». Il padre di Gauri è Himavat, ossia il monte Himalaya. Per le difformità di senso tra le due versioni, si ricorda che la traduzione di Bergaigne è condotta sulla recensione bengalese, quella della Mazzarino sulla recensione devanagari. Ndt]. 7 Riassumiamo qui, talvolta letteralmente, le pagine dedicate a quest’argomento da Ph. Rawson, La peinture indienne, pp. 83-94, insistendo su ciò che ne costituisce lo spirito. [Cfr. le pp. 78-89 dell’ed. italiana cit. supra. Ndt]. 8 Si vedano gli estratti desunti dalla traduzione di E. Burnouf in Anne Marie Esnoul, L’Hindouisme, textes recueillis et présentés par ..., Fayard/Denoël, Paris 1972, pp. 427-75.

Cfr. la traduzione di G. Courtillier, La Gita Govinda, Pastorale de jayadeva, E. Leroux, Paris 1904, riedito da Asiathèque, Paris 1977, 1990. [Cfr. anche G. Boccali, jayadeva, Gitagovinda, Adelphi, Milano 1982. Ndt]. 10 Tradotto dal bengalese da Man’ha (pseud.), Les amours de Radha et de Krichna, traduites du bengali par..., Librairie Stock, Paris 1927. [Cfr. anche D. Bhattacharya, Love Songs of Chandidas, The Rebel Poét-Priest of Bengal, translated from the original Bengali with Introduction and notes by George Allen & Unwin, London 1967. Ndt]. 11 [Cfr. R. Perinu, La musica indiana, i fondamenti teorici e le pratiche vocali e strumentali attraverso i tempi, Zanibon, Padova 1982, pp. 53-69. Ndt]. a Uno di nomi di repertorio dei raga. Il testo citato è tratto dal catalogo dell’esposizione tenuta alla Galleria Marco Polo di Parigi nel marzo 1977, curato da Anna L. Dallapiccola, E. Isacco, Exposition Ragamala, Galerie Marco Polo, Paris 1977, p. 18. 9

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CAPITOLO QUARTO

L’arte dell’India e quelle di altre civiltà: corrispondenze e opposizioni

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I paragoni sono sempre delicati, particolarmente in ambito artistico. In effetti la critica d’arte nella maggior parte dei casi scopre, sotto ad analogie sicure e facili da stabilire, differenze che si rivelano più importanti delle somiglianze, specialmente nella sfera delle idee-forza o delle rappresentazioni fondamentali. Nessuna somiglianza può comunque da sola recare con sé la conclusione dell’esistenza di un influsso, a prescindere dalla verifica storica. Il genere umano è infatti perfettamente in grado di elaborare senza previo concerto attitudini e rappresentazioni assai vicine. Ciò non impedisce che nell’accostarsi all’arte indiana sia possibile fare qualche raffronto che non sarà inutile approfondire in questa sede. 1. Non esiste nessun altro tipo di arte che si opponga così radicalmente a quella indiana classica come l’arte greco-latina. Quest’ultima è realista, dal momento che parte dall’osservazione della natura, che riduce in primo luogo a forme umane o animali. È al servizio del potere politico. Quando vengono rappresentate delle divinità, esse assumono le sembianze di uomini o donne dai tratti somatici idealizzati, tali da incarnare una perfezione che non oltrepassa in realtà il piano umano. L’arte greco-latina è creata anzitutto per suscitare piacere o per sottolineare la bellezza o la forza. Non arretra di fronte alla nudità completa dei corpi, e neppure dinanzi alla loro rappresentazione parziale come busto o capo, concepiti come realtà autonome. Per tutte queste caratteristiche quest’arte si oppone alle scelte fondamentali dell’arte indiana. Ciononostante quest’ultima ne è stata influenzata, sia dentro che fuori le proprie frontiere, dando luogo alla fioritura di un’arte ibrida che è stata chiamata greco-buddhista, ma che altri preferiscono indicare con il nome di latino-buddhista. L’arte kusana e quella del Gandhara e dell’Asia centrale sono entrambe caratterizzate da questa miscela singolare e talora seducente di due concezioni differenti sul piano artistico. La prima è più indiana della seconda. In epoca kusana si avvertono tratti stranieri anzitutto nel fatto che Kaniska e il suo predecessore Vima Kadphises si siano lasciati ritrarre in due riproduzioni in cui l’aspetto non indiana della figura è sorprendente. Nello stesso periodo a Mathura si scolpivano scene classiche, per esempio una raffigurazione di «Baccanali» forse ispirata a vasi e bassorilievi romani; nonché la statua del cosiddetto «Eracle e il leone di Nemea», in cui un uomo interamente nudo lotta con un leone. A proposito di quest’ultima opera va notato il sottile modellato del personaggio che rimanda alle sculture classiche1. E tuttavia è nell’arte del Gandhara e in quella dell’Asia centrale che il carattere ibrido è maggiormente avvertibile. Queste sculture o pitture differiscono dall’arte indiana classica principalmente in tre ambiti: l’importanza del modellato, gli abiti e il modo di trattare l’acconciatura. I Bodhisattva del Gandhara sono uomini forti della pienezza dell’età,

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dai tratti apollinei, forniti di baffi. Il modellato traspare lievemente dai tratti del volto, ove si possono osservare una conca o una bozza frontale, gli zigomi e il mento sporgere sotto la carne. Torso, braccia, parte inferiore delle gambe ed estremità sono modellate in modo da far apparire i gruppi muscolari, o di lasciare Indovinare l’ossatura del corpo. I personaggi sono vestiti di mantelli il cui sapiente drappeggio geometrico richiama quello delle toghe romane. Infine la capigliatura non è costituita da ricci o da trecce abbondanti come per i Buddha o le divinità dell’induismo, ma piuttosto ondulata, con riccioli che talora pendono da una parte e dall’altra, e fiocchi. Sebbene sia molto ammirata in Occidente, perché rappresenta lo stile indiano meno sconcertante per il pubblico, quest’arte non segue le regole che gli indiani hanno via via elaborato nel corso del periodo gupta, e che si sono successivamente imposte a ogni rappresentazione propriamente indiana. Va classificata pertanto tra le forme secondarie dell’arte romana all’estero. 2. Il Rinascimento, imboccando nuovamente il cammino del realismo, tracciato dagli antichi, ha contribuito ad accentuare le distanze tra l’arte occidentale e quella indiana classica. La scoperta dell’anatomia cosiddetta artistica attirò l’attenzione sul piano fisico a scapito di quello spirituale, che non appariva all’artista che al termine del suo percorso, quando, una volta rivestito di abiti il suo modello nudo, intendeva dargli un «carattere» religioso. Il corpo umano veniva ammirato in sé e per sé, a prescindere dalla sua linfa vitale. Per Hume, nulla c’è al mondo di più bello di un occhio sezionato! Ma per fortuna esistono purtuttavia in Occidente tipi di arte paragonabili in positivo con quella indiana. Li indicheremo in ordine cronologico.

Le regole per l’esecuzione del dipinto sono in gran parte identiche in India e nell’Occidente bizantino: in primo luogo si attribuisce grande importanza al segno grafico, al tracciato del disegno che deve essere eseguito con mano sicura, secondo una visione interiore che deve avere ridotto il soggetto alle sue caratteristiche essenziali. In India il tracciato ha lo scopo di lasciar trasparire la linfa vitale che gonfia le membra sottolineandone i limiti. Nello stesso tempo si rivela al servizio del sentimento dominante, solitamente costituito dalla pace, che impregna di sé i personaggi. Nel mondo bizantino il dipinto si compone parimenti sostanzialmente di tratti la cui perfezione è sussidiaria della relativa qualità spirituale, fatta di serenità, di pienezza e di compassione. Lo spazio pittorico in India e nel mondo bizantino è per concludere an- ch’esso comparabile: ogni personaggio principale fronteggia lo spettatore (o il fedele), risultando «luminoso in sé e per sé», senza aver bisogno della luce solare o lunare per essere illuminato. Nelle icone greche l’aureola di Cristo e degli altri personaggi viene considerata come un riflesso di quella della Trasfigurazione, quando il Cristo appare agli apostoli «nella sua gloria». Lo sfondo dorato dei dipinti fa egualmente riferimento a questa gloria. Infine è abbastanza curioso constatare che tanto in India quanto nelle icone o nelle miniature bizantine l’intento volto a schematizzare gli elementi del paesaggio, forse per non distrarre l’attenzione dall’essenziale, sfocia talvolta in singolari somiglianze, per esempio le rocce squadrate ordinate a gradini che si ritrovano sia in miniature medievali e in certi dipinti di Ajanta che in numerose icone bizantine2. Inutile precisare che in entrambi i casi il punto di vista è totalmente «interiore», mentale, per nulla debitore all’«estrinsecità» geometrico-matematica delle opere rinascimentali.

3. In primo luogo abbiamo l’arte bizantina, e in special modo l’arte delle icone. Derivata dal modello greco-latino, ma considerevolmente spiritualizzata a seguito di molteplici percorsi di ricerca, quest’arte raggiunge il suo culmine nella pittura religiosa come si esprime nelle icone. Un rapido parallelo si impone a proposito di tre aspetti: la formazione dell’artista, le regole della pittura e la natura dello spazio pittorico.Dal punto di vista dello stile esisteva in India una considerevole differenza tra il miniaturista delle scuole cortesi e l’artista. Il primo condivideva molte caratteristiche del poeta, e prendeva parte alla vita mondana per meglio poterla conoscere e descrivere. Il secondo si avvicinava piuttosto alla figura dello yogin. I trattati di vilpa si soffermano a elencare le qualità che un vero artista deve possedere: attaccamento al dharma, ossia all’ordine socio-cosmico, conoscenze di architettura, di astrologia, di astronomia. Per portare a termine un’immagine o un dipinto, l’artista deve sottoporsi a lunghe meditazioni e digiuni, compiere dei riti, purificarsi nella mente e nel fisico. Ancor oggi queste regole vengono applicate nel vicino Tibet, dove le tradizioni iconografiche sono assai vivaci. Molti artisti tibetani sono ecclesiastici, e alcuni abati e santi sono stati apprezzabili e ammirati scultori e pittori. Nel mondo bizantino, per portare a termine un’icona l’artista deve sottoporsi a una preparazione al contempo tecnica e spirituale che gli consenta di raggiungere lo scopo prefisso. Deve essere sufficientemente integrato nella vita della comunità ecclesiale, e prepararsi all’opera sua tramite la pratica della preghiera e del digiuno. Deve meditare sul soggetto che intende raffigurare facendo riferimento ai testi canonici.

4. Ma è con l’arte del Medioevo cristiano e con l’arte dell’impressionismo moderno che il sentimento artistico indiana si sente maggiormente in comunione, per ragioni ben diverse. L’arte medievale, in special modo la romanica, intende fornire una visione compiuta del mondo, e costituisce la concretizzazione di un punto di vista sovrannaturale dell’universo. L’uomo vede Dio non come un completamento surrettizio della propria personalità, ma come una dimensione della propria natura. Rappresentare il mondo significa mostrarlo nella sua creaturalità, in un quadro storico dominato dal divino. L’arte non consiste nella riproduzione della realtà così come appare ai nostri occhi carnali, ma nella capacità di farne presentire la dimensione spirituale. Dio in sé è irrappresentabile; non così la storia, in cui Egli si è compiaciuto di intervenire. Intorno a Lui, il mondo degli angeli e dei santi, ispirato a una dimensione sovrannaturale, appartiene anch’esso alla sfera della visione più che naturale dell’artista. L’arte medievale contiene dunque più di un elemento che permette di accostarla a quella indiana, particolarmente per la sua visione religiosa e spirituale. C’è tuttavia un punto in cui ne differisce totalmente: il carattere carnale e voluttuoso dell’arte indiana, con il rigoglio delle forme corporee, è assente nella nostra arte religiosa medievale. La spiritualità del Medioevo passa attraverso la fede, quella dell’India attraverso l’ammirazione per le forme divine nel loro sbocciare. La spiritualità medievale, cristiana, si apre alle dimensioni della miseria umana e del peccato, e l’arte cristiana di quel periodo come di altre epoche non ha esitato a farne oggetto di rappresentazione.

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Conclusione

«Taluni elementi che compongono la tua croce sono patrimonio comune (...) Ma sul fondo della comune miseria, gioca il dolore individuale, concesso al nostro cuore, adattato al nostro corpo, e che non somiglia ad alcun altro. E un privilegio degli artisti di esprimere il loro dolore nei suoi particolari, nelle sue differenze, ed è esso che crea il loro stile, che dà un accento inconfondibile, una risonanza unica, inimitabile3». L’arte cristiana non può fare economia di questa miseria e della redenzione che l’accompagna. 5. Nell’ impressionismo francese il pittore torna a una visione globale delle cose, per il tramite della luce e del colore, che non vengono considerati esteriori agli oggetti, ma come loro costituente intrinseca. Non è più il volume degli oggetti o la loro dislocazione spaziale a costituire l’essenza dell’essere, ma la luce e il colore che ne irradiano. L’ombra che proiettano ha importanza solo in quanto introduce un ritmo in questa luce e in questi colori. Si accede pertanto a una visione molto vicina a quella della pittura indiana nei suoi principi essenziali. Non c’è dunque da stupirsi della seduzione che l’impressionismo francese esercita sui pittori indiani moderni. È possibile accostare i quadri di Gauguin e di Renoir alla pittura murale indiana. Ai confini del fauvisme, la tranquillizzante perfezione dei disegni di Matisse e l’audacia dei suoi colori fanno pensare a un tempo al tracciato lineare indiana, al carattere riposante della sua pittura e all’audace armonia dei colori nelle miniature di Malva, nel Rajasthan del xvii secolo.

Ogni qualvolta gli indiani sono riusciti a svincolarsi dagli influssi stranieri per esprimersi secondo i canoni loro propri, l’hanno fatto con notevole armonia e grande originalità. Non c’è da stupirsene, dal momento che quest’arte trova il suo intimo nutrimento nella poesia, nel teatro, nella danza, nell’epopea e nei trattati specifici di architettura, di scultura e di pittura. Esiste al livello estetico una tale convergenza nel complesso di questi diversi ambiti, che mal si concepisce un artista indiano nutrito di questa linfa vitale produrre un’opera in stile occidentale o cinese o giapponese. Ma c’è dell’altro: l’apporto dell’arte indiana all’arte universale è considerevole, se si tiene conto dell’esportazione panasiatica dei suoi ideali. La figura del Buddha, elaborata ai limiti del mondo indiano, è stata ammirata, compresa e riprodotta tanto nell’Asia sud-orientale sino a Giava quanto in Asia centrale, in Cina e in Giappone. Solo il mondo occidentale si è rifiutato di accettare l’ideale estetico indiana, perché nello stesso periodo era assorbito da altri ideali religiosi ed estetici. Durante l’intero Medioevo l’Occidente poté ricevere dall’India solo quanto filtrava dal mondo arabo. È curioso constatare che tramite questa intermediazione qualcosa di questo ideale ci sia in fin dei conti pervenuto, attraverso opere persiane, arabe, castigliane, che sarebbe troppo lungo elencare qui. Molti anelli mancano ancora alla catena, ma è indubitabile che quando Brantôme elenca le caratteristiche fisiche della donna1, lo faccia secondo un metodo tipicamente indiano, che anzi proviene dall’India. Nondimeno l’ideale di bellezza umana, sia essa maschile o femminile, risulta ancora secondario nell’arte indiana in sé considerata, in confronto con l’ideale religioso costituito dalla padronanza di sé e dalla contemplazione. Scrive P.N. Bose: «Se ci domandassero quale sia il contributo dell’arte e della scultura indiana al mondo, la risposta sarebbe naturalmente quella che segue. E un principio fondamentale, secondo il quale bisogna fabbricare delle immagini facendo riferimento alla meditazione (dhyana), o in un’attitudine ispirata allo yoga, immagi apportatrici di pace, di buon auspicio e belle. Le immagini greche sono piene di grazia, quelle egiziane assai vicine al mondo naturale, ma quelle indiane hanno carattere contemplativo2».

NOTE Si vedano le riproduzioni di questi pezzi per esempio in S.E. Lee, op. cit., figg. 102, 103, 109, 110. 2 Ajanta, grotta 1, dipinto della «Principessa nera». Per le icone, cfr. le ri1

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produzioni in P. Evdokimov, L’art de l’icône, théologie de la beauté, Desclée De Brouwer, Paris 1970; trad. it. (di G. Da Vetralla) Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1990.

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Fr. Mauriac, Dieu et Mammon, Éditions du Capitole, Paris 1929. La citazione è dalla traduzione italiana (di Marise Ferro), Diario-Dio e Mammona, Mondadori, Milano 1963, p. 356.

NOTE Pierre de Bourdeille, Signore di Brantôme. Cfr. infra, p. 219. 2 P.N. Bose, Principles of Indian Silpasastra, p. 31. 1

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Tavole a colori


Mohenjo Darò 1. Cappellano reale? Calcare, altezza 0,175 m. 2500 a.C circa, Museo Nazionale, Karachi. Nella Valle dell’Indo, durante il iii millennio, prima dell’insediamento degli Arii (fine del iii millennio) si sviluppò una viltà urbana imperniata su centri quali Harappa e Mohenjo Daro. Portata alla luce negli scavi del xx sec., ci ha consegnato soprattutto sigilli, ceramica, statuine in terracotta e qualche scultura come questo busto virile, dal mantello decorato con trifogli. 2. Testa di Buddha, Gandhara, Musée Guimet, Paris.

Sarnath 3. Dhamekh stupa, veduta d’insieme dello stupa. 4. Particolare del rivestimento in pietra. A qualche chilometro da Benares, nel luogo in cui aveva predicato il Buddha, l’imperatore Avoka (metà del iii sec. a.C.) fece costruire uno stupa. Esso fu smantellato nel 1794 e restituì un’urna in marmo con funzione di reliquiario, che era colmata all’interno dello stupa. Lo stupa Dhamekh, situato in lezzo a dei monasteri (oggi in rovina), risale all’epoca gupta. Esso era rivestito di lastre in pietra cesellata. Quelle che restano testimoniano la ricchezza e l’equilibrio dell’arte classica. Il nome Dhamekh evoca la messa in moto della «Ruota della legge» (Dharma-cakra).

Sañchi 5. Stupa iii. 6. Stupa i visto da sud. 7. Stupa i Portico sud. 8. Stupa i Portico ovest. 9. Stupa i Portico nord. 10. Stupa i Portico est visto dall’interno. Situata nel Madhya Pradesh, al centro dell’India, Sañchi conserva tre stupa antichi: il primo fu fatto costruire da Avoka iii sec. a.C.) e abbellito dai suoi successori. Gli Stupa 2 e 3 furono costruiti intorno al primo secolo. È a questi stupa antichi che si fa riferimento per parlare della struttura classica dello stupa: calotta emisferica coronata

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da una harmika, una sorta di belvedere destinato a fare da supporto o da base a un parasole, l’insegna della regalità, (o a tre parasoli incastrati l’uno nell’altro). Gli stupa contengono le reliquie di personaggi importanti o di sostituti del Buddha, come i testi della Legge. Lo stupa 3 contiene, secondo un’iscrizione, le reliquie di Sariputta e Moggallana, i primi due discepoli del Buddha. In origine semplice monumento funerario, lo stupa fu, in seguito, abbellito in modi diversi: rivestito di lastre di pietra cesellate, come lo stupa Dhamekh, circondato da una balaustra che ne permetteva la circumambulazione (in sanscrito: pradaksina), che è un rito di venerazione. I portici con le architravi scolpite non solo mettono in evidenza l’ingresso principale o i quattro punti cardinali, ma servono da supporto a un insegnamento centrato sul Risveglio del Buddha (simbolizzato dall’Albero del Risveglio), sulla Legge (simbolizzata dalla Ruota) e sulla totale estinzione o parinirvana (simbolizzata da uno stupa). All’epoca della costruzione degli stupa di Sanchi, il Buddha non era raffigurato in forma umana ma la sua presenza era suggerita da simboli. La scena della venerazione dell’Albero della Legge da parte di esseri umani (per esempio Avoka) o da parte di animali, considerati anch’essi come esseri coscienti (buoi, leoni, serpenti naga, uccelli, cervi, ecc.), è riprodotta a più riprese. Per riempire i vuoti, l’artista-scultore aveva a sua disposizione numerosi motivi possibili: segni benefici diversi, come la spirale, personaggi ritenuti straordinari, come gli yaksa e le loro compagne, rappresentate come belle donne, personaggi o animali fantastici e benefici, fiori e frutti, foglie e liane, ecc. In seguito, gli stupa appariranno all’interno dei caitya (cappelle buddhiste) o nelle scene istoriate, scolpite o dipinte. In forma ridotta, con il nome di stupika, serviranno da ornamento nell’arte indogiavanese. 11. Portatrice di scacciamosche. Arenaria, altezza 160 cm. Didargañg (iii sec. a.C.) Museo di Patna (Bihar). Questa donna possiede tutti i tratti della bellezza che saranno in seguito cantati dai poeti e che diverranno canonici: vita sottile, fianchi larghi, seni generosi, ombelico profondo. Il volto tondeggiante e sorridente. Il collo, come il ventre, segnato da pieghe di bellezza. L’unico punto in cui si percepisce l’ossatura è il ginocchio; la veste, che è indossata al di sotto dei fianchi, è quasi trasparente. I gioielli, orecchini,

collane e cavigliere, completano la figura, che resta quella di un’ancella e non quella di una dea. 12. Principessa e ancelle. Avorio rinvenuto a Pompei, epoca kusana (i sec. a.C.), Museo di Napoli. La principessa è affiancata da due ancelle che sembrano reggere in mano degli accessori per la toilette. Appare preoccupata della propria acconciatura, che mette in ordine. I tratti della sua bellezza sono identici a quelli della figura precedente. I suoi numerosi ornamenti non ne offuscano la nudità. Scena classica per le piccole sculture in avorio dell’epoca. Questa ha il vantaggio di essere in uno stato di conservazione meraviglioso. Sul piano puramente storico, testimonia le relazioni commerciali tra Roma e l’India.

Karla 13. Particolare della facciata: coppie a carattere benefico. Sulle colline del Maharashtra, a cinquanta chilometri da

Poona, nel primo secolo della nostra era, furono create quattro grotte artificiali, che numerosi bassorilievi contribuirono ad abbellire in un secondo tempo. La grotta n° 1 è una cappella buddhista (caitya), il cui ingresso si apre con una volta simile a quella interna, che riproduce un’architettura lignea. All’interno vi è una lunga sala scavata nella roccia, al fondo dalla quale si trova uno stupa sormontato da un parasole reale. Sulla facciata, un Buddha riceve la corona che gli offrono due personaggi celesti raffigurati in volo. Due coppie umane incorniciano la scena. Talvolta sono state interpretate come figure di donatori, ma si tratta piuttosto di figure la cui presenza è intesa come benefica: rotondità delle membra, vita sottile nella donna, spalle larghe nell’uomo, ombelico profondo. Tutto il corpo è come dinamizzato dal flusso interiore della vita. Queste sono figure che esprimono l’ideale della vita, figure mentali, che rappresentano la sintesi delle osservazioni quotidiane della bellezza. Non sono dei ritratti.

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Ajanta Architettura e scultura

state aggiunte in un secondo tempo e sono di epoca tarda (vi sec. e oltre).

14 Veduta d’insieme del sito. 15. Sculture della facciata di un caitya. 16. Facciata di un caitya (grotta n° 9). 17. e 18. Sculture della facciata di un caitya. 19. e 20. Interno di un altro caitya (grotta n° 19): soffitto e stupa al fondo. 21. e 22. Ingresso di un vihara (monastero). 23. e 24. Pilastri dell’ingresso di un monastero. 25. Scena del dono della polvere (grotta 19). 26. Scena del parinirvana (completa estinzione) del Buddha.

(tavv. 17 e 18) Sculture del Buddha. Un Buddha assiso su seggio leonino e un Buddha stante. Queste sono sculture aggiunte durante l’epoca iconica tarda (epoca gupta e seguenti). Esse mostrano talvolta una certa pesantezza nell’esecuzione, come se la volontà di seguire i canoni (per esempio, qui le braccia che scendono fino alle ginocchia) prevalesse sulle considerazioni spirituali o estetiche,

(tav. 14) Il sito di Ajanta, in Maharashtra, occupa un immenso anfiteatro naturale, le cui pareti cadono a strapiombo su un terreno boscoso, attraversato da un ruscello. Partendo dall’entrata (a destra nella veduta d’insieme), il visitatore imbocca un sentiero protetto da un parapetto e passa davanti a diversi vihara (monasteri) scavati nella roccia, individuabili dall’esterno grazie ai pilastri di ingresso: un vihara a un piano (grotta n° 6) seguito da un altro vihara (grotta n° 7). Si scende ad una prima cappella (grotta n° 9) (poco visibile nella veduta d’insieme), poi ad un’altra cappella vicina (grotta n° 10) riconoscibile dalla sua apertura a forma di ferro di cavallo. Seguono altri monasteri, fino a un terzo caitya (grotta n° 19) ben distinguibile grazie alla sua facciata, alla sua apertura a ferro di cavallo e alla sua tettoia. Altri monasteri e un ultimo caitya (grotta n° 26) (nascosto qui dagli alberi), testimoniano gli ultimi insediamenti buddhisti ad Ajanta. L’alternanza dei monasteri e delle cappelle è di per sé indicativa del loro uso. Man mano che il visitatore avanza all’interno del sito, egli avanza anche nel tempo. (tavv. 15 e 16) Facciata della cappella (grotta n° 9). Di dimensioni più modeste di quella seguente, (grotta n° 10), questa cappella ha la Stessa pianta rettangolare e la stessa disposizione interna dei pilastri. Essa ha conservato la facciata, che ha una grande apertura all’esterno. Si notino, al di sopra e al di sotto di tale apertura a ferro di cavallo, delle altre arcate della stessa forma che servono da ornamento. Le sculture, immagini del Buddha, sono

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cante. Gli scultori di Ajanta, nondimeno, hanno giudicato la scena edificante. Infatti per il buddhisno l’intenzione con la quale si decide un’azione è sempre più importante dei suoi risultati, sovente aleatori». Jean Boisselier, La sagesse du Bouddha, Paris, 1993, p. 94. (tav. 26) La scena del parinirvana del Buddha (la sua com-

pleta estinzione) è rappresentata in modo superbo da una scultura monumentale di 7 m. di lunghezza, situata in un corridoio della cappella (grotta n° 26). Il Buddha, in conformità ai testi che descrivono i suoi ultimi istanti di vita, è disteso, con la testa che riposa sulla mano destra. Una scena che sarà rappresentata sovente, in seguito, con la stessa cura monumentale.

(tavv. 19 e 20) Caitya n° 19. Per l’ingresso di questa cappella, rifarsi alla veduta d’insieme di Ajanta: a sinistra in tale veduta, con facciata e portico intatti. All’interno, il dagaha (stupa interno) presenta una figura molto slanciata. Sul davanti, un Buddha stante, il cui gesto delle mani invita alla fiducia o all’assenza di paura (qui le mani sono spezzate), emerge da una nicchia la cui sommità è costituita da un arco dalle estremità scolpite con mostri marini o makara. Il dagaba è sormontato da un triplo parasole reale in pietra. Il soffitto è scolpito su modello dei soffitti in legno delle cappelle costruite all’aperto e conserva tracce di pittura. Sculture e pitture appartengono al periodo iconico classico. (tavv. 21 e 22) Il vihara (grotta n° 7) dalle belle colonne scolpite (tronco ottagonale, capitello campaniforme e cuscino appiattito) segue a un vihara (grotta n° 6) la cui particolarità è di essere su due piani. (tavv. 23 e 24) I monasteri situati all’entrata del sito di Ajanta (grotta n° 1 e 2) hanno pilastri d’ingresso meravigliosamente scolpiti: tronco ottagonale e capitello in due parti disuguali, la cui funzione è di sorreggere l’architrave dell’ingresso; o ancora, base quadrata, tronco a piani multipli con bande scolpite e cuscino appiattito sormontato da un capitello. Fiori e figurine sono di fattura classica. (tav. 25) Offerta del pugno di polvere (periodo gupta, vi sec.). Facciata della grotta n° 19, a sinistra dell’entrata. «Che un fanciullo che non aveva nient’altro da offrire al Buddha per la sua questua quotidiana, gli faccia dono di un pugno di polvere, può apparire derisorio, se non scioc-

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Ajanta Pittura 27. Il re Mahajanaka (grotta n° 1). 28. Regina (grotta n° 1). 29 e 30. Buddha (grotta n° 1). 31. Scena dal Vessantara Jataka (grotta n° 17). 32. Scena di corte (grotta n° 17). 33. Scena dal Vessantara Jataka (grotta n° 17). 34. Ahhiseka (consacrazione) del re Mahajanaka (grotta n° 1). Le pareti e i soffitti dei monasteri e delle cappelle di Ajanta erano ricoperti di affreschi. Alcuni sono ben conservati (grotta n° 1, 2, 10, 16, 17, 19). Di altri non abbiamo che tracce. Vi si sono potute riconoscere non solo le scene dell’ultima vita del Buddha e dei suoi miracoli, come la moltiplicazione della sua immagine (la scena dei mille Buddha), ma anche quelle tratte dalle sue vite anteriori (jataka), che furono per i pittori l’occasione ideale per dipingere la vita di corte del loro tempo (dinastie Gupta e Vakataka iv-v-vi sec.). (tav. 27) Il re Mahajanaka ascolta, scettico, i consigli della sua sposa (grotta n° 1). Nelle sue vite anteriori, (jataka), il futuro Buddha ha, in modo assolutamente naturale, la forma esteriore e l’atteggiamento di un essere cosciente, animale o umano, in preda alle passioni e alle contraddizioni proprie dell’essere vivente coinvolto nel ciclo delle rinascite. Egli apprende così a distaccarsi dai piaceri. In un jataka, il futuro Buddha non è altri che il re Mahajanaka, sposo di Sivali. Egli decide di farsi eremita. Qui egli ascolta, scettico, i discorsi della propria sposa, che cerca di trattenerlo. (tav. 28) Principessa adorna di gioielli. Scena di corte. Particolare. Storia non identificata. (tav. 29 e 30) Particolare dei mille Buddha. Il re Prasenajit, regnante su Rosala, fu testimone di un miracolo a Vravasti: il Buddha moltiplicò la propria immagine. Qui abbiamo due immagini del Buddha. I tratti di bellezza che il Buddha aveva progressivamente acquisito, nel corso delle sue vite anteriori, sono presenti nelle due immagini, ad esempio i riccioli dei capelli, Vusnisa (protuberanza del cranio), l’urnã tra le sopracciglia (qui appena visibile), le pieghe del collo, ecc.

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(tav. 31) I dipinti nelle grotte di Ajanta narrano prevalentemente la storia sociale delle storie di Jataka. (tav. 32) Un altro jataka, il Vessantara Jataka, racconta la storia di un re talmente impegnato nella pratica del dono, che finì per donare tutto e poi per ritrovare, fortunatamente, tutto, grazie alla benevolenza degli dèi. Ecco qui una scena non identificata ma che potrebbe collegarsi a questo jataka. Vediamo una principessa in un giardino e una coppia reale in un harem. (tav. 33) Al principe Vessantara e alla sua sposa viene chiesto di fare dono delle loro cavalcature. L’espressione del volto così come l’atteggiamento delle mani, esprimono la perplessità di fronte alla richiesta nonché la difficoltà nella pratica del dono.

si scorge sul sagrato, nel mezzo della corte, segna l’ubicazione di uno zoccolo, oggi scomparso, sul quale si trovava Nandin, la fedele cavalcatura di Viva, che era raffigurato a tuttotondo, con il capo volto verso il suo Padrone.

fattura assoluta- mente classica. Raggiungono 4 metri e 60 di altezza; l’acconciatura, il cordone sacro e il loro aspetto d’insieme permettono di collocarli in un periodo antico, tra il v e il vi sec.

(tav. 36) Santuario che racchiude il liñga di Viva. Il liñga è qui un’enorme colonna di pietra dalla sommità arrotondata. La si scorge controluce. Esso simboleggia l’energia creatrice di Viva. È dunque l’equivalente aniconico dell’immagine centrale di Viva descritta alla pagina precedente, ma soltanto il liñga riceve un culto organizzato in liturgia. I due guardiani della porta (dvarapala), che vediamo ai due lati dell’ingresso e che sono raffigurati anche a ciascuna delle quattro entrate della cella-santuario, sono di

(tav. 37) All’interno del santuario principale, Viva è rappresentato una decina di volte in forma umana e due volte nella sua forma aniconica: il liñga. La scultura più bella e più impressionante è quella di Viva tricefalo: la figura in mezzo rappresenta l’aspetto creatore del dio, quella di destra il suo aspetto protettore e quella di sinistra il suo aspetto distruttore. Ciò che maggiormente contribuisce alla sua maestosità è senza dubbio l’altezza della scultura: 5 metri e 70. È nota come Trimurti, la «Triplice forma visibile» o la «Triplice immagine».

(tav. 34) Abhiseka (consacrazione reale) di Mahajanaka. Data la sua provenienza (grotta n° 1), questa scena si collega al re Mahajanaka. Vediamo il re al momento della sua consacrazione reale: questa consisteva principalmente nel ricevere sul corpo dell’acqua proveniente da tutto il regno. Lo stato dei capelli e il gesto dei servitori non lasciano alcun dubbio sul significato di questa scena.

Elephanta 35. Gli ingressi dei due santuari della grotta principale (grotta n° 1). 36. La Trimurti di Siva. 37. Il liñga di Viva all’interno del santuario principale Su un’isoletta lunga all’incirca tre chilometri, situata nella baia di Bombay, e che i Portoghesi battezzarono Elephanta a causa della scultura di un elefante da loro scoperta, si trovano delle grotte artificiali. (tav. 35) La grotta principale (n° 1) fu scavata in modo che si aprisse su due sale. A sinistra nella fotografia, dieci gradini permettono di accedere a una sala ipòstila che termina in un santuario, che a sua volta racchiude un liñga, simbolo di Viva. A destra, sei gradini danno accesso a un’altra sala ipòstila, profonda quaranta metri, anch’essa terminante in una cella che ospita un liñga. Il cerchio che

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Ellora 38. Veduta esterna dei primi monasteri buddhisti (grotte n° da 1 a 5). 39. Ingresso della grotta n° 6. 40. Ingresso della grotta n° 9. 41. Yaksa all’ingresso del monastero jaina. 42. Bassorilievo indù. 43. Il Kailasa. 44. Corte interna del Kailasa. 45. Ingresso dell’Indrasabha, monastero jaina (grotta n° 32). 46. Santuario jaina (grotta n° 32). A una ventina di chilometri da Aurangabad, il sito di Ellora è famoso per le sue cappelle e i suoi monasteri rupestri, buddhisti, indù e jaina, che si snodano per più di un chilometro e mezzo. (tav. 38) Vediamo qui gli ingressi dei primi vihara buddhisti, dalla grotta n° 1 alla grotta n° 5, la più grande delle quali è la n° 5, a sinistra nella fotografia, che si apre con quattro pilastri (qui se ne vedono tre) e due semipilastri (dei quali uno è visibile). Si possono intravedere, nella fotografia, dei bassorilievi che raffigurano personaggi buddhisti, all’ingresso della grotta n° 4, e dei pilastri riccamente scolpiti, all’ingresso del vihara n° 3. (tav. 39) La grotta n° 6 (non visibile nella fotografia d’insieme dei primi monasteri) è un vihara al fondo del quale si trovano un piccolo santuario e un Buddha nell’atteggiamento dell’insegnamento. Gli eleganti pilastri sono scolpiti con il motivo del vaso e del viticcio. Agli angoli delle loro basi quadrate, essi portano dei nani musici. Le mensole sono decorate con grifoni cavalcati da esseri umani. (tav. 40) La grotta n° 9 è un monastero dello stesso tipo della grotta n° 6. Vi si accede passando tra due pilastri e due semipilastri decorati con il motivo del vaso e del viticcio e, sulle basi quadrate, con coppie di amanti. Sulla facciata, si può ammirare il fregio di un’architrave, nel quale, in piccoli pannelli che si ripetono, si alternano dei Buddha seduti all’europea e degli Avalokitevvara con il loro corteggio. Tra i personaggi scolpiti al di sotto di

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questo fregio, compare Tara (una figura femminile buddhista) attorniata dai pericoli dai quali essa protegge. I kudu (aperture a ferro di cavallo) contengono dei Buddha. (tav. 41) Nella sala di riunione del monastero jaina, che porta il nome di Indrasabha (Assemblea divina presieduta da Indra) (grotta n° 32) si trovano due capolavori: lo Yaksa Matanga sul suo elefante, sotto un albero, e, al di là del pilastro scolpito, la sua controparte femminile: la Yaksi Ambika a cavallo del suo leone, sotto un albero di mango (non visibile nella fotografia). Questi personaggi presentano tutti i segni esteriori della ricchezza: ventre prominente e cavalcatura reale. Un’iscrizione dell’epoca menziona il nome dello scultore.

dai leoni. Un pilastro d’onore (stambha) si trova da ciascun lato del santuario di Nandi. (tav. 46) Indrasabha. La grotta n° 32, detta Indrasabha (Assemblea di Indra), risale al periodo dal ix al x secolo. È la più bella delle grotte jaina, con le sue sale di riunione sistemate su più piani, con le sue figure scolpite, come lo

Yaksa Matanga e con i suoi fregi scolpiti sui balconi, nei quali si alternano i personaggi jaina, seduti o stanti, e gli animali: elefanti e leoni. A sinistra in basso nella fotografia, una scalinata conduce al santuario sopraelevato che si vede nella tav. 45. Questo santuario, costruito su modello del Kailasa, racchiude, nei suoi kudu, gli stessi personaggi jaina stanti o seduti.

(tav. 42) Grotta n° 14 (detta Ravana ki Khai). Un personaggio dal corpo umano e dalla testa di cinghiale solleva con il grugno un personaggio femminile, del quale qui si scorgono a malapena le gambe. Si tratta di una celebre «discesa» (avatara) del dio Vispu sceso quaggiù per salvare la Terra dalla sua immersione nell’acqua. Ai suoi piedi, si trovano dei naga (divinità-serpente maschili) e delle nagini (divinità-serpente femminili) in atteggiamento di adorazione. La violenza e il dinamismo della scultura sono tratti tipici della scultura brahmanica. (tav. 43 e 44) II Kailasa. Il monumento più celebre di Ellora è il Kailasa, la montagna o il paradiso di Viva. Un blocco di roccia è stato svuotato e scolpito. Il pellegrino, una volta varcata la soglia, accede al santuario quadrato di Nandi, il toro, cavalcatura di Viva, del quale è ben visibile il tetto. Poi egli sale in una sala quadrata a sedici pilastri, il cui tetto, visibile in alto a sinistra nella fotografia, è occupato da un loto sbocciato e da quattro leoni. Infine egli arriva al santuario principale (qui al centro della fotografia) la cui sommità si trova esattamente in linea e al di sopra della cella interna, occupata dall’emblema di Viva: il liñga. Così, di salita in salita, il pellegrino accede al Kailasa, la montagna di Viva. (tav. 45) Veduta sulla corte interna: a sinistra il santuario di Nandin che segue la sala dai sedici pilastri sormontata

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Aurangabad 47. Cappella absidale antica (grotta n° 4). 48. e 49. Sculture. Nei dintorni di Aurangabad, si trovano, in pessimo stato di conservazione, le rovine di alcune grotte buddhiste del periodo dei Vakataka (iii-v sec.), con l’eccezione della cappella che è ancora più antica. (tav. 47) Possiamo immaginare la facciata della cappella, che è crollata, come quella di Karla. Il tetto a botte imita i tetti lignei delle cappelle all’aperto. Pilastri ottagonali sorreggono il tetto. Un dagaha (stupa) monolitico mutilato, situato nell’abside, è sormontato da una harmika, sulla quale doveva essere piantato un parasole in legno. Non vi è alcuna raffigurazione di esseri umani. Allora si venerava il Buddha tramite simboli. (tav. 48) Al fondo del monastero della grotta n° 6, il pannello centrale (a sinistra nella fotografia) è costituito da due Buddha sovrapposti, uno in atteggiamento di predicazione, l’altro in atteggiamento di meditazione. La posizione dei fianchi delle figure stanti, ai lati del pannello, indica che si tratta di personaggi secondari: qui un personaggio che porta una corona, assistito dalla sua compagna, rende omaggio al Buddha. Si può facilmente immaginare una raffigurazione simmetrica dall’altro lato del pannello. (tav. 49) La raffigurazione di gruppi di discepoli è frequente in pittura ma del tutto eccezionale nella scultura a tutto tondo. Completamente staccati dal Buddha, di fronte al quale sono inginocchiati, questi fedeli mostrano un grande raccoglimento e un grande fervore. Una simile rappresentazione non esiste che a Aurangabad, nelle grotte n° 3 e 6.

Polonnaruva 50. e 51. Statue del Buddha e veduta d'insieme del sito di Polonnaruva.. Sin dall’epoca dei Maurya (iii sec. a.C.) esistevano dei legami tra India e Sri Lanka, che permisero all’imperatore Avoka di inviarvi come apostoli del buddhismo il proprio

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figlio Milinda e la propria figlia. L’isola di Ceylon fu la prima terra «al di là dei mari» conquistata al buddhismo. In seguito l’isola si ricoprì di monasteri e di dagaba (stupa), questi ultimi sovente di dimensioni gigantesche. Presso il Gal Vihara, a Polonnaruva, furono scolpite diverse statue monumentali, di fattura assai simile a quella della tradizione gupta, come si può notare dal trattamento della capigliatura in riccioli e dalla resa delle vesti, molto aderenti al corpo. Qui si vede il Buddha sdraiato (15 m), allungato nella posizione descritta dai testi come quella del suo parinirvana. Il suo volto esprime una grande calma. Nei pressi di questa scultura, un altro personaggio stante, alto circa 7 m, è stato a lungo identificato con Ananda, il suo fedele discepolo. Questa interpretazione è oggi messa in discussione1, poiché in questa statua sono chiaramente visibili molti dei tratti e delle caratteristiche fisiche pertinenti esclusivamente al Buddha: la capigliatura di riccioli, le orecchie allungate, l’urna tra le sopracciglia, ecc., e, soprattutto Vusnisa (chiamato sovente protuberanza del cranio), identico a quello del Buddha disteso. Si tratterebbe dunque del Buddha stesso che contempla l’Albero del Risveglio. Queste statue fanno parte di un complesso che risale al xii secolo. Per esempio da Jean Boisselier, La sagesse du Buddha, Gallimard, Paris, 1993, p. 107. 1

Candi Borobudur 52. Veduta dall'alto del sito. 53. Le montagne circostanti viste dal candi. 54. I piani visti dalla base est. 55. Scalinata vista dalla base est. 56. Prima galleria lato nord. 57. Particolare di un pannello scolpito: la storia di Chandala. 58. Particolare di un pannello scolpito: venerazione del Buddha. 59. Particolare di un pannello scolpito: il principe incapricciato. 60. Stupa traforato della sommità. 61. Stele buddhista. Museo di Giacarta.

62. Il Buddha Amitabha, faccia ovest, angolo nord. Su una collina, al centro di Giava, il complesso architettonico di Borobudur (detto stupa o candì) fu costruito sul piano di un mandala. Esso si presenta come una serie di piattaforme quadrate dentellate sempre più strette, sovrapposte le une alle altre, continuando con piattaforme rotonde e terminando in uno stupa centrale. (tav. 52) Qui si vedono nettamente i vari piani, gli stupa superiori e lo stupa centrale. Questo complesso rappresenta il cosmo secondo la visione buddhista. È stato concepito e realizzato per permettere al pellegrino di compiere un percorso iniziatico che lo faccia passare dal mondo formale al mondo senza forme. Le gallerie delle piattaforme inferiori sono coperte di sculture che descrivono i tormenti della condizione umana e quindi la beatitudine di coloro che, come il Buddha, si impegnano sulla via della rinuncia. L’insieme termina con degli stupa traforati che contengono i Buddha e i Bodhisattva sovrani dei loro universi puramente spirituali. (tav. 53) La scultura di Borobudur è caratterizzata da una grande dolcezza delle forme. Il Buddha aveva un corpo perfetto, che aveva acquisito dei tratti caratteristici nel corso delle vite anteriori. Uno di tali tratti era la perfetta armonia delle forme: nessun muscolo si stacca dagli altri. L’impressione globale è quella di una vita armonizzata interiormente ed esteriormente. (tav. 54) Fatte per consentire di salire progressivamente da un piano all’altro tenendo sempre il monumento alla propria destra, le gallerie offrono al pellegrino un insegnamento grazie ai pannelli scolpiti. Al centro della fotografia, la prima galleria raffigura i grandi personaggi realizzati del Mahayana. Le nicchie contengono le statue del Jina Akshobya, che presiede il mondo dell’est. Il jina fa con la mano destra il gesto di toccare la terra. (tav. 55) È alla base di questa scalinata che il pellegrino comincia il suo pellegrinaggio attorno al monumento. Dopo il quarto gradino visibile nella fotografia, si scorge, sulla sinistra, l’inizio della seconda galleria. La prima galleria non si vede nella fotografia. I muretti delle gal-

lerie sono ornati di motivi in acrotèrio (se ne vedono qui diversi esempi). Le volte dei passaggi della scalinata sono delle volte in aggetto. In cima alla scalinata, si scorgono le cuspidi di alcuni stupa. (tav. 56) Prima galleria. Dopo essere saliti di qualche gradino sulla scalinata situata ad est, il pellegrino percorre la prima galleria. Egli trova alla sua sinistra e alla sua destra dei pannelli scolpiti. Qui, quelli sulla parte superiore della parete, a destra, gli raccontano la vita del Buddha e sono, in tutto, centoventi pannelli che si susseguono e fanno il giro del candi. In alto a destra, nella fotografia, si vede un elefante accovacciato sotto un parasole: è l’elefante bianco che scenderà nel ventre della regina Maya, per consentirle di dare alla luce il Buddha. Sul pannello seguente, vi sono gli dèi che promettono di proteggere la regina. Sul terzo pannello, la regina si ritira in un giardino all’ombra di un albero avoka. I pannelli in basso raccontano l’inizio della vita del principe Sudhana. (tav. 57) Particolare della scultura di un pannello della prima galleria. È la storia di un principe che si incapriccia di una donna di bassa casta. È qui raffigurato uno stagno con dei fiori di loto in boccio o sbocciati, delle foglie e delle anitre. (tav. 58) Parte centrale di un pannello della seconda galleria. Il Buddha, riconoscibile dai suoi tratti caratteristici: figura tondeggiante, capigliatura di riccioli, usntsa, presenza di un nimbo intorno al capo, vesti monastiche che lasciano intravedere il corpo, presenza del parasole reale, ecc., riceve qui l’omaggio di esseri celesti che gli offrono dei fiori. Egli riceve anche l’omaggio di alcune donne, delle quali si scorge la più vicina, a destra nella tavola. (tav. 59) Particolare di un pannello: una storia analoga alla precedente: un principe si incapriccia di una graziosa damigella. (tav. 60) La piattaforma superiore è occupata da degli stupa traforati, a forma di campana, installati su dei loti sbocciati, all’interno dei quali si possono scorgere dei Buddha in dhyana (meditazione).

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(tav. 61) Stele buddhista. Museo di Giacarta. Questa scultura è notevole per la sensazione di pace che emana e per la dolcezza del volto. Il Buddha è qui molto giovane, il suo sguardo è perfettamente interiorizzato. La capigliatura è trattata in riccioli così come Vusnisa. Le pieghe del collo si vedono bene. Il manto monastico è appena accennato e il mantello per la pioggia appena segnato sulla spalla sinistra e sul braccio sinistro. Le mani sono in dhyanamudra, in una posizione che favorisce la concentrazione e la meditazione. Sono posate al centro

del corpo, una sull’altra, la destra sulla sinistra, le palme rivolte verso l’alto. Questa stele è un bell’esempio di arte indiana interpretata dagli artisti di Giava. (tav. 62) Il Buddha Amitabha, sulla faccia occidentale, qui all’angolo nord della prima balaustra, è una Manifestazione della Buddhità. Secondo le regole iconografiche, egli è rappresentato nell’atteggiamento di un meditante, in dhyanatnudra. Le sue vesti sono trasparenti.

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Prambanan 63. Veduta d'insieme del Candi Viva. 64. Scalinata del Candi Viva. 65. Veduta d’insieme, lato est. 66. Statua indù. 67. e 68. Bassorilievi. 69. Motivo della facciata. Non lontano da Borobudur, si trova Prambanan, l’antica capitale di un regno indù. Numerosi santuari indù e buddhisti (chiamati indistintamente candi) sono in corso di restauro. Essi sono stati costruiti, per la maggior parte, nell’viii e nel ix secolo, pressappoco alla stessa epoca dello stupa di Borobudur. Si tratta sia di monasteri buddhisti: Candi Sari, Candi Sewu, Candi Mendut, sia di santuari indù: Candi Viva, Candi Sambishri.

(tav. 66) Nel tempio di Viva vi è il linga, che viene venerato quando il tempio serve per il culto indù. Vi si trovano anche delle statue che evocano l’entourage immediato di Viva. Ecco perché, nel tempio di Viva, un’immagine di Ganesha si presenta al culto dei fedeli. Il ventre prominente e il corpo grasso simboleggiano la prosperità e la sicurezza che Ganesha accorda ai suoi devoti.

(tav. 67) Come a Borobudur, la parete interna del parapetto è ricoperta di sculture istoriate. Nel Candi Viva, esse narrano l’epopea di Rama, il Ramayana. Qui si vede l’intronizzazione di Bharata, il fratello di Rama, sul trono di Ayodhya. Bharata è seduto, mentre un brahmano sta per versargli dell’acqua sulla testa e sul corpo. È l’equivalente dell’unzione del re in occidente. I brahmani recitano delle formule e delle danzatrici mi(tav. 63) Il Candi Viva è il più grande e il più bello dei tem- mano la guerra. pli indù della regione di Prambanan. Esso è circondato da diversi grandi templi, da templi meno grandi e da tem- (tav. 68) Dopo che Bharata è stato intronizzato, Rama è pietti. Quello che chiamiamo il Tempio di Prambanan è un obbligato a lasciare la capitale. Sul pannello 12 (a sinistra complesso di duecentotrentasette templi grandi e piccoli. nella fotografia), si vede il re Dasharatha, padre di Rama e Bharata, precipitare in una profonda tristezza. Egli è in (tav. 64) Scalinata che sale al tempio. E il passaggio obbligato una posa che esprime il suo dolore. Dei servitori e delle per accedere al santuario che, secondo il principio indiano, ancelle cercano di consolarlo. Nel contempo, Rama e la si situa esattamente al di sotto della torre. Quando vi è af- sua sposa, Viva, su un carro lasciano la capitale e si dirifollamento, i fedeli non fanno che sfilare per avere il darvan gono verso la foresta. (sanscrito darvana) o visione del dio, in realtà del sostituto Quarantun pannelli scolpiti raccontano in questo modo al visitatore (a patto che costui faccia la pradaksina del che è l’immagine. Templion (Tempietto). È uno dei duecentoventiquattro pic- tempio, come a Borobudur) l’epopea del Ramayana. coli templi che circondano una decina di grandi templi. Qui Le immagini appaiono immediatamente leggibili a tutti, una piattaforma sopraelevata, alla quale si accede da una perché il Ramayana è parte integrante della cultura giavascala, serve da base per una torre costituita di piani prima nese. Davanti al Candi Viva, ad ogni plenilunio, da luglio quadrati, poi arrotondati e culminante in uno stupa a forma a settembre, è offerta al pubblico una rappresentazione di campana. Questa struttura ricorda quella di Borobudur, all’aperto del Ramayana. ma qui gli stupa o stupika hanno perso il loro significato simbolico funerario e sono utilizzati a scopo ornamentale. (tav. 69) Motivo del vaso della prosperità che appare sulla facciata del Candi Viva. Questo vaso è circondato sia (tav. 65) Scalinata che sale al tempio. E il passaggio obbligato da Kinnara, esseri mitici metà uomo metà uccello, sia da per accedere al santuario che, secondo il principio indiano, uccelli veri e propri, come in questo caso. si situa esattamente al di sotto della torre. Quando vi è af- Da un punto di vista simbolico ed estetico, il vaso ha follamento, i fedeli non fanno che sfilare per avere il darvan perso parte della sua importanza a vantaggio dei fiori e (sanscrito darvana) o visione del dio, in realtà del sostituto degli elementi perlati. È sormontato da un parasole e da due uccelli. che è l’immagine.

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Candi Sewu 70. A due chilometri a nord del Candi Viva di Prambanan, su una superficie quadrangolare di centossessantacinque metri per centottantacinque e secondo una pianta regolare, che è quella di un mandala, sono stati costruiti un santuario principale e duecentoquarantotto santuari secondari, dedicati ai grandi Esseri realizzati del Mahayana. Recentemente restaurato (nel 1986), il santuario principale è costruito a forma di croce, con quattro ingressi, ciascuno sormontato da uno stirpa. La cella principale è sormontata da uno stupa centrale. Quanto alle sculture, non restano che, all’entrata, due enormi dvarapala (guardiani dell’entrata) alti più di due metri. Un’iscrizione rinvenuta durante i lavori di restauro indica che il candi fu costruito dal 782 al 792.

Candi Sambhishri 71. A cinque chilometri da Prambanan, un piccolo tempio, a lungo sfuggito alla serie di eruzioni vulcaniche del Merapi, fu scoperto per caso nel 1966 e restaurato nel 1986. La sua originalità sta nell’essere costruito al di sotto del normale livello del terreno. Il santuario principale è fiancheggiato da tre santuari secondari anch’essi a pianta quadrata. Esso era dedicato a Viva. Vi sono state trovate delle statue di Durga, di Ganesha, e di Viva Mahaguru (il Grande Guru). Il liñga

di Viva è ancora in situ, nella cella del santuario. Si stima che sia stato costruito tra l’anno 812 e 1’838 della nostra era.

Candi Sari 72. Veduta del candì, lato est. 73. Figure delle facciate. (tav. 72) Costruito verso i secoli viii-ix, questo candi è un vihara (monastero) buddhista a due piani, ciascuno articolato in tre sale per la meditazione e l’insegnamento. Gli stupa sulla sommità si collocano sulla verticale delle sale di riunione. Trasposizione in pietra di un modello ligneo, esso ha un equivalente in un altro monastero vicino: il Candi Plaosan. (tav. 73) Sui muri esterni di questi due candi, sono raffigurati, in altorilievo, Bodhisattva maschili e femminili. Non è sempre facile stabilire l’identità di questi personaggi, poiché i due monasteri furono costruiti in un’epoca in cui, nella regione, si sviluppò il buddhismo Mahayana (epoca che vide anche la costruzione di Borobudur) e dunque l’iconografia segue tutte le variazioni dottrinali e rituali. Il personaggio femminile assomiglia a Tara e il personaggio maschile fa parte, in ogni caso, dei grandi Esseri realizzati e venerati, che sarebbe improprio qualificare come «divinità». Sia per quanto riguarda l’architettura, sia per quanto riguarda l’iconografia, i modelli indiani non sono lontani.

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Candi Mendut 74. Pannelli scolpiti. Buddha Šakyamuni 75. Buddha Šakyamuni. 76. Bodhisattva. (tavv. 74 e 75) A tre chilometri dallo stupa di Borobudur, il Candi Mendut, costruito nello stesso periodo, è celebre sia per il suo esterno ben proporzionato, sia per le sue decorazioni murali e per la bellezza delle sculture al suo interno. Anch’esso è di ispirazione Mahayana. I pannelli scolpiti raffigurano storie tratte dai jataka, le vite anteriori del Buddha. I personaggi centrali sono un re e una regina che sembrano passivi davanti allo spettacolo (tav. 76). Il Buddha Vakyamuni è qui rappresentato nell’atto di trasmettere l’insegnamento della Legge. È seduto «all’europea» su un trono racchiuso tra un elefante accoccolato, un leone rampante e un makara. Poggia i piedi su un fiore di loto sbocciato. Le vesti sono incollate al corpo. La figura è estremamente dolce. Questa statua, alta circa tre metri, si trova al fondo di una cella senza finestre, nel cuore del santuario. Alla sua destra si trova Avalokitevvara e, alla sua sinistra, Vajrapani, un Bodhisattva sulla cui identità, però non tutti concordano.

Khajuraho 77. Tempio di Lakshmana, lato est. Khajuraho, antica capitale religiosa della dinastia Chandela (930-1300), nel Madhya Pradesh, quattrocento chilometri a sud di Agra, è celebre per i suoi splendidi templi in arenaria tenera color giallo chiaro. Il tempio di Lakshmana fu costruito nel 954 e dedicato a Vispu (la cui statua è venerata nel santuario principale). Eretto su una terrazza quadrata, agli angoli della quale si trovano dei templi (ne vediamo due, di dimensioni diverse), si apre verso est. Le parti interne del tempio corrispondono esattamente a quelle esterne: sotto l’alta torre, si trova il santuario principale, sotto la torre successiva, meno elevata, si trova una sala delle udienze (è là che ci si ferma per avere il darvan del dio), mentre una sala d’ingresso si apre sull’esterno sotto due torri meno elevate. Questo tempio è famoso per un fregio scolpito che

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corre tutt’attorno alla terrazza e che raffigura un seguito di guerrieri con cavalli ed elefanti.

Bhubanevvara (Orissa) 78. Il Lingaraja. È il tempio più importante, più grande e più bello di Bhubanevvara. Costruito intorno all’anno mille in arenaria rosa, è decorato, all’esterno, con animali fantastici: leoni stilizzati, con le fauci spalancate e la zampa destra sollevata. Ma è soprattutto di grande bellezza: le linee verticali e le linee orizzontali sono splendidamente armonizzate tra loro. Il jaganmohana, la sala delle udienze o anticamera del santuario, accoglie i pellegrini che vogliono arrivare fino al cuore del tempio. Ha il tetto piramidale e una cuspide a forma di campana. La forma perfetta della torre-santuario è il risultato delle ricerche architettoniche, le cui direttrici miravano a valorizzare il passaggio dalla molteplicità all’unità, dal formale alla nonforma. La «forma» o «immagine» della divinità è. peraltro, già astratta, in questo caso, trattandosi del liñga di Siva, venerato all’interno del santuario. Quest’ultimo, stretto e a pianta quadrata, è circondato da muri spessi, che costituiscono la base della torre. Questa si inserisce perfettamente nel cosmo mediante i punti cardinali e i punti intermedi, ben segnati nella sua architettura esterna. Dalla base quadrata alla sommità del tempio, si opera un passaggio progressivo verso l’unità, simbolizzata dall’amalaka, un cuscino tondo, appiattito e scanalato, sormontato da un vaso in un solo pezzo e da una punta (qui sormontata dal tridente di Viva). Il pellegrino può così lasciarsi condurre, mentalmente, dalla molteplicità all’unità e dal formale all’informe o, al di là del formale, alla Realtà unica e invisibile.

84. Vispu Surya. Il sito di Konarak si trova a una sessantina di chilometri da Puri e da Bhubanevvara, in Orissa. Il suo nome significa l’Angolo (kona) del Sole (arka). È noto nei testi classici come grande centro di venerazione di Vispu, lo Spirito Supremo (Purusottama). (tav. 79) Del complesso di costruzioni fatte costruire dal re Narasimha, a metà del xiii sec., con lo scopo di glorificare «Vispu (in forma di) Sole Levante» (Vispu Surya), non restano che, su una terrazza alta cinque metri, il basamento della sala della danza (a sinistra nella fotografia), la sala delle udienze (al centro) e il basamento della torre-santuario (a destra nella fotografia). La sala delle udienze ha un’altezza di circa settanta metri. La torre doveva raggiungere i centoventi metri d’altezza. Non fu mai completata. L’insieme raffigurava il carro del Sole. (tav. 80) Le ruote, in tutto ventiquattro, rappresentano le ore del giorno. I cavalli in pietra che tirano il carro rappresentano i sette destrieri di Surya. Qui si vedono le tre ruote posteriori del carro, che sono situate lungo la terrazza, sotto la torre mai completata. Un fregio con degli elefantini corre lungo la base della terrazza. I personaggi raffigurati in scultura sul muro esterno della terrazza, tra le Ruote, sono Naga e Nagini, divinità acquatiche, riconoscibili dalla loro forma di serpente, animali

fantastici che atterrano un nemico (leone o elefante), personaggi femminili sotto un albero e coppie abbracciate. Ogni scena è trattata di per sé e ciò significa che è il sentimento erotico a dominare. (tav. 81) Di tutt’altro genere sono questi piccoli fregi, nei quali lo stesso elemento è ripreso più volte: strumentisti, danzatrici, ecc. Al centro, un personaggio reale, rappresentato a più riprese insieme ai suoi servitori e alle sue ancelle, è, in basso, oggetto di una consacrazione tramite l’acqua, che due elefanti versano su di lui. Si sa che in questo tempio sono state scolpite scene ispirate alla regalità di Narasimha. (tav. 82) Guerrieri a dorso di elefante. (tav. 83) Naga, coppia di amanti, animali fantastici di tipo leonino che atterrano un nemico-elefante. (tav. 84) Il dio Vispu Surya. Numerose statue monumentali, che misurano diversi metri di altezza, sono inserite nelle nicchie del tempio. Qui il Sole Levante è rappresentato in forma di dio che porta sul capo una sorta di tiara e, sulla fronte, il segno settario visnuita. Questa statua è situata su un carro (una piattaforma) tirato da sette cavalli. La fotografia riassume bene lo spirito del complesso di Konarak, il cui simbolismo è quello del Sole Levante.

Konarak 79. Rovine del Tempio, viste da nord-ovest. 80. Ruote della terrazza, viste da sud-est. 81. 82. 83. Sculture della terrazza.

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Rangoon (Yangon) (Burma)

(tavv. 88 e 89) Ayuthya, a ottanta chilometri circa da Bangkok, è l’antica capitale di un regno fondato nel 1350. Essa fu distrutta dai Birmani nel 1767. In mezzo alle rovine dei monasteri, si trovano oggi sia degli stupa (chiamati in thaï 85. Pagode alla base dello Sve Dagon. Pra chedi), sia delle torri-santuario (chiamate prang) che 86. Lo Sve Dagon. Lo Sve Dagon è un immenso stupa, che ha un perimetro assomigliano a dei missili puntati verso il cielo. di oltre quattrocento metri e un’altezza di circa cento metri. Secondo i Birmani, conterrebbe le reliquie del Buddha (tavv. 90, 91, 92, 93) I monasteri distrutti non sono stati rema, poiché la città nel xiii secolo era indù, lo Sve Dagon fu staurati, tuttavia è facile individuare la loro struttura grazie costruito in seguito, quando, nella regione, il buddhismo ai muri di cinta che sono stati ricostruiti e alle basi conserrimpiazzò l’induismo. Quanto alla forma stessa dello stupa, vate delle colonne che, un tempo, sostenevano il soffitto. La pietà dei fedeli ha consentito di restaurare le statue dei i Birmani distinguono, partendo dal basso, dodici parti: 1. la base e le sue sessanta- quattro pagode, 2. le tre terrazze, Buddha e i Chedi. Qui sono dei Buddha maravijaya, ovve3. la campana (qui nascosta), 4. la ciotola per le elemosine ro dei Buddha che con la mano destra toccano la terra per capovolta, 5. il turbante srotolato, 6. il loto fiorito, 7. la chiamarla in aiuto contro Mara, il dio della morte. Più lonspiga della piantaggine, 8. il piatto di rame, 9. il parasole, tano vi è un enorme Buddha coricato che è stato restaurato. 10. i fiori che sormontano il parasole, 11. la banderuola, (tavv. 94) Un Buddha coricato, di recente restaurato. La fiam12. il pomo alla sommità. ma che emana dall’usnisa è tipica dell’arte tailandese. Essa è simbolo dell’illuminazione e ha lo stesso ruolo del nimbo nello stile indiano gupta. Nakon Pathom 87. Testa di Buddha coricato del Pra Pathom Chedi. Come è indicato dal nome corrispondente in sanscrito nagaram prathamam o «prima città», Nakorn Pathom è una delle più antiche e prestigiose città della Tailandia, l’antico regno del Siam. Essa si trova a sessantadue chilometri da Bangkok. Al Pra Pathom Chedi, un magnifico stupa dalle tegole verniciate, circondato da monasteri, si trova un immenso Buddha coricato. La fotografia è stata inserita nella serie delle illustrazioni in maniera tale da mostrare chiaramente il sorriso del Buddha, il cui capo, in realtà, poggia sul braccio destro.

Ayuthya 88. Pra chedi in prossimità del Wat Phra Si Sampet. 89. Il prañg, torre-santuario. 90. Rovine di un monastero e Buddha maravijaya. 91. Buddha maravijaya. 92. Buddha maravijaya. 93. Buddha coricato. 94. Buddha coricato recentemente restaurato.

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città» nei pressi di Bangkok. È da queste vestigia che i re della Tailandia, sin dal secolo scorso, sono partiti con l’intento di ristabilire la cultura buddhista nel loro paese. Il re Rama vi, in occasione di una delle sue visite in provincia, si interessò in modo particolare a queste rovine; peraltro, egli non faceva altro che continuare il lavoro di restauro dei suoi predecessori.

e presentate ai visitatori delle statue in bronzo del Buddha. Qui vediamo: (tav. 98) il Buddha che soggioga Mara (tav. 99) il Buddha che pratica le austerità (tav. 100) il Buddha in cammino (tav. 101) il Buddha che pacifica i conflitti nel suo parentado.

Bangkok Monastero di Benchamabopit

(tav. 102) Si intrapresero anche delle ricerche per meglio comprendere le fonti dell’iconografia buddhista. Si eseguirono copie di statue che si trovavano in luoghi diversi sia all’interno che all’esterno del Regno. Per esempio, al monastero di Benchamabopit, troviamo questa statua di fattura gandharica, che non avrebbe mai potuto essere realizzata in assenza di un modello. Si capisce facilmente che si tratta di una statua in stile indogreco: i capelli sono ondulati e le vesti non sono trasparenti. Le parti mutilate sull’originale, il nimbo e le mani, sono state accuratamente ricopiate senza interventi di restauro. È così che, poco a poco, le preoccupazioni d’ordine museologico sostituiscono quelle estetiche e religiose.

98. 99. 100. 101. Quattro pose del Buddha. 102. Un Buddha di fattura gandharica. (tavv. 98, 99, 100, 101) In un monastero fatto costruire, nel secolo scorso dal re Chulalongkorn e noto oggi come il Tempio di marmo, furono riunite le statue del Buddha raccolte in tutto il Regno. Esse servirono da modello per quelle dei nuovi santuari. Furono incoraggiati gli studi di iconografia e iconologia. In questo modo si fissò una lista di cinquantadue pose classiche del Buddha e vennero eseguite

Bangkok 95. Santuario del Buddha di smeraldo. Dopo la distruzione di Ayuthya nel 1767, fu il turno di Bangkok, che assunse il ruolo e di capitale del regno e di capitale dell’arte religiosa. Allora il Siam si aprì alle influenze cinesi che si possono percepire nell’architettura. È nel santuario del Buddha di smeraldo che è conservata la statua del Buddha che è il tesoro e l’emblema del regno Thaï.

Provincia Thaï 96. Statua di stile indiano antico. 97. Stupa di stile singalese antico. Quando la capitale Ayuthya fu completamente distrutta, i monasteri e gli stupa antichi del regno di Siam furono risparmiati se, per caso, si trovavano lontano dalla capitale saccheggiata. E così si trovano ancora, nella campagna, vestigia antiche e interessanti, come a Phitsannulok, a Nakhon Si Thammarat o ancora a Samut Prakarn, «l’antica

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Miniature indiane Le miniature indiane che sono state scelte per questa antologia sono di due tipi: - o presentano personaggi facilmente riconoscibili, quali Viva, Vispu e i suoi avatara, Krspa, Mahavira come anche personaggi mitici o storici; - oppure hanno la funzione di servire da supporto a temi musicali o poetici incentrati sui sentimenti. Allora sono delle ragini, temi arrangiati musicalmente o coreograficamente, che fanno parte delle ragamala o ghirlande di raga. Quanto alla regione d’origine di queste miniature, essa è il Rajasthan. Le Scuole che le hanno immaginate e realizzate sono dette Scuole «rajput». Si sono creati stili particolari, specialmente nelle città: Bundi, Kishangarh. In una regione montagnosa più a nord ma un tempo soggetta al Rajasthan, si sviluppò uno stile peculiare chiamato «pahari» o «di montagna», a Bahsoli, Kulu, Guler, Kangra. 103. Vacche che rientrano alle stalle. Scuola di Kishangarh (1750). Museo Nazionale, New Delhi. Le miniature di Kishangarh sono facilmente riconoscibili: sovente l’architettura delle città mughal, con le mura di cinta esterne e i padiglioni sormontati da cupolette, servono da sfondo. Ma, soprattutto, i personaggi sono trattati in una maniera del tutto particolare: danno l’impressione di sollevare la testa e di portarla indietro, il viso è allungato e il portamento elegante. Più di frequente sono Radha e Krspa ad essere rappresentati alla maniera dei principi Rajput: Radha indossa un elegante sari e Krspa, che ha la pelle di colore blu, è vestito come un raja. Anche quando il soggetto del dipinto è bucolico, come in questo caso, i personaggi conservano la stessa eleganza principesca e il sentimento erotico non è lontano per il fatto che qui gli uomini sono attesi dalle donne, uscite fuori dalla città. All’origine della Scuola di Kishangarh si trova un artista geniale, Nihal Chand, che fu il protetto di Savant Singh tra il 1735 e il 1757. 104. Kalpasutra. Dipinto su carta proveniente da Mandu (Rajasthan) 1439. Museo Nazionale, New Delhi. Mahavira, l’ultimo dei ventiquattro Tirthankara (Creatori del guado, Salvatori) del jainismo, fu un contemporaneo del Buddha. La sua vita si svolge secondo un canovaccio simile a quello della vita del Buddha. Qui vediamo l’inizio del manoscritto

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sulla vita di Mahavira: la regina Trivala enumera al re, suo marito, i sogni pieni di auspici che ella ha fatto subito dopo aver ricevuto in grembo un embrione. Dal gesto della mano capiamo che si tratta di una enumerazione. Il gesto che fa il re indica che egli, a sua volta, enumera i sogni. In basso, la regina tiene in braccio il figlioletto, che diverrà Mahavira. I manoscritti jaina, come quello dei Kalpasutra, sono famosi: la tavolozza dei colori è molto semplice, le figure stilizzate sono sobrie e viste di tre quarti, il naso aquilino e spigoloso, gli occhi sporgenti, la cui pupilla appare al centro, anche se si tratta di un profilo, uno dei quali esce fuori dal contorno del viso, il mento aguzzo e sporgente, caratteristica già notata ai suoi albori, ad Ellora, che qui si abbandonano quasi alla caricatura.

Benares. Qui, la pittura serve da supporto al sentimento della separazione: una giovane donna è sola in una foresta fitta e oscura; ella suona uno strumento a corde. I daini che la donna incontra simbolizzano la solitudine e il suo atteggiamento ripiegato simbolizza la nostalgia del ricordo. II testo sulla parte alta della pagina serve da collegamento tra la pittura e la musica, quest’ultima già evocata dalla presenza dello strumento a corde. È Todi Ragini, un sentimento personificato in forma di dea e che fa parte di una serie di Ragamala.

105. La dea Bhuvanevvari. Tempera su carta. Scuola mughal. Primo quarto del xvii sec. Museo di Chandigarh. Questa miniatura fa parte di una serie di sei provenienti dal museo di Lahore, tre delle quali sono oggi al museo di Chandigarh. Prodotto di Scuola mughal, essa raffigura la dea Bhuvanevvari, «Sovrana del mondo» che ha qui un viso umano normale, i cui tre occhi però la collegano a Viva. Le otto braccia reggono gli emblemi che denotano i suoi rapporti con Vispu: la conca (che assomiglia a una lumaca), il disco, o con Viva: l’ascia e il tridente. La maniera in cui sono trattati gli emblemi o attributi rivela che essi non sono ben noti all’artista. La tigre è trattata come una sorta di cane alato. L’insieme è quello di una dea che si è voluta rappresentare come graziosa e pronta ad accogliere le suppliche.

108. Narasimha. Tempera su carta. Scuola Pahari. Da una bottega di Kangra. Primo quarto del xix secolo. Collezione privata, Delhi. E uno degli avatãra di Vispu. È un personaggio per metà uomo e per metà leone, disceso quaggiù per sconfiggere un demone. Tuttavia quest’ultimo è completamente ignorato del pittore: Narasimha è identificato con Vispu. È seduto sul serpente Šhesha, che simboleggia ciò che resta del mondo manifestato tra le due grandi manifestazioni. Sulle sue ginocchia siede la dea Lakshmi; davanti a lui, alla sua sinistra, che riconosciamo dal crescente lunare che porta sull’acconciatura, Surya, il Sole, con un nimbo brillante, e, dall’altro lato, Brahma dai quattro volti, Candra (la Luna, che è un personaggio maschile nella cultura indiana) dal nimbo scuro, e Vispu, che ha per cavalcatura l’aquila, Garuda. La scena si svolge sotto un baldacchino, nel padiglione di un palazzo, tra gli alberi. In basso, uno yantra consente di accedere alla stessa Realtà mediante un processo tantrico.

106. Vispu venerato dal poeta Jayadeva. Tempera su carta. Pahari, 1730. Opera di Manaku di Guler. Museo di Chandigarh. Al centro della miniatura è rappresentato il dio Vispu, riconoscibile dai suoi attributi, in particolare la conca e il disco. Egli riceve l’omaggio di Jayadeva, il poeta che lo celebrò nel Gitagovinda, il «Canto del Bovaro», e che riconobbe in Krspa lo Spirito Supremo o Vispu manifestatosi. Sul muro che fa da sfondo, il pittore ha rappresentato i dieci avatãra o discese di Vispu: il Pesce, la Tartaruga, il Cinghiale, Narasimha, il Nano, Paravurama (Rama dalla scure), Rama, Balarama, Buddha e Kalki.

109. Dea che regge un vaso dorato. Tempera su carta. Scuola pahari, terzo quarto del xvii secolo. Pratap Singh Museum, Srinagar. Provenendo da una Scuola pahari, questa miniatura ha dei tratti simili a quelli di altre miniature: personaggi che si stagliano su un fondo colorato blu o giallo chiaro, volti di profilo con occhi grandi, corone sormontate da boccioli di loto, attributi distintivi e numerosi gioielli. Qui è la Devi, una dea particolarmente venerata tra le montagne. In questo caso, mostra il suo aspetto più benefico e più splendido: gonna verde, rari bianco, pesanti gioielli; nella mano destra tende un vaso prezioso, simbo-

lo dell’esaudimento dei desideri. Il suo volto è circondato da un nimbo. 110. Patapjari Ragini. Tempera su carta. 1775. Scuola di Bundi. Museo Guimet, Parigi. Nella corte di un palazzo, una principessa si dispera per l’assenza dell’amante. Una dama di compagnia la consola offrendole qualcosa, senza dubbio un fiore. La camera vuota simboleggia l’assenza dell’amante e la luna, con il suo alone azzurrognolo, sembra partecipare a questo sentimento di tristezza che trova espressione nel viso sognante della principessa e nell’inclinazione del capo, appoggiato sul braccio sinistro. Il colore blu domina all’esterno e il pavone rappresenta l’innamorato assente. 111. Radha raggiunge Krspa in un boschetto. Scuola pahari (Guler), 1730. Tempera su carta. Museo di Chandigarh. In molte miniature rajput, la vita amorosa di Krspa offre lo spunto per esprimere i sentimenti. Qui la gioia dell’incontro si esprime sobriamente. Infatti è espressa maggiormente dall’ancella che da Radha stessa. L’invito rivolto da Krspa a Radha perché si accomodi presso di lui si esprime con la stessa sobrietà. 112. Ragamala. Scuola di Mewar. xvii secolo. Museo Nazionale, New Delhi. Si può pensare che questo dipinto, facendo parte di una Ragamala, esprima uno o più sentimenti. Troviamo qui, su diversi piani, alcuni temi classici. In primo luogo la solitudine delle donne separate dai loro mariti partiti per la caccia, raffigurati in alto nel dipinto. Animali selvatici, uccelli, stagni con loti in fiore sono raffigurati sia in basso, sia nelle scene di caccia. Ma essi non hanno la stessa espressione: fiduciosi in basso, diffidenti e in allerta, in alto. Le scimmie sono raffigurate con tratti umani, capaci di attenzione e di stupore. La città non è lontana. La si scorge nell’angolo a destra in alto. E una città mughal, fatta di padiglioni sormontati da cupolette. Gli alberi sono trattati alla maniera indiana: tronchi ben delineati come supporti e sormontati da fogliame a palla. Come in molti dipinti indiani, il rosso è dominante.

107. Todi Ragini. Tempera su carta. Scuola di Malwa o Mewar. Primo quarto del xvii secolo. Bharat Kala Bhavan,

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Piccola antologia di fonti


La visione di Krspa Vasudeva nella sua forma terrifica e in quella benigna della Bhagavadgita canto xi In un passo di grande suggestione poetica e letteraria, il beato Krspa Vasudeva consente al desiderio di Arjuna, eroe del Mahabharata e suo interlocutore sul campo di battaglia, mostrandogli la propria forma suprema, sovrana, mediante la quale Egli si identifica all’Universo intero e al Tempo. A questa vista Arjuna è sconvolto dal terrore che prova l’uomo davanti al divino, e chiede a Krspa Vasudeva di riassumere le proprie sembianze benigne. Dal punto di vista strettamente iconografico questo passo riveste notevole interesse, dacché contiene molte osservazioni sulle caratteristiche fisiche e sugli atteggiamenti corporei che gli artisti si sono sforzati di rendere nelle loro opere. Il cursorio commento che figura nelle note vuole sottolineare il legame con l’iconografia. «Arjuna disse: 1 Per darmi un segno del tuo favore hai voluto rivolgermi questo discorso straordinario che riguarda il Sé (...) 2 (...) o Tu dagli occhi che hanno l’aspetto di petali di loto (...)1 3 Supremo Signore, Sommo Spirito (...) io bramo contemplare la tua forma suprema (...)2 Il Beato Signore disse: 5 Figlio di Prtha3, considera le mie forme a centinaia, anzi a migliaia. Sono varie, divine; molteplici gli aspetti e i colori che sono loro propri. 7 (...) Contempla ora nel mio corpo l’universo intero, ove gli esseri sia mobili che immobili si raccolgono (...) 8 Ma tu non puoi vedermi con l’occhio (corporeo) che è tua proprietà; ecco, io ti dono un occhio divino (...) Sañjaya4 disse: 9-10-11 Dopo aver così parlato, o re, Hari5, il Grande Signore dello yoga6, mostrò allora al figlio di Prtha la sua forma suprema, sovrana, provvista di una moltitudine di occhi e di bocche, di una varietà di aspetti meravigliosi, di una quantità di ornamenti celesti, che brandiva una pleiade di armi divine; (era) ornata da collane e da vesti divine, unta di divini profumi, costituita da tutte le meraviglie, dio infinito dal viso ovunque rivolto7. 12 Se nel cielo in una volta bruciasse la luce di mille soli, alla luce di questo Grande Essere sarebbe simile8. Arjuna disse: 15 O Dio, io scorgo nel tuo corpo tutti gli dèi come pure i diversi gruppi di esseri: il Signore Brahma, seduto su un trono di loti9, tutti i veggenti e i serpenti divini10. 16 Vedo te con le tue molteplici braccia e i multipli tronchi, i visi, gli occhi, con la tua forma da ogni parte illimitata (...) 17 Vedo te, te la cui contemplazione è difficile da conseguire, con il tuo diadema11, la mazza, il disco12 e lo sguardo ardente che illumina tutto intorno, inaccessibile ai nostri mezzi e alle nostre (umane) misure.

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85. Pellegrinaggio al paese di Krspa. Produzione di una stamperia locale di Mathura. L’iscrizione in alto, in lingua braj, indica che si tratta di un percorso di otto krova (circa 270 km.) che permette di rivivere tutta l’epopea di Krspa nei diversi luoghi in cui si svolse. Questo percorso è indicato da un nastro sinuoso che passa attraverso boschi (vana) o parchi (upavana) e che fa il giro della città di Mathura a una distanza media dai dieci ai venti chilometri. La fiumana Yamuna è rappresentata da un nastro verticale, nel quale nuotano pesci e testuggini. Là dove il percorso penetra all’interno, si trova la città di Mathura, resa simbolicamente da un monumento. I nomi antichi delle città toccate dall’itinerario lasciano pensare che la regione fosse un tempo ricca di boschi. Le immagini illustrano la vita di Krspa, a partire dalle nozze dei suoi genitori: l’apparizione di Vispu, il trasferimento del neonato nella sua famiglia d’adozione, la sua educazione, le sue marachelle, le sue imprese, i suoi amori fino alla fine della giovinezza. II ruolo di Krspa nel Mahabharata e il suo insegnamento, contenuto nella Bhagavadgita, non sono presi in considerazione. La regione di Mathura è il teatro permanente di pellegrinaggi a Krspa ed è, di conseguenza, ritenuta sacra.

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23 Scorgendo la tua maestosa forma dai molteplici visi e occhi, o (Signore) dalle lunghe braccia13, la tua forma dagli svariati arti, braccia, gambe e piedi, dai molteplici ventri, (resa) temibile dalle tue innumerevoli zanne, tremano i mondi e io stesso. 31 Spiegami chi mai sei tu, la cui forma è così tremenda. (...) Il Beato Signore disse: 32 Io sono il Tempo che fa sì che i mondi periscano (...) Arjuna disse: 40 Omaggio a Te (...) 44 Ecco che io mi inchino pieno di rispetto, che prosterno il mio corpo, che domando a te che sei il Signore degno di lode la grazia (...) 45 (...) O Dio, mostrami questa tua stessa forma (...) 46 Tu che porti il diadema e la mazza, il disco in mano, è così che desidero contemplarti, o (Signore) dalle mille braccia, Onniforme, degnati di presentarti a me sotto questa forma che (non) ha (che) quattro braccia14! Il Beato Signore disse: 47 Mercé la mia grazia, o Arjuna (...) io ti ho mostrato questa forma suprema, di natura ardente, universale, infinita, primordiale, che mi compete e che fino a oggi non è mai stata vista da altri che te. 49 Non tremare, non sprofondare nello smarrimento alla vista di questa mia forma suscitatrice di timore15. Sciolto da ogni tema, lieto in cuor tuo, contempla alfine di nuovo questa forma che è mia.

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86. Krspa. Legno di tek proveniente da un carro processionale, xviii sec., Musée Guimet, Parigi. Krspa figura qui come «mandriano che suona il flauto» (venugopala). Egli affascina le guardiane di vacche, ma anche le loro mandrie e i serpenti. Qui è nella posa tradizionale, in piedi e a gambe incrociate, in triplice flessione. 87. Krspa che solleva il monte Govardhana, pietra, xii sec. d.C., da Halebid, Karnataka. Altezza 150 cm, Archaeological Site Museum, Halebid. Tra le imprese della giovinezza di Krspa, figura l'episodio in cui egli arriva a sollevare il monte Govardhana, al fine di proteggere le mandriane, di cui egli era al tempo stesso l’amante e il capo, dalle piogge torrenziali scatenate da Indra. Egli regge il monte sulla punta della mano e ne fa un riparo. 88. La festa di Holi. Dipinto su carta. Scuola Pahari, terzo quarto del xviii sec., Indian Museum, Calcutta. La festa di Holi, lo sbocciare della primavera, è una delle più gioiose dell’anno. Si lanciano polveri colorate e ci si asperge reciprocamente con siringhe che spruzzano acqua colorata, cantando canzoni innocenti o licenziose. Qui Radha e Krspa sono al centro del dipinto. Tuttavia non si tratta di una scena storica né mitologica come nei dipinti precedenti. I due amanti divini sono in realtà presenti nel cuore dei contadini e servono da modello per i loro amori attuali Nella pagina seguente: 89. Vispu tra i suoi avatara. Dipinto di Jaipur, xviii sec., Victoria and Albert Museum, Londra. Al centro Krspa identificato con Vispu. Tutt’intorno i suoi avatara: il Pesce, la Tartaruga, il Cinghiale (in alto), l’Uomo-Leone

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e il Nano (in seconda fila), Paravurama (Rama dall’ascia) e Rama (in terza fila). Questi dipinti, che non rappresentano un grande genere, sono tuttavia importanti testimonianze della fede popolare e 7, 8 di unificare un insieme di della volontà rappresentazioni attribuendo loro una stessa origine e un’identica finalità. Esse conferiscono agli avatara lo status di manifestazioni divine. 90. Harihara, Kashmir ix sec. Altezza 68,2 cm. Museum für Indische Kunst,

Berlino. Harihara unisce in uno stesso corpo Viva (Hara) e Vispu (Hari). 91. Avatara del Cinghiale, gupta iv sec., grotta di Vdayagiri. I Brahmana, Commentari sulla Parola Sacra, testi molto antichi che risalgono al secondo millennio a.C, conoscono già dei miti nei quali gli animali, pesce, tartaruga e cinghiale, sono gli eroi di imprese che vanno a beneficio dell’umanità. Riconosciuti in seguito come manifestazioni divine, essi

figurano in una lista di avatara o discese provvidenziali di Vispu. A Udayagiri, in Madhya Pradesh, presso Bhilsa, a otto chilometri da Sañci, il mito del CinghialeSalvatore della Terra è raffigurato in maniera maestosa. Il Cinghiale riporta la Terra in punta di grugno e tutti gli dèi sono riuniti per ammirare l’impresa. L’Oceano da dove il Cinghiale recupera la Terra, è simboleggiato da un Naga (Serpente) gigante e da onde. La Terra è una donna.

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Sañjaya disse: 50 Vasudeva, rivoltosi con queste parole ad Arjuna, di nuovo gli mostrò la propria forma usuale, rassicurandolo dai suoi timori, e nuovamente assunse la sua forma corporea benigna, Lui, il Grande Essere. Arjuna disse: 51 Nel contemplare questa tua forma umana benigna, Janardana, ritrovo ora le mie forze e rientro nel mio stato naturale. Il Beato Signore disse: Tu hai visto la mia forma, così difficile da scorgere. Gli dèi stessi non cessano di aspirare a contemplarla16».

La figura di Rama nel Ramayapa

Nel Ramayapa si trovano due passi nei quali l’eroe è descritto da capo a piedi1. La prima descrizione viene fatta da Narada2 a Valmiki, limitandosi a riprendere alcune delle espressioni del secondo brano. Riportiamo qui di seguito un estratto della descrizione del Sundarakanda. La traduzione di Alfred Roussel non è stata conservata perché inadeguata. I termini tra parentesi provengono da commentari che si trovano in un’edizione del Ramayapaa, compresi nell’edizione critica di Baroda. Descrizione di Rama fatta da Hanumat, nel corso di una conversazione con Viva: 15 «Nobile signora, Rama ha larghe spalle, lunghe braccia, il collo a forma di conchiglia (vale a dire ben tornito, con tre pieghe), un bel viso, le clavicole nascoste, (il bordo) degli occhi arrossato; gode fama tra gli uomini. 16 Il suono della sua voce rimbomba al pari di un tamburo; la sua carnagione è olivastra, l’aspetto è maestoso; (il suo corpo è) regolare, le membra ben ripartite, il colore volge al nero. 17 Ha tre parti ben salde (petto, polso e pugno), tre parti che pendono (tra cui le braccia) (...) Ha tre pieghe (nel collo o sul ventre), tre parti che formano una depressione (carattere profondo, voce profonda e ombelico profondo), quattro membra inespresse (vale a dire senza che sia possibile scorgere le vene, il grasso, i peli sul corpo, o rigonfiamenti dell’epidermide).

NOTE 1 Caratteristica comune a numerose immagini buddhiste e induiste. 2 II termine sanscrito reso con «forma» è qui rupa, forma visibile, e non murti, che significa forma materiale, immagine o manifestazione. 3 Vale a dire Arjuna. 4 II narratore della vicenda esposta nella Bhagavadgita. 5 Vispu. 6 Espressione di solito riservata a Viva. 7 II moltiplicarsi di occhi, bocche e via dicendo si prefigge di suggerire la grandezza, l’onnipresenza e la potenza del dio che appare nella sua forma di sovrano. Gli artisti di epoca classica si sono dimostrati molto riservati nelle loro rappresentazioni, e hanno privilegiato le forme della divinità apportatrici di pace, più facili da eseguire.

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Si tratta del fulgore, lo splendore (bha) che irradia dagli individui in ragione della loro spiritualità, e che ha spinto gli artisti a raffigurare i nembi e le mandorle che ritroviamo sin da prima dell’epoca cristiana nell’iconografia buddhista o induista. 9 Tema iconografico frequente. 10 I Naga e le Nagini dell’iconografia. 11 Visnu, contrariamente a Viva, porta costantemente un diadema. Krspa Vasudeva, considerato manifestazione di Visnu, ne condivide gli attributi. 12 La mazza e il disco sono le due armi che portano nell’iconografia Vispu e i personaggi visnuiti. 13 Segno fisico di bellezza, che fa parte del canone indiano delle proporzioni. Spesso le braccia sono così lunghe da pendere sino alle ginocchia nella stazione eretta, come per il Buddha e Mahavira. 8

Forma più frequente, cui Arjuna è abituato. 15 Nell’iconografia quest’invito alla pace è rappresentato dal gesto noto come abhayamudra, gesto di pace che conferisce l’assenza di paura, costituito dalla mano aperta con il palmo rivolto verso il fedele. 16 I brani presentati qui sono tratti dalla traduzione di Anne-Marie Esnoul, in L’Hindouisme, cit., pp. 217-21. Le note sono state aggiunte. [A dispetto dell’esistenza di una traduzione italiana edita della versione francese della Bhagavadgita di Anne Marie Esnoul (a cura di Bianca Candian, Bhagavadgita, Adelphi, Milano 1976) è parso opportuno mantenere una traduzione di servizio, più rispondente ai fini dell’Autore. Ndt). 14

18 Ha quattro parti nere (le pupille degli occhi, le sopracciglia, i baffi e i capelli), quattro linee (i quattro disegni che si trovano sotto i piedi e sulle mani del cakravartin). La sua taglia misura quattro avambracci (in altezza come in larghezza, a braccia distese), ha quattro parti regolari (le dita, le falangi delle dita, il petto e le unghie). Ha quattordici parti che vanno a coppie e sono simmetriche (tutte le parti simmetriche del corpo) (...). 19 Ha labbra pronunciate, poderose mascelle, naso grande. Ha cinque parti untuose (la pelle, la leggera peluria, i capelli, la parola e lo sguardo che è dolce), otto unità lunghe (ira cui le braccia, le cosce e il dorso). Ha dieci parti (il cui colore ricorda quello) del loto rosso (lingua, palato, bocca, bordo degli occhi, unghie, interno delle mani e pianta dei piedi). Ha dieci parti grandi (tra cui mani, piedi, petto, collo, testa e fronte). È penetrato da tre realtà (splendore, fama e bellezza). Ha due parti che risplendono (il fondo dell’occhio, che è bianco, e i denti). Ha sei parti rilevate (le articolazioni delle spalle e delle braccia che sono consistenti, il petto, la giunzione del collo e del dorso, gli occhi, la bocca e il dorso, che è privo di depressione nel mezzo). Ha nove parti fini (tra cui le articolazioni delle dita, che sono delicate, i peli, che sono sottili, la pelle e le unghie). Penetra le tre realtà (il cielo, le diverse regioni terrestri e le differenti categorie di esseri). Tale è il discendente di Raghu».

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Un commento iconografico dimostrerebbe che in realtà gli artisti, cui venivano fornite descrizioni del genere, hanno reso fedelmente il corpo umano, pur con tutti questi canoni di bellezza in mente. Alcune di queste caratteristiche canoniche sono più femminili che maschili. Il famoso autore inglese E.B. Havell, che aveva ben compreso l’ideale indiano di bellezza, così scriveva a proposito di un’altra descrizione, quella di Draupadi nel Mahabharata: «La maggior parte dei segni caratteristici della bellezza femminile elencati dai poeti indiani, come l’ombelico profondo, gli occhi come petali di loto, la figura (tondeggiante) come la luna piena, le linee del collo che richiamano quelle di una conchiglia, e la taglia snella, divennero del pari segni della bellezza maschile, e furono inclusi nella lista di laksana o indici di bellezza prescritti per le immagini dei Buddha e dei Tirthamkara jaina3».

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92. Le murti (immagini cultuali) di Rameshvaram. Dipinto contemporaneo. Produzione locale. Rameshvaram è una piccola isola situata nell’estremo Sud dell’India, a 160 km da Madurai, tra l’India e Sri Lanka. Dedicato a Viva, il tempio attuale, che risale al xvii sec., consacra la riconciliazione dei gruppi shivaiti e vishnuiti. Da ciò la proposta, qui, in un'immagine di riepilogo, di tutte le murti o immagini cultuali di Rameshvaram e cioè le immagini sia vishnuite che shivaite, intorno a Rama e Sita, in alto, al centro del dipinto.

NOTE 1 Nel Balakunda (sarga i, Vloka 9b11) e nel Sundarakanda (sarga xxxiii, vloka 15-19 secondo l’edizione critica di Baroda [rispettivamente curati da J.H. Bhatt, vol. 1, Baroda 1960 e G.C. Jhala, voi. 5, Baroda 1966. Ndz]; sarga xxxv, vloka 15-20 nella traduzione di A. Roussel, Le Ramayapa traduit en français par..., Paris 1903-1909, 3 voll.). [Il lettore italiano può fare riferimento alla traduzione italiana della recensione bengalese del poema a opera di G. Gorresio, ottocentesca anch’essa ma filologicamen-

te più fondata e sostanzialmente ancora valida. Cfr. G. Gorresio, Ramayana, Poema indiano di Valmici, testo sanscrito secondo i codici manoscritti della scuola Gaudana, e traduzione italiana con note per..., Stamperia Reale, Parigi 1843-1858, 10 voll.; e ancora Besozzi, Milano 1869-1870, 3 voll., («seconda edizione da lui riveduta e ritoccata», sola traduzione). Il solo testo è stato recentemente riedito per i buoni uffici e le cure di O. Botto per i tipi dell’Indian Heritage Trust, Madras 1980-1982, in riproduzione facsimile dell’edizione di Parigi,

in 7 voll. Il passo tradotto nel testo corrisponde nell’ed. di Gorresio a Sundarakunda sarga xxxii, vloka 10-15 con alcune varianti (vol. 4, p. 289 per il testo; vol. 9, pp. 32s. per la traduzione). Ndt], 2 È per bocca di Narada che i testi epici e poetici veicolano le descrizioni fisiche degli dèi, in una lingua che trae ispirazione dalle conoscenze astrologiche dell’epoca, una parte delle quali era dedicata alle caratteristiche fisiche degli esseri umani. 3 E.B. Havell, The Ideals of Indian Art, London 1911, pp. 99s.

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La figura di Sita nel Ramayapa1

Sita crede che Rama sia stato ucciso, e lo stesso di Laksmana. Esprime pertanto il proprio dolore, e richiama alla memoria tutti i segni corporei di bellezza e di buon auspicio che gli astrologi avevano creduto di scorgere sul corpo di lui: 5 «I brahmani astrologi che in pubblico parlavano della mia buona sorte, ora che Rama è stato ucciso, nessuno di quei saggi ha detto il vero! 6 Eccolo tuttavia ai miei piedi, questo loto di virtù dal quale le spose di alto rango ricevono la consacrazione suprema in una con i loro regali consorti. 9 Le mie chiome sono sottili, eguali, corvine; le mie sopracciglia non si congiungono; le gambe sono glabre e ben tornite, i denti sono intatti. 10 Le conchiglie (Le orecchie), gli occhi, le mani, i piedi, le caviglie e le cosce sono simmetriche, ben assortite; le unghie regolari, brillanti, lucenti, le dita ben proporzionate. 11 Le mammelle si uniscono; sono opime, la punta crea una depressione, al pari dell’ombelico; ben sviluppati sono i fianchi e il petto. 12 Il colore ha lo splendore della perla; soffici come la seta i peli. Si dice che io possieda i dodici segni di buon augurio2».

NOTE 1 Yuddhakanda, sarga xlviii, vloka 4-13. Traduzione di A. Roussel con una correzione allo vloka 10: «le orecchie» in luogo di «frontali»; e allo vloka 11: «ombelico» in luogo di «protuberanza ombe-

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licale». [L’indicazione precedente si riferisce alla traduzione di Roussel cit. supra. Il riferimento all’edizione critica (a cura di P.L. Vaidya, vol. 6, Baroda 1971) è Yuddhakanda, sarga xviii, vloka 1-12; quello all’edizione di Gor-

resio cit. supra è Yuddhakanda, sarga xxiii, vloka 1-15 (vol. 5, pp. 111s, per il testo; vol. 9, pp. 271s. per la traduzione), con alcune varianti in entrambi. Ndt]. 2 Ossia i dodici segni che sono stati testé enumerati.

Le immagini nel buddhismo spiegate da un’iscrizione cinese «Secondo quanto ho appreso, oscura e sottile è la ragione suprema; tale da oltrepassare la sfera delle parole e delle immagini; perfetto e insondabile è il corpo veritiero; esso trae origine dalla regione di ciò che va al di là della comprensione e della percezione. Tuttavia il Misericordioso nella sua Potenza fece discendere le sue tracce1, conformandosi alle cause2, e si manifestò in modo da poter essere propizio. (...) Pertanto in tal modo Vakya (muni) apparve in passato. (...) Maitreya discenderà quaggiù nel futuro. Il fatto di trovarci in un punto temporale troppo arretrato o troppo avanzato costituisce per noi un ostacolo: sia che avanziamo sia che procediamo a ritroso non ne incontreremo nessuno. Le nostre parole e i nostri pensieri sprofondano nella tristezza, e noi sospiriamo tra i gemiti. Allora finalmente (...) desiderando (...) che le vie oscure fossero illuminate a giorno, (che gli esseri incamminati su queste vie) raggiungessero l’altra via e si elevassero nella purezza, noi abbiamo creato con profondo rispetto su questa montagna una nicchia con una statua di Maitreya (...) Il (...) giorno il lavoro di ornamentazione fu terminato. Allora il venerabile Maestro fu per la prima volta visibile; sembrava fosse disceso di tra gli dèi Tusita3; i mirabili segni distintivi (laksaqa) furono per la prima volta posti in essere; ed erano simili a quelli che si compirono un tempo sotto la Puti (il bodhi-druma4). I peli bianchi (urna) risplendevano come la luna; la capigliatura dai riflessi violacei era abbondante come una nube di fumo; gli occhi simili a fiori di loto parevano potersi muovere. Quando vi saranno genti per poter rendere omaggio ai suoi piedi, che leveranno gli occhi pieni di ammirazione verso il suo volto venerando, nessuno tra loro potrà fare a meno di sentire i peli rizzarsi per timore e rispetto, e il loro cuore si aprirà alla più ampia compassione (...)5».

NOTE Vale a dire, si degnò di calarsi in questo basso mondo. 2 L’espressione fa capire che, sebbene l’essere perfettissimo non sia soggetto a nascita o a morte, egli possa tuttavia, per confor1

marsi alle cause costituite dalle sofferenze degli esseri sprofondati nell’ignoranza, fare la sua comparsa in questo mondo per poter recare giovamento a tutti questi sciagurati. 5 Una categoria elevata di esseri ce-

lesti della cosmologia buddhista. L’albero dell’illuminazione. 5 Tratto da Ed. Chavannes, Mission Archéologique dans la Chine Septentrionale, tomo I, La sculpture bouddique, Leroux, Paris 1915, riproduzione 14. 4

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Anatomia, proporzioni, bellezza e spiritualità «Lo vilpavastra1 (...) proibisce un trattamento meramente anatomico in quanto non rispondente al fine proprio dell’artista, e fornisce in modo molto appropriato una tavola di proporzioni per la figura ideale. Più esattamente stabilisce una grande varietà di proporzioni a seconda del tipo di figura da portare a termine. Sarà sufficiente presentarne qui un saggio: il canone di proporzioni ‘a nove volti’ utilizzato nella maggior parte delle figure di divinità2. In questo canone il viso (dal mento alla radice dei capelli) viene considerato come l’unità di base, con l’altezza della figura ideale che comporta nove unità. Il tronco ne contiene tre, le cosce e le gambe due, mentre il collo, le ginocchia e la parte alta delle caviglie raggiungono tutte insieme la misura della nona unità che manca al totale. Mani e piedi comprendono un’unità di lunghezza. Il sistema di misura si addentra in svariati altri particolari (...) Il risultato più deciso di tutte queste regole scritte e non è che la figura tipo risulta dotata di ampie spalle e di vita sottile (come il leone), di membra lisce, di dita raffinate e sottili, di braccia lunghe, di ombelico profondo e di occhi lunghi e grandi (...) È (anche) un tratto caratteristico della scultura indiana da un capo all’altro (della sua storia) di rappresentare forme integre e sane. Certo gli asceti vengono raffigurati emaciati, ma le forme divine hanno come effetto più evidente di lasciar trasparire costantemente la gioia che emana dalla dolce sodezza delle carni. Questa caratteristica di voluttà colpisce con maggiore impressione nella maggior parte delle opere spirituali, dal momento che queste ultime riescono a combinare tutta la fine eleganza e la grazia spirituale del gotico con il più completo sviluppo possibile delle forme corporee. ‘Più è astratta la verità che vi prefiggete di insegnare, più dovrete sedurre i sensi per tramite suo’3».

NOTE 1 La letteratura specializzata dell’architettura e delle arti plastiche. 2 In questo canone la capigliatura non entra a far parte del conteggio. Quando viene aggiunta al volto, esso costituisce (secondo il

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modo di esprimersi occidentale) un canone a sette teste (spesso di meno). In altre parole, la testa è grande in proporzione al corpo, il che viene confermato dall’iconografia indiana, che a questo riguardo come su parecchi altri punti

differisce dalla scultura e dalla pittura occidentali in generale. 3 Ananda K. Coomaraswamy, The Arts & Crafts of India and Ceylon, Edinburgh 1913, p. 25.

Esecuzione rituale di un dipinto religioso

Un testo indiano medievale, conservato in tibetano, fornisce le informazioni necessarie a chi desideri eseguire o commissionare la pia immagine di un Buddha o di un Bodhisattva. Ogni particolare è previsto, dal momento della raccolta del cotone in un luogo puro a opera di iniziati alla dottrina, fino al momento in cui il dipinto viene presentato ai fedeli convenuti per procacciarsi merito. Presentiamo qui di seguito un breve estratto del testo, a proposito delle prime operazioni che concernono invariabilmente il centro del quadro: «Allora, con colori schietti, un artigiano o un pittore ben istruito dall’officiante1 (...) dovrà dipingere con maestria. Dopo aver preso un colore dotato della lucentezza della fiamma, deve dipingere lui stesso o far dipingere il pata2. Il pittore dovrà essere munito dei medesimi segni del tessitore3; si dovrà quindi ripetere ancora una volta in ogni particolare il rito precedentemente esposto per la tessitura4. Il colore sia profumato con canfora, zafferano e sandalo; mentre l’incenso brucia si reciti ottocento volte il mantra5 e si ricopra il pata di fiori. (Segue un elenco di fiori) (...) Assiso su un mucchio di erba kuva6 rivolto a Oriente; la facoltà percettiva ben salda; lo spirito diretto verso tutti i Buddha e i Bodhisattva, prenda in mano un pennello e, equanime, dipinga il pata. In primo luogo dovrà dipingere il Tathagata Vakyamuni, munito di tutte le forme eccellenti, caratterizzato dai trentadue segni peculiari del Grand’Uomo, il corpo scintillante degli ottanta segni secondari, seduto sul loto prezioso, interamente lucente, il corpo sfavillante circondato da un’aureola luminosa misurante un vyama7, in atto di esporre la Legge. Quest’immagine propizia, benigna, munita di tutte le forme eccellenti, va posta al centro di un loto dallo stelo di vaidurya8».

NOTE 1 Colui a beneficio del quale il dipinto viene eseguito, e che impartisce le istruzioni relative, il committente. 2 La stoffa preparata per ricevere la pittura. 3 I segni sono le caratteristiche fisiche e spirituali, assai numerose, che abilitano ciascuno al compito

che gli è proprio. Rito che consiste sostanzialmente nella pronuncia di parole di buon auspicio, in incantamenti e gesti beneauguranti. 5 Formula meditativa. 6 Erba usata a scopo liturgico nelle cerimonie induiste e buddhiste. [Poa cynosuroides. Ndt], 7 Un braccio, misura della aureola 4

usuale nella pittura e nella statuaria. 8 Corindone madreperlaceo, quarzo cangiante o crisoberillo. Testo tratto da Marcelle Lalou, Iconographie des Etoffes peintes (pata) dans le Mañjuvrimulakalpa, Libr. Geuthner, Paris 1930, pp. 30s.

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La bellezza muliebre secondo Brantôme

Valendosi di un metodo tipicamente indiano (si vedano i casi di Rama e Sita nei passi citati del Ramayapa), Pierre de Bourdeille, signore di Brantôme, elenca come segue le caratteristiche fisiche femminili, come le ha udite descrivere per la prima volta a Toledo: «Vero o no che sia, lo spagnolo dice che perché una donna sia interamente perfetta e assolutamente bella le occorrono trenta condizioni di beltà che una dama spagnola mi confidò in un’occasione, a Toledo, ove se ne trovano di stupende, molto gentili e di buone maniere. I trenta “se” sono dunque questi: (...) (segue un elenco in spagnolo delle trenta condizioni) (...) che, per farmi capire, significano in francese: tre cose bianche: la pelle, i denti e le mani; tre nere: gli occhi, le sopracciglia e le palpebre; tre rosse: le labbra, le gote e le unghie; tre lunghe: il corpo, i capelli e le mani; tre corte: i denti, le orecchie e i piedi; tre larghe: il petto o il seno, la fronte e lo spazio tra le sopracciglia; tre strette: la bocca, l’una e l’altra, la cintola o il collo del piede, e la natura ovvero la vulva; tre grosse: il braccio, la coscia e la parte grossa della gamba; tre delicate: le dita, i capelli e le labbra; tre piccole: i capezzoli, il naso e la testa. In tutto sono trenta1». «Perché una donna sia bella, occorre secondo gli spagnoli che riunisca trenta condizioni o, se si preferisce, che la si possa definire almeno con dieci aggettivi applicabili ciascuno a tre parti del suo corpo. Per esempio, deve avere tre cose nere: gli occhi, le palpebre e le sopracciglia; tre fini, le dita, le labbra e i capelli; e via elencando. Si veda Brantôme per il resto2».

NOTE 1 Pierre de Bourdeille, signore di Brantôme, Recueil des Dames, poésies et tombeaux, éd. établie, présentée et annotée par

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E. Vaucberet, Gallimard, Paris 1991, pp. 403s., con le note relative a pp. 1327s. 2 P. Mérimée, Carmen et treize autres nouvelles, éd. établie, pré-

sentée et annotée par P. Josserand, Gallimard, Paris 1965, cap. ii, p. 111.

Valore relativo delle caratteristiche fisiche della bellezza secondo un testo del mahayana1 Durante la sua ultima esistenza terrena, il Buddha era detentore di determinate caratteristiche fìsiche che ci sono state trasmesse in due liste: l’una di trentadue segni (laksanà), l’altra di ottanta contrassegni secondari (anuvyañjana). In linea di principio tali segni dovevano essere rappresentati sia nelle sculture che nelle pitture. Che ruolo occupa la bellezza fìsica nel complesso della dottrina? Nella «Dottrina degli anziani» (Theravada) i lakšana assumono un’importanza del tutto particolare dal momento che sono loro a qualificare il futuro Buddha come tale, ossia come colui che avrebbe potuto, proprio perché in possesso di tutte queste qualità, divenire sia monarca universale (cakravartin) che Buddha. Ciononostante i seguaci del mahayana finirono piuttosto con l’insistere sull’essenza delle cose, sul Risveglio anziché sugli avvenimenti destinati a precederlo o a seguirlo. Da questo punto di vista in cui solo l’essenziale conta, il corpo fisico del Buddha non può essere che fittizio. Ivi il Buddha porta a compimento gli atti propri alla sua carriera di Illuminato, che sono per Sakyamuni la nascita in India, l’illuminazione e la predicazione. Ma un corpo siffatto non può essere interamente reale: pura apparenza, è unicamente strumento delle fantasmagorie del Buddha sotto sembianze umane. Il testo sotto riportato spiega come ciò che qualifica veramente un essere (il che è noto qui come «grande segno») non sia il suo corpo, ma piuttosto la sua volontà e capacità di divenire un Buddha. Non sono gli eventi meravigliosi il tramite per il quale il Bodhisattva seppe che sarebbe un giorno divenuto Buddha, ma il fatto di agire come tale. L’interlocutore cui il passo citato si riferisce è un adepto del Piccolo Veicolo, oggigiorno rappresentato dalla «Dottrina degli anziani» o Theravada). «Noi seguaci del mahayana diciamo: Ricevere la predizione che sì, sarà un Buddha, a elevarsi nelle plaghe celesti, vedere i Buddha delle dieci regioni, tutto ciò non costituisce il grande segno. Ciò che viene predetto dal Buddha è che agirà come Buddha. Il fatto di agire come un Buddha, ecco in che consiste il grande segno. Voi trascurate questo segno per adottare i trentadue segni del Grand’Uomo. Ma questi trentadue segni sono egualmente posseduti dai re cakravartin. Gli dèi (deva) e Mararaja2 li producono anch’essi per trasformazione. Nanda3, Devadatta4 e il brahmano Bavari ne avevano tre5. La consorte di Mahakavyapa6 aveva il segno ‘colore dell’oro’. Anche personaggi della nostra generazione posseggono uno o due di questi segni, come gli ‘occhi nero cupo’, le ‘lunghe braccia’, la ‘parte anteriore del corpo simile a quella di un leone’7 e simili. Questi diversi contrassegni si riscontrano più o meno numerosi. Perché dunque vi ostinate ad attribuirvi tanta importanza?». NOTE 1 Cfr. la traduzione di Et. Lamotte, Le Traité de la Grande Vertu de Sagesse de Nagarjuna (Mahaprajñamitavastra), Bibliothèque du Muséon vol. 18, Louvain 1949, ristampa 1966, pp. 284s. 2 Mararaja vale letteralmente «re degli esseri mortali», ossia colui (o

coloro) che regna sull’insieme dei mortali. Quando il Bodhisattva medita prima dell’illuminazione, il Mararaja invia le sue figlie a sedurre il futuro Buddha, quindi le sue armate per terrorizzarlo, perché sapeva che il suo impero sarebbe stato di lì a poco distrutto dall’illuminato.

Fratello cadetto del Buddha. Cugino del Buddha. 5 Secondo taluni testi, costoro avevano tra l’altro un’urna al pari del Buddha. 6 Un discepolo. 7 Vale a dire le spalle larghe e la vita sottile. 3 4

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Bibliografia e indici


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Testi letterari citati1

1. Abhidharmakova: «Tesoro dell’Abhidharma», opera della scolastica buddhista attribuita a Vasubandhu, forse del IV secolo d.C. Traduzione di L. De la Vallèe Poussin, L’Abhidharmakova de Vasubandhu, traduit et annoté par ..., Société belge d’études orientales, P. Geuthner, Paris 1923-1931, 6 voll.; nouvelle éd. anastatique présentée par Etienne Lajnotte, Paris 1971 - p. 51. 2. Abhijñanavakuntala: «(Il dramma del) riconoscimento di Vakuntala», più spesso nota come Sakuntala, dal nome dell’eroina principale; opera di Kalidasa, del iv-v secolo d.C. Diverse traduzioni francesi: P.E. Foucaux, La reconaissance de Sakountala, drame en sept actes de Kalidasa, traduit du sanskrit par ..., E. Picard, Paris 1867; A.H.J. Bergaigne e P. Lehugeur, Sacountala: drame en sept actes mêlé de prose et de vers, traduit par..., Librairie des Bibliophiles, Paris 1884; insufficienti dal punto di vista poetico. [Cfr. Vincenzina Mazzarino, Il riconoscimento di Sakuntala (Abhijñanavakuntala), Adelphi, Milano 1993. Ndt] - pp. 187-188. 3. Abhilasitarthacintamani: «Il gioiello ideale degli oggetti dei desideri», di Somevvara o Somade- va. Vasta enciclopedia composta nel 1129, comprende ampie sezioni dedicate all’architettura e alla pittura. Traduzione parziale di A.K. Coomaraswamy, The Technique and Theory of Indian Painting, Cambridge Mass. 1934, pp. 58-89, reprinted from «Technical Studies», vol. III, n. 2, Boston oct. 1934.1 passi tradotti da Coomaraswamy sono 13, 140-188, 939-946. [Cfr. l’edizione di R. Shama Sastry, Abhilashitarthachintamani of Someswara Deva, Part i, Prakaranas 1-3, Govt. Branch Press, Mysore 1926. Il testo è diviso in cinque sezioni (prakarana) di venti capitoli ciascuna, per un totale di cento. La terza sezione è quella che tratta più specificamente di architettura e arti figurative. Ndt] - pp. 32, 49, 58. 4. Bhagavadgita: «Il canto del Beato», celebre poema che fa parte del Mahabharata. Numerose traduzioni francesi: E. Senart, La Bhagavadgita, traduit du sanskrit avec une introd. par..., Les Classiques de

l’Orient 6, Paris 1922, Les Belles Lettres, Paris 1944. Cfr. anche Anne Marie Esnoul, L’Hindouisme. Textes recueillis et présentés par ... Avec le concours de spécialistes du Collège de Prance, des Facultés, del’ephe et du cnrs: Madeleine Biardeau [et al.]. Préf. de Olivier Lacombe, Fayard/Denoël, Paris 1972, pp. 160-246. [Cfr. la versione italiana di quest’ultima traduzione, a cura di Bianca Candian, Bhagavadgita, Adelphi, Milano 1976. Ndt] - pp. 32,58,204; fig. 119. 5. Bhagavatapurana: «L’antica storia dei Bhagavata», ovvero l’antica opera degli adepti del Beato. Ampio trattato che comprende nel libro x una biografia mitica di Krsna. Traduzione di Eug. Burnouf Le Bhagavata purana; ou, Histoire poétique de Krichna; traduit et publié par ..., Imprimerie Nationale, Paris 1840-47, 3 voll., (portata a termine da E.L. Hauvette-Besnault e A. Roussel, 5 voll., Paris 1840-1898) - pp. 30, 192. 6. Citralaksana: «(Trattato sulle) caratteristiche essenziali della pittura», opera conservata in tibetano sotto il titolo Ri-mo’i mchan-ñid), attribuita a Nagnajit. Traduzione tedesca di B. Läufer, Das Citralakshana nach dem tibetischen Tanjur hrsg. und übers, vom ..., Mit einer Subvention der Königlich bayerischen Akademie der Wissenschaften aus der Hardy-stiftung, O. Har- rassowitz, Leipzig 1913. [Esistono due opere note come Citralaksana. Sulla prima, opera di Nagnajit, cfr. anche B.N. Goswamy e A.L. Dahmen-Dallapiccola, An Early Document of Indian Art, the Citralaksana of Nagnajit, translated and introduced by ..., following the German ed. of the Citralaksana based on the Tibetan Tanjur, ed. and translated by B. Läufer, Manohar, New Delhi 1976. Sulla seconda, che non è che una sezione dello Silparatna di Šrikumara, cfr. anche A.K. Bhattacharya, Citralaksana, a Treatise on Indian Painting, Saraswati Library, Calcutta 1974 (introduzione, testo, traduzione, glossario, bibliografia). Ndt] pp. 42, 51, 59. 7. Kumarasambhava: «La nascita di Kumara», di Kalidasa. Traduzione di Bernadette Tubini, La naissance de Kuma-

ra (Kumarasambhava), Poème traduit du sanskrit et précédé d’une étude intitulée «Les devoirs des dieux et des hommes», Coll. Unesco d’oeuvres représentatives, Connaissance de l’Orient. Sér. indienne 7, Gallimard, Paris 1958 - pp. 32-33, 4245. 8. Manasollasa: «La beatitudine (procurata dalla visione del lago) Manasa», altro nome dell’Abhilasitarthacintamani. Propriamente il Manasollasa dovrebbe comprendere la prima sezione dell’Abhilasitarthacintamani, ma spesso viene usato a indicare l’intera opera. Traduzione parziale (i 3. 140-180) in L. Renou, Anthologie sanskrite, Payot, Paris 1947, pp. 337-40. [Opera composta nel 1129 d.C. e tradizionalmente attribuita al re Calukya Somevvara. Cfr. l’edizione di G.K. Shrigondekar, Manasollasa of King Somevvara, Gaekwad Or. Ser. 28, 84, 138, Baroda 1925, 1939 e 1961. Il primo volume comprende le prime due «ventine» (vimvati} in cui è divisa l’opera, il secondo la terza ventina e i primi cinque capitoli della quarta, il terzo volume i rimanenti cinque capitoli della quarta ventina e la quinta e ultima, per un totale complessivo di cento capitoli. Cfr. anche il recente studio di S.S. Misra, Fine Arts and technical Sciences in ancient India with special Reference to Manasollasa, Varanasi 1982. Ndt] - pp. 32, 58. 9. Pratimalaksana: «(Trattato sulle) caratteristiche essenziali delle immagini», privo di datazione, di autore ignoto. Traduzione inglese di J.N. Banerjea, Pratimalaksana, ed. with an Introduction, English Translation, Notes and Appendices, Texts from Nepal n. 2, Calcutta Univ. Press, Calcutta 1932. [Cfr. anche P.N. Bose, Pratimamana-laksanam, ed. with an Introduction, Sanskrit and Tibetan Texts and English Translation, Punjab Sanskrit Ser. 18, Motilal Banarsidass, Lahore 1929. Si noti che il terzo khanda del Visnudharmottarapurana contiene una sezione (capp. 44-85) intitolata Pratimalaksana, che riguarda la costruzione delle immagini. Il nome è quindi comune a quelle parti dei testi di architettura che trattano questo ar-

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gomento, come conferma anche l’uso del termine in tal senso a opera di T.A. Gopinatha Rao (Elements of Hindu Iconography, Madras 1914, Motilal Banarsidass, Delhi 1985, vol. 2 part 2 appendice B pp. 1-279). Ndt] - pp. 41, 59. 10. Ramãyana: «Il viaggio di Rama», epopea attribuita a Valmiki, opera fondamentale della letteratura indiana. Traduzione di A. Roussel, Le Ramãyana de Valmiki traduit en français par..., Paris 1903-09, 3 voll., generalmente precisa ma di scarso valore letterario. [Cfr. G. Gorresio, Ramayana, Poema indiano di Valmici, testo sanscrito secondo i codici manoscritti della scuola Gaudana, e traduzione italiana con note per..., Stamperia Reale, Parigi 1843-1858, 10 voli.; e ancora Besozzi, Milano 1869-70, 3 voll., («seconda edizione da lui riveduta e ritoccata», sola traduzione); riproduzione facsimile dell’edizione di Parigi, per i tipi dell’Indian Heritage Trust, Madras 1980-82, in 7 voll. Ndt] - pp. 32, 58, 210, 213; fig. 127; tav. 68. 11. Samudrikatilaka: «L’ornamento frontale della divinazione tramite i segni», trattato che contiene la descrizione particolareggiata, idealizzata secondo i canoni di bellezza indiani, del corpo maschile e femminile. Iniziata da Durlabharaja e portata a termine da Jagaddeva, nel xii secolo in Gujarat. Il testo è stato edito con commenti vari a più riprese in India tra il xix e il xx secolo, talora sotto il titolo generico di Samudrikavastra, «Trattato secondo la tradizione di Samudra (divinazione tramite i segni)». In entrambi i casi comprende 790 vloka. Col titolo Samudrikavastra esiste un’edizione ottocentesca (Bombay 1894), mentre il titolo Sãmudrikatilaka è quello riportato in un’edizione jaina (Jaina sa-

mudrikana pãmca gramtho, Ahmedabad 1947, pp. 145-266). Non esistono traduzioni in lingue europee, ma sono stati editi e tradotti numerosi testi dello stesso tipo, appartenenti alla tradizione di Samudra, letteralmente «enunciati da Samudra» (samudrena prokta). Cfr. per esempio Garudapurana i 63s., tradotto da H. Kohl- brugge, Glück und Unglückszeichen am Memschlichen Körper, in «Acta Orientalia» xx, pp. 33-76 - pp. 37, 58; figg. 49, 74 12. Vilparatna-, «Il tesoro dell’architettura», di Vrikumara, trattato in versi di epoca indeterminata. Testo importante dello vilpa. Nessuna traduzione in lingue europee. [Il testo, compilato forse nel sedicesimo secolo sulla base di opere più antiche, è stato edito da T. Ganapati Sastri, Silparatnam, Sñkumaraprariitam, purvobhagah, Trivandrum 1922 (prima parte, 46 capitoli) e K. Sambavivavastri, vilparatnam, vrikumaraprariitam, uttarobhagah, Trivandrum 1929 (seconda parte, 35 capitoli). Cfr. anche P.N. Bose, vilpavãstram, ed. with Introduction, Notes and English Translation by..., The Punjab Or. Ser. 17, The Punjab Sanskrit Book Depot, Lahore 1928, Indological Book House, Varanasi/Delhi 1978. Ndt], pp. 49, 59. 13. Vukrariiti-, «La politica secondo Šukra», testo recente, che si basa tuttavia su una tradizione di lunga data, che tratta di politica e di economia. Traduzione inglese di B.K. Sarkar, The Vukraniti translated by ..., with an Index by Narendranath Law, Panini Office, Allahabad 1914, 1923 - pp. 30, 39, 42, 58-59. 14. Visnudharmottara (purana): «(Trattato antico che fornisce) la Legge di Visnu che costituisce la parte ulteriore (del

Garudapurana)». Opera antica compilata tra il vii e il x secolo d.C. Molte sezioni sono dedicate all’architettura e alla pittura. L’affiliazione del Visnudharmottara al Garudapuranna) risale a A.C. Burnell, A Classified Index of the Sanskrit Mss. in the Palace at Tanjore, Trübner, London 1880, p. 188, ma non trova riscontro nelle edizioni a stampa del testo. A partire dalla prima di esse (Veñkatevvara Press, Bombay 1912) notevole è stato l’interesse suscitato dal trattato. Cfr. le traduzioni di Stella Kramrisch, The Visnudharmottara (Part iii). A Treatise on Indian Painting and Image-Making, Calcutta Univ. Press, Calcutta 1924, 1928 2a ed. riveduta e corretta (traduce in tutto 310 vloka del ni khanda, dai capitoli 35-43); di A.K. Coomaraswamy, Visnudharmottara, chapter xli [of khanda in], in «Journal of the American Oriental Society» 52, 1932, pp. 13-21 (traduce 15 vloka con commento). Il iii khanda è stato edito separatamente da P. Shah, Gaekwad Or. Ser. 130, Baroda 1958 (testo e note critiche) e 137, 1961 (introduzione, appendici e indici). Una parte del iii khanda (capp. 35-43), intitolata Citrasutra, è fornita in edizione critica con traduzione in hindi da A. Chatterjee, Varanaseya Samskrta Vishvavidyalaya, Varanasi 1971. Cfr. anche C. Sivaramamurti, Chitrasutra of the Vishnudharmottara, Kanak Pubi., New Delhi 1978. A parere di L. Rocher (in J. Gonda (cur.), A History of Indian Literature, vol. 2 Epics and Sanskrit Religious Literature, fase. 2 The Puranas, O. Harrassowitz, Wiesbaden 1986, pp. 250 ss.) la composizione del testo oscilla secondo gli studiosi su tre fasce: 600-1000, 450-650 e 400-500 d.C. Ndt, pp. 48 59.

NOTE 1 Le traduzioni dei titoli delle opere dell’induismo si rifanno a L. Renou, Littérature

sanskrite. Avec en appendice une table de concordance du Rigveda, coll. «Glossaires de l’Hindouisme», diretta da Jean Herbert

e Lizelle Reymond, V, A. Maisonneuve, Paris 1945 [i.e. 1946], o Delachaux Niestle, Neuchâtel (Suisse) 1945.

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Dèi e personaggi citati e raffigurati nell’iconografia

Agni, dio del fuoco. Arjuna, eroe del Mahabharata. Bodhisattva, «Essere prossimo all’illuminazione», titolo che un personaggio reca anteriormente al proprio Risveglio. Nel mahayana i Bodhisattva svolgono il ruolo di protettori e salvatori. Brahma, dio dell’induismo di epoca vedica, soppiantato da Vispu e Viva e confinato successivamente al ruolo di demiurgo. Buddha, «Illuminato», titolo che un personaggio riceve al momento del proprio Risveglio alla verità buddhista. Epiteto di Siddharta Gautama dopo l’Illuminazione (vi secolo a.C.). Draupadi, eroina del Mahabharata. Durga, aspetto terrifico della consorte di Viva. Gapeva, dio dal capo elefantino e dal corpo umano (cfr. l’indice dei principali tipi iconografici). Ganga, dea che personifica il fiume Gange. Gommatevvara, eremita e santo jaina.

Harihara, unione di Šiva e Visnu. Himavat, dio che personifica lo Himalaya. Indra, dio vedico della tempesta. Jina, «Vincitore», epiteto attribuito al Buddha, ma più spesso al Mahavira, fondatore o riformatore del jainismo. Kali, «Scura», aspetto terrifico della paredra di Viva. Krspna, dio di Mathura, in seguito considerato come un’incarnazione di Vispu. Mahavira, «Grande eroe», titolo attribuito a Vispu, ma anche al fondatore o riformatore del jainismo, contemporaneo del Buddha (vi secolo a.C.). Naga, Nãgini, geni serpentiformi maschio e femmina, personificati nell’iconografia. Nandi, nome del toro che costituisce il veicolo, la cavalcatura di Viva. Paravapi, nome del pavone, cavalcatura di Skanda. Parvati, «Montanara», nome della paredra di Viva.

Radha, pastorella prediletta di Viva. Rama, eroe del Ramãyana. Sarasvati, nome di un fiume mitico e della dea del sapere. Sita, consorte di Rama. Viva, uno dei due grandi dèi dell’induismo recente. Skanda, figlio di Viva. Surya, dio che personifica il sole. Tara, «Colei che fa transitare», divinità buddhista. Usas, Aurora. Uma, altro nome di Parvati. Vispu, uno dei due grandi dèi dell’induismo recente. Yaksa, Yaksi, geni autoctoni maschili o femminili dell’India del nord, specialmente di Mathura. Yamunã, La dea eponima del fiume. Si noti che in sanscrito i nomi di fiume sono prevalentemente femminili perché legati alla figura di una dea.

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Principali tipi iconografici corrispondenti alle principali categorie di esseri

Dei (categoria suprema dell’induismo) Dèi e dee principali-, Viva e Parvati, Vispu e Laksmi, Brahma. Altri dèi: Agni, Surya, Indra, Krspa, Rama, Sarasvati. Tipo iconografico: cfr. i Tratti comuni alle immagini divine. Geni e divinità secondarie: Gandharva, esseri spiritualizzati che dimorano in cielo e nello spazio atmosferico, rappresentati come musici celesti, in atto di volare. Apsaras, ninfe celesti, danzatrici e musiciste di grande bellezza. Una di loro, Urvavi, è particolarmente famosa. Amanti e spose dei gandharva, rappresentate al pari di loro in atto di volare. Gana, «schiere» di divinità inferiori che accompagnano Viva. Di bassa statura, obesi, sono sotto il comando di Ganeva «Signore delle schiere» o Ganapati «Padrone delle schiere», egli stesso rappresentato con capo elefantino e obeso. Viva e Visnu nel corso di determinate loro imprese vengono rappresentati sotto forma di nani. Kinnara, esseri mitici metà uomo e metà uccello. Makara, animale mitico tra il pesce, il drago e il coccodrillo. Yaksa, antiche divinità maschili che simboleggiano la ricchezza, dotate di ventre prominente. Kubera, dio delle ricchezze, è il loro capo. Appartiene a questo tipo anche una divinità bud- dhista, Jambhala. Yaksi, divinità femminili che simboleggiano la fecondità. Sono rappresentate come donne dalle caratteristiche muliebri accentuate. Esseri umani: Buddha (categoria suprema del buddhismo). Rappresentato come rinunciante, con abiti monastici, senza ornamenti. Talora viene raffigurato con sfarzosi paramenti per sottolinearne la natura di monarca cakravartin. Ha

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molti tratti in comune con gli dèi (cfr. i tratti comuni alle immagini divine).

derato a capo dei raksasa, che costituiscono una di queste categorie di esseri malvagi.

Bodhisattva, futuro Buddha, rappresentato nell’iconografia con ornamenti regali.

Un altro famoso antidio è il demone-toro Mahisa, affrontato da Durga. Per maggiori particolari su questi tipi iconografici si può consultare Madeleine Hallade, Arts de l’Asie Ancienne. Thèmes et Motifs, I. L’Inde, puf, Paris 1954.

Tirthankara, «Costruttore di guadi», owero Jina, «Vincitore» (categoria suprema del jainismo). Svolge all’interno del jainismo un ruolo analogo a quello del Buddha nel buddhismo. Viene rappresentato in modo analogo. Alcuni vengono raffigurati nudi. Re cakravartin. Rappresentato come un monarca adorno di gioielli. Molti segni di bellezza sono in comune con quelli propri agli dèi. Rama e Krspa, avatara di Vispu, vengono rappresentati come sovrani. Coppie umane. Hanno caratteristiche somatiche meno idealizzate rispetto ai personaggi precedenti. La loro raffigurazione nei templi viene considerata benefica. Yogin e Yogini. Adepti dello yoga, maschi e femmine. Caratteristicamente emaciati, raffigurati in una posizione propria alla loro disciplina. Viva è Signore dello yoga, e in quanto tale viene raffigurato in atto di impartire l’insegnamento. Eroi e santi. Gli rsi (veggenti dell’epoca vedica) sono raffigurati come saggi barbuti. Nell’iconografia seriore, i maestri (guru) sono del pari rappresentati come dotati di barba, ma sotto forma di rinuncianti brahmanici. Divinità del suolo e dell’acqua: Naga e Nagini, geni serpentiformi maschi e femmine, riconoscibili dal cappuccio costituito da teste di cobra che si erge al di sopra del capo. L’iconografia buddhista rappresenta frequentemente il serpente Mucilinda, celebre per avere protetto dalla pioggia il Buddha meditante. Antidei ed esseri maligni: Sono vari e numerosi. Alcuni possono essere molto belli, e condividere tratti comuni a quelli propri agli dèi (per esempio Ravana), ma la loro energia è al servizio del caos. Per questo gli dèi li awersano. Ravana è consi-

Glossario dei termini sanscriti: La trascrizione è quella scientifica del sanscrito, con l’eccezione dei nomi geografici moderni per i quali si è preferito l’uso internazionale (quindi Delhi in luogo di Dilli e simili). Quanto alla pronuncia, le vocali lunghe hanno durata doppia rispetto alle brevi. E ed o sono considerate dittonghi e sono pertanto lunghe. A breve in fine di parola è quasi inavvertita. W e d linguali si pronunciano pressappoco come tr e dd in siciliano; p è la corrispondente nasale linguale. S è sempre sorda, anche se intervocalica; s e v corrispondono alla 5 linguale («bolognese») e alla palatale (come nell’italiano sciocco). K e g (velari) sono sempre «dure» (come nell’italiano cane e gatto)-, n è la corrispondente nasale velare (come nell’italiano angolo)-, c e j (palatali) sono sempre «dolci» (come nell’italiano cena e gelo)-, ñ è la corrispondente nasale palatale (come nell’italiano gnomo). Y è una i semivocalica come nell’italiano ieri. R è vocale, e si pronuncia pressappoco come ri con una i appena avvertibile. H indica aspirazione sorda in fine di parola. Q nasalizza la vocale che precede. H è la spirante velare sonora; dopo un’occlusiva non è però fonema a sé stante, ma serve solo nella trascrizione a indicare la rispettiva occlusiva aspirata (kh, gh e simili). Le parole sanscrite si accentano convenzionalmente alla latina: piane se la penultima sillaba è lunga, sdrucciole se è breve; tuttavia se la terzultima sillaba è anch’essa breve la parola sarà bisdrucciola. Le finali lunghe danno luogo a parole tronche, con accento poco marcato ed enfasi sulla qualità lunga della vocale finale.

acarya, mastro artigiano

magine o statua

anga, membro o parte del corpo

naga, nagini, serpente maschio e femmina

vilpacarya, mastro architetto, scultore o pittore

anuvyañjana, segno secondario

nataraja, re della danza, epiteto di Viva

vilpavastra, trattato di architettura

bba, radice che significa «brillare», come sostantivo vale «luce, splendore, fulgore»

nateva, signore della danza, epiteto di Viva

vilpin, architetto, scultore, pittore

pata, stoffa di cotone da dipingere o già dipinta

virisa, nome di un albero (Acacia Sirissa)

caitya, cappella buddhista cakravartin, monarca universale

pr, radice che significa «riempire»

sundara, bello

camari, femmina dello yak, la cui coda funge da scacciamosche

puja, servizio liturgico reso a una immagine o a una persóna

svastika, segno benefico

campaka, arbusto fiorito

pradaksina, Circumambulazione

darvan, visione

pratima. immagine cultuale

dharma, Legge, Ordine fondamentale

purapa, antica (storia, racconto)

urna, pelo bianco tra le sopracciglia, segno del Buddha

dharmacakra, Ruota della Legge

raga, ragini, colorazione, modo musicale

usnisa-, protuberanza del cranio

dharmacakramudra, gesto della mano che indica la messa in moto della Ruota della Legge, compiuto dal Buddha dhyana-, meditazione, concentrazione su di un oggetto

rupa, forma, corpo di un oggetto o di una persona

vaidurya-, corindone madreperlaceo

harmika, belvedere jataka, racconto di una vita anteriore del Buddha

vama, (aggettivo) «calmo» samadhi, estasi, meditazione estatica samapada, posizione delle gambe che reggono entrambe il peso del corpo

gopi, pastorella

saqkalpa, facoltà combinatoria, immaginazione, decisione

laksana, ciò che qualifica un oggetto o una persona, tratto fisico caratteristico di un essere vivente, segno annunciatore del destino

saqskrta, (aggettivo) «portato a compimento, compiuto, perfetto»

linga, segno, colonna che rappresenta l’energia di Viva mahaparinirvana, grande estinzione, termine che indica la morte del Buddha mahapurusa, uomo eminente mantra, formula verbale carica di energia murti, forma sensibile, manifestazione, im-

viva, benefico

upanga, membro secondario o parte del corpo

vastuvãstra, trattatistica dell’ubicazione degli edifici, uno dei nomi dell’architettura vastuvidya, scienza dell’ubicazione degli edifici, uno dei nomi dell’architettura vedi, l’altare sacrificale formato da un tappeto di erbe vihara, monastero

samudrika, scienza della divinazione tramite i segni corporei

vyaktavyakta, manifesto e immanifesto (a un tempo); si dice di una forma nel momento della sua fioritura

vanta, (aggettivo) «quieto»

vyama, braccio, misura di lunghezza

vanti, quiete

yantra, barriera, tutto ciò che racchiude

satkara, trattamento onorifico

yoga, disciplina, tecnica psicosomatica di concentrazione e meditazione

vilpa, architettura, arti plastiche che comprendono la costruzione, la produzione di immagini e dipinti

yogin, praticante dello yoga come via spirituale alla liberazione

abhayamudra, gesto della mano volto a rassicurare abhiseka, consacrazione reale

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Riferimenti iconografici

TAVOLE IN BIANCO E NERO

TAVOLE A COLORI

Archivio Jaca Book: pag. 19 (immagini 26, 27); pag. 28 (immagini 40, 41, 42, 43, 44, 45); pag. 42.

Alamy Stock Photo/Peter Horree: pag. 71 (tav. 2).

Jean-Louis Nou, Paris: pag. 16 (immagine 24); pag. 32 (immagine 50); pag. 55 (immagine 80). Archivio Michel Delahoutre: pag. 13; pag. 14 (immagini 9, 10); pag. 15; pag. 16 (immagini 21, 22, 23); pag. 25; pag. 32 (immagini 46, 47, 48, 49); pag. 36; pag. 39; pag. 43; pag. 54 (immagini 76, 77, 78); pag. 55 (immagini 83, 84); pag. 210; pag. 214. Shutterstock: pag. 14 (immagine 11 Abhishek Sah Photography); pag. 16 (immagine 25 Igor Dymov); pag. 19 (immagine 28 Avigator Fortuner, 30 Rafal Chicawa, 31 Magic Earth Photography, 32 Phuong Nguyen); pag. 28 (immagine 38 Prasanta Biswas, 39 Shivram). The Board of Trustees of the Victoria & Albert Museum: pag. 54 (immagine 79); pag. 55 (immagini 81, 82); pag. 211 (immagine 89). Staatliche Museum zu Berline Preusseischen Kulturbeistz Museum: pag. 211 (immagini 90, 91).

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Archivio Jaca Book: pag. 70; pag. 81; pag. 92; pag. 94, 95; pag. 99; pag. 121; pagg. 129, 130, 131; pag. 137 (Mirelle Vautier;); pagg. 138, 139, 140; pagg. 142, 143, 144, 145; pag. 150; pag. 153; pag. 159; pag. 170, 171, 172, 173, 174; pag. 180; pag. 192; pag. 194; pag. 198; pagg. 200-204. Jean-Louis Nou: pagg. 102-105; pagg. 108-109; pag. 199. Shutterstock: pagg. 72-73 Abir Roy Barman; pag. 74 Henning Marquardt; pag. 75, 76, 77 Rafal Cichawa; pag. 78 S. Thiru; pag. 79 Elena Vasta; pag. 80 Matyas Rehak; pagg. 82-83 Satish Parashar; pag. 86-87 Saiko; pag. 88 Leo Daphne; pag. 89 Leochen66; pag. 90 Tara Shankar Snai; pag. 91 SurabhiArtss; pag. 93 Niazuddin Nawaz; pag. 96 SurabhiArtss; pag. 97 Igor Dymov; pag. 98 Satish Parashar; pag. 106-107 Jayeshpt; pag. 110 W. Namket; pag. 111 Saiko; pagg. 112-113 Imagedb; pagg. 116117 MisterStock; pag. 118 Romtea; pag. 119 Matyas Rehak; pag. 120 Leonid Andronov; pag. 122 Saiko; pag. 123 Matyas Rehak; pag. 124 Satish Parashar; pag. 125 Jeremy Richards; pagg. 132133 Viacheslav Misiurin; pagg. 134-135 Khoroshunova Olga; pag. 136 Adel Newman; pag. 141 Scott Biales DitchTheMap; pagg. 148-149 Bagus Nuraditya; pag. 151 Stefano Ember; pag. 152 Perfect Lazybones; pag. 154 Scott Biales DitchTheMap; pag. 155. Uwe Ararnas; pag. 156-157 Amadeustx; pag. 158 Edography; pagg. 160-161 Aleksandar Todorovic; pagg. 164-165 Johan Kusuma; pag. 166 Irawan Taruno; pag. 167 Saiko; pag. 168 Dmitry Rukhlenko; pag. 169 Milosk50; pag. 175 Prasanta Biswas; pgg. 178-179 Filip Fuxa; pag. 181 The Bun Wangs; pag. 182 Karasev Victor; pag. 183 Pixel B.; pagg. 184-185 Flying Zel; pag. 186 Apichat Khunraj; pag. 187 John And Penny; pagg. 188189 Cesare Palma; pag. 190 Bunphot Phairot; pag. 191 DDCoral; pag. 193 Patty Bot; pag. 194 Maneerat Shottiyanpitak (immagini 98, 99), Deejungloei (immagini 100, 101).



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