GIOCANDO CON DIO ovvero l'Avventure di Titti Miti

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stradina con un paio di ragazzi. Dovemmo camminare un bel pezzo prima di trovare un chai shop. Ci sedemmo e ci servirono una brodaglia calda. Mi guardai intorno: non c’era nulla da mangiare. Nessuno mangiava. Solo si beveva quella roba calda. E io che credevo di star conducendo una coraggiosa vita povera. Shiva mi stava facendo vedere che cos’è la povertà! La gente era magrissima e senza energia. Anche quei bambini tutti occhi e pancione. Che desolazione, che impotenza... mio Signore pensaci tu! Riprendemmo l’aereo, un piccolo velivolo, con seggiolini duri e scomodi. All’ora del pranzo passarono con un pentolone di riso e lenticchie, cosa che gradii molto più di quei soliti alimenti incelofanati che sembrano finti. Stavamo volando nella stessa direzione del sole, da est verso ovest, così da rendere lunghissimo quel tramonto, tavolozza di luce e colori sulle vette imbiancate dell’Himalaya. L’eccitazione mi invase, mi fiondai nell’abitacolo del pilota. Volevo una visione panoramica dello spettacolo. Il buchetto dell’oblò non mi bastava di certo. Convinsi quell’uomo a tenermi lì con lui. Ero in paradiso. Mai visto nulla del genere. Che montagne, che colossi, che divinità in quel mare di colori solari. La gioia era incontenibile e presi a ridere. Ancora ridevo quando mi trovai davanti ai doganieri al controllo passaporti. Fuori dall’aeroporto scelsi di seguire un ragazzino, che mi voleva portare al suo Hôtel con un taxi. Feci bene ad andare con Dinesh, perché poi divenimmo amici e il suo aiuto fu in futuro per me importantissimo. Posai nella stanzetta il sacco a pelo di piumino da alta quota corredato da guaina in goratex che Guido aveva voluto assolutamente che comprassi, nonostante fosse costosissimo, perché sosteneva avrebbe potuto salvarmi la vita in situazioni difficili sull’Himalaya. Era tutto il mio bagaglio, a parte il tagliaunghie verso cui avevo un attaccamento spaventoso, una maglietta di ricambio, il coltello, le matite colorate e il chilum che mi ero fatta con la terra d’Italia. L’avevo cotto in un forno realizzato scavando nell’argilla una cavità con due aperture nella quale avevo acceso un fuoco. Il chilum era stato avvicinato piano piano alla fonte di calore e infine immerso nella brace per una notte. Ricordo ancora l’emozione al mattino quando smuovevo la cenere per vedere se il mio sacro oggetto aveva retto alla cottura. Lo presi in mano, integro, con un bel colore e un disegno scuro fatto dal fuoco, mi sembrava - 19 -


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