L’intervista Parla Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food _ p.14
La polemica Oggi il sushi è il nuovo cibo tipico milanese? _ p.8
L’approfondimento La Xylella e il suo impatto sul prezzo dell’olio _ p.10
L’inchiesta La cocaina nei container del cibo in Calabria _ p.16
Anno XXII | Numero I | Gennaio 2024 | www.masterx.iulm.it
MasterX Periodico del master in giornalismo dell’Università IULM Facoltà di comunicazione
DIMMI COSA MANGI Clima, criminalità, innovazione: il retrogusto dolceamaro della cucina italiana
la copertina è stata realizzata con l’ia dall-e
COLOPHON
SOMMARIO
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GENNAIO 2024 - N° I - ANNO XXII
Diretto da: DANIELE MANCA (responsabile) Progetto grafico: ADRIANO ATTUS In redazione: Elena Capilupi, Valentina Cappelli, Andrea Carrabino, Umberto Cascone, Filippo Riccardo di Chio, Andrea di Tullio, Christian Leo Dufour, Thomas Fox, Sara Leombruno, Andrea Muzzolon, Alessandra Pellegrino, Matteo Pelliccia, Ivan Torneo, Letizia Triglione, Erica Vailati, Davide Aldrigo, Elena Betti, Elena Cecchetto, Serena Del Fiore, Alessandro Dowlatshahi, Vittoria Giulia Fassola, Alberto Manni, Glenda Veronica Matrecano, Cosimo Mazzotta, Francesca Neri, Tommaso Ponzi, Riccardo Rimondini, Rebecca Saibene, Ettore Saladini, Giulia Spini Registrazione: Tribunale di Milano n.477 del 20/09/2002 Stampa: RS Print Time S.r.l Master in Giornalismo Iulm Direttore strategico: Daniele Manca Coordinatrice organizzativa: Marta Zanichelli Coordinatore didattico: Ugo Savoia Responsabile laboratorio digitale: Paolo Liguori Tutor: Sara Foglieni Docenti: Anthony Adornato (Social media e mobile Journalism) Adriano Attus (Art director e grafica digitale) Federico Badaloni (Architettura dell’informazione) Luca Barnabé (Giornalismo, cinema e spettacolo) Ivan Berni (Storia del giornalismo) Silvia Brasca (Fact checking and Fake news) Federico Calamante (Giornalismo e narrazione) Marco Capovilla (Smartphone photojournalism) Marco Castelnuovo (Social media curation I) Maria Piera Ceci (Giornalismo radiofonico I) Pierluigi Comerio (Idoneità professionale Mario Consani (Deontologia) Cipriana Dall’Orto (Giornalismo periodico) Giovanni Delbecchi (Critica giornalismo Tv) Andrea Delogu (Gestione dell’impresa editoriale) Luca De Vito (Cronaca locale e produzione multimediale) Guido Formigoni (Storia contemporanea) Alessandro Galimberti (Copyright) Paolo Giovannetti (Critica del linguaggio giornalistico) Alessio Lasta (Reportage televisivo) Antonino Luca (Videogiornalismo) Bruno Luverà (Giornalismo Tv) Caterina Malavenda (Diritto e procedura penale) Matteo Marani (Giornalismo sportivo) Anna Meldolesi (Giornalismo scientifico) Alberto Mingardi (Giornalismo e politica) Micaela Nasca (Laboratorio pratica televisiva) Elisa Pasino (Tecniche dell’ufficio stampa) Martina Pennisi (Social media curation I) Aldo Preda (Giornalismo radiofonico II) Davide Preti (Tecniche di montaggio I e II) Roberto Rho (Giornalismo economico Giornalismo quotidiano) Giuseppe Rossi (Diritto dei media) Federica Seneghini (Social Media Curation II) Gabriele Tacchini (Giornalismo d’agenzia) Marta Zanichelli (Publishing digitale) 2
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Editoriale Lasciateci mangiare di Umberto Cascone, Ivan Torneo
Nonna, cucinami un insetto di Elena Capilupi, Alessandra Pellegrino, Matteo Pelliccia
Il sushi? C’è anche alla milanese di Valentina Cappelli, Andrea Muzzolon
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Xylella: una piaga senza cura
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Mango... un agrume?
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di Thomas Fox
di Christian Leo Dufour, Ivan Torneo
«La gastronomia? Noi le diamo un significato» Intervista a Carlo Petrini di Andrea Carrabino
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Cocaina nei container del cibo
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Maremma, i cinghiali!
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Le grane dei quattro formaggi
di Sara Leombruno, Letizia Triglione
di Andrea Di Tullio
di Christian Leo Dufour, Matteo Pelliccia
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Mappa Le materie prime più importate
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Non c’è trippa per piatti
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di Umberto Cascone, Filippo Riccardo di Chio, Erica Vailati
TAM TAM IULM di Alessandro Dowlatshahi, Glenda Veronica Matrecano, Giulia Spini
EDITORIALE
Italiano vero. L’attore Alberto Sordi divora un piatto di spaghetti nella celebre scena del film Un americano a Roma del 1954
Umberto Cascone e Ivan Torneo Master in Giornalismo
LASCIATECI MANGIARE _ A noi italiani potete togliere tutto, ma non il cibo. Potete anche levarci la chitarra di mano, quella dell’italiano “vero” di Toto Cutugno. Dopotutto in quella stessa canzone i riferimenti alla cucina come simbolo di italianità sono costanti: dagli “spaghetti al dente”, al “caffè ristretto”. Inutile nasconderlo: il cibo è l’unica vera costante della cultura italiana. Unisce e divide, riprende la tradizione e si rinnova di continuo. Se siamo ciò che mangiamo, allora l’Italia è davvero un posto vario. Ogni regione – a volte anche ogni provincia – ha una storia che rende unica la sua cucina. E allora, se il cibo permea così tanto le nostre vite, è possibile usarlo per raccontare l’attualità del nostro Paese? I fenomeni di costume, la criminalità, le polemiche, le rivoluzioni, il cambiamento climatico? Secondo noi sì. cosa c’è dietro...
Siamo partiti da una domanda: cosa ci raccontano i cibi che arrivano ogni giorno sulle nostre tavole? Cosa c’è dietro – e anche dentro – quello che mangiamo? Non c’è un’unica risposta. A volte un piatto ci racconta di quanto la globalizzazione sia riuscita a entrare in una cucina conservatrice, a tratti granitica, come la nostra. Altre scopriamo che le ricette, anche quelle più antiche, devono fronteggiare i cambiamenti in atto nel nostro pianeta. E non sempre sopravvivono. E altre ancora di come il cibo possa coprire gli affari della criminalità organizzata. Ma anche il cibo che si racconta e si fa raccontare attra-
verso le opinioni degli esperti. Da coloro che pensano che la battaglia contro i Fast Food sia stata vinta, a chi al contrario è convinto che non esista una vera tradizione italiana. In fondo anche nei nostri piatti più classici c’è più straniero di quanto immaginiamo: dalle materie prime non poi così made in Italy, a nuove colture che fino a qualche anno fa non ci saremmo mai sognati di vedere nel nostro Paese. ... e cosa dentro Nel mondo globalizzato non è solo la cucina a cambiare. Sono anche gli ingredienti a essere coinvolti: alcuni destinati a scomparire, altri che ne prenderanno il posto. Ma anche materie prime a rischio, tra ricette tipiche contraffatte all’estero e virus che potrebbero cancellare intere filiere. Senza sottovalutare la salute, anche del consumatore, con l’abuso di pesticidi in alcune coltivazioni. Smettiamo di essere italiani per un momento: la tecnologia non è solo un pericolo, ma anche un valido alleato. Per far piovere quando non piove, o almeno per far piovere al punto giusto. Tante storie, tante domande. E per ogni risposta escono nuovi quesiti. È anche questo che sta alla base del buon giornalismo: non sai mai dove ti porterà una notizia. E così scopri che dietro alla tradizione c’è anche la “troppa America sui manifesti” di cui cantava Cutugno. In fin dei conti una buona carbonara la puoi mangiare a New York come a Roma… o forse no?
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NONNA, CUCINAMI UN INSETTO
STORIA CULINARIA |
SOCIETÀ
Come siamo passati dal ragù fatto in casa alla farina di grillo? Dalla cucina di mamma al “pronto in 30 secondi” di fast food e supermercati? Di Elena Capilupi e Alessandra Pellegrino _ Dalle osterie ai laboratori, dalla nonna allo scienziato. Ma il “gusto di massa” si impone a partire dal Boom economico. Un processo che parte dal secondo conflitto mondiale. In quel periodo la vita degli italiani era segnata da un rigido razionamento alimentare e dai pasti nelle mense comuni. Il fenomeno è sfruttato in maniera capillare dalle industrie alimentari per creare una vera e propria omologazione dei sapori, inaugurando per la prima volta nel settore l’era della produzione di massa. Aggiornati e adattati nel corso dei secoli, i nostri piatti sono oggi definiti attraverso la locuzione “all’italiana”, il modo preferito dagli stranieri di riferirsi alle pietanze della nostra tradizione. Ma non si tratta di una denominazione tipica, perché l’italiano tende a definire una specialità basandosi sulla provenienza geografica: risotto “alla milanese”, bistecca “fiorentina” e pizza “napoletana”. gli ingredienti
I principali ingredienti della nostra cucina, seppur declinati in diverse forme e consistenze, provengono dal mondo contadino. «La tradizione italiana non è come quella francese che arriva dalla monarchia, ma è una tradizione popolare - spiega Marco Ceriani, esperto di nutrizione e benessere - è legata ai legumi, ai cereali e alle patate, che rappresentano la base di numerosi piatti. Si parla di piatti della tradizione, per riferirsi a quelle pietanze preparate in casa con ingredienti semplici e autoctoni. Le cose sono però cambiate. Ad oggi, queste specialità sono alla portata di tutti e non solo per chi ha il tempo di prepararle: la produzione di massa permette di acquistare una buona lasagna o una torta di mele direttamente al supermercato, tutto preparato con la ricetta tradizionale». L’industrializzazione in campo alimentare ha determinato un aumento della domanda di materie prime e l’offerta, di conseguenza, non è stata in grado di soddisfare la richiesta generale. È stato quindi necessario affidarsi all’importazione estera. «I pizzoccheri della Valtellina sono un cibo tradizionale ma ad oggi la Valtellina non ha grano a sufficienza e quindi si affida all’importazione dall’estero continua Marco Ceriani - il prosciutto crudo di Parma o il San Daniele, sono anche prodotti tipici del nostro Paese. Il maiale per produrli non proviene sempre da quelle zone. Lo stesso discorso lo vive anche per l’olio d’oliva. Paradossalmente è difficile trovarlo al 100% italiano con spremitura a freddo, nonostante sia un prodotto tradizionale: generalmente si trova prodotto in Unione Europea, perlopiù in >
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I PIATTI
Un millennio a tavola con gli italiani A cura di E.C. e A.P. _ La gastronomia ha da sempre accompagnato i grandi cambiamenti storici e culturali in Italia, adattandosi ed evolvendosi alle necessità della società. I piatti della tradizione restano in tutti i ricettari ma hanno partecipato a un percorso di sperimentazione. Le preparazioni culinarie più classiche sono state modernizzate grazie alla partecipazione attiva delle più diverse discipline, prima tra tutte la scienza, in grado di dare nuova vita ai piatti a cui siamo più affezionati.
1. GRANA PADANO
2. RISOTTO
3. PARMIGIANA
Dall’anno 1000 è il formaggio più diffuso. Facile da conservare grazie alla stagionatura, ma anche da tagliare in porzioni. Il Grana Padano deve rispettare dei requisiti fissati da un atto normativo: area e periodo di produzione, forma, dimensioni e modalità di stagionatura.
In età moderna il riso si afferma come cibo popolare in risposta a delle gravi difficoltà alimentari. Nel tempo alla sua immagine di cibo povero si è affiancato un uso più raffinato, come quello dei risotti al Nord, o preparazioni più complesse al Sud con timballi e sartù.
Il nome del piatto viene ricondotto sia a uno dei suoi ingredienti principali, il parmigiano, sia al termine siciliano “parmiciana”. La parola indica le persiane delle finestre. I listelli di legno ricordano le melanzane che compongono gli strati della parmigiana.
5. SUSHI
6. SPIRULINA
7. INSETTI
Ormai divenuto quasi un piatto tipico nella nostra cultura, è apprezzato sia nella sua versione originale giapponese, sia in quella “all’italiana” con ingredienti tradizionali provenienti da ogni regione, come il guanciale, lo zafferano, il tartufo e la verza.
È una biomassa essiccata che si ricava dalla raccolta dell’alga spirulina. Viene considerata un superfood in quanto contribuisce a un maggiore apporto di proteine e sali minerali. Viene venduta sia come integratore siacome ingrediente di biscotti, pasta e barrette.
Protagonisti della dieta umana dalla preistoria, molti popoli li hanno abbandonati una volta scoperta la caccia. Considerati cibo del futuro per le loro proprietà nutritive, grazie al loro gusto e al rispetto della sostenibilità potrebbero presto far capolino sulle nostre tavole.
> Spagna».
vati al freddo non rappresentano garanzia di qualità. «In realtà, da un punto di vista nutrinasce la “tradizione” zionale, non cambia nulla - conferma il dottor Per parlare di tradizione è necessario pren- Ceriani - per preservare i cibi non viene utidere in considerazione anche il concetto di lizzato nessun conservante o acidificante. L’uinnovazione. Ingredienti come il mais, i po- nico vero problema riguarda la volatilità delle modori e le patate, da secoli parte integrante molecole: un prodotto surgelato ha un sapore della “dieta mediterranea”, non sono prodotti meno deciso, ma rimane comunque fresco e di origine italiana. Infatti la nozione di tipi- genuino. In sintesi, l’unica differenza riguarda cità si riferisce sempre più la palatabilità e l’abitudine del alle tecniche di produzione e consumatore». Il nostro Paese “Un prodotto preparazione, sempre meno è ancora uno dei pochi che sui alle aree geografiche di provemenù evidenzia, attraverso surgelato ha nienza dei cibi. degli asterischi, la presenza di un sapore prodotti surgelati nei piatti. gli aiuti tecnologici
meno deciso, ma
Dopo il Boom economico, un scaldare invece di cucinare rimane comunque L’altra innovazione arrivata passaggio evolutivo fondamentale è stata l’introduziofresco e genuino” nelle cucine degli italiani risane sul mercato di due nuovi le agli anni del Boom econoelettrodomestici che hanno mico, è il microonde. La sua cambiato il modo di conservare e cucinare: il nascita non è dovuta a uno chef, ma al fisico congelatore e il forno a microonde. In real- americano Albert Wallace Hull. Le sue ossertà, l’utilizzo del freddo per la conservazione vazioni hanno portato a uno sviluppo inaspetdei piatti risale all’epoca dei romani, quando tato delle ricerche belliche sui radar, realizdurante le calde notti estive venivano porta- zando un apparecchio in grado di emettere ti ghiaccio e neve dalla montagna alla città. onde elettromagnetiche ad altissima frequenMetodo che ancora oggi, anche se in chiave za. Il nuovo elettrodomestico ha dato il via ad moderna, viene utilizzato. Il surgelato è ormai un filone gastronomico diverso rispetto al pasalla portata di tutti. Ma per molti i cibi conser- sato: scaldare diventa importante quasi quanto 66
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cucinare. Una società in continua evoluzione e proiettata verso il futuro richiede una velocità nella preparazione dei pasti che il microonde, a differenza dei fornelli, riesce a soddisfare. E le aziende cominciano ad adattarsi ai nuovi standard, immettendo sul mercato piatti già pronti da gustare dopo essere stati riscaldati, così da avere tutti i cibi della tradizione a portata di microonde. tra ‘80 e ‘90
Un flusso di innovazioni che prosegue fino agli anni Ottanta e Novanta: è il periodo della nascita della cucina molecolare. Ha origine in Francia da una serie di studi che mettono insieme l’enogastronomia e la chimica. L’idea di base è fondare la cucina sulla scienza, con tecniche degne di un laboratorio. Lo scienziato Davide Cassi e lo chef Ettore Bocchia descrivono così la nuova tradizione culinaria: «Le nuove tecniche di cottura e preparazione e i nuovi piatti sono studiati e pensati per valorizzare gli ingredienti naturali e le materie prime italiane di qualità. La cucina molecolare italiana è attenta ai valori nutrizionali e al benessere di chi mangia. Realizza i suoi scopi creando nuove texture di ingredienti scelti, studiando le proprietà fisiche e chimiche degli ingredienti e progettando nuove architetture microscopiche». Spesso disprezzata per colpa
STORIA CULINARIA || ARGOMENTO
SOCIETÀ SEZIONE
Dal cibo di stagione a quello spazzatura 4. PIZZA Conosciuta ed emulata in tutto il mondo, in origine senza pomodoro, fu arricchita con olio, formaggio e pesce. L’innovazione ha fatto nascere la versione gourmet, condita con materie pregiatissime. Inoltre è possibile reperirla al reparto surgelati del supermercato.
L’intervista al Dott. Paolo Bassi, biologo nutrizionista e consulente nutrizionale di Milano. Un’esplorazione dei cambiamenti nella dieta italiana nel secondo dopoguerra Di Matteo Pelliccia _
contribuito a questi cambiamenti.
Scopriamo come le raccomandazioni dietetiche si sono adattate agli stili di vita mutati nel tempo.
8. CARNE COLTIVATA La nuova frontiera della nutrizione. Un prodotto animale originato da cellule staminali allevate in laboratorio. Potrebbe essere preferibile da un punto di vista etico non richiedendo l’uccisione di animali, ma in molti sono contrari alla carne non “naturale”.
del pregiudizio che la vede solo come una nuova forma di presentazione dei piatti, in realtà la cucina molecolare è attenta alla sostenibilità e riesce a rendere commestibili degli ingredienti che mai avremmo pensato di ingerire. Come il gelato istantaneo prodotto con azoto liquido a -196°C, o la carta commestibile. nuovi cibi, nuovi sapori
Sono tante le materie prime che fino a qualche anno fa non avremmo mai considerato cibo, eppure la cucina del futuro non vedrà come protagonista le proteine della carne, del pesce o dei latticini ma il “novel food”. Maggiolini, scarafaggi, grilli e cavallette saranno le nuove specialità delle nostre tavole. Alla luce del rapido esaurimento delle risorse naturali, dei cambiamenti climatici e della perdita di biodiversità, dal 2013 l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura ha evidenziato la necessità di rivedere le moderne pratiche della scienza alimentare per aumentare il commercio, il consumo e l’accettazione degli insetti come nuova fonte di cibo. In una cucina di costanti cambiamenti e forti innovazioni, è quindi difficile poter parlare di un’unica tradizione, soprattutto in Italia dove la preparazione di piatti non è soltanto passione e cultura, ma è anche lo strumento di valorizzazione delle proprie produzioni.
C’è stata una transizione verso un’alimentazione più globalizzata? Sì, in passato l’alimentazione era basata su cibi freschi e di stagione, meno trattati e più salutari. Con la modernità e la globalizzazione, la stagionalità è stata meno seguita, conducendo a uno stile alimentare meno salutare, con una crescente presenza di cibi “spazzatura” nei supermercati e una perdita del buon senso nell’alimentazione.
Quali sono stati i principali cambiamenti nella dieta degli italiani nel secondo dopoguerra? Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la dieta italiana ha subito cambiamenti radicali. Cibi come carne, frutta, ortaggi, latte e formaggio hanno cominciato ad apparire più frequentemente sulle tavole, insieme a zuccheri e grassi, portando a un aumento significativo del loro consumo, talvolta fino a sedici volte rispetto al passato. I frigoriferi nelle case hanno introdotto nuovi modi di conservare i cibi e l’accesso a prodotti provenienti da distanze maggiori, con conseguenze qualitative evidenti. Questo ha dato inizio alla fase La percezione della “lunga conservazione”.
della nutrizione
Come si è evoluta l’attenzione alla sostenibilità nelle nostre scelte alimentari? Si è certamente sviluppata una maggiore consapevolezza contro lo spreco di cibo, portando a nuove alternative per ridurlo, ottimizzare le operazioni di cottura e preferire frutta e verdura meno lavorate possibili. Quali sono stati i momenti chiave di questa trasformazione? Eventi chiave come il Boom economico degli anni ‘50 e ‘60, la crisi energetica degli anni ‘70, e l’avvento della globalizzazione negli anni ‘90 hanno determinato cambiamenti degni di nota nella dieta italiana, influenzando consumi e abitudini alimentari.
Come si è evoluta la perceè cambiata zione degli alimenti nella società italiana? nel corso La percezione è cambiata nel degli anni corso degli anni, passando dall’importanza del piaceP.B. re sensoriale all’emergere di una vera e propria scienza, la Sensory Food Science. I gusti sono diventati più personali, influenzati da esperienze positive Come si sono adattate le raccomandazioni o meno. Ma ci sono stati anche cambiamen- dei nutrizionisti al nuovo stile di vita degli ti negativi legati ad abitudini scorrette, come italiani? l’eccesso di zuccheri, sale e condimenti, au- Le raccomandazioni si sono sempre adattate mentando il rischio di patologie come iper- ai mutamenti degli stili di vita nel corso dei tensione e diabete. secoli. Se un tempo l’alimentazione era vista come una scienza per la prevenzione delle Quali fattori hanno influenzato i cam- malattie, nel tempo si è legata sempre più biamenti nella dieta italiana nel periodo all’ostentazione della ricchezza e, infine, ha post-bellico? riacquistato un interesse per la prevenzioIl Boom economico ha giocato un ruolo dav- ne delle malattie croniche. Gli scienziati ora vero significativo. Gli anni ‘50 e ‘60 hanno vi- consigliano di ridurre l’assunzione di grassi, sto un aumento del reddito familiare e l’inizio zuccheri, sale e alcol, promuovendo un’asdel consumismo, con nuove abitudini come il sunzione maggiore di carboidrati complessi e pranzo fuori casa, diventato oggi una consue- fibre per una salute migliore. tudine. L’avvento di nuovi elettrodomestici e l’influenza del modello americano hanno GENNAIO GENNAIO2024 2024
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ARGOMENTO LA POLEMICA
Il sushi? C’è anche alla mi Una rivoluzione culinaria sta investendo la città di Milano, la Lombardia e, per osmosi, l’intero Paese. Molto del sushi preparato da noi non segue i dettami giapponesi, e diventa così un tipo di piatto tutto nuovo Di Valentina Cappelli e Andrea Muzzolon _ Tutti lo sanno, Milano è «sushi e coca». Ovunque in Italia risuonano i versi di Miss Keta, la misteriosa cantante meneghina che ha messo in musica queste ormai leggendarie parole. Eppure, nonostante le ironie degli ultimi anni, il sushi non è propriamente un piatto tipico della cucina lombarda. Perché non cantare «Milano, oss bus e coca», per esempio? amore a prima vista
La cultura gastronomica del capoluogo, per quanto ricca e riconoscibile, si è sempre adeguata alla voglia di sperimentare dei suoi cit-
tadini. Non a caso, a differenza di quanto successo nel centro e sud Italia, le cucine etniche hanno trovato nel capoluogo lombardo terreno fertile fin dagli anni ’70. Proprio a quel periodo risale il primo ristorante giapponese del Belpaese, aperto non a Milano ma a Roma. Il nuovo locale si rivolgeva però ad una clientela unicamente giapponese, sfruttando la presenza dell’ambasciata. Pochi anni dopo, con l’apertura del consolato anche a Milano, ecco sbarcare il primo ristorante nella city. Questa volta, fu amore a prima vista con la città. Del resto, il sushi è proprio “milanese”: è piccolo, è colorato, si mangia in bocconcini senza forchetta e coltello. È bello da vedere, è fashion. È il cibo perfetto per la città della moda. E così, fra gli anni ’90 e 2000, i ristoranti di sushi sono aumentati sempre di più, fino al boom dell’ultimo decennio. importare una tradizione
Tanto che, negli ultimi dieci anni, centinaia di sushi-bar sono spuntati in ogni via della città. All’incirca 500 in tutto il capoluogo lombardo, un numero che supera quello delle trattorie tipiche della tradizione meneghina. Dagli anni della “Milano da bere”, infatti, tutto quello che sapeva di Vecchia Milano è stato accantonato per un salto verso l’esotico e la modernità. In una città che ha lo sguardo fisso al futuro, non c’è da stupirsi che la clien-
Maki alla Madunina
I nuovi piatti tipici di Milano. Da sinistra: uramaki allo zafferano con ossobuco; un altro maki zafferano con ripieno più orientaleggiante; futomaki con cotoletta alla milanese
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tela preferisca mangiare altro rispetto a cassoeula e polenta. Ma se la genuinità del cibo tradizionale è indiscutibile, lo stesso non può dirsi per quello orientale. Tanto che su 500, soltanto 30 dei ristoranti nipponici a Milano sono «autentici». Lo spiega Annalena De Bortoli, coordinatrice dell’Associazione Italiana Ristoratori Giapponesi: «I veri ristoranti utilizzano solo materie prime originali e tecniche tradizionali. Gli ingredienti devono essere di massima qualità. Anche i prodotti che una volta venivano importati, come la salsa di soia e il riso, ora vengono scelti nel mercato europeo rispettando criteri di selezione giapponesi. Vengono poi trattati con tecniche millenarie che ne garantiscono qualità e igiene». un giapponese di facciata
Nonostante il milanese medio tenda ad autodefinirsi un vero esperto in materia di sushi, la diffusione di All you can eat non autentici smentisce questa presunzione. Come spiegato da Annalena De Bortoli, le cause del boom di queste imitazioni vanno ricercate in due fattori: il prezzo e la scarsa conoscenza della cultura nipponica. «Non avendo regole di qualità, sia nell’acquisto degli ingredienti sia nella formazione professionale degli operatori che seguono i trattamenti tradizionali giapponesi, i costi di gestione sono inferiori e si riesce ad offrire un prezzo più accessibile»
LAARGOMENTO POLEMICA |
lanese racconta De Bortoli. Gli italiani sono quindi poco informati sulla tradizione culinaria del Sol Levante. Basti pensare al salmone, il pesce più richiesto nel nostro Paese, raramente consumato crudo in Giappone. Ma non solo: «i ristoranti non autentici spesso non specificano neppure il tipo di pesce bianco che offrono ai clienti. Lo stesso vale per la provenienza dei gamberi, a cui gli italiani non sono così interessati» spiega De Bortoli. pnrr e non solo: le risorse
La poca conoscenza della tradizione giapponese non sembra scoraggiare i milanesi, sempre più innamorati dei piccoli rotolini di pesce e riso. Il capoluogo meneghino si piazza al 12esimo posto della classifica globale tra le città con la più alta concentrazione di amanti del sushi al di fuori del Giappone. A rilevarlo è il rapporto del portale americano Chef’s Pencil. A confermare questa tendenza è anche la popolarità che rolls e nigiri hanno acquisito sui social. Su Instagram, nel 2021, il sushi ha superato il cibo cinese, indiano e italiano come pietanza più condivisa in post e stories. Si piazza ora alle spalle solo di pizza e gelato. Se già nel 2013, ai tempi della canzone di Miss Keta, il sushi era simbolo iconico del glamour milanese, a distanza di 10 anni la tendenza si è riconfermata. In una Milano sempre meno milanese e sempre più cosmopolita.
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I PIATTI
Ricette segrete della cucina lombarda MONDEGHILI Le polpette contadine nate per dare nuova vita agli scarti I Mondeghili, che in altre zone d’Italia verrebbero chiamati semplicemente polpette, sono un piatto tipico della cucina milanese. Già nel 1839 Francesco Cherubini, nel suo Dizionario Milanese-Italiano, li aveva definiti come «specie di polpette fatte con carne frusta, pane, uovo, e simili ingredienti». La ricetta nasce dall’antica cultura contadina di non sprecare nulla. Un metodo gustoso per salvare la carne di manzo avanzata che, trita, viene impastata con salsiccia, salame crudo o mortadella, uova, pane bagnato nel latte, grana padano, aglio e noce moscata. L’impasto viene composto in sfere dalla forma schiacciata, poi impanate e fritte nel burro.
ROSTIN NEGA’A Dalla brace al forno, l’arrostino è meglio annegato «Arrostino annegato»: questa la traduzione italiana del termine milanese Rostin Nega’a. Si tratta della parte del vitello che comprende filetto e controfiletto con il suo pezzo d’osso. La ricetta tradizionale prevede che la carne, dopo una spolverata di farina, venga fritta nel burro insieme a cubetti di pancetta e un rametto profumato di rosmarino. Il tutto viene sfumato con vino bianco, poi la carne viene coperta con del brodo. Una spolverata di sale e pepe e tutto in forno, fino a che l’arrosto diventa incredibilmente tenero. Un tempo, la cottura avveniva in un tegame in rame o in cotto detto stuin, messo direttamente sulla brace del focolare.
LA BUSECCHINA L’autunno lombardo a tavola passa anche dalle castagne Ricetta semplice ma gustosa, la Busecchina è un dolce autunnale della tradizione lombarda. Si tratta di un dessert a base di castagne secche, povero e casalingo ma che per golosità non ha nulla da invidiare a quelli più elaborati. Le nonne milanesi sbucciavano le castagne e le lasciavano in ammollo per tutta la notte, per poi lessarle dolcemente senza bollirle. Erano pronte una volta assorbito quasi tutto il liquido di cottura. Ancora oggi, a preparazione ultimata le castagne vengono versate in una ciotola assieme e poi sommerse di panna liquida.
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SEZIONE ECONOMIA | |
ARGOMENTO PANDEMIE VEGETALI
LE ALTRE REGIONI
LA MINACCIA PUÒ VARCARE LA PUGLIA? Dopo aver compromesso l’intero Salento, la Xylella sta risalendo verso nord. Seppur a velocità ridotta, visto il minor numero di vettori virulenti, degli inverni più freddi e una migliore cura dei terreni. Tra le province di Bari, Brindisi e Taranto si contano almeno 19 Comuni segnati da casi di Xylella. Esiste il rischio concreto che il batterio si sposti in altre regioni dove il clima potrebbe favorirne la diffusione. «Preoccupano Calabria e Sicilia, e anche la Sardegna», commenta il ricercatore del Cnr Donato Boscia. Il pericolo non dipende tanto dalla sputacchina: l’insetto vettore può essere sì trasportato per un paio di chilometri da auto e camion, ma non potrebbe sopravvivere a tratte più lunghe perché ha bisogno di cibarsi continuamente della linfa. Il vero pericolo sta nella movimentazione delle piante contagiate: la prima misura della Commissione europea è stata proprio una limitazione del trasporto di materiale vivaistico dalle zone infette.
Xylella: una piaga senza cura Il “fastidioso” batterio continua a minacciare l’olio della Puglia. Distese di alberi morti, migliaia di agricoltori senza fonti di guadagno. Il contenimento, la ricerca di varietà resistenti. E all’orizzonte nessuna soluzione a lungo termine Di Thomas Fox _ Una strage che non sembra avere fine, proprio nel cuore dell’olivicoltura italiana. Oltre 8mila chilometri quadrati di territorio infetto, il 40% dell’intera superficie regionale. Almeno 21 milioni di piante contagiate, la maggior parte delle quali uccise. E una produzione di olio che, nella stagione 2022-23, è calata del 30% a livello nazionale. Bastano queste poche cifre, diffuse da Coldiretti, per avere un’idea dei danni prodotti agli ulivi pugliesi dalla Xylella fastidiosa. Nomen omen, si direbbe guardando alla devastazione e ai pericoli che porta con sé, per gli agricoltori locali e per l’intera economia della regione. Pericoli rispetto ai quali, purtroppo, non esiste ancora una via d’uscita. Per quanto, negli ultimi anni, il batterio abbia rallentato la sua corsa. 10
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un calo della produzione del 40%, per l’effetto È passato ormai un decennio dalla scoperta congiunto di Xylella, cambiamenti climatici e del primo focolaio, vicino a Gallipoli, il pri- siccità. Cifra che sale al 75% considerando la mo caso al mondo in cui la Xylella colpiva sola provincia di Lecce e che scende al 15% un ulivo. Sembra però che il batterio fosse per quella di Taranto e al 20-25% per Brindisi. sbarcato in Puglia già cinque anni prima, nel Migliaia di agricoltori sono senza reddito da 2008. Diverse pubblicazioni, tra cui quelle del un decennio, sono stati persi oltre cinque mila Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) di posti di lavoro lungo tutta la filiera e numerosi Bari, ipotizzano che sia stato trasportato da frantoi sono stati svenduti a pezzi in Grecia, una pianta ornamentale di caffè in arrivo dal Tunisia e Marocco. centroamerica, probabilmente dal Costa Rica. La perdita complessiva supera il miliardo e Fatto sta che la Xylella – sottospecie pauca – si mezzo di euro, ma potrebbe aumentare con è via via espansa grazie all’azione di un insetto l’ulteriore diffusione del batterio: «Nel nord vettore: la sputacchina. Questa specie si nu- della Puglia c’è la massima concentrazione tre succhiando la linfa grezza della produzione italiana di delle piante: quando punge un olio extravergine di oliva», In Puglia c’è esemplare malato e poi uno ricorda Nicola Di Noia, dila massima sano, ecco che avviene il conrettore di Unaprol, la princitagio. pale organizzazione italiana concentrazione Passando di ulivo in ulivo, la di produttori olivicoli. «Ci della produzione Xylella è andata a ostruire stiamo giocando non solo la i vasi conduttori della linfa produzione, ma anche il pad’olio in Italia grezza, ostacolando il trasportrimonio paesaggistico e turito di acqua e di sali minerali stico. Oggi della Puglia, ma un verso la chioma. Il risultato è stato il dissec- domani di tutta l’Italia e del bacino del Medicamento rapido, e poi la morte di milioni di terraneo». alberi. La sua diffusione su larga scala è stata favo- contenimento ed eradicazione rita da una serie di condizioni, come il clima Le attività messe in campo finora dalle autoottimale, l’ampia presenza dell’insetto vettore rità fitosanitarie hanno cercato soprattutto di e l’impreparazione ad affrontare il fenomeno. rallentare o prevenire l’ulteriore diffusione Oltre alle resistenze della comunità locale, in verso nord. Lungo il fronte dell’epidemia si è molti casi restia ad abbattere piante dall’alto fatto ricorso ad abbattimenti mirati, limitati a valore affettivo ed economico, specie in assen- una fascia larga almeno dieci chilometri: i cinza di adeguato risarcimento. que più estremi della zona infetta, quelli con Devastante l’impatto sull’industria dell’olio gli ultimi avamposti del batterio, e i primi cind’oliva. Solo nel 2023 Coldiretti stima in Puglia que della zona cuscinetto, che per definizione diffusione e danni
ARGOMENTO PANDEMIE VEGETALI |
| SEZIONE ECONOMIA
L’OPINIONE Di T.F. Cibo e legalità
La truffa dell’olio d’oliva contraffatto _
PROBLEMI OLEARI A sinistra un campo di ulivi secolari pugliesi annientato dalla Xylella Fastidiosa: le piante contagiate sono oltre 21 milioni. Sopra una classica bottiglia contente olio extravergine di oliva, indistinguibile dalle varianti contraffatte in circolazione
non è ancora interessata. Nella zona infetta viene fatto solo contenimento, nel senso che le autorità fitosanitarie campionano oltre 200mila piante l’anno e abbattono solo quelle che si rivelano infette. Nella zona cuscinetto il regolamento comunitario impone invece di applicare le misure di eradicazione, che prevedono l’abbattimento non solo della pianta infetta, ma anche di tutte quelle potenzialmente ospiti presenti nel raggio di 50 metri. In alcuni casi, però, la Xylella è andata oltre, come a Monopoli e a Polignano a Mare: tra Regione e Commissione europea è ora in corso una negoziazione per ridisegnare i confini e spostare la fascia cuscinetto e di contenimento un po’ più a nord. A tutto questo si aggiungono poi altre misure: ad esempio quelle di controllo dell’insetto vettore, a cavallo tra zona cuscinetto e zona infetta, che richiedono di arare i campi tra marzo e aprile ed effettuare trattamenti con insetticidi tra maggio e giugno. In tutta la Puglia meridionale è stato inoltre vietato di piantare le specie e le varietà altamente suscettibili alla Xylella. varietà resistenti
Questi interventi hanno sì rallentato la diffusione, ma non sono certo riusciti a risolvere il problema. «Malgrado si conosca come malattia da oltre un secolo e come batterio da una cinquantina d’anni, e malgrado tutti i danni che ha causato negli Stati Uniti, una cura per la Xylella ancora non è nota», racconta Donato Boscia, che da dirigente del Cnr è in prima fila nella ricerca di soluzioni. Tale conclusione è stata confermata per ben due volte dalla stessa Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza
alimentare. «La storia della patologia vegetale», prosegue Boscia, «insegna che la soluzione a lungo termine va trovata nella ricerca, con lo sviluppo di germoplasma resistente». Proprio come accaduto con la fillossera, che aveva distrutto quasi tutta la viticoltura europea. Nel caso della Xylella, sono già state scoperte due varietà di ulivo resistenti, per quanto non propriamente immuni: Leccino e Fs17. Le autorità fitosanitarie ne hanno già autorizzato l’utilizzo per i reimpianti nelle aree infette. Al di là dell’estirpazione coatta per ragioni di quarantena, gli agricoltori hanno commissionato abbattimenti volontari su 3 milioni di alberi, di cui una parte già rimpiazzata: a detta di Boscia, «probabilmente sono 2 milioni». C’è poi il lato della prevenzione, con la Regione che incoraggia e finanzia la sostituzione della chioma degli ulivi monumentali con innesti delle cultivar. Certo, rigenerare l’olivicoltura sulla base di due sole varietà presenta dei pericoli. «Se c’è una quasi monocoltura», sostiene Boscia «quando arriva un’altra calamità fitosanitaria a cui quella varietà risulta suscettibile, siamo punto e a capo». Si ricadrebbe insomma nella stessa situazione della Xylella, la cui diffusione è stata favorita dalla presenza, in Salento, di due sole varietà di ulivo, rivelatesi altamente suscettibili al batterio. Di qui la necessità di nuovi progetti di ricerca per trovare cultivar resistenti. Ma l’operazione richiederà forse alcuni anni. Nel frattempo, la Xylella continuerà a flagellare migliaia di piante. Danneggiando ulteriormente la produzione di olio della Puglia.
Si presenta come extravergine d’oliva italiano, ma non è extravergine, non è d’oliva né tantomeno italiano. Sembra uno scherzo, ma invece è una frode collaudata. Allestita all’oscuro dei consumatori. Milioni di litri di falso prodotto circolano nei bar, nei ristoranti, vengono comprati nei supermercati e usati a tavola. Quello emerso dai test e dalle indagini è un vero e proprio sistema criminale dedito alla manipolazione e al reimbottigliamento fraudolenti. Con guadagni paragonabili a quelli del traffico di cocaina. Il procedimento è semplice: l’olio di semi (di soia o girasole) viene corretto perlopiù con betacarotene (per aromatizzarlo) e clorofilla (per dargli il color giallo-verde). Il prodotto viene illegalmente venduto con l’etichetta “extravergine d’oliva”, richiamandone il sapore e il colore. In alcuni casi viene spacciato per “made in Italy” anche se il materiale di base proviene da Spagna, Grecia e Tunisia. Il prodotto non è nemmeno fatto con le olive e non presenta gli stessi benefici anti-ossidanti e anti-infiammatori. I casi di frode olearia sono numerosi. Uno su tutti, l’operazione “Oro Giallo”, che nel maggio 2019 ha scoperto un’associazione per delinquere che da Cerignola (Foggia) commercializzava il prodotto attraverso tutto il Lazio, buona parte del Nord Italia e soprattutto in Germania. Quattro mesi dopo i Nas di Firenze hanno documentato un flusso di ben 50 tonnellate, di cui 16 sequestrate. C’è poi l’episodio del 4 dicembre 2023: 11 persone, fra Spagna e Italia, sono state accusate di aver venduto oltre 260 mila litri d’olio spacciandolo per un prodotto di alta qualità, quando in realtà si trattava di un extravergine contraffatto e pertanto non idoneo alla commercializzazione insieme agli altri. Insomma, le indagini proseguono, così come gli esami in laboratorio. Le bottiglie sigillate sono indistinguibili all’occhio di un consumatore inesperto. Per questo motivo è fondamentale il lavoro costante dei Nas e delle autorità competenti. Ma molte di queste bottiglie le abbiamo inconsapevolmente già consumate. Oppure sono ancora sulle nostre tavole, nei ristoranti di ogni categoria, e perfino sugli scaffali di molte grandi catene di supermercati. GENNAIO 2024
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ARGOMENTO | | NUOVE COLTURE
Mango... un agrume? Più mango e avocado, meno limoni e arance. La Sicilia ma anche la Calabria e la Puglia - sta cambiando le colture per far fronte al cambiamento climatico Di Ivan Torneo _ A dicembre è iniziata la raccolta dell’avocado, mentre lo scorso settembre c’è stata quella del mango. No, non stiamo parlando di qualche isola caraibica o di una sperduta pianura del sud-est asiatico. Da qualche anno esiste una vera e propria filiera del mango e dell’avocado siciliano. Con i cambiamenti climatici in atto, infatti, la Sicilia sta vivendo una piccola rivoluzione agricola che ha come protagonista la frutta tropicale. Una rivoluzione che, secondo Coldiretti, negli ultimi 15 anni ha visto diminuire del 31% i terreni coltivati ad arance nell’isola, del 18% quelli dedicati ai mandarini e addirittura del 50% la superficie coltivata a limoni. «È una scommessa in corso», secondo Sergio Mazzara, direttore commerciale della Campisi Italia, società agricola che cura circa 500 ettari di limoneti e che ha fiutato un possibile cambio di rotta. «Abbiamo piantato all’incirca 30 ettari di avocado, e dai test quello siciliano è risultato eccellente a livello organolettico». Insomma un frutto «buonissimo da mangiare», ma anche sano. non solo avocado
Al posto degli agrumi stanno crescendo le piantagioni di avocado, ma anche di mango. Tutte coltivazioni triplicate negli ultimi 5 anni e arrivate a superare i mille ettari complessivi – sempre secondo Coldiretti – tra Sicilia, Puglia e Calabria. D’altronde le temperature autunnali e invernali sempre più miti consentono di far crescere in maniera naturale le piante tipiche della fascia tropicale. A ciò si unisce un maggiore ritorno economico che rende queste produzioni mediamente più remunerative rispetto ai classici frutti siculi. «Si tratta di prodotti che possiamo vendere anche a più di cinque euro al chilo» spiega Salvatore Passanisi, fondatore di Etna Mango, realtà agricola specializzata nella coltivazione e commercializzazione di frutta esotica. Etna Mango raccoglie 43 aziende impegnate nel settore della frutta tropicale, con nove che coltivano mango su una superficie totale di circa 25 ettari.
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frutta esotica e made in italy
Il mango made in Italy sta conquistando il mercato del nord Italia e le maggiori insegne della grande distribuzione. Una quotazione soddisfacente per Passanisi, che permette di competere con il mango spagnolo nonostante una minore produzione. «La Spagna è sempre più votata alla quantità», spiega Mazzara, «mentre il nostro prodotto si concentra sulla qualità». Qualità che si riflette anche sulla catena logistica. L’avocado, ad esempio «va consegnato in 48 ore, mentre quello che vediamo nei supermercati può arrivare ad avere fino a 28 giorni». Nonostante il successo della frutta esotica, Passanisi mette in guardia: non è tutto oro ciò che luccica. I prezzi non sono sempre premianti e la crisi economica condiziona i consumi. Sarà fondamentale puntare sull’origine italiana e sulla qualità. Due fattori strategici per redistribuire più valore possibile alle imprese agricole siciliane. tra clima e sostenibilità
Uno dei problemi di questi esperimenti riguarda i cosiddetti picchi climatici, gli eventi metereologici intensi che danneggiano le piantagioni. «L’avocado ha bisogno di un clima altamente umido, caldo e allo stesso tempo mite», spiega Mazzara. E sulla questione dell’elevato consumo di acqua è molto chiaro: «Il bisogno d’acqua c’è, ma la richiesta non è eccessiva per le nostre terre e anzi – rincara – è più fattibile coltivare qui, in termini di riserve idriche, rispetto alla Spagna o ad altre regioni dell’Europa del sud».
Un cambiamento che, dunque, porta con sé nuove problematiche dal punto di vista della sostenibilità. Le problematiche sono risolvibili anche grazie alle nuove tecnologie che in questi anni si stanno sviluppando al servizio di un’agricoltura più attenta ai consumi (ma anche al costo delle materie prime). Ad esempio i 30 ettari piantati dalla Campisi Italia riducono i rischi dei picchi climatici e il consumo d’acqua con lo stesso metodo. Da qualche anno per questo genere di piantagioni si costruiscono enormi reti protettive che riparano le piante esotiche – ma anche alcuni agrumeti – da eventuali grandinate, venti forti o piogge aggressive. Le reti al tempo stesso riparano gli alberi dal sole più cocente e da alcuni tipi di insetti nocivi. Il costo per la costruzione di queste infrastrutture? Secondo gli intervistati si aggira intorno ai 10mila euro per ettaro. Soluzioni innovative per un clima tutto nuovo. Ma c’è anche chi - in particolare tra gli ambientalisti - lamenta che queste strutture deturpino i paesaggi campestri tipici della Sicilia orientale. Il prezzo del progresso, ma anche di un cambiamento climatico sempre più imprevedibile. Esotiche. A sinistra un avocado, frutto popolare nei toast; a destra un mango, molto più consumato anche grazie ai poke
ARGOMENTO PESTICIDI E CLIMA
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SEZIONE SCIENZA
LA NOVITÀ
Chi semina argento raccoglie Prosecco 1. IL RE DEI VIGNETI Siccità e meteo estremo. Due facce ormai tangibili dei cambiamenti climatici, entrambe nei vigneti. Così come di tutta la filiera basata su questi, che vale all’Italia oltre 8 miliardi di euro annui di export. Re indiscusso in questo campo è il Prosecco, la cui esportazione ha portato nel Bel Paese circa 1,15 miliardi di euro tra gennaio e settembre 2022.
2. ANNUS HORRIBILIS Un successo minacciato quest’anno dall’aridità e dalla grandine che hanno colpito il Veneto, culla delle bollicine. Un aumento globale delle temperature significherebbe perdere oltre la metà delle viti. E danneggerebbe l’economia di intere regioni. Ma sembra esserci più di una soluzione.
3. ARTIGLIERIA CELESTE
Pesticidi. Un agricoltore esegue un trattamento fitosanitario direttamente sul frutto non ancora maturo
Una mela al giorno, ma senza la buccia Le mele del Trentino-Alto Adige sono uno dei prodotti simbolo della regione. Ma attenzione, dietro l’aspetto invitante e salutare si nasconde un uso spesso eccessivo di fitofarmaci
Di Christian Leo Dufour _
La prima è il cannone anti-grandine. Tramite una miscela di gas esplosivo – generalmente acetilene o butano – viene generata un’onda d’urto acustica che frantuma il chicco di ghiaccio e lo fa precipitare sotto forma di pioggia. Un metodo antico e in uso, ma sulla cui efficacia l’Organizzazione Metereologica Mondiale ha qualche dubbio.
4. TEMPESTA D’ARGENTO Decisamente più innovativo è il cloudseeding, la semina delle nuvole. In poche parole, agire sul clima grazie allo spargimento nell’atmosfera di sostanze chimiche nucleanti. Queste generano precipitazioni quando non ci sono o contrastano la formazione della grandine. L’ingrediente segreto è lo ioduro di argento, Unico problema, il costo. Il metodo lo si paga a peso d’oro. Anzi, d’argento.
“Una mela al giorno toglie il medico di torno”. Il vecchio proverbio suona stonato se si pensa ai pesticidi che vengono utilizzati abitualmente nei meleti. La regione leader del settore in Italia è il Trentino-Alto Adige e proprio qui si riscontrano i problemi peggiori, nonostante le coltura sia pubblicizzata come naturale e sostenibile. il caso alto adige
Ad aprile il WWF di Bolzano ha criticato le direttive per la floricoltura integrata in Alto Adige. Nel mirino degli ambientalisti ci sono i fungicidi captano, il ditianon e il fluazinam, l’erbicida erbitox e l’insetticida pyriproxifen. Secondo l’organizzazione, queste sostanze sono «molto tossiche per gli organismi acquatici e sono sospettate di provocare il cancro». Per esempio, il movento (uno degli insetticidi più aggressivi) può provocare una reazione allergica della pelle ed è sospettato di nuocere alla fertilità. Dallo studio “Forbidden Fruit” di Pan Europe è emerso che in Unione Europea negli ultimi otto anni la presenza di prodotti indesiderati nelle mele è aumentata del 53%. L’Alto Adige è la più grande regione frutticola d’Europa. I meleti si estendono su circa 18mila ettari, con una produzione che nel 2021 è stata di circa 935mila tonnellate. La principale area di colti-
vazione è la Val Venosta, con le sue 681 aziende frutticole e 3.124 ettari. Secondo una ricerca dell’Umweltinstitut München relativa al 2017, su un totale di 83 principi attivi utilizzati, 17 dovevano essere sostituiti come deciso dal protocollo Ue di quell’anno. Inoltre, quasi il 90 percento dei trattamenti con pesticidi erano a base di sostanze chimiche di sintesi. Prodotti come il glifosato, classificato dall’Oms come potenzialmente cancerogeno. Uno dei rischi principali è l’effetto cocktail, ossia l’utilizzo di più agenti chimici nello stesso giorno, che aumenta la possibilità di danni a uomo e ambiente. le reazioni della politica
Al fattoquotidiano.it l’assessore all’agricoltura della provincia di Bolzano Arnold Schuler ha contestato lo studio dell’istituto tedesco. «L’industria frutticola altoatesina in oltre 40 anni di produzione integrata ha usato con attenzione i pesticidi e ha cercato alternative», sottolinea Schuler, «nei frutteti non guardiamo solo a quanti parassiti ci sono, ma soprattutto a quanti insetti benefici sono presenti e li favoriamo per ridurre al minimo l’uso di agenti chimici. In Val Venosta, utilizziamo insetticidi che per il 90 percento sono certificati come biologici e per i fungicidi è il 70 percento». Dati che paiono incoraggianti, ma il problema pesticidi in Trentino resta. L’auspicio è che la regione trovi presto una soluzione per ridare splendore alle sue mele. GENNAIO 2024
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INTERVISTA
Di Andrea Carrabino _ Il mondo di oggi va sempre più veloce. E sembra non avere neanche il tempo necessario per riflettere e degustare. Non a caso in Italia, di anno in anno, i fast food stanno conquistando spazi prima dedicati alla ristorazione locale, quella di “una volta”. Il nostro Paese si è di fatto “americanizzato”: McDonald’s ne è un chiaro esempio. La celebre catena di fast food, nata nel 1937 grazie al genio dei due fratelli Dick e Mac McDonald, è ormai una realtà affermata. Basti pensare che fino al 2018 è stata la maggior catena di fast food al mondo per numero di punti vendita. Il primo McDonald’s italiano fu aperto a Bolzano il 15 ottobre 1985. Il secondo, invece, è stato inaugurato il 20 marzo 1986 a Roma, in piazza di Spagna. In quell’occasione, i cittadini romani sollevarono un vero e proprio polverone mediatico. Da un lato, si schierarono orde di indignati, intellettuali, uomini e donne dello spettacolo che volevano difendere il Bel Paese dal cibo spazzatura. Tra le file della fazione opposta, invece, crebbe l’interesse e la curiosità per il fast food. L’operazione fu un successo clamoroso: oggi in Italia si contano quasi 1500 punti vendita. Ma la resistenza ha portato i suoi frutti. E il Piemonte ha guidato la “reconquista”. Le Langhe e il Roero, oltre a ospitare paesaggi patrimonio dell’Unesco, offrono anche prelibatezze ricercate in tutto il mondo. Una su tutte: il tartufo bianco d’Alba. “Il Mozart dei funghi”, come lo definì il grande musicista Gioacchino Rossini, è da sempre considerato il più pregiato. Ma anche il più costoso. È uno dei dieci prodotti culinari più cari del pianeta. Il prezzo si aggira intorno a 5mila euro al chilo, con le pezzature più piccole a 4.500 euro e un prezzo che arriverà a 5.500 euro per i pezzi più grandi. Il picco è stato raggiunto lo scorso anno, quando da Hong Kong due esemplari di circa un chilo sono stati venduti a 184mila euro. Ogni autunno ad Alba, in Piemonte, si svolge la Fiera internazionale del tartufo bianco. «Il luogo ideale», si legge sul sito dell’evento, «per apprezzare e acquistare il meglio dei tartufi provenienti dai boschi di Langhe, Roero e Monferrato».
Carlo Petrini Fondatore di Slow Food
«LA GASTRONOMIA? NOI LE DIAMO UN SIGNIFICATO. ANCHE PER QUESTO SIAMO ARRIVATI IN 126 PAESI» 14
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Proprio dalle terre dei partigiani è nata la resistenza al fenomeno dei fast food. Più di 30 anni fa venne fondata Slow Food, grazie a una brillante iniziativa di un gruppo di amici piemontesi. Si tratta di un’organizzazione «impegnata a promuovere il diritto al piacere e a un cibo buono, pulito e giusto per tutti, come parte della ricerca della prosperità e della felicità per l’umanità attuale e futura e per l’intera rete del vivente», si legge sul sito della fondazione. Sin dalla stesura del Manifesto nel 1987, Slow Food ha lavorato per dare il giusto valore al cibo, praticando e diffondendo il rispetto verso chi lo produce in armonia con ambiente ed ecosistemi, grazie ai saperi di cui sono custodi territori e tradizioni locali. La guerra ai fast food è stata guidata – e vinta – da un piemontese doc: Carlo Petrini. Sociologo, giornalista, gastronomo e fondatore di Slow Food, ha saputo salvaguardare il nostro patrimonio culinario a rischio di estinzione. La tecnica è geniale: una perfetta sintesi tra tradizione e innovazione. Come sottolinea lo stesso Petrini: «Se una tradizione non è in grado di rinnovarsi, muore». Ed ecco spiegato il motivo del suo continuo attivismo enogastronomico. Il piemontese è infatti l’ideatore di importanti eventi quali Cheese, il Salone del Gusto di Torino e la manifestazione biennale Terra Madre, giunta nel 2018 alla ottava edizione, che si svolge nel capoluogo piemontese in contemporanea al Salone del Gusto.
INTERVISTA
Ma l’impegno culinario non è l’unico interesse di Petrini. Il fondatore di Slow Food è anche uno dei più importanti attivisti contro il cambiamento climatico. Tanto da essere stato inserito dal quotidiano inglese The Guardian tra le 50 persone che potrebbero salvare il nostro pianeta. E sembra aver plasmato la sua creatura a propria immagine e somiglianza. «Con piena consapevolezza delle crisi climatica e ambientale e delle loro conseguenze a livello economico, sociale, sanitario – si legge sul sito della fondazione – Slow Food oggi agisce attraverso i propri progetti e le proprie reti, invitando tutti a dare un segnale di speranza e a fare una scelta di benessere individuale e collettivo: stare bene noi, per stare meglio insieme a chi ci sta vicino, le persone ma anche gli altri esseri viventi. Avere un approccio rispettoso e resiliente per l’ecosistema migliora prima di tutto la qualità della nostra vita e di chi ci sta intorno. È questo – conclude la nota ufficiale – il nostro modo di dare un contributo per migliorare il futuro». Nel 1986 fonda Slow Food... No, nel 1986 abbiamo fondato Arcigola. Slow Food nasce a Parigi, il 10 dicembre 1989. Gli elementi si basavano sul fatto che McDonald’s voleva aprire un suo punto vendita a Roma, in Piazza di Spagna. E ci fu una reazione romana molto forte. In base a questa situazione, un gruppo di amici in un’osteria delle Langhe inventò Slow Food. Il Manifesto lo scrisse Folco Portinari, lo presentammo a Parigi e lì c’erano già 19 delegazioni del mondo.
antropologia culturale, eccetera. Altre 17 Università hanno aperto questa facoltà, ma la nostra è quella originale. Anzi, sono contento che la nostra iniziativa sia da esempio per altri, perché quando un’idea è giusta bisogna continuare a seguirla. E, in questo modo, diventa ancora più stimolante. Nello stesso anno fondate anche Terra Madre: di che si tratta? Terra Madre è la riunione di quelle che noi chiamiamo “Comunità del cibo”: agricoltori, pescatori, organizzatori, trasformatori, eccetera. Siamo arrivati in 126 Paesi. La nostra presenza dà un significato alla scienza gastronomica perché anche nel resto del mondo si possono scoprire peculiarità straordinarie. Globalizzazione permettendo. Come si combatte la rapida avanzata dei fast food? Inizialmente il problema era ridare orgoglio e coscienza alla nostra storia, alla nostra memoria. Credo che questa battaglia sia già stata vinta. Questo non significa che debba scomparire il McDonald’s. Il nostro aspetto di salvaguardia del patrimonio inizialmente era visto come una cosa nostalgica, un forma di conservatorismo. Poi come elitismo. Ma oggi non esiste un paese in Italia che non sia orgoglioso del proprio territorio e della propria cucina. Vedi il porro di Cervere, la salsiccia di Bra o il tartufo bianco d’Alba. Quindi, abbiamo già vinto.
Slow Food nasce
Come ci si districa fra tradizione e innovazione? Nel mondo di oggi ci si deve per forza schierare. Una via di mezzo non esiste: o sei per la tradizione o per l’innovazione. È una stupidaggine, perché in campo alimentare agiscono in modo dialettico. Un’innovazione può essere benissimo una tradizione ben riuscita. E noi siamo il perfetto esempio. Se una tradizione non ha capacità di rinnovarsi, muore.
Perché proprio a Parigi? nel 1989 contro Perché era durante il bicentenario della il primo locale Rivoluzione francese, che segnò la nascita della ristorazione moderna. Prima del McDonald’s a Roma, 1789 c’erano solo le locande di posta, le in piazza di Spagna taverne, ma non la ristorazione borghese. Parigi diventò così l’emblema di questa ricarlo petrini voluzione sociologica, perché cambiarono proprio i comportamenti individuali: Quali sono i vostri progetti futuri? cene d’affari, pasti in compagnia, godere del servizio fuori Dobbiamo consolidare l’Università degli Studi Gastronocasa. È uno spazio sociale nuovo. I primi protagonisti di mici di Pollenzo. Stiamo facendo un grande investimento: questa rivoluzione furono proprio i cuochi perché, non abbiamo 4mila metri quadri e stiamo per ristrutturarne lavorando più nelle case dei nobili, si trovarono senza oc- altri 3mila. Vogliamo aumentare il numero degli studenti: cupazione. E furono costretti a reinventarsi. da 450 a 700. E in tre anni vogliamo avere il 60% di iscritti stranieri. L’obiettivo è rendere Pollenzo la più autorevole Cosa sono i presidi Slow Food? tra le facoltà di scienze gastronomiche. Vogliamo essere I presidi sono strettamente collegati ai prodotti. Sono d’ispirazione. Ma anche redigere la storia della gastroforme di tutela e di rigenerazione economica di alcuni nomia mondiale, un’opera imponente perché il rischio è alimenti che, nell’evoluzione produttiva del sistema ali- adottare soltanto un’ottica eurocentrica. mentare, rischiavano di scomparire. Da un lato c’è l’Arca del gusto, la denuncia del prodotto che sta per scompari- Perché volete incrementare il numero degli stranieri? re. Dall’altro ci sono i presidi, delle realtà produttive, che Perché la prima biodiversità è quella culturale. Uno deconsentono il successo del prodotto: sono la reazione che gli elementi distintivi dell’Università di Pollenzo riguarda permette la rigenerazione produttiva. In Italia sono circa proprio i viaggi che devono fare gli studenti. Quest’anno, 378. Il primo che ho realizzato è quello del cappone di per esempio, le destinazioni saranno Kenya, Thailandia, Morozzo, dove ora ci sono allevamenti e macelli. Brasile, Messico ed Ecuador. E che differenza c’è tra presidi e condotte Slow Food? Le condotte sono i nostri comitati territoriali, i luoghi nei quali siamo presenti come associazione. Si sono sviluppate prima in Italia e poi consolidate attorno a 40 delegazioni estere a inizio del nuovo Millennio. In Italia si contano 293 condotte Slow Food. E nel lontano 2004 Slow Food sbarca nel mondo accademico… Sì, con l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, che si basa su una formazione multidisciplinare. È una materia olistica: gastronomia vuol dire conoscere di chimica, fisica, economia, politica, agraria, veterinaria,
E dove vanno? Sono diretti nelle comunità di Terra Madre, vanno a conoscere le realtà sul campo. Non puoi parlare di gastronomia restando seduto sui banchi universitari. Devi andare in giro per il mondo per capire. I nostri ex allievi sono venuti a Pollenzo e hanno visto il mondo. La gastronomia non è filosofia: va studiata anche sul campo.
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Ma c’è anche quello nero. Il mondo dei tartufi si divide in due emisferi variegati di profumi e sapori. Due, infatti, sono le varietà di tartufo: quelli bianchi e quelli neri. Nonostante il tartufo bianco sia quello più pregiato in assoluto, trova in quello nero un degno avversario. Non ne esiste solo un tipo, anzi, solo in Italia sono sette le specie di tartufo nero commestibili, fra cui il tartufo nero “pregiato”. Viene chiamato anche tartufo nero di Norcia e la sua diffusione è piuttosto rara. Nonostante il prezzo del tartufo bianco d’Alba possa raggiungere vette fuori misura – con una forbice di prezzo che si aggira tra i 1.500 e i 3mila euro al chilo, anche il tartufo nero è molto costoso e ricercato: il suo prezzo medio si aggira tra i 500 e i 700 euro al chilo. In cucina si usano in modo diverso: il tartufo bianco va affettato sul piatto ancora caldo, mentre quello nero ha bisogno di qualche grado in più e può essere utilizzato anche parzialmente in cottura (ma senza esagerare) (A. Di Tullio)
CARLO PETRINI Nato a Bra (CN) il 22 giugno 1949. Il 10 dicembre 1989 fonda il Movimento Internazionale Slow Food. Gastronomo, sociologo, scrittore, attivista e giornalista per Repubblica.
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INCHIESTA
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NARCOTRAFFICO
COCAINA nei container del cibo All’ombra del più grande porto italiano la mafia calabrese gestisce un grande giro di droga. E per nasconderne l’odore ricorre agli alimenti Di Sara Leombruno e Letizia Triglione Il porto di Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria, è uno dei più grandi scali commerciali d’Europa, e ogni giorno accoglie migliaia di carichi provenienti da ogni parte del mondo. Ma cibo, indumenti, materiali edili e attrezzature meccaniche sono solo una parte della merce che arriva quotidianamente. La Guardia di Finanza, in collaborazione con l’Agenzia delle dogane e monopoli, gioca un ruolo fondamentale nell’intercettazione dei carichi di droga che arrivano soprattutto dal Brasile e dall’Ecuador. Secondo la relazione annuale del 2023 della Direzione centrale per i servizi antidroga (Dcsa), nel 2022 sono 75 le tonnellate di sostanze stupefacenti sequestrate dalla forze di polizia. Nel risultato, il sesto più alto nell’ultimo decennio, è la Calabria a emergere nel Paese, con ben 19.460 chili di droga sequestrati. Ciò soprattutto grazie ai sequestri di cocaina a Gioia Tauro, per un totale di oltre 16 tonnellate. Ma cosa succede nel porto di Gioia Tauro tutti i giorni? E come funziona il traffico di stupefacenti? come funziona il controllo dei container?
Sulle banchine, il controllo viene effettuato in base a uno studio di dati incrociati: da un lato vengono analizzati gli spostamenti dei carichi relativi ad aziende ritenute a rischio, dall’altro si presta attenzione alla merce più adatta a occultare la sostanza stupefacente importata. Tra gli alimenti che favoriscono il trasporto di cocaina ci sono soprattutto le banane, il caffè e cibi surgelati, molto spesso prodotti ittici. Non a caso, tutti questi alimenti provengono maggiormente dal Sud America, in particolare dai porti dell’Ecuador e del Brasile. Proprio su questi territori, nei quali si registra la più alta produzione di cocaina nel mondo, la criminalità organizzata calabrese esercita un’influenza sul commercio di droghe, vantando rapporti 16
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commerciali diretti con i produttori locali. Una volta individuati i container che potrebbero risultare a rischio, si procede all’ispezione della merce, che viene effettuata dai militari della Guardia di Finanza e dall’Agenzia delle dogane e monopoli, operante all’interno del porto. Il contenitore viene trasportato all’interno di aree dedicate, dove gli operatori procedono all’apertura. i risultati delle perquisizioni
Una volta rimossi i sigilli di sicurezza, la merce viene controllata dalle unità cinofile, che ne verificano il contenuto. Quando il carico risulta positivo alla presenza di droga, il container viene posto sotto sequestro d’iniziativa: sarà compito della Gdf e dell’Adm comunicare subito all’autorità giudiziaria competente quanto rinvenuto, in modo da convalidare l’ordinanza di sequestro. L’iter del controllo dei container ha portato, negli ultimi anni, a risultati notevoli: come definito nell’ultimo report della Dcsa, solo nel 2022 nel porto di Gioia Tauro si è concentrato l’80,5% dei sequestri di cocaina effettuati alla frontiera marittima, con un’incidenza del 61,7% sul totale nazionale. l’iter per lo smaltimento della droga sequestrata
Quando il sequestro viene convalidato, si passa all’accertamento della purezza della cocaina attraverso un NarcoCheck ID-Test, conosciuto comunemente come drop test e realizzato in laboratori appositi: una piccola quantità della sostanza viene aggiunta a una soluzione preparata in precedenza, che cambierà colorazione in base al grado di purezza. Una volta terminati i test, la droga viene trasferita in un deposito creato ad hoc, sorvegliato in modo costante dai militari, o nell’Ufficio Corpi di Reato, che si occupa della gestione dei beni sequestrati. Una volta verificati i risultati del test di >
NARCOTRAFFICO LA CACCIA
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NARCOTRAFFICO
> purezza, l’autorità giudiziaria competente ne ordina la distruzione. La cocaina viene quindi ricontrollata per certificare che il contenuto non sia stato sostituito. A questo punto si procede allo smaltimento nell’inceneritore di Gioia Tauro, alla presenza del giudice, degli avvocati, della polizia giudiziaria e, nei casi in cui ne sia fatta richiesta, anche degli imputati, dei loro familiari e dei giornalisti. che succede se un agente ruba la droga sequestrata?
Prima che questa venga distrutta, il controllo della sostanza stupefacente sequestrata avviene in più fasi e alla presenza di più testimoni. Ciò serve a evitare che qualcuno possa appropriarsene indebitamente. Ma cosa rischia un agente nel caso in cui venga colto ad appropriarsi della droga sequestrata per farne uso personale o per venderla sul mercato nero? Le conseguenze sono notevoli: scatterebbero l’accusa di furto, in base all’articolo 642 del Codice penale (per cui è previsto l’arresto da sei mesi a tre anni) e di abuso d’ufficio, come da articolo 323 del Codice penale (reclusione da uno a quattro anni). Senza dimenticare, nel caso di rivendita, l’accusa di spaccio di stupefacenti con reclusione fino a 20 anni nel caso di droghe pesanti. Alle conseguenze penali, si aggiungerebbero anche quelle disciplinari da parte dell’Ordine di appartenenza.
fondamentali per sfruttare appieno il potenziale dello scalo come risorsa economica per tutta la Calabria. il sequestro record del sedici maggio
Le potenzialità del porto di Gioia Tauro, però, sono state oggetto di interesse anche da parte della criminalità organizzata. Grazie alla sua storica esperienza nel trasporto di cocaina dal Sud America, la ‘ndrangheta si è affermata come una delle più influenti organizzazioni criminali nel narcotraffico globale, e lo scalo gioiese rimane un punto cruciale per il flusso della sostanza stupefacente in Europa. L’ultimo maxi sequestro locale da parte della Guardia di Finanza risale al 16 maggio scorso, quando le fiamme gialle hanno scoperto un carico di quasi tre tonnellate di cocaina proveniente dall’Ecuador. Questa quantità di droga avrebbe potuto generare oltre 800 milioni di
Il porto di Gioia Tauro è un punto cruciale per il commercio marittimo italiano ed europeo, posizionato strategicamente nel Mar Mediterraneo. Ogni anno movimenta merci per oltre 3,5 milioni di Teu (twenty-foot equivalent unit, unità di misura che indica un container). La sua costruzione è iniziata nei primi anni ‘70, nell’ambito di un progetto speciale noto come “pacchetto Colombo” per lo sviluppo delle infrastrutture nella provincia. L’opera è stata pensata per placare gli animi dopo la rivolta di Reggio Calabria del 1970, a seguito della quale sono stati destinati fondi significativi per lo sviluppo industriale della regione, inclusa la costruzione di un centro siderurgico nella piana di Gioia Tauro e di altri stabilimenti chimici e meccanici. Il 25 aprile 1975, Giulio Andreotti, allora Ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno, posò la prima pietra del cantiere, commentando piccato la sfiducia dei locali verso le promesse governative, ma assicurando che il progetto sarebbe stato portato a termine. E così fu. Oggi lo scalo conta una superficie complessiva di 620 ettari, di cui 440 destinati al terminal e 180 allo specchio acqueo.
un problema culturale
nuove sfide per il porto di gioia tauro
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Nel corso dell’ispezione sono stati scoperti diversi borsoni nascosti ordinatamente tra le casse contenenti i “panetti”. Inoltre, in precedenti operazioni, sono stati trovati doppi fondi o intercapedini esterne. Questi carici di cocaina, provenienti anch’essi dall’Ecuador, erano destinati a vari porti, sia in Italia che all’estero: tra i punti di arrivo previsti, Croazia, Grecia e Georgia. Per gli investigatori si tratterebbe solo dell’ennesimo caso significativo nel contesto del narcotraffico internazionale, ma non l’ultimo. Il porto di Gioia Tauro è diventato il simbolo di un processo di modernizzazione che non ha portato uno sviluppo effettivo alla regione. La ‘ndrangheta, grazie al suo profondo radicamento nel territorio e al suo crescente accesso a risorse finanziarie, ha acquisito una maggiore capacità di controllo e influenza sia a livello locale che internazionale. Questo contrappone la staticità del porto con la dinamicità dell’organizzazione criminale. Non è la prima volta che i clan influenzano e corrompono le istituzioni amministrative della regione. Oltre all’esempio del porto gioiese, c’è anche quello dell’autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria. Entrambi i progetti sono descritti come grandi infrastrutture strategiche, ma eternamente incomplete, sulle quali la criminalità ha esteso il suo controllo.
commercio nel mediterraneo
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l’ispezione
l’influenza della ‘ndrangheta sul porto
gioia tauro: la storia della porta sud del
Tuttavia, il porto di Gioia Tauro si trova di fronte a sfide significative. La principale è l’integrazione tra l’economia dinamica del terminal e la situazione più stagnante dell’entroterra. Questo richiede un miglioramento delle infrastrutture di trasporto, stradali, ferroviarie e aeree, oltre a un rafforzamento delle strutture imprenditoriali locali. Tali sviluppi sono
euro per i clan criminali. Gli investigatori della Gdf e dell’Agenzia delle dogane e monopoli di Reggio Calabria avevano intercettato la cocaina grazie all’esperienza maturata in anni di indagini. Indagini che hanno portato al rinvenimento delle sostanze all’interno di due container refrigerati provenienti da Guayaquil e destinati all’Armenia. I box, che ufficialmente trasportavano frutta esotica, erano stati utilizzati per eludere i controlli. Tuttavia, in questa occasione specifica, i portelloni sono stati aperti a causa delle numerose tracce sospette che suggerivano la presenza di stupefacenti. Il cane antidroga Joel ha individuato la cocaina in pochi minuti.
Accertamenti. Dall’alto, nelle prime due immagini, i controlli della Guardia di Finanza di Gioia Tauro, con il sequestro di ingenti quantità di cocaina. Essenziale l’aiuto dei cani antidroga. Sotto una vista del porto di Gioia Tauro
Secondo il gip di Catanzaro, la complicità delle grandi imprese nazionali e dei leader delle famiglie mafiose dei territori coinvolti hanno favorito le infiltrazioni negli appalti e nei subappalti per la realizzazione di grandi costruzioni. Le indagini e i processi degli ultimi anni hanno rivelato un’ampia mancanza di collaborazione da parte degli imprenditori con le forze dell’ordine e la magistratura. Gli esempi sono svariati: dal pagamento del pizzo, all’imposizione delle forniture e della manodopera; dall’accettazione dell’estromissione da gare di appalto all’assegnazione dei lavori a imprese riconducibili alle famiglie mafiose. Questo atteggiamento ha permesso alla ‘ndrangheta di esercitare pressioni estorsive sugli impresari, imponendo pagamenti come il pizzo, la fornitura di beni e servizi e la manodopera.
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Maremma, i cinghiali! La filiera della carne di cinghiale non è ancora nata. Ma la Toscana si muove in questa direzione. Obiettivo: controllare la crescita dei capi selvatici Di Andrea Di Tullio _ La stagione invernale entra nel vivo e con i primi freddi non c’è niente di meglio di un piatto fumante di pasta fresca, accompagnata da ragù di cinghiale, per deliziare ogni palato. Questa ricetta è un caposaldo della tradizione toscana. Ma non solo ragù: la regione è famosa per i suoi molti piatti che hanno alla base questo suino selvatico. Il sapore intenso e la lunga tradizione tramandata nei secoli rendono lo spezzatino di cinghiale uno dei piatti più rappresentativi della Toscana. Le ricette incentrate sul cinghiale appenninico sono semplici, ma richiedono pazienza per essere preparate. La carne del suino selvatico è richiesta soprattutto in autunno e in inverno, quando l’animale è più grasso e il suo sapore più intenso. Anche per questo la stagione di caccia agli ungulati comincia nella seconda metà di settembre e termina a fine gennaio. Questa attività venatoria viene praticata un po’ in tutta Italia ma trae le sue antiche origini nel territorio toscano. Proprio in Maremma vive il cinghiale “Maremmano”, più piccolo nelle dimensioni ma noto per la sua forza e resistenza. «l’equilibrio si è rotto e va ristabilito» Per le sue peculiarità il cinghiale si è guadagnato l’appellativo di “Re del Bosco”. Con il suo
grosso grugno, scava nel suolo per nutrirsi di tuberi, rizomi e radici. I segni lasciati dall’animale sono ben evidenti pure sui campi coltivati poiché si nutre anche di grano, mais e orzo. Nel 2021 Regione Toscana ha stimato danni alle colture per 21 milioni di euro. Coldiretti denuncia che l’80% delle perdite agricole provocate dagli animali selvatici sono da imputare ai cinghiali. Sarebbero circa 300mila gli esemplari che vivono nelle campagne toscane, uno ogni 12 persone. Per Luca Gironi di Arci Caccia Toscana questa cifra è generata «in base agli abbattimenti e ad alcuni censimenti, ma è una stima. Di preciso non lo sa nessuno». Fabrizio Filippi, presidente di Coldiretti Toscana, sostiene che «la presenza fuori controllo della popolazione di questa specie costringe gli agricoltori a fare la guardia ai vigneti, ai campi di mais, ai raccolti. Denunciare i danni non può continuare a essere la soluzione al problema così come non possiamo alzare recinti ovunque – prosegue Filippi – è una lotta impari. L’equilibrio si è rotto, non solo nelle campagne, e va ristabilito». Per questo, la giunta Giani ha varato un piano secondo cui, nella stagione venatoria 2023/2024, saranno rimossi quasi 100mila esemplari. La Toscana, dunque, si dirige verso un’attività di caccia ai cinghiali senza precedenti. la toscana capofila della nascente filiera del cinghiale
La carne di cinghiale che troviamo nei supermercati e nella ristorazione proviene in parte dalla caccia e in parte dagli abbattimenti. «Sono due terminologie da non confondere», dice Luca Gironi. A differenza della libera caccia, «gli abbattimenti sono frutto dei piani di controllo organizzati dalla Regione anche durante il periodo della caccia chiusa – chiarisce Gironi – soprattutto vanno a influire in quei
posti dove i cacciatori non possono arrivare perché c’è la vicinanza a strade e case. È necessario personale formato sotto la supervisione degli organi di polizia». La Toscana ha intrapreso già nel 2015 la strada per istituzionalizzare una filiera ufficiale del cinghiale. La regione è stata divisa in 15 Ambiti Territoriali di Caccia (ATC) che hanno dimensioni provinciali oppure sub-provinciali. «Ogni ATC è obbligata a creare dei “centri di sosta”» continua Arci Caccia Toscana, ovvero dei «punti in cui i capi abbattuti possono essere conferiti sia dai cacciatori che dagli organismi di controllo». Una volta arrivati lì, i cinghiali vengono prelevati da una ditta convenzionata e portati in centri di lavorazione autorizzati che li trasformano in carne per il consumo alimentare, per poi distribuirli. la peste suina accelera la nascita della nuova filiera
Una spinta verso la creazione di una filiera strutturata del cinghiale, anche nelle altre regioni, la sta dando il problema della peste suina. Se in Toscana al momento non si sono registrati casi, in altri territori sono già stati attuati molti abbattimenti sia preventivi sia di animali infetti. Con il protocollo emanato dal Ministero della Salute per il contenimento della malattia i punti di stoccaggio hanno acquisito ulteriore importanza: gli animali che vengono portati in questi centri vengono analizzati per rilevare un eventuale caso di peste suina prima di poter ricevere qualunque trattamento. Per questo, «le Regioni si stanno uniformando e i centri di stoccaggio e sosta dei capi stanno nascendo un po’ dappertutto» conclude Luca Gironi.
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Le grane dei quattro form La qualità del caseario made in Italy è spesso compromessa dalla contraffazione. Un mercato che solo negli Usa ci fa perdere 40 miliardi di euro ogni anno. E per ogni chilo di formaggio italiano, negli Stati Uniti se ne producono due falsi Di Christian Leo Dufour e Matteo Pelliccia _ La contraffazione dei formaggi in Italia è una sfida che affligge l’industria casearia. Il nostro Paese è rinomato per la sua ricca tradizione nella produzione di formaggi pregiati, ognuno con caratteristiche uniche legate al territorio, alle tecniche di lavorazione e alle materie prime. Tuttavia, questa reputazione è minacciata dalla pratica della contraffazione, un fenomeno che danneggia non solo l’economia, ma anche l’autenticità e la qualità dei prodotti. Essa si manifesta in diverse modalità, dalla falsificazione dei marchi e delle etichette alle imitazioni dei processi di produzione. Le copie possono riguardare sia formaggi DOP (Denominazione di Origine Protetta) sia prodotti tradizionali locali, replicati con materie prime di qualità inferiore o con l’uso di ingredienti artificiali. Le conseguenze sono molteplici e dannose. La contraffazione colpisce l’economia italiana, impoverendo i produttori legittimi e compromettendo la competitività dell’industria casearia. Inoltre, mina la fiducia dei consumatori, che rischiano di acquistare prodotti di scarsa qualità o addirittura nocivi per la salute. Questo fenomeno alimenta anche una concorrenza sleale, creando disuguaglianze tra i produttori. Le autorità italiane e le organizzazioni di settore adoperano normative più stringenti e hanno istituito consorzi di tutela. I formaggi DOP e IGP (Indicazione Geografica Protetta) sono sottoposti a controlli che garantiscono la conformità ai criteri stabiliti e la salvaguardia dell’autenticità. I consorzi di tutela giocano un ruolo cruciale, collaborando con le autorità per contrastare la produzione e la vendita di prodotti contraffatti. È cruciale pertanto sensibilizzare i consumatori sull’importanza dell’acquisto di formaggi autentici, supportando i produttori legittimi e tutelando i formaggi italiani. La protezione e la promozione dell’autenticità sono una priorità per preservare il patrimonio caseario dell’Italia. 20
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BUFALA L’ha fatto MuMu, la mucca con gli occhi a mandorla! La mozzarella di bufala, formaggio fresco a pasta filata, ha origini nell’Italia meridionale che risalgono all’epoca romana. Leggende attribuiscono la sua creazione a monaci che allevavano bufale. La Campania, in particolare nell’area intorno a Napoli, e il Lazio ne sono le principali regioni produttrici. Le mozzarelle sono rinomate per la qualità, dovuta al clima favorevole. Amata in tutto il mondo per il sapore fresco, la mozzarella di bufala, lavorata con il latte di bufala da cui prende il nome, mantiene le sue caratteristiche uniche. Pur esportata in molti Paesi, resta legata alle radici culturali del Sud Italia. Ma “anche” a quelle, certamente più discutibili, della Cina, dell’Australia e del Giappone.
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CACIOCAVALLO Il formaggio “appeso” tra due continenti Il caciocavallo è un formaggio a pasta filata originario del Sud Italia con radici antiche. Il nome deriva dalla tradizione di appendere le forme di formaggio a due a due su aste di legno, creando un’immagine simile a due “cavalli” legati. Prodotto in Puglia, Basilicata, Molise e Calabria, viene prodotto con latte vaccino o misto di vacca e capra. La lavorazione prevede la foggiatura delle due forme unite, poi viene immerso in salamoia e successivamente stagionato. Spesso consumato grigliato o usato in preparazioni varie, il caciocavallo è un’eccellenza della tradizione casearia del Sud Italia. Il Canada è il Paese in cui questo iconico formaggio viene maggiormante contraffatto, con ingenti danni all’esportazione dell’originale.
CONTRAFFAZIONE FOCUS ARGOMENTO | | SEZIONE
aggi
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FONTINA La Fontina è valdostana, ma c’è chi pensa sia “Tuscan” La Fontina è un formaggio prodotto tutto l’anno in Valle d’Aosta, non certo in Toscana. Si lega al suo territorio, ai suoi pascoli e alle sue mucche. Ha un sapore dolce, una pasta morbida e in bocca risulta fondente. Le forme pesano dai 7,5 ai 12 chili e si presentano con crosta marrone chiaro. I primi produttori furono i monaci nel Medioevo. I cenni più antichi risalgono al 1270, mentre la prima citazione letteraria è del 1477. Il marchio Fontina DOP è registrato in oltre 80 Paesi, ma esistono formaggi che nel nome la richiamano, pur senza possederne le caratteristiche. Le frodi provengono soprattutto da Stati Uniti e Canada, ma, dopo la Francia, l’Italia è la nazione più colpita dai falsi.
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PARMIGIANO Quello americano non è né bello, né gioioso Il Parmigiano Reggiano è prodotto esclusivamente nelle province di Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna a sinistra del fiume Reno e Mantova a destra del Po. La stagionatura minima è di 12 mesi, la più lunga tra tutti i formaggi Dop, ma può invecchiare fino a 24, 36, 40 mesi e oltre. Ogni stagionatura regala sentori differenti che lo rendono unico nella sua versatilità. Le prime testimonianze risalgono al 1200. A livello mondiale, il mercato delle contraffazioni di Parmigiano Reggiano è stimato per un valore di quasi 2 miliardi di dollari. Solo nel 2020, la contraffazione ha causato una perdita di fatturato di 17 miliardi di euro a livello nazionale. Tra i maggiori contraffattori, Usa e Cina.
L’OPINIONE Di Andrea Muzzolon Il paradosso degli insetti
Insetti? Anche i nostri nonni li mangiavano Il cracker di grillo sì e il formaggio con i vermi no? Beh, nella Commissione Europea c’è un po’ di confusione, per usare un eufemismo. Del resto, il nostro Paese è stato accusato a più riprese di non voler abbracciare il progresso in campo alimentare, spacciato da alcuni per la farina di grillo e i grissini di locusta. Eppure, a voler fare i pignoli, noi sugli insetti ci siamo arrivati molto prima dell’Ue. Basta infatti fare appello alla tradizione più pura e antica della cucina italiana per trovare un esempio lampante di quello che in Europa definiscono il cibo del futuro. Il casu marzu è infatti un alimento che sfiora la leggenda in Italia: tutti abbiamo sentito parlare, almeno una volta, del famigerato formaggio con i vermi tipico della Sardegna. E, almeno una volta, abbiamo sentito quel brivido lungo la schiena al solo pensiero di mangiare qualcosa che contiene larve vive di mosca. Futuristico, no? Superato il ribrezzo iniziale però, c’è chi giura sia una vera prelibatezza. Il problema è che la commercializzazione è vietata. Le normative europee sugli standard sanitari escludono infatti il casu marzu dalla lista dei cibi legali. Si ritiene che le larve possano causare problemi all’organismo umano e, in più, viene contestata la deposizione incontrollata delle uova da parte delle mosche nelle forme di pecorino. Eppure, qualcuno una soluzione per tutelare un patrimonio della cucina italiana l’ha cercata. L’Università di Sassari ha avviato una ricerca per identificare processi di realizzazione del formaggio usando vermi che salvaguardino in toto tutti gli aspetti legati alle norme igienico-sanitarie. Il casu marzu è stato poi inserito nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani, in modo da poter ottenere alcune deroghe rispetto alla legge vigente che ne vieta produzione e consumo. Non solo: tramite l’iniziativa della Regione Sardegna è stato richiesto all’Unione Europea il marchio DOP per tutelare la denominazione d’origine “casu marzu”, salvaguardandolo dalla pirateria alimentare. Se infatti l’idea di fare aperitivo con i vermi che saltano sulla lingua può non allettare la maggioranza, i tentativi di replica del famigerato formaggio sono tantissimi. E non solo di quello. Esistono decine di versioni regionali di formaggi realizzati sfruttando le larve di insetti, ovviamente tutte fuori legge come il casu marzu. Insomma, se dall’Europa vogliono proprio farci mangiare gli insetti, almeno che ci aiutino a salvaguardare la nostra tradizione. In quel caso, per accompagnare il formaggio, potremmo quasi pensare a un pane carasau con la farina di grillo. Forse.
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LE MATERIE PRIME PIÙ IMPORTATE INDONESIA La sostenibilità arriva dalle palme L’olio di palma è l’olio vegetale più utilizzato al mondo. Quasi del tutto importato dall’Indonesia, nel nostro Paese viene impiegato principalmente nel settore industriale, con solo una piccola percentuale destinata a scopi alimentari. Nonostante i tentativi di boicottaggio, la filiera dell’olio di palma risponde a 7 dei 17 obiettivi di sostenibilità ONU, posizionandosi come l’alternativa più sostenibile tra tutti gli oli vegetali. (V. Fassola) SPAGNA Una cultura dell’olio tutta mediterranea L’olio d’oliva è uno dei prodotti alimentari che maggiormente si associa all’Italia, ma è anche uno dei più importati. Sui nostri scaffali tre bottiglie su quattro
sono di origine straniera. E le percentuali crescono sempre di più: nel 2023 c’è stato un incremento del 20%. In testa ai Paesi che importano in Italia troviamo la Spagna, principale produttore mondiale di olio d’oliva. In aumento gli arrivi dalla Tunisia. (E. Betti) BRASILE La soia è necessaria, ma occhio all’ambiente La soia è uno degli alimenti più importati in Italia, come mangime per animali e anche come materia prima per gli esseri umani. Il nostro Paese acquista soprattutto dal Brasile, che quest’anno ha superato l’Argentina nelle esportazioni
OLTRE IL CIBO Quattro usi originali del caffè 1. Deodorante per il frigorifero. Bastano pochi cucchiaini in un contenitore per eliminare i cattivi odori. 2. Scrub anti-ritenzione idrica. Questa crema home made si ottiene mescolando caffè in polvere e olio di mandorle dolci. 3. Fertilizzante per le piante. Uniti al terriccio, i fondi di caffè sono ottimi per la crescita di azalee, rododendri e mirtilli. 4. Tintura per dipingere. Aroma dell’anima è il titolo della mostra del pittore palestinese Yazan Ghreib. (S. Del Fiore)
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e ha ottenuto il primato mondiale. La sua soia è per il 95% geneticamente modificata, ed è anche una delle cause della deforestazione. (E. Cecchetto) GERMANIA Il maggior produttore di maiale in Europa Se si pensa ai suini italiani, vengono in mente molte eccellenze: Cinta Senese, Maiale Nero dei Nebrodi, Mora Romagnola, Maiale Casertano. Ciò che molti non sanno è che l’Italia, oltre a essere produttore, è anche un grande importatore di carne di maiale. Ogni anno, Roma importa dai 27 Paesi dell’UE più di un milione di tonnellate tra carni e suini vivi.
La nazione leader nel settore è la Germania, seguita da Spagna e Paesi Bassi. (E. Saladini) FRANCIA Scorte estive di bovini La Francia è il più grande esportatore di bovini dell’Unione Europea (23%). La maggior parte dei suoi capi arriva in Italia. Il mercato italiano non dipende unicamente dalle importazioni francesi. Ma nel periodo che va da aprile a giugno l’offerta nazionale è insufficiente ed è necessario assicurarsi una fornitura per quando la domanda sarà maggiore, cioè in inverno. (D. Aldrigo) TURCHIA Pane e pasta sempre più “ottomani” Il grano è un ingrediente insostituibile per la maggior parte dei piatti della cucina italiana. Il fabbisogno di grano si aggira intorno a 39 milioni di tonnellate, di cui 20 importate dall’estero. Nonostante il diffuso calo della produzione di grano mondiale, causato dall’eccezionale siccità di quest’anno, il prezzo ha visto un calo per via delle massicce importazioni provenienti dalla Turchia a prezzi stracciati. Queste sono passate da una quota media del 1,4% del 2022 al 44,5% del 2023. (T. Ponzi)
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LA MODA
AMERICA
Arrosticini, I cereal killer: una New York non usiamo allo spiedo più le posate
UCRAINA Tra le prime scelte in Europa Uno dei cereali più importati in Italia è il mais, utilizzato soprattutto come foraggio per gli animali. Dal punto di vista alimentare è ricco di minerali vitamine essenzialicome l’acido folico, rendendolo un integratore ideale in gravidanza. Dalla sua lavorazione si ottiene l’amido, ottimo alleato per i celiaci. Molto digeribile, è tra i cereali più calorici con 357 kcal ogni 100 g. Prima della guerra il nostro principale fornitore era l’Ucraina, seguita da Ungheria e Slovenia. (R. Saibene)
ECUADOR Il nuovo che avanza In Italia vengono importate circa 777 mila tonnellate di banane all’anno. Il commercio proviene da Ecuador, Colombia e Costa Rica. Nonostante le banane siano uno dei prodotti più importanti per il commercio italiano, l’aspetto negativo è che la loro produzione prevede l’utilizzo di diversi fertilizzanti chimici dannosi per i lavoratori della filiera. Ecco perché è nato in Italia il progetto “AltroMercato”, che si impegna ad utilizzare fertilizzanti biologici per la produzione sostenibile. (F. Neri)
BRASILE Lo zucchero della nostra colazione Quando al mattino mangiamo dolci, cereali e biscotti, consumiamo zucchero senza conoscere davvero la sua provenienza. Il nostro Paese importa il 70% della canna da zucchero necessario al suo fabbisogno, prevalentemente dal Brasile. Il gigante sudamericano è attualmente il più grande produttore ed esportatore di zucchero al mondo, grazie ad una agricoltura sempre più meccanizzata. Nonostante questo, negli ultimi anni si sta cercando di riportarne la produzione nel nostro Paese. (A. Manni)
BRASILE Una miscela non solo sudamericana Oltre 2 miliardi di euro: è il valore stimato per le importazioni di caffè in Italia per il 2022. Lo riportano i dati dell’Unione Italiana FoodCaffè. Di tutto questo caffè, il 93% rappresenta i chicchi verdi che, una volta importati, continuano nel nostro Paese il processo di trasformazione nel comune caffè macinato, quello che consumiamo ogni mattina, nella moka o con il latte. I Paesi produttori da cui l’Italia importa l’80% di caffè verde sono quattro: il Brasile (30%), il Vietnam (22%), l’Uganda (16%) e l’India (10%). (S. Del Fiore)
A cura di Filippo Riccardo di Chio _
A cura di Erica Vailati
Se vi capitasse di passeggiare per Brooklyn, potreste d’un tratto fermarvi stupiti. Un odore noto ha raggiunto le vostre narici. Un profumo di casa che conquista i marciapiedi di New York a partire da un piccolo locale. Sull’insegna si legge “D’Abruzzo NYC”. E dentro si mangia, non a caso, cucina abruzzese. Dalle pizzelle, alle ferratelle, ai caggionetti fino agli immancabili arrosticini. Non ci si fa mancare nulla, e gli americani ne vanno matti. Tanto che il gestore Tommaso Conte ha aperto con enorme successo altre tre sedi. Ma anche un sito di e-commerce che raggiunge ogni angolo degli Stati Uniti grazie a un’Ape made in Italy. Originario di Caramanico Terme, Tom Conte ha il cuore diviso in due: tricolore e a stelle e strisce. È ormai noto come “il re dell’agnello”, anche se la carne per gli arrosticini è di pecora. Le materie prime, per ovvi motivi logistici, non sono originali. Ma se la carne arriva dagli allevamenti del Colorado, la preparazione è rigorosamente abruzzese. Il taglio, la composizione dello spiedino, la leggera salatura e la cottura sulla tradizionale fornacella. Così come il servizio in una brocca di ceramica dipinta a mano. Il costo è elevato, 20 euro per dieci pezzi. L’esperienza, dice chi lo ha provato, ne vale la pena. Nel mezzo dello smog di Manhattan, una boccata di mare Adriatico. Anche se ormai un po’ trendy.
I consumatori, soprattutto giovani, prediligono sempre più i cibi che si possono mangiare con le mani, in macchina o mentre si lavora. La tendenza ha origini lontane, dal breakfast sandwich che gli operai inglesi dell’Ottocento consumavano a inizio giornata mentre si recavano in fabbrica. L’idea era di unire le uova e la pancetta, la tipica colazione anglosassone, a un alimento che li contenesse entrambi, in modo da poter mangiare con le mani. Questo panino giunse anche oltreoceano e un secolo dopo, nel 1971, McDonald’s lanciò sul mercato l’Egg McMuffin, il più iconico breakfast sandwich americano. Oggi, questo prodotto sta sostituendo i tradizionali cereali. Secondo David Portalatin, consulente di ricerca nel campo dell’industria alimentare, il principale punto di forza del panino da colazione è la sua portabilità. Oggi i piatti più sono comodi e meglio è: nessuna stoviglia da lavare, solo un involucro di carta da buttare nel cestino. Questa nuova abitudine alimentare si sta diffondendo a tal punto che, secondo una ricerca di NielsenIQ, tra gennaio e settembre 2023 gli americani hanno speso 2,4 miliardi di dollari in breakfast sandwich, quasi un miliardo in più rispetto al 2019. Non a caso, McDonald’s sta collaborando con Krispy Kane, colosso delle ciambelle e del caffè, per espandere la propria linea fast food per la colazione.
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CULTURA SEZIONE
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TRADIZIONI PERDUTE ARGOMENTO
Non c’è trippa per piatti La cucina della nonna sta sparendo dalle nostre tavole. Perché? Alcuni alimenti non si trovano più. Ma c’entrano anche il nostro palato e la nostra volontà Di Umberto Cascone _ «Oggi ti ho fritto due gianchetti». Parole che sanno di casa per chi è cresciuto in Liguria. I nonni, a tavola, sono la quintessenza della tradizione popolare. E i gianchetti erano la tradizione. Erano, appunto. Perché oggi, a chiederli in pescheria, l’unica risposta che si riceve è «non si possono più vendere». E anche così scompare la cucina degli antenati, quella con cui siamo cresciuti. Ma non è l’unica ragione. i nuovi divieti
Partiamo da loro, i famigerati gianchetti. Inseriti sotto il termine ombrello “novellame”, si tratta di piccoli pesciolini di colore biancastro, a tratti trasparente. Sono davvero piccoli: un centimetro di lunghezza, due millimetri di spessore. Del resto si tratta di animali appena ANTICHI SAPORI. Un piatto di trippa alla genovese con patate, sempre più raro sulle tavole dei liguri nati, la prole di sarde e acciughe. Fino a non molti anni fa erano diffusi in tutta la cucina tipica ligure. Saporitissimi, i gianchetti figude a gradire quei sapori decisi nel momento zione. Quelli che la nonna, che passava la giorravano spesso in frittate, farinate, salse e, soin cui è “addestrato” a riconoscerli. E l’unico nata ai fornelli, creava senza apparente fatica. prattutto, nelle fritture. Una volta impastellati modo per farlo è mangiarli in famiglia, a casa, Prendiamo una delle ricette più diffuse nelle e cotti formavano piccoli ammassi dal gusto sin dall’infanzia. A quel punto diventano la case dei nonni liguri: la trippa alla genovese. deciso e gradevole. Ma dal 2006 una normanormalità. Pensiamoci. Fegato, trippa, rogno- Tra preparazione e cottura servono oltre due tiva europea, recepita dall’Italia come legge ne, cervella: tutte le interiora animali sono ore. Due ore! Nell’economia di una giorna154/2006, ne ha vietato la pesca e il commersempre meno diffuse sulle nostre tavole, pur ta moderna è un tempo infinito. Se a questo cio: troppo elevato il danno ambientale legaavendo avuto per secoli un ruolo da protago- sommiamo la scelta, che tende a scartare alito alla scomparsa di grandi niste. Questo è dovuto soprat- menti più “ostici” come le interiora, si capisce numeri di animali neonati. E tutto alla mancanza di abitu- il perché della graduale scomparsa di questo “Del maiale così la legge ha cancellato di dine. «Mi fa senso», diciamo piatto dalle tavole regionali. O ancora, i pansocolpo tradizioni lunghe di sedando retta alla nostra mente. ti con la salsa di noci. Non sono semplici ravioli non si butta coli. Non è l’unico caso. Il casu Il risultato è che consumere- triangolari di magro: per preparare il ripieno via niente”: marzu, formaggio con i vermi mo di meno quel cibo, e così servono il prebuggiùn e la prescinseua. Il primo sardo; i datteri di mare, molalcune ricette spariranno. Si è un mazzetto di erbe di campo, rigorosamennon ci si poteva luschi simili ai cannolicchi; il potrebbe obiettare che, se ci te selvatiche: l’unico modo per raccoglierle è permettere sanguinaccio napoletano, dolfa “senso” oggi, doveva farcelo andare per prati. La seconda è una versione lice a base di sangue di maiale, anche in passato. Vero, ma con gure dello stracchino, ormai quasi introvabile il contrario ormai quasi dimenticato: la una differenza. “Del maiale in commercio perché usata solo per la pasta materia prima di base è stata non si butta via niente”: non ci ripiena e le torte salate: piatti lunghi da preresa illegale nei primi anni ‘90. si poteva permettere il contrario. Gli alimenti parare, o per cui va bene anche della semplice scarseggiavano, bisognava allevare o coltivare ricotta. Nella mancanza di tempo si inserisce questione di abitudine da sé di che vivere. Tutto andava valorizzato. un altro fenomeno degli ultimi decenni: le gaProprio il sanguinaccio è un caso emblematico Oggi no. Oggi, nell’età dell’abbondanza, pos- stronomie, in crescita costante da diversi anni. della scomparsa di una parte della tradizione siamo permetterci di scegliere. Il format piace: qualcuno cucina al posto tuo. culinaria popolare. Non solo uno degli ingreE proprio nei negozi di quartiere, per fortuna, dienti è diventato illegale. Ad aggravare la sicomodità moderne troviamo l’ultimo baluardo delle tradizioni: i tuazione arriva il cervello, il nostro. Il sangue Allo stesso modo, l’abbondanza deriva da ritmi piatti tipici, ormai in via di estinzione, fanno ha un gusto particolare, non molto delicato. E frenetici: per produrre di più serve lavorare di spesso capolino sui banconi. In fondo cos’è l’idea stessa di “mangiare sangue” genera nelpiù. In una società che corre, in cui il tempo una gastronomia, se non una versione comle nostre menti sensazioni sgradevoli. Eppure libero è sempre meno, le persone tendono a merciale della nonna che, chiusa in cucina tutper secoli non ci sono stati problemi. Perché? perdere la voglia di cucinare. O meglio, di cu- to il giorno, aveva sempre qualche prelibatezPerché eravamo abituati. Il nostro palato tencinare piatti elaborati come quelli della tradi- za tradizionale a cuocere sui fornelli? 24
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GUSTI LIGURI
Pansoti freschi al sugo di noci Non chiamateli ravioli: per i pansoti un ligure potrebbe uccidere. Anzitutto serve una passeggiata in campagna per raccogliere il prebuggiùn, un misto di erbette selvatiche, e la borragine. Si puliscono e si cuociono in acqua salata. Intanto si prepara l’impasto: farina, acqua, vino bianco e sale. Una volta scolate e tritate le erbette si amalgamano con uova, aglio tritato, parmigiano e prescinseua, un formaggio ligure simile allo stracchino. Poi si preparano i “ravioli”: si taglia la sfoglia in triangoli, si mette una nocetta di ripieno al centro e si richiude la pasta. Una volta cotti in acqua salata, i pansoti sono pronti. E l’accompagnamento? Per la tradizione serve la salsa di noci: uno spicchio d’aglio, mollica di pane inzuppata di latte, pinoli, sale grosso e ovviamente le noci sgusciate. Pestate nel mortaio fino a ottenere una salsa omogenea. Un giro d’olio, un cucchiaio di prescinseua ed è tutto pronto. Un piatto semplice, tradizionale e buonissimo. (U. C.)
Invasore. Primo piano di un esemplare di Callinectes sapidus, comunemente noto come granchio blu
Ma il granchio è sempre più blu Le moeche fritte, un piatto della tradizione veneziana, stanno diventando un bene di lusso. Complice la diffusione del granchio blu, che ha trovato nella Laguna un microclima ideale
TRADIZIONE VENETA
Moeche fritte alla veneziana Le moeche fritte sono un piatto semplice, che può essere servito come antipasto o seconda portata. Chi si volesse cimentare nella sua preparazione ha bisogno di pochi ingredienti: 1 kg di moeche (la ricetta originale prevede che siano ancora vive), tre uova, 200 grammi di farina 00, olio di semi di arachide per la frittura, sale e qualche spicchio di limone. Sbattete le uova, poi immergetevi le moeche ancora vive sciacquate e asciugate in precedenza. Lasciatele in ammollo un paio d’ore. Nel frattempo, mettete l’olio in una pentola alta per farlo scaldare fino a una temperatura di 170-180 gradi. Una volta che le moeche sono imbevute per bene, sgocciolatele e proseguite con l’infarinatura e la frittura (3-4 minuti è il tempo consigliato). Fatele scolare e adagiatele su un panno di carta assorbente per togliere l’olio in eccesso. A questo punto, non vi resta che salarle e servirle, accompagnandole con qualche spicchio di limone. (E. V.)
Di Erica Vailati _ Il granchio blu è una specie aliena, cioè introdotta dall’uomo in una zona diversa da quella originaria. Dalle coste atlantiche americane, sbarcò in Europa all’inizio del XX secolo. La sua presenza in Italia è nota dal 1949, ma si è diffuso su larga scala solo negli ultimi dieci anni per effetto dell’aumento delle temperature. Oggi si trova soprattutto nella Laguna di Venezia e nel Delta del Po, dove ha incontrato le condizioni migliori per riprodursi. A causa della sua elevata adattabilità, il granchio blu è tra le specie aliene più invasive del Mediterraneo. A renderlo un pericolo per la biodiversità sono le sue abitudini alimentari: animale onnivoro, si ciba di molluschi, insetti, pesci, alghe e crostacei suoi simili. Può vivere fino a quattro anni ed è in grado di resistere a un ampio range di temperature, dai 5°C ai 35°C, tollerando anche acque ipersaline. A questo si aggiunge l’alta fertilità: un esemplare femmina può deporre fino a 8 milioni di uova. Questa specie provoca un danno non solo ambientale, ma anche economico. Gli allevamenti di vongole ne sono un esempio: per mantenerne uno sono necessarie decine di migliaia di euro, ma si stima che la raccolta del 2023 sia stata fortemente compromessa. A questo si aggiungono i danni all’attrezzatura da pesca, in particolare alle reti.
le moeche, un nuovo cibo di lusso
Il granchio blu mette a rischio anche la cucina locale, che si ritrova a dover fronteggiare la carenza della materia prima alla base dei piatti della tradizione. Tra questi ci sono le moeche, il piccolo granchio verde autoctono della laguna veneziana. Dette anche masanete, la morbidezza è la loro caratteristica distintiva: non a caso, il termine dialettale “moeche” significa letteralmente “morbide”. I periodi migliori per la pesca sono la primavera e l’autunno, quando attraversano la fase della muta e sono in attesa che il carapace si riformi. Sempre meno presenti nelle reti dei pescatori, le moeche sono diventate un lusso per chi mangia a Venezia: negli ultimi anni, il loro prezzo è passato dai 40-50 euro ai 110-120 al chilo. Nonostante la sua proliferazione sia incentivata dal cambiamento climatico, l’arrivo del granchio blu nel Mediterraneo ha a che fare con i trasporti commerciali. Il suo viaggio inizia nei porti, dove le navi mercantili scaricano i container. Per controbilanciare il peso perso, le imbarcazioni prelevano acqua definita “di zavorra” da immagazzinare nelle serpentine. Ricche di nutrienti, creano l’habitat ideale per la crescita delle larve. Giunte nel porto di destinazione, le navi rilasciano le acque di zavorra e, con esse, anche gli organismi formatisi nelle stive durante la traversata. GENNAIO 2024
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ILARGOMENTO GIALLO
Con bacon o guanciale Carbonara: italiana o americana? È una storia vecchia come il cucco. Se non fosse che il piatto romano - che romano non è - nasce solo a metà ‘900 Di Filippo Riccardo di Chio _ Pizza, mafia, mandolino. Tre essenze dell’Italia per chi ci guarda da oltreoceano. E aggiungiamone pure una quarta, la carbonara. E se vi dicessi che questa pasta in realtà è americana? E che la sua prima ricetta viene pubblicata nel 1952 in quel di Chicago, Illinois? Mi aspettereste sotto casa. Forse avreste anche ragione. Per fortuna il mio indirizzo non è (ancora) di pubblico dominio. Come anche quello di Ugo Tognazzi, che ne L’abbuffone illustrava magistralmente la sua “charbounerau”. Uova, bacon, parmigiano, panna e cognac. Una «pasta al cronometro» adattissima ai «palati Yankee». Ma serve mettere un po’ di ordine. A partire dal nome. Per alcuni deriva dai carbonai umbri e dalla loro
“cacio e ova”. Per altri dal colore nero del pepe, che viene fatto diluviare sul piatto. alla romana
1955 per poi consacrarsi dagli anni Sessanta. Ma se vi dicessi che Gualandi nella carbonara ci metteva la panna, la pancetta e il parmigiano? E che nella ricetta del ’54 erano inclusi prezzemolo, aglio e groviera? O che nello stesso anno su Harper’s Bazaar il guanciale è sostituito dalle vongole?
Per la triade capitolina uovo-cacio-guanciale bisogna aspettare almeno la Seconda guerra mondiale. La Roma città aperta che brulica di povertà e – udite, udite – di soldati a stelle e strisce. Unica risorsa le “razioni K” dell’eser- colori e sapori più intensi cito: bacon, uova in polvere e panna liquida. Con il passare degli anni, dall’abbinamento Queste arrivano facilmente nel mercato nero. pancetta-parmigiano si afferma il binomio più E così il piatto nasce con ingredienti illegali, romano guanciale-pecorino. Dalle uova intere in maniera un po’… “carbonara”. Chissà, poi, si passa ai tuorli. E le vongole, come i peperoni se il colpo di genio sia venuto o le cipolle, vengono restituiti alle truppe stesse, con l’obietai loro habitat. L’Urbe inchioLa tradizione tivo di mangiare una spaghetti da la ricetta, la fa solo sua, la non è che breakfast. Oppure, come piarende leggenda popolare. Ci ce pensare al campanilismo monta su una grande narraun’invenzione italiano, al cuoco bolognese zione, che non lascia spazio al riuscita Renato Gualandi. Che – nardiverso. All’ombra del Colosra la leggenda – lo cucinò nel seo apre un nuovo tribunale molto bene settembre del ’44 durante un dell’Inquisizione, contro le incontro tra ufficiali alleati. eresie dei fornelli. Perché senLa fama del piatto si spande rapidamente. tire romana la carbonara significa conficcarci Togliatti e Al Capone visitano Gualandi. La le unghie e i denti, senza spazio per trattative. carbonara fa le sue prime comparse cinemato- Eppure, come sostiene lo storico della gastrografiche. Da Yvonne la Nuit di Totò (1949) a Ca- nomia Massimo Montanari ne Il pregiudizio meriera bella presenza offresi (1951). Diventa poi universale: «La tradizione non è che un’inveninchiostro. La guida dei ristoranti di Chicago zione riuscita particolarmente bene, che molti nel ’52, e La Cucina Italiana nel ’54. Entra in un hanno condiviso». ricettario italiano – La signora in cucina – nel Per questo lo Stivale del Mediterraneo rimane culla di una cultura culinaria inarrivabile. Siamo un vero e proprio mosaico di comuni, prima che di regioni. Ognuno può dire: «Questo piatto l’ho sempre fatto così, quindi si fa così». Ma la ricetta è quella del luogo, o addirittura della nonna. Croce e delizia italica che, parafrasando Orson Welles, ci ha dato i Borgia e Michelangelo. Le ricette sono caos, sono libertà, sono un flusso continuo nel tempo. Se le fissiamo, puntualizza Montanari, «tanto vale non andare all’opera e ascoltare un disco, o mangiare cibi industriali sempre uguali a sé stessi». il dilemma
Trinità. Uova, pecorino, guanciale: gli ingredienti della carbonara “originale”. E non dimenticate il pepe
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Ma quindi la carbonara è americana o italiana? Entrambe, forse. Come per Tognazzi, «un piatto tipicamente italiano creato apposta per l’America». O più italiana, perché dal 1944 l’abbiamo presa in consegna e adottata gelosamente. Ridefinita e fatta nostra, ogni singolo giorno. O forse nessuna dei due, perché se il 6 aprile è ormai il #CarbonaraDay, quel piatto è ormai di tutti. Ognuno se la fa come gli pare. E ancorarsi a un purismo ossessivo è non comprendere che la storia, anche quella gastronomica, si muove alla nostra stessa velocità. Per dirla tutta la carbonara “originale” non è mai esistita. E, anche risalendo alle prime testimonianze… beh, addio guanciale e pecorino. Detto questo, se volete invitarmi per un piatto, niente panna, parmigiano o pancetta. Se per voi è ipocrisia, per me è un reato di lesa maestà. Ma questa, di carbonara, è la mia.
EVENTI | ARGOMENTO
| SEZIONE IULM
EVENTI
Concluso il 33° Noir InFestival A cura di Alessandro Dowlatshahi _
Inaugurazione. Il Rettore Gianni Canova (sinistra) con il creatore di Tam Tam Ugo Nespolo (destra)
TAM TAM IULM
Dal 1 al 7 dicembre Milano ha accolto il più importante Festival dedicato al noir. L’evento, diretto da Giorgio Gosetti, Marina Fabbri e Gianni Canova, è stato promosso dalla Direzione Generale Cinema del MIC, con il sostegno dell’Università IULM, in collaborazione con la Cineteca Italiana, Casa Manzoni e altre associazioni del settore. Patrocinato dal Comune di Milano, il Festival esplora ogni anno il genere attraverso opere di registi, scrittori e narratori. E per l’evento inaugurale l’ospite è stato Daniel Pennac.
Inaugurato il Museo Diffuso della Comunicazione curato dall’artista Ugo Nespolo, che ha ricevuto il Master ad honorem dell’Università IULM per «la sua sapienza nel costruire divertite narrazioni visive» Di Glenda Veronica Matrecano e Giulia Spini _
vrebbe essere inaugurata nella primavera del prossimo anno. master ad honorem
Lunedì 23 ottobre 2023 è stato inaugurato nella hall di IULM 1 TAM TAM, il Museo Diffuso della Comunicazione. Il nome, scelto dal Rettore dell’Università IULM Gianni Canova, deriva dall’opera TAM, Teatro delle Arti Mediali, di Ugo Nespolo e dalla sua ripetizione. All’evento erano presenti, oltre al Rettore, il Presidente del Consiglio di Amministrazione, il professor Giovanni Puglisi. E anche il Preside della Facoltà di Arti e Turismo, il professor Vincenzo Trione, insieme all’Assessore alla Cultura di Regione Lombardia, Francesca Caruso e all’ Assessore alla Cultura del Comune di Milano Tommaso Sacchi. museo universitario
L’obiettivo del lavoro artistico è trasformare il Campus dell’Ateneo in un percorso espositivo aperto a tutti. Sono rappresentate 14 icone della comunicazione: dalla macchina da scrivere, alla chiocciola della posta elettronica per poi passare alle testate dei quotidiani fino alla televisione, alla radio e alla cinepresa. Ma non è tutto: è presente anche una rivisitazione del Pensatore di Rodin. Il museo è stato voluto dal Rettore Canova, in quanto simbolo delle materie insegnate nell’Ateneo. La seconda tappa dell’esposizione, la quale sorgerà all’interno della torre di IULM 6, do-
Durante la presentazione del Museo Diffuso della Comunicazione è stato conferito il Master ad honorem in Management delle Risorse Artistiche e Culturali all’artista Ugo Nespolo. Questa la motivazione del riconoscimento allo scultore biellese: «Tra gli eretici animatori dell’Arte Povera, tra i protagonisti più originali della Pop Art italiana, ma anche cineasta e teorico, tra gli ultimi eredi di quella che è stata definita “avanguardia di massa”. Erede consapevole del futurismo, capace di muoversi su registri, media e territori non contigui (pittura, scultura, grafica, design, cinema, televisione), impegnato a intrecciare, sulle orme di una nobile tradizione novecentesca, l’esperienza del fare con la pratica della scrittura critica, Nespolo – si legge nella nota - ha compiuto continue scorribande tra pratiche e linguaggi, senza mai tradire il suo stile inconfondibile, fondato su cromie luminose e sgargianti, sul rispetto della riconoscibilità, sulla volontà di risolvere ogni figura in una chiave popolare e infantile. Ma, soprattutto, sulla sapienza nel costruire divertite narrazioni visive». L’ Università IULM è già sede di diverse opere d’arte, firmate da artisti del calibro di Pomodoro, Isgrò, Moncada e Rotelli. Queste iniziative aiutano ad aprire l’Ateneo a tutti i cittadini milanesi.
Ospite. Lo scrittore Daniel Pennac
OSPITI
Daniel Pennac in IULM A cura di Alessandro Dowlatshahi _ Il celebre autore francese, premiato con il “Nobel” della narrativa noir dagli organizzatori Marina Fabbri e Giorgio Gosetti, ha riflettuto sul valore della sua disciplina: «La letteratura serve, ma non sappiamo a cosa; semplicemente, a dare senso e significato alla complessità della vita, alle sue ambivalenze». Il libro come casa dei suoi lettori. Una casa che unisce e non divide: «La letteratura ti permette di evadere, ma facendoti al contempo mettere radici, facendole crescere». GENNAIO 2024
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