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I. E venne il tempo

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III. Promesse

III. Promesse

Roma, idi di Majus dell’anno 6811

Il vecchio si svegliò di soprassalto. Sudato e in preda all’agitazione, come ogni volta che quel sogno tornava. Accadeva sempre più spesso, ultimamente. Quella scena lo perseguitava. «Signore…»

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Sentì la voce del servo vicina e preoccupata. Durante il sonno aveva gridato e Kaeso era entrato nella stanza per vedere cosa fosse accaduto.

«Sto bene, era solo quel sogno. Il solito incubo, ma è sempre più vivo e… sempre più doloroso.»

«Succede quasi ogni notte ormai, signore» disse il servo. «Non riposate più.»

L’anziano cieco tese la mano per farsi aiutare e sedette sul letto.

«… si direbbe che il passato torni con insistenza per annunciarmi qualcosa. Forse vuole invitarmi a rompere gli indugi.»

Chiese acqua per lavarsi il viso e lo fece con particolare cura.

«Salvare la memoria e l’onore» mormorò, come se dovesse ricordare a sé stesso un dovere. «Salvare la vita di chi è rimasto» aggiunse. Si asciugò il volto con un panno di lino grezzo e subito dopo ordinò con risolutezza: «Prepara un bagno caldo».

«Padrone» disse il servo «oggi… con tutto il rispetto… non è nessuna delle ricorrenze che voi solitamente celebrate…»

Non si spiegava, Kaeso, quella richiesta inconsueta.

«Fai come ti dico» fu l’unica risposta, dal tono piuttosto deciso.

Il vecchio attese che l’acqua si scaldasse nel caldaio di rame appeso sul focolare, poi si fece aiutare per spogliarsi ed entrare nella tinozza di legno. Kaeso non l’aveva mai visto completamente nudo, in tutti quegli anni. Notò il suo fisico solido, la spalla e il braccio destro più muscolosi rispetto all’altra parte del corpo, come accadeva per gli uomini atti alle armi, segni lievi di antiche ferite e uno strano tatuaggio al centro del petto. Un toro che incornava un cane o qualcosa del genere. Ciò che lo colpì di più era un segno sotto il ginocchio sinistro. Il sangue gli si raggelò nelle vene: era l’inconfondibile callo lasciato dallo schiniere2 indossato dai più feroci tra i guerrieri italici. Il servo deglutì, ma non ebbe il coraggio di proferir parola.

«Non pensare che io sia impazzito» disse l’anziano rialzandosi per asciugarsi «o invecchiato al punto da non ricordare il calendario del mio popolo e le ricorrenze. Ho ancora bene a mente tutte le feste sacre dell’anno, i templi e tutti gli dèi della Tavola.»

S’interruppe. Pensò al sogno e alle ultime, terribili, immagini che i suoi occhi avevano visto.

«La Tavola…» riprese e alzò la testa come per guardare lontano «… è tempo che riveda la luce e che torni al suo posto. Viene un tempo per tutte le cose» disse rivolto a Kaeso «e anche questa volta il giorno è arrivato.»

Fece una pausa, restò assorto nei suoi pensieri.

«Ieri mi hai detto dei falchi» riprese «volteggiavano con insistenza su questa casa. Non è vero?»

«Sì, è così, erano tanti, tutti insieme. E i piccioni fuggivano terrorizzati.»

2 Parastinco in metallo, imbottito di stoffa e pelle e tenuto fermo con stringhe, che nell’armamentario sannita copriva la parte inferiore della sola gamba sinistra, proteggendola fin sotto il ginocchio.

Ancora una pausa.

Infine disse con risolutezza: «Sì, accadrà oggi» e trasse un profondo respiro. «Prendi le forbici e il rasoio» ordinò.

Non era mai accaduto. Da quando lo conosceva – ormai erano quasi otto anni – il vecchio non si era mai tagliato i capelli né la barba, che insieme formavano un’unica foresta bianca e selvaggia, a tratti ingiallita, intorno al viso scavato dalle rughe. Kaeso aveva imparato ad avere rispetto di quel vecchio che Lucio Cornelio Silla, il Dictator in persona, gli aveva ordinato di servire.

«Dovrà vivere il più a lungo possibile sino a che io sarò in vita» gli aveva detto «ma non dovrà lasciare Roma, senza che io lo sappia, pena la tua morte.» E Silla non era uomo da non mantenere certe promesse. Da quel momento lo schiavo si era preso cura di quel vecchio e un funzionario aveva sempre badato a versare quanto bastava per sostenere entrambi. Perciò lo schiavo aveva imparato a vedere nell’anziano la sua rendita vitalizia e gli era rimasto accanto nonostante la morte di Silla, perché, per ordine espresso del senatore Gaio Licinio Verre, il denaro continuava a essere versato regolarmente e l’ordine del Dictator era stato ribadito: se mai il vecchio avesse deciso di lasciare Roma, Kaeso avrebbe dovuto avvertire immediatamente il senatore in persona.

Molti a Roma credevano che il suo assistito fosse un notabile di una qualche tribù non latina, forse un sacerdote, che aveva reso dei servigi a Silla tanto da guadagnarsi il vitalizio dello stato romano, ma nessuno sapeva davvero la verità. Kaeso, pur non conoscendo chi fosse veramente quell’uomo, aveva capito che nel passato doveva essere stato importante fra la sua gente. Italici, certamente, e la lingua osca3 che par- lava lo testimoniava, ma quale delle genti delle montagne? Quel vecchio aveva i tratti e il parlar colto e autorevole di un capo, o di un sacerdote, senza particolari inflessioni.

3 La lingua dei Sanniti. Si definisce osco-umbro-sabello il gruppo linguistico indoeuropeo che comprende la lingua degli antichi Umbri, la lingua osca delle genti di stirpe sannitica e gli idiomi di Sabini, Marsi e degli altri popoli italici.

Ora, la certezza di trovarsi di fronte un guerriero, sannita forse, aveva provocato nel servo fremiti di paura. Temette per più di un attimo che fosse un Pentro, sopravvissuto chissà come alle stragi ordinate da Silla. I Pentri, la razza più temuta e odiata dai Romani da due secoli e oltre. Il popolo che Silla aveva condannato alla damnatio memoriae 4. Era forse, il vecchio, un capo sopravvissuto alla battaglia di Porta Collina? Un traditore passato in segreto dalla parte dei Romani? Chi fosse dunque l’anziano e perché Roma continuasse a mantenerlo come un prigioniero privilegiato, Kaeso lo ignorava. Una sola volta lo schiavo aveva provato a chiedere spiegazioni, ricevendo una risposta tale da non lasciar dubbi. Non avrebbe saputo la verità e soprattutto non doveva chiederla.

Quella mattina però stavano succedendo cose nuove. Qualcosa si preparava. La stranezza del bagno, il taglio dei capelli e della barba. Un fremito di paura attraversò di nuovo la schiena del servo.

Terminò l’operazione seguendo le istruzioni dell’anziano che chiamava “signore” o “padrone” ignorandone del tutto il nome. Il casco dei capelli bianchi ora era ordinato e la barba bianca, lunga pochi centimetri, incorniciava il viso che sembrava ringiovanito di almeno dieci anni. Il vecchio chiese al servo di trarre da una cassa, fino a quel momento mai aperta, una tunica, un cinturone di bronzo dorato e il bastone che vi erano contenuti. Terminata la vestizione, l’uomo si alzò: davanti a Kaeso apparve una figura diversa, solenne e dritta, dentro quella tunica chiara di lana grezza bordata di rosso, il vestito di un capo. Il volto autorevole, nella mano destra l’alto bastone di legno chiaro che alla sommità portava una piccola scultura di bronzo raffigurante la testa di un toro. Lo schiavo stentò a riconoscere nella persona che stava osservando il vecchio silenzioso e burbero che aveva servito per quegli otto lunghi anni.

4 Espressione latina che, nell’antica Roma, indicava la cancellazione dalla società di ogni traccia che ricordasse una persona o, come in questo caso, un popolo (letteralmente “condanna della memoria”).

«È ora di andare» disse il cieco e porse il braccio per farsi accompagnare all’uscita.

La temperatura era fresca a Roma in quel mattino di mezza primavera. Una rossa aurora annunciava il sole che non era ancora spuntato all’orizzonte. Nelle strade la vita aveva cominciato a correre in quello che era uno dei quartieri commerciali della città. Svoltarono nella via dei pellai, una strada larga, in leggera discesa, con marciapiedi su entrambi i lati. Non erano poche le botteghe già aperte; sui banconi all’esterno gli artigiani e i loro schiavi sistemavano le merci in bella evidenza; qualcuno era già al lavoro, chino a tagliare pelli o a cucire suole. A metà della via i due svoltarono a destra, imboccando una strada più stretta. Era la strada dei lanaioli impegnati dal periodo di lavoro più intenso di tutto l’anno. L’anziano conosceva bene l’odore dolciastro della lana grezza e a un certo punto si fermò. Alzò un poco il capo e dilatò le narici inspirando profondamente. Catturò con un leggero senso di piacere quel profumo a lui tanto familiare. Restò fermo solo per pochi attimi, assorto. Il grido di un nibbio che volava basso sui tetti di Roma alla ricerca della prima preda della giornata lo distolse. Volse la testa in alto come per vederne il volo, quindi riprese la marcia, nuovamente concentrato sulla missione che da troppi anni attendeva di compiere.

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