G. Sasso, Dante. L'imperatore e Aristotele

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GENNARO SASSO

ammettere che questa possa essere discorde e non unica è impossibile? La difficoltà, si ripete, è evidente; e certo operava nel fondo della coscienza di Dante. Richiedeva perciò che egli la superasse. Ma se è vero che il superamento della difficoltà comportava che in Aristotele e nell’Imperatore si indicassero i termini di un’unità all’interno della quale ciascuno stesse con il suo proprio carattere, e connesso tuttavia con l’altro in modo che l’unità, appunto, ne risultasse, e non la scissione, – ebbene non sta qui l’origine del capitolo « averroistico » della Monarchia? E forse che non è vero che qui, nel Convivio, il mancato avvertimento della difficoltà deriva dall’irrompere incontenibile della passione politica che, con lo spettacolo che evocava di coloro che hanno « le verghe de’ reggimenti d’Italia », i re « Carlo e Federico e gli altri principi e tiranni » 81, anticipava sé stessa in un luogo concettuale nel quale non avrebbe dovuto, in effetti, trovarsi? Non deve dimenticarsi che il passo in cui Dante indicò il nesso sussistente fra la imperiale e la filosofica « autoritade » è contiguo a quello che conclude il capitolo nel segno della vibrante polemica contro i personaggi che vi sono definiti meritevoli del più fiero dispregio. E in questo passo, bellissimo, nel quale la fantasia del poeta si accende irresistibile e al pensatore detta la superba immagine dei principi che miglior sorte avrebbero a « volar basso » al modo delle rondini, e non « come nibbio altissime rote fare sopra le cose vilissime » 82, – anche qui, di nuovo, l’incongruenza s’insinua e la passione prende il posto della logica. Ai « miseri » che al presente « reggono » Dante rimproverava di non avere accanto a sé filosofi che fossero degni del nome. Deplorava, per citare le sue parole esplicite, che « nulla filosofica autoritade » si congiungesse con i loro « reggimenti né per propio studio né per consiglio » 83. Ma, di nuovo, travolto dalla passione e dallo sdegno, è come se dimenticasse di considerare quel che pure la logica più profonda della sua impostazione recava con sé, e imponeva che egli dicesse. E cioè quel che già s’è osservato; che se, al pari dell’Impero che, assumendola come il suo telos, realizza la felicità del genere umano, a questo medesimo fine è indirizzata la filosofia, che nel realizzarlo realizza sé stessa, allora è evidente che solo a un’umanità unificata dall’Imperatore la filosofia può corrispondere; e a una dispersa e divisa invece no. A una umanità frazionata nei tanti reggimenti nei quali, fattosi reo, il mondo si sia risolto, nessuna vera filosofia può 81 82 83

IV VI 20. Ibid. IV VI 19.


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