G. Sasso, Dante. L'imperatore e Aristotele

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GENNARO SASSO

zione. In questa specifica accezione, in questa dimensione, in questo suo peculiare accento, la legge ha un volto che, a causa della sua artificialitĂ , ben potrebbe essere definito come ÂŤ positivo Âť. Se è cosĂŹ, a un’altra considerazione, che già è stata formulata, ma per la sua importanza richiede di esserlo ancora, deve darsi ulteriore corso. Riguarda la singolare scissione che, avendo alla sua radice quella che si determinò fra Cristianesimo e aristotelismo, pone da una parte il fine, qual è pensato in quest’ultimo, e da un’altra quello che si definisce ed è pensato nel primo. Nel quadro che, in linea generale, può esser detto aristotelico, sia la natura operante nello schema del quarto trattato del Convivio, sia l’intelletto possibile teorizzato nel terzo del primo libro della Monarchia, si realizzano senza che mai vi intervenga e si renda percepibile il segno oscuro del pessimismo cristiano. La stessa provvidenza che, piĂš o meno visibile, sottende questi due schemi concettuali, non ha in realtĂ la forza bastante ad imporre la sua specifica tonalitĂ cristiana a due concetti che, nella loro tessitura, si presentano cosĂŹ saldi che sarebbe essa a esserne condizionata se vi entrasse in contatto. Sia nel quadro della natura, sia in quello dell’intelletto, il fine è conseguito nel suo significato piĂš pieno. E a esprimere il concetto di questa compiutezza può ben usarsi il termine greco Ď„ξΝξΚ Ď„ΡĎ‚, che vuol dire bensĂŹ anche ÂŤ finalitĂ Âť, ma nel senso, appunto, di cosa compiuta, alla quale niente c’è da aggiungere ed è perciò ÂŤ perfetta Âť. Nell’altro quadro, invece, il fine non è se non il contenimento opposto al compiersi della corruzione; che, altrimenti, non potrebbe essere contrastata e impedita. La differenza è radicale. E poichĂŠ è stata fissata con sufficiente nettezza, nonchĂŠ spiegata nella sua genesi, quel che se n’è detto può bastare. Ăˆ una solenne banalitĂ dire che, non solo come poeta, ma anche come autore di prose volgari e latine, Dante possiede come nessun altro il genio della velocitĂ , della concisione, dell’estrema potenza linguistica. Ăˆ una banalitĂ non perchĂŠ non sia vero che queste qualitĂ gli appartengono in sommo grado, ma perchĂŠ, essendo vero, mille volte lo si è esaltato per questo; e ripetere senza necessitĂ quel che giĂ sia stato detto, ed è ovvio, questo, sopra tutto, se lo si riferisca a uno scrittore veloce, conciso e non incline a tornare sulle sue parole, – questo è banale. Non lo è invece dire che tale è la sua velocitĂ , tale la concisione, tale la potenza espressiva, che quando pur sembri che delle cose sue si sia parlato con sufficiente larghezza, l’impressione di averne detto poco e male comunica una sorta di malessere: per rimediare al quale è

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09/11/2009, 15.02


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