L'IRCOCERVO - N.2 luglio 2019

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ouverture ma dai contrasti: nella mia beatitudine di bestiolina, restai profondamente colpito da quello che, se avessi già posseduto le parole per dare un nome a ciò che sentivo o immaginavo, avrei potuto definire «il paradosso della rosetta»: ma come? i miei capelli, che con la loro indomabile mutevolezza di forme e di colori agitavano continuamente le mie sembianze rendendole addirittura irri­conoscibili a me stesso, i miei capelli, proprio loro, mi facevano riconoscibile e addirittu­ra notevole nel mondo! Fu questo il primo paradosso che ebbi occasione di osservare e che introdusse, nel mio organismo interamente votato al passivo godimento biologico, il tarlo alieno del pensiero: evidentemente, quasi a conferma o forse piuttosto a compensazione del mio disastroso orecchio musicale, la mia sensibilità era stimolata dalle disarmonie: la certezza e ripetitività delle leggi fisiche mi tranquillizzavano, la prevedibilità dei moti degli astri mi confortava nella mia pigrizia naturale: a differenza di mio fratello, non ero minimamente incuriosito dalla coerenza dei sistemi: la coerenza era manifestamente un invito all’ozio, non alla conoscenza, proprio come la costante presenza di un interme­diario fra me e il mondo – mia madre o, in sua assenza, mio fratello – era un invito alla riposante dipen­denza, non certo all’autonomia: del resto io non chiedevo di meglio che di scal­darmi al sole senza sapere che cosa fosse, né perché non cadesse in acqua o fosse giallo: lo stimolo a porre di queste domande mi era sostanzialmente sconosciuto, forse perché, sovente, ricevevo risposte anche a domande che non avevo fatto: una notte, non so spiegarmi in forza di quale prodigio, dato che non mi coricavo mai oltre le nove e mezza, vidi la luna: forse era inverno, o autunno, e faceva buio prima del silenzio: comunque la vidi, e non riuscivo più a staccarne gli occhi: l’avevo vista solo disegnata sui libri di fiabe, o magari in qualche rara fotografia, sempre tonda e lucente come una moneta: questa invece non era tonda, benché naturalmente non fosse nemmeno quadrata: non era una cosa o una figura compiuta, era un avanzo: come una fetta di melone quando il melone lo si è già mangiato, e non ne è rimasta che la buccia: sentii dire «La luna!» e ne fui semplicemente esterrefatto: stavo là a guardarla a bocca aperta, con indicibile emozione, senza far domande, ovviamente, ma domandando a me stesso che fine avesse fatto tutta quell’enorme parte che mancava, chi se la fosse man­giata e come potesse accadere un’ingiustizia simile: che qualcuno si mangiasse la luna,

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