Io Come Docente

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numero

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docente

La nuova Cina

Germogli di legalitĂ Pechino: gli squilibri della crescita Studio Letterario ALeF

Anno 1 N. 00 / Febbraio 2012 - Periodico mensile - Editore e Proprietario: eBookservice srl C.F./P.I. : 07193470965-REA: MI-1942227. Iscr. Tribunale di Milano n. 324 del 10.6.2011.


Sommario numero

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docente

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Io Come Docente Mensile d’approfondimento culturale a carattere monografico, sviluppato in collaborazione con Lo studio letterario ALeF: www.studioletterario.it

La nuova Cina

Hanno collaborato a questo numero:

Germogli di legalità PECHINO:

Renzo Cavalieri - Giuseppe Gabusi - Margherita Sportelli

gli squilibri della crescita

Tema del numero:

Studio Letterario ALeF

Anno 1 N. 00 / NOVEMBRE 2011 - Periodico settimanale - Editore e Proprietario: eBookservice srl C.F./P.I. : 07193470965-REA: MI-1942227. Iscr. Tribunale di Milano n. 324 del 10.6.2011.

La cina

Pechino fa i conti con gli squilibri della crescita |

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di Giuseppe Gabusi Germogli di legalità: nuove dimensioni politico-giuridiche |

di Renzo Cavalieri

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Sussurri e grida della nuova Cina |

Margherita Sportelli

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Editoriale Cari lettori, care lettrici, è con piacere che vi presento questa nuova rivista Io come docente che sarà distribuita soltanto online proprio per arrivare ad un maggior numero di lettori. La rivista si avvale del contributo dei più importanti docenti universitari italiani che nei prossimi numeri si misureranno su temi di attualità e cultura di grande rilievo ma è rivolta allo studente, all’imprenditore, al cittadino insomma che desidera avere su alcuni temi che riguardano anche la sua vita quotidiana un parere che esca un po’ dal coro, dai soliti articoli di quotidiani e riviste ben confezionati. Prima di passare a vedere bene come è fatta la rivista, bisogna dire che i docenti non vogliono fare accademia ma intendono mettere a disposizione del lettore tutto il loro studio, posto che la conoscenza sarà la vera forza delle future generazioni. La rivista uscirà ogni martedì di fine mese da oggi 28 febbraio, tranne la pausa estiva, e dopo l’editoriale conterà su 3-4 articoli su temi importanti, caldi, che ci auguriamo possano suscitare accesi dibattiti; forse saranno posizioni un po’ scomode ma riflettono l’ideologia e il percorso intellettuale dei singoli docenti ed è appunto così, senza tagli, che vogliamo proporle al lettore.

Si inizia con un tema forte: la Cina, su cui si è già discusso e si discuterà ancora molto, però qui l’angolatura è diversa, non si parla di immigrazione o fatti delittuosi bensì i tre docenti si confrontano con la forte crescita economica del Paese, la democrazia e quindi è inevitabile il rimando ai diritti umani e infine si illustra un caso di didattica di intercultural management. Si può dunque affermare che questi contributi sulla Cina sono una metafora della filosofia editoriale della rivista, ovvero come qui si cerca di eliminare i tanti luoghi comuni sul paese asiatico, così in tutti gli altri interventi si cercherà, come dicevamo in apertura, di uscire dai giudizi facili. Nei numeri successivi i docenti si confronteranno sul bene comune, il benessere e poi via via altri temi di attualità fino ad arrivare a comporre un’ideale enciclopedia del Ventunesimo secolo. Certo l’ambizione è notevole, però cerchiamo di lanciare un sasso nel mare dell’oggettività. Così, in questo modo, offriamo Io come docente al lettore che speriamo voglia partecipare a questa palestra di idee, al dibattito su i temi in oggetto proprio per uno scambio ricco e articolato dove sarà lui a decidere la fortuna della rivista intervenendo con appunti ma anche suggerimenti . Buona Lettura! Alessandro Bruciamonti


Giuseppe Gabusi

Pechino fa i conti con gli squilibri della crescita La sessione annuale del Congresso nazionale del popolo è tradizionalmente anche la sede in cui il governo fa il punto della situazione economica e sociale del Paese, e indica le linee guida della politica economica e sociale per l’anno successivo. Malgrado il rapporto di quest’anno della National Development and Reform Commission contenga il solito elenco degli obiettivi raggiunti, è interessante notare la franchezza con cui si riconosce la necessità, come principale orientamento dell’azione futura, di “accelerare la trasformazione del modello di sviluppo economico”, evidenziando le principali criticità del sistema. Il rapporto inizia affermando che “la performance economica nel 2010 è stata generalmente stabile, con miglioramenti significativi in qualità ed efficienza”, ma proseguendo nella lettura del testo ci si chiede se questi miglioramenti siano stati più che annullati dagli effetti negativi prodotti dal continuo accumulo di inefficienze degli ultimi anni. Nel 2010, il PIL è stato di 39.800 miliardi di yuan, con una crescita annuale del 10,3% (2,3 punti percentuali in più rispetto all’obiettivo stabilito). La crescita si è registrata più nel settore industriale (+12,2%) che in quelli agricolo


Pechino è una delle quattro municipalità con status di provincia della Repubblica popolare cinese ed è sotto il controllo diretto del governo centrale. Pechino è una municipalità sin dalla costituzione della Repubblica popolare cinese. È riconosciuta come il centro politico, culturale e scientifico della nazione al contrario di Shanghai, che gode dello status di maggiore centro economico.

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(+4,3%) e dei servizi (+9,5%). Le casse erariali sono in ottimo stato, con un deficit inferiore di 50 miliardi di yuan rispetto al target. I profitti delle grandi imprese industriali sono aumentati ben del 49,4% su base annua, i consumi interni del 18,3% (3,3 punti percentuali in più rispetto al piano) e gli investimenti fissi del 23,8% (3,8 punti percentuali in più). Lo stesso surplus commerciale è diminuito del 6,4%. Infine, per la prima volta dal 1998 la crescita del reddito rurale è stata più elevata della crescita del reddito urbano. Ma veniamo ai cinque problemi irrisolti indicati nel rapporto. Innanzitutto, “le fondamenta (…) per una crescita sostenuta dei redditi rurali non sono solide”: permangono condizioni di inefficienza, e di insufficienza delle risorse (terre arabili e acqua per l’irrigazione). In secondo luogo, l’investimento “disordinato” e l’eccesso di capacità produttiva in certi settori si accompagna allo sviluppo “sbilanciato e scoordinato” tra le aree urbane e rurali e tra le diverse regioni. Terzo, il ritorno dell’inflazione, che ormai si aggira attorno al 5%, è motivo di preoccupazione, poiché la maggiore crescita dei prezzi si è registrata nel mercato alimentare e in quello immobiliare, due settori molto sensibili per la tenuta del tessuto sociale. Quarto, nonostante gli sforzi per diminuire l’impatto ambientale della crescita cinese, il sistema economico è ancora altamente inquinante, e “deve essere ancora stabilito un meccanismo permanente per il risparmio energetico e per la riduzione delle emissioni”. Quinto, “i pro-

blemi sociali sono aumentati”, e permane la preoccupazione per questioni quali la sicurezza alimentare e dei medicinali, l’espropriazione della terra, la demolizione delle case e la ricollocazione dei residenti, e la sicurezza industriale. Questi problemi devono essere risolti avendo come faro di riferimento la teoria dello sviluppo scientifico e dell’armonia sociale elaborata negli anni dall’attuale dirigenza. Ciò significa per il governo passare gradualmente dalla crescita quantitativa ad una crescita qualitativa che abbia più a cuore il benessere della popolazione, tanto che The Economist ha parlato di una nuova “ricerca della felicità”. A tal proposito, il rapporto elenca nove linee d’azione per il 2011: rafforzare i meccanismi di controllo dell’inflazione; espandere la domanda interna (con l’obiettivo di una crescita del PIL attorno all’8%); creare le condizioni per il sostegno del reddito rurale; accelerare la ristrutturazione industriale (migliorando la competitività delle imprese); ridurre le emissioni nocive e migliorare l’efficienza energetica; migliorare i servizi pubblici e i “meccanismi di amministrazione sociale”; rinnovare gli sforzi per superare le difficoltà economiche e (tautologicamente) “accrescere l’impeto e la vitalità dello sviluppo economico e sociale”; espandere la cooperazione economica internazionale (lottando contro il protezionismo). Anche la Cina, quindi, si trova oggi ad affrontare i problemi dei costi dello sviluppo, che rappresentano un’eredità della turbo-crescita iniziata negli


Giuseppe Gabusi

anni di Jiang Zemin. Questa traiettoria economica ha privilegiato (diversamente dalla crescita degli anni di Deng) gli investimenti rispetto al risparmio, le città rispetto alle campagne, la grande impresa (spesso statale) rispetto al talento imprenditoriale. Ora è tempo di correggere il tiro, prima che l’aumento di questi costi induca molti a

chiedersi quanto valga la pena continuare su questa strada. * articolo apparso su “OrizzonteCina” aprile 2011, disponibile online all’indirizzo http://www. twai.it/upload/pdf/orizzontecina-aprile-2011.pdf. Estratto da “OrizzonteCina” aprile 2011 www.twai.it

Giuseppe Gabusi

insegna International Political Economy e Political Economy dell’Asia Orientale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino e presso la Facoltà di Scienze Linguistiche e Letterature Straniere dell’Università Cattolica di Milano, sede di Brescia. E’ Head of Research (area attori emergent) a T.wai (Torino World Affairs Institute). Tra le sue pubblicazioni ricordiamo L’importazione del capitalismo. Il ruolo delle istituzioni nello sviluppo economico cinese, Vita & Pensiero, Milano 2009.

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Germogli di lega

NUOVE DIMENSIONI POLITICO Tra

virus e germogli

Una quindicina di anni fa, grazie all’interessamento di Maria Weber, pubblicavo un working paper sulla riforma del diritto cinese nella collana dell’Istituto di Studi economici e sociali sull’Asia orientale dell’Università Bocconi. Decisi di intitolarlo «Il virus della legalità». La tesi che sostenevo allora era, in estrema sintesi, la seguente. Dall’avvio della riforma economica, il legislatore cinese ha innestato progressivamente nell’ordinamento una disciplina normativa sempre più moderna dei rapporti economici e sociali, adattando alle proprie esigenze i modelli legislativi occidentali dominanti. Nel farlo, ha importato la terminologia, le tecniche, gli istituti principali della western legal tradition, l’organizzazione del processo, delle professioni legali e dell’insegnamento giuridico, e in qualche modo anche la cultura del diritto e dei diritti che vi sta alla base. Da politica, gradualmente la regola diventa legale, nel senso che la sua produzione, interpretazione e applicazione vengono affidate a un apparato di fonti, istituzioni e procedimenti funzionanti secondo logiche e tecniche giuridiche, e il metodo di governo si fa più certo, o almeno più prevedibile, più trasparente, più uniforme, e in definitiva economicamente più efficace di quello utilizzato in passato. Addirittura, il diritto comincia a essere inteso come fonte di legittimazione di un potere politico la cui aura carismatica rivoluzionaria

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Renzo Cavalieri

alità

OLITICO-GIURIDICHE diviene via via più flebile. Nel contempo, grazie alle nuove leggi, gli spazi di libertà e di augermogli Cina II bozze _mercati finanziari 13/05/10 09:52 Pagina 53 tonomia dei cittadini cinesi non soltanto crescono, in termini quantitativi e qualitativi, ma vengono tutelati in un modo precedentemente sconosciuto, ossia appunto attraverso l’applicazione della legge e l’esecuzione delle sentenze: mentre la legalità si afferma come metodo primario di governo, si sviluppa una nozione innovativa dei diritti soggettivi intesi, tecnicamente, come interessi giuridicamente protetti. Poiché mi sembrava esserci un conflitto, una contraddizione di fondo tra la rigidità “meccanica” del metodo legalistico e la fluidità

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╡ funzionale del rule of politics di stile maoista, tra l’aspirazione alla certezza, alla trasparenza, all’uniformità della norma e l’arbitrarietà e la singolarità della decisione politica, e in definitiva tra il principio di legalità e quello del ruolo guida del Partito Comunista, inferivo che con questa massiccia recezione di principi, tecniche ed enunciazioni retoriche del diritto occidentale, la dirigenza cinese si era assunta il rischio di un contagio, ideologico e organizzativo che, prima o poi, avrebbe potuto rivelarsi fatale per il sistema di potere istituito con la rivoluzione ed ereditato da quella che, nel 1996, era la cosiddetta «terza generazione» trionfante della dirigenza comunista. Prima o poi, per garantire un corretto ed efficiente funzionamento del sistema, si sarebbe dovuto intervenire su questioni di grande delicatezza politica, come quella della divisione e del bilanciamento dei poteri e dell’indipendenza della magistratura, o quella della libertà di esercizio delle professioni legali. Prima o poi, la Cina avrebbe dovuto porsi il problema se perpetuare il sistema di potere leninista-maoista o trasformarlo per adattarlo alle esigenze della legalità. Non che ritenessi probabile un’evoluzione in senso propriamente democratico e multipartitico della Re-


Renzo Cavalieri

Grazie allo sviluppo dei passati decenni, Shanghai è un centro economico, finanziario, commerciale e delle comunicazioni di primaria importanza della Repubblica Popolare Cinese. Il suo porto, il primo del paese, è uno dei piÚ trafficati al mondo con Singapore e Rotterdam. Nel 2010 ha superato Singapore come volume di traffico.

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nuove dimensio

Pudong, il moderno distretto finanz


oni

ziario

Renzo Cavalieri pubblica Popolare Cinese (RPC) – anzi, già allora contestavo la credibilità dell’assioma per cui allo sviluppo economico non può che corrispondere fatalmente un processo di democratizzazione politica – ma ritenevo comunque che le contraddizioni innestate inserendo formanti giuridici tanto innovativi ed “esigenti” avrebbero reso necessaria una profonda riconversione del sistema tradizionale di legittimazione e controllo del Partito Comunista. Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti. In quindici anni la struttura socioeconomica cinese è stata rivoluzionata. E, a dispetto di chi sostiene che in Cina sia sinora mancata una riforma politica, anche tutti i rapporti politici fondamentali – da quello tra i cittadini e le istituzioni a quello tra lo Stato e il Partito Comunista, da quello tra Pechino e le periferie a quello tra la Cina e la comunità internazionale – sono radicalmente mutati. Anche il diritto cinese è cambiato: la legge vi ha acquistato una centralità sistematica senza precedenti, l’ordinamento giuridico nel suo complesso ha raggiunto un altissimo livello di qualità tecnica e la tutela dei diritti e delle libertà individuali concessi dalle nuove leggi ai cittadini cinesi è divenuta più efficace. Nel frattempo, anche da noi molte cose sono cambiate. Le idee di democrazia e di legalità che sino a pochi anni fa costituivano se non necessariamente la prassi, certo l’aspirazione e la cifra simbolica della nostra cultura politica, sono entrate in una crisi profonda, dalla quale non è affatto chiaro come potranno uscire3. Nozioni epocali come quelle della democrazia rappresentativa, della divisione dei poteri, dell’uguaglianza di fronte alla legge, della libertà di espressione, sono fortemente indebolite dalla tendenza globale e inarrestabile alla concentrazione dei poteri e alla loro fusione. All’atteggiamento di superiorità che, nonostante tutta la retorica sull’abbandono dell’eurocentrismo, non avevamo mai smesso di avere nei confronti dei sistemi politici extraeuropei, si è sostituito un senso di inadeguatezza e di declino. Lo sviluppo della Cina, in particolare, ha dimostrato non soltanto che l’innalzamento del tenore di vita materiale non significa necessariamente l’adozione del modello di organizzazione politica delle società liberaldemocratiche, ma che oggi è perfettamente ipotizzabile un modello più efficiente di quello occidentale, nel quale vengono recepiti molti degli elementi fondanti del sistema capitalistico maturo, ma che è invece impermeabile ad alcune soluzioni considerate dannose o pericolose per la stabilità sociale. Sotto il profilo giuridico, la recezione dei presupposti teorici e delle formule istituzionali del diritto occiden-


tale – che pure è stata massiccia – non è stata realizzata all’ingrosso, ma secondo precisi criteri selettivi. Molti diritti sono stati riconosciuti, altri no: si è liberalizzato il diritto di intraprendere attività economiche4, ma non quello di associarsi in sindacati indipendenti5; si è rinnovato il diritto civile e commerciale6, ma assai meno quello penale7; si è ammesso il GERMOGLI DI LEGALITÀ 55 germogli Cina II bozze _mercati finanziari 13/05/10 09:52 Pagina 55 proliferare delle voci della società civile, ma non quello dei partiti politici8. E non sono stati messi in discussione i dogmi dell’unità dei poteri statali e della supremazia del Partito Comunista, intesa come potere di dettare agli organi dello Stato la propria linea guida in qualsiasi forma, giuridica ma anche metagiuridica9. E il virus della legalità, dunque? Apparentemente esso non ha danneggiato l’organismo ospite come si poteva pensare; anzi, per molti aspetti lo ha rafforzato e aiutato a uscire da una fase di grave crisi di identità ideologica e di legittimità politica. Tuttavia ha contribuito in misura determinante a modificarne la struttura cellulare, innescando una trasformazione profon-


Renzo Cavalieri

da e probabilmente irreversibile della cultura politica cinese. È anche grazie a quel virus che in Cina è oggi possibile il germogliare di forme di pluralismo e di partecipazione che danno il titolo a questo lavoro.

Rule

of law e rule by law

Con un emendamento costituzionale di enorme importanza sistematica, il 15 marzo 1999 l’Assemblea nazionale popolare, il parlamento cinese, sanciva, mediante l’aggiunta di un comma all’Art. 5 della Costituzione del 1982, l’adozione del principio di legalità quale metodo e fine di governo: «La Repubblica Popolare Cinese attua il governo dello Stato mediante la legge per costruire uno Stato socialista di diritto (shehuizhuyi fazhi guojia)»10. Così, dopo vent’anni di sperimentazione, il virus della legalità veniva formalmente inoculato nell’ordinamento cinese. Ma che cosa significa governo mediante la legge? È corretto tradurre fazhi con legalità? Con rule of law? Nella tradizione giuridica occidentale, legalità significa innanzitutto conformità alla legge e il principio di legalità è quello in base al quale i pubblici poteri sono soggetti alla legge. Tuttavia, in Occidente la storia della legalità si fonde e si confonde con l’evoluzione del sistema politico democratico e del costituzionalismo11. Nella nostra visione del diritto, nemmeno il legislatore – che è eletto democraticamente e che dunque si ritiene rappresenti nel migliore, o nel meno peggiore dei modi,

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╡ la volontà popolare – ha la facoltà di violare i diritti fondamentali dell’uomo, la cui tutela giuridica costituisce anzi proprio un compito primario dello Stato e un limite assoluto al suo potere. È proprio per garantire più compiutamente tale tutela che il potere statale viene suddiviso in tre distinte componenti, quella legislativa, quella esecutiva e quella giudiziaria, separate e bilanciate tra loro. Nella Cina comunista invece, come nel modello sovietico di riferimento, la nozione di legalità nasce e si sviluppa con caratteristiche parzialmente diverse: deve infatti fare i conti con altri principi fondamentali dell’ordinamento socialista, quali quello della dittatura democratica del proletariato o quello del ruolo guida del Partito Comunista, che a differenza del principio di legalità, che si manifesta per mezzo di leggi generali e astratte, operano su un piano speciale e concreto, sia per mezzo di regolamenti e procedure formalizzati, sia per mezzo di altri strumenti di pressione, condizionamento personale e sanzione sociale non sempre e non interamente formalizzati. La subordinazione degli organi dello Stato alla direzione politica del Partito presuppone che non vi sia separazione né bilanciamento tra i poteri, che all’opposto sono considerati come un potere unitario, affidato a una piramide di assemblee

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rappresentative popolari (renmin daibiaohui) al cui vertice è posto l’organo parlamentare, l’Assemblea nazionale del popolo. Sono le assemblee popolari che no-

minano, controllano ed eventualmente esonerano i dirigenti di tutta la pubblica amministrazione ai vari livelli, e tra questi sono inclusi i procuratori e i giudici, che dunque non godono né di indipendenza né


Renzo Cavalieri

di autonomia. Non esiste nemmeno un controllo di costituzionalità delle leggi da parte di una corte costituzionale o comunque di un organo diverso da quello legislativo. Il

ruolo guida del Partito nella determinazione della politica nazionale fa anche sì che l’organo legislativo supremo, l’Assemblea nazionale e il suo Comitato permanente, non sia composto da deputati eletti di-

rettamente dal popolo, ma dai delegati delle assemblee regionali, e che svolga una funzione eminentemente formale di ratifica delle decisioni adottate dal Partito12. È soprattutto nella formazione di quelle decisioni, e non in sede di dibattito parlamentare, che viene realizzato il contemperamento degli interessi politici nazionali; e se è vero che negli ultimi anni l’Assemblea ha dato cenni di una certa vitalità, rimane il fatto che la sua attività ha molto poco in comune con quella di un parlamento occidentale. Nella visione socialista cinese la funzione del diritto positivo, quando non è retorica, è insomma sostanzialmente strumentale. Il legislatore e il giudice non sono che meri esecutori, o meglio, formalizzatori della volontà politica del Partito; la politica non trova un limite definito nel diritto ed è piuttosto il diritto a essere gestito e utilizzato dalla politica come metodo di governo, oppure come strumento di repressione13. Tuttavia, dopo i lunghi anni del maoismo più radicale e della più completa latitanza istituzionale14, la leadership riformista cinese ha progressivamente affidato al principio di legalità un ruolo sempre più importante, garantendo al diritto spazi crescenti di autonomia dalla politica. A partire dall’inizio degli anni Ottanta, gli organi di governo e la stampa cinesi hanno cominciato a fare un uso frequente

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╡ ed enfatico del termine fazhi, letteralmente «sistema legale», allargandone il significato formale di «ordinamento giuridico» sino a comprendervi (per esempio nell’espressione shehuizhuyi fazhi jianshe, «costruzione del diritto socialista») un’idea basilare di legalità, intesa come regola per l’esercizio corretto dei pubblici poteri15. Costruire un diritto socialista significava allora principalmente riorganizzare l’apparato istituzionale statale, ridotto in macerie dalla rivoluzione culturale maoista. Significava ricominciare a scrivere le leggi, a esercitare la funzione giurisdizionale e a insegnare e studiare il diritto; significava stabilire un metodo uniforme e trasparente per disciplinare l’attività della pubblica amministrazione e i rapporti tra organi centrali e periferici dello Stato; e soprattutto significava riaffermare la separazione delle competenze istituzionali dello Stato e delle località da quelle politiche, di coordinamento e controllo, del Partito Comunista; significava insomma imporre alla politica del Partito di farsi politica dello Stato e dunque legge (fa) dello Stato. Furono anni di intensa legificazione, soprattutto a livello locale, e sebbene gli atti normativi emanati a quell’epoca fossero spesso ancora sperimentali o provvisori, brevi e vaghissimi, e non si fosse ancora formata una classe di giuristi in grado di gestire adeguatamente la nuova normativa, gli organi centrali e periferici dello Stato cominciarono a operare sempre più regolarmente in base a norme giuridiche conoscibili, generali e astratte, e


Renzo Cavalieri

la società cinese stessa prese a “legalizzarsi”, nel senso che il diritto, il suo linguaggio, le sue tecniche, i suoi istituti e le sue professioni cominciarono a divenirne una componente imprescindibile. All’enunciazione di diritti sempre più estesi corrispose anche, sul piano sociologico, una loro rivendicazione sempre più assertiva. La tradizionale avversione – prima confuciana e poi maoista – nei confronti dell’utilizzo del diritto come strumento di controllo sociale e della risoluzione aggiudicativa delle controversie cedette il posto a una concezione e a una fruizione del diritto molto più simili a quelle occidentali, e il numero delle cause giudiziarie civili e amministrative crebbe in misura esponenziale16. Fu grazie allo sviluppo e alla depoliticizzazione delle istituzioni giuridiche intervenuti nel primo decennio di riforma che, nel linguaggio della dottrina giuridica cinese degli anni Novanta cominciò a essere utilizzato sempre più frequentemente un termine omofono del fazhi «sistema legale»: fazhi, «governo della legge», forma abbreviata dell’espressione, di antichissima origine legista, yifa zhiguo, «governare il paese per mezzo della legge»17. Nel giro di poco tempo, tale termine sarebbe entrato prepotentemente nel linguaggio ufficiale come in quello comune, in quello accademico come in quello dei media. Tradurre questo fazhi

(che è anche utilizzato dal legislatore costituzionale nel menzionato emendamento del 1999) come «governo della legge» o rule of law rischia di essere eccessivo e di trarre in inganno l’osservatore occidentale che, come si accennava sopra, tende ad attribuire a quell’espressione i contenuti dettati dalla propria esperienza storica e culturale. Meglio dunque mantenere l’accento sull’utilizzo strumentale che il Partito Comunista fa del diritto e renderlo come rule by law, governo «per mezzo» della legge. Comunque, al di là delle questioni etimologiche – che non riguardano tanto il fenomeno in atto in Cina quanto la nostra capacità di comprenderlo –, l’affermazione del principio di legalità ha rappresentato indubbiamente uno dei fenomeni più innovativi e più decisamente “politici” della trasformazione della società cinese contemporanea. Tale fenomeno è innanzitutto consistito in uno straordinario sviluppo quantitativo e qualitativo della legislazione. Sebbene i numeri assoluti dell’attività legislativa siano piuttosto modesti rispetto agli standard dei paesi occidentali, l’opera compiuta in questi anni è stata colossale: partendo dalla tabula rasa maoista, è stato realizzato un corpus estesissimo di leggi, decreti e atti normativi secondari, nazionali e locali, che disciplina ormai tutte le sfere della vita associativa, dai

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rapporti personali a quelli patrimoniali, dall’organizzazione delle pubbliche amministrazioni alle relazioni internazionali18. Ormai non c’è più settore del diritto cinese che non sia stato oggetto di significativi interventi legislativi19; e ciò che è persino più importante è il fatto che tutti questi atti normativi – a differenza di quanto accadeva in passato, quando era diffusa la pratica dei regolamenti “interni” o confidenziali – sono pubblicati e conoscibili al pubblico. Gli atti normativi emanati in questi anni a livello centrale e locale hanno generato nuovi diritti e nuovi obblighi, organici alla trasformazione socioeconomica e a essa necessari. Qui però rileva soprattutto il fatto che ognuno di essi ha determinato una progressiva riduzione degli spazi di discrezionalità della burocrazia statale e del Partito: se ancora nei primi anni della riforma erano i burocrati a determinare la misura del giusto e dell’ingiusto e a concedere graziosamente, singolarmente e discrezionalmente, privilegi, esenzioni e immunità, lentamente questa funzione si è trasferita a funzionari e giudici tenuti al rispetto della legge dello Stato. Un esempio tipico di tale fenomeno è rappresentato dal caso della disciplina legale dell’impresa privata20. Quando, a partire dal 1988, il legislatore ammise a titolo generale la costituzione di società di capitale private, l’imprenditoria privata costituiva già una realtà economica matura da un decennio e si era sviluppata nella pressoché totale assenza di un quadro normativo proprio grazie alla flessibilità e alla discrezionalità amministrativa, allo sperimentalismo e, non di rado, anche alla corruzione. Prima di allora, l’esercizio di imprese private era già possibile, ma era il risultato di un opaco negoziato tra le amministrazioni e gli imprenditori ed era privo di qualsiasi tutela che non fosse quella politico-clientelare: a essere nuovo, in quel caso come in molti altri, non era la fine di un dogma (in questo caso, quello della proprietà pubblica dei mezzi di produzione), già ampiamente demolito dagli effetti della riforma socioeconomica, ma il fatto che la libertà dei privati di intraprendere un’attività economica fosse formalizzata nella legge e dunque trasformata in un vero e proprio diritto soggettivo. È questo, in effetti, il fenomeno a cui si fa principalmente riferimento quando si parla della legalità in Cina. In questa prospettiva, non è tanto la natura o il contenuto dei nuovi diritti e delle nuove libertà introdotti dalla legislazione a essere importante, quanto il fatto che tali diritti e libertà siano formalizzati e protetti per mezzo di strumenti legali, “per mezzo della legge”. Ed è in questo stesso punto che le diverse concezioni del fazhi convergono: non possono infatti esistere diritti senza una piena legalità, perché

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la nozione stessa di diritto soggettivo presuppone quella di un apparato giuridico efficace finalizzato alla sua tutela, e non può nemmeno esservi una legalità senza pienezza dei diritti, perché la nozione stessa di legalità presuppone un limite autoimposto all’autorità dello Stato (e a maggior ragione a quella del Partito). In Cina questa interazione è particolarmente evidente nel diritto amministrativo, laddove viene lentamente ad affermarsi un principio dirompente rispetto alla tradizione storica e all’ideologia del comunismo cinese: quello in base al quale gli atti della «burocrazia celeste », sino soltanto a ieri insindacabili, debbono essere conformi alla legge (yifa xingzheng xingwei) e possono sempre essere oggetto di contestazioni e ricorsi giudiziali da parte dei cittadini21. Emblematicamente, la prima legge (sulla procedura amministrativa) con cui veniva consentito ai cittadini il ricorso ai tribunali contro gli atti illegittimi della pubblica amministrazione venne approvata nel 1989, nello stesso anno cioè in cui l’esercito reprimeva le dimostrazioni

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legalitĂ socialista cines


se

Renzo Cavalieri studentesche di piazza Tian’anmen. Si trattava del primo tassello di un grande progetto di ristrutturazione dell’apparato dello Stato e degli enti locali che sarebbe stato realizzato negli anni successivi per mezzo di numerosi interventi legislativi culminati, nel 2007, in un decreto legge sulla trasparenza degli atti amministrativi (zhengfu xinxi gongkai tiaoli)22. Se agli inizi di tale percorso la volontà – o quanto meno la capacità – di rendere davvero la pubblica amministrazione giuridicamente responsabile dei propri atti sembrò alquanato di voler seriamente perseguire l’obiettivo di una modernizzazione istituzionale nella quale il diritto riveste il ruolo di regola e limite dell’azione degli organi della pubblica amministrazione e degli enti pubblici24.

Criticità

e limiti della legalità socialista cinese “Governare il paese per mezzo della legge” significa, come si accennava sopra, delimitare i confini dell’autorità statale. Ma significa anche fissare e formalizzare il perimetro delle libertà e dei diritti individuali. Ora, è evidente che tale perimetro si sta estendendo parallelamente al rinnovamento e all’apertura al mondo esterno della società cinese. Persone, capitali, beni, informazioni circolano con grande facilità, anche oltre le frontiere nazionali, e i pilastri su cui tradizionalmente si fondava il sistema di potere del Partito Comunista stanno crollando uno ad uno: la proprietà dei mezzi di produzione è stata largamente privatizzata, la pianificazione statale ha cessato di dirigere direttamente e gerarchicamente l’economia (benché la capacità di indirizzo governativo rimanga sensibilmente maggiore di quella dei sistemi occidentali) e il centralismo democratico, evidentemente inadatto a gestire una società dinamica e pluralistica, ha dovuto essere trasformato in un sistema di organizzazione e trasmissione del potere di tipo nuovo, meno rigido e gerarchico, nel quale i cittadini godono di un alto livello di autonomia e la legge dello Stato svolge una funzione fondamentale di direzione e coordinamento. Uno dei fenomeni che sta maggiormente cambiando il volto delle società cinese e che più incide sugli argomenti di cui stiamo trattando è quello dello smantellamento del sistema maoista della «ciotola di riso di ferro» (tiefanwan)25. In quel sistema gli individui erano vincolati per tutta la vita alle loro unità produttive di base (danwei), le quali fornivano loro non soltanto il posto di lavoro, ma tutti i servizi fondamentali, dall’educazione alla sanità, dall’alloggio alla previdenza, e svolgevano anche una funzione fondamentale di controllo diretto della popolazione da parte del sistema Stato-partito, soprattutto


╡ nelle aree urbane. Con il procedere della riforma gran parte di quei servizi e di quella funzione sono stati affidati agli enti locali o a soggetti privati o semiprivati, oppure sono semplicemente cessati, e se ancora non è chiaro quale strada imboccherà la Cina per ciò che riguarda l’istituzione di un sistema nazionale di welfare, è invece evidente che l’allentamento del controllo delle unità di base sulla vita degli individui ha effettivamente comportato lo sprigionarsi di vigorose manifestazioni dell’autonomia individuale, tutte enunciate e regolate dalla legge. Questo processo epocale di arretramento dell’apparato pubblico, nel quale i precedenti meccanismi di controllo, ma anche di protezione sociale, vengono abbandonati e i rapporti sociali vengono orientati verso forme nuove di autonomia individuale, è riflesso in tutte le componenti del diritto cinese contemporaneo. Un caso emblematico è quello dell’evoluzione del diritto dei contratti, che se in una prima fase rifletteva ancora l’idea maoista del contratto come atto di natura semiamministrativa, momento terminale di un processo di pianificazione imperativa o direttiva, nel quale le parti erano obbligate a incorporare gli ordini di piano e lo spazio di autonomia negoziale era minimo, con l’approvazione della legge del 1999 viene a fondarsi sulla libertà negoziale delle parti, espressa-

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mente tutelata dalla legge contro qualunque illecita interferenza da parte di qualsiasi soggetto terzo26. Ma vi sono innumerevoli altri casi che dimostrano l’enorme ampliamento dell’autonomia individuale realizzatosi nell’ultimo ventennio, relativi non soltanto alla sfera economica, ma anche all’educazione, alla residenza, alla cultura, allo stile di vita e, persino, a materie personalissime: si pensi, per fare un solo esempio, che soltanto dal 2003, grazie a una modifica della normativa sulla registrazione del matrimonio, l’autorizzazione della danwei di appartenenza dei nubendi non è più un requisito obbligatorio per contrarre validamente il vincolo matrimoniale27. Le nuove leggi hanno generato e continuano a generare nuovi diritti di libertà, la cui tutela è teoricamente garantita dall’impegno dell’autorità politica al rispetto del fazhi, ma che sono comunque pur sempre inquadrati in un sistema ideologico e politico socialista e dunque non presentano le caratteristiche di assolutezza e inviolabilità tipiche dei sistemi giuridici occidentali. All’opposto, l’ordinamento cinese attribuisce ai diritti individuali soltanto lo spazio necessario all’efficienza del sistema economico complessivo e alla crescita del benessere della collettività, e nonostante il lento emergere, nell’accademia giuridica, di un «nuovo costituzionalismo»28, la dottrina dominante tende ancora a


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fare riferimento al compimento dei propri obblighi e dei propri doveri come a una condizione imprescindibile per il godimento dei diritti da parte dei cittadini29. Del resto, è innanzitutto la Costituzione a fare riferimento a questa relatività dei diritti laddove recita: «Nell’esercitare le proprie libertà e i propri diritti i cittadini della Repubblica Popolare Cinese non devono nuocere agli interessi statali, sociali e collettivi, né ai legittimi interessi o alla libertà di altri cittadini» (Art. 51). Così, se è vero che la Costituzione e le leggi affermano un’ampia varietà di libertà e di diritti, politici (elettorali, di espressione, stampa, riunione, associazione, manifestazione e critica della pubblica amministrazione e dei suoi funzionari) e personali (inviolabilità della persona e della sua dignità, del domicilio,

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╡ della corrispondenza, libertà religiosa), non appena l’interesse pubblico diviene prevalente si ritiene che tali diritti possano essere sacrificati o disattesi, e quello stesso fazhi che dispensa nella società cinese tanti nuovi diritti e libertà, diventa facilmente un efficace strumento di controllo, di sfruttamento o di repressione. Ciò avviene innanzitutto nel caso dei soggetti “antisociali”, che sebbene oggi non siano più etichettati dalla legge come “controrivoluzionari”, continuano a essere considerati un ostacolo allo sviluppo armonioso del paese30. Tra questi sono compresi per esempio, a seconda dei casi e dei momenti, gli attivisti politici e sindacali che tentano di concretizzare il diritto di associazione istituendo forme organizzate di dissenso, i religiosi che reclamano il diritto di praticare il proprio culto, i giornalisti e i bloggers colpevoli di forme di espressione ritenute politicamente o moralmente devianti, i cittadini appartenenti a minoranze etniche e linguistiche che lottano per la conservazione della propria identità31. È sul trattamento di questi soggetti che si concentra la maggioranza delle critiche della comunità internazionale sul mancato rispetto dei diritti umani da parte del governo cinese32. Nonostante l’impegno al rispetto dei diritti umani sia stato declamato dalle autorità cinesi da diversi anni e sia stato persino formalizzato in sede costituzionale nel 2004 con una modifica dell’Art. 33 («Lo Stato rispetta e protegge i diritti umani»33), infatti, appare del tutto evidente che i diritti costituzionali di questi cittadini continuano a essere violati in ossequio al pubblico interesse. Ma vi è anche un’altra categoria, forse meno appariscente della prima,

per la quale l’affermazione della legalità non ha comportato un reale ampliamento dei diritti. È composta da quelle decine di milioni di individui emarginati, migranti e irrilevanti che con l’abolizione delle danwei hanno perso il lavoro, l’alloggio e l’assistenza sanitaria precipitando in un sommerso privo di ammortizzatori, i cui interessi sono stati sacrificati a favore di quelli delle componenti più rapidamente integrabili della società. È composta dalle masse di cittadini che hanno subito espropri, demolizioni o deportazioni nel quadro dei grandi progetti infrastrutturali e urbanistici che hanno trasformato il volto della Cina, o dalla forza lavoro migrante, sfruttata da un’imprenditoria spregiudicata e collegata al potere politico, alla quale l’autonomia individuale è stata concessa soprattutto per potersi spostare per il paese alla ricerca di un’occupazione precaria e irregolare, privata di qualunque protezione sociale dalla disgregazione dell’organizzazione socialista34. Questa parte più debole della società cinese non solo non è stata premiata dalle scelte normative operate dal legislatore riformista cinese, ma in generale ha sinora avuto scarsissimo accesso alla tutela giuridica dei diritti enunciati dalla legge e ha subìto muta gli effetti della riconversione socioeconomica. Nei momenti in cui queste masse sfruttate alzano la voce, mettendo a repentaglio la sicurezza pubblica o l’efficienza produttiva, la legge tende a intervenire contro di loro, e ciò in particolar modo quando quelle voci siano dirette o organizzate da soggetti antisociali. Negli ultimi anni, tuttavia, si sono avvertiti i segni di un cambiamento, sia sotto il profilo normativo, sia sotto il profilo dell’applicazione del diritto.


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Innanzitutto, molti degli atti normativi più recenti sembrano tenere in maggior considerazione i settori svantaggiati della società, riconoscendone e tutelandone in maniera più decisa e più precisa i diritti fondamentali e integrandoli il più possibile nella società “armoniosa”: emblematica, in questo senso, la legge sui contratti di lavoro del 2007, il cui fine precipuo è quello di far emergere il lavoro nero e dotare tutti i lavoratori di una tutela contrattuale minima. Questo orientamento della politica legislativa cinese è dovuto a vari fattori politici, socioculturali e tecnico-giuridici. Riflette la scelta, effettuata dal governo comunista con l’inizio del nuovo millennio, di riequilibrare e uniformare la crescita economica e di ridurre le sperequazioni sociali, riprende impegni assunti sul piano internazionale per mezzo di accordi e trattati, e rappresenta più in generale un portato della maturazione della società cinese. Anche il cambiamento in atto nel modo di formazione delle leggi, che è oggi assai più complesso e partecipativo di quanto non fosse prima, ha inciso sull’espressione del legislatore: ormai vi partecipano non soltanto il Partito e il governo, ma anche le parti sociali, l’accademia, l’opinione pubblica e in diversi casi sono intervenuti nel processo formativo persino soggetti stranieri35. Finanche il parlamento, che per tanto tempo non aveva svolto che un ruolo di ratifica di decisioni prese internamente dal Partito e che rimane fortemente deficitario dal punto di vi-

sta della legittimazione democratica, ha cominciato a esprimersi con maggior vigore, discutendo accesamente i progetti legislativi, modificandone il testo e in qualche caso rinviandone pure la programmata approvazione. Un altro elemento che contribuisce a determinare la graduale inclusione dei settori emarginati nell’orbita della legalità è il fazhi stesso, ossia la crescente diffusione nella società cinese degli strumenti e delle tecniche giuridiche e la parallela riduzione della distanza – sino a ieri abissale – che separa la law in the books dalla law in action. In particolare, è la categoria degli avvocati che sta giocando una funzione sempre più centrale. Nel 1996 una nuova legge li ha affrancati dalla loro dipendenza dalla pubblica amministrazione e, da allora, la categoria ha acquistato un’autonomia e una competenza tecnica tali da riuscire a imporre all’intero sistema, in primo luogo ai giudici, una più rigorosa aderenza alle norme di legge e un più attento formalismo. Nella giustizia civile la dialettica tra la magistratura e l’avvocatura si gioca ormai ad armi pari, perché se è vero che nel sistema cinese il potere del giudice è più ampio e discrezionale di quello a cui siamo abituati in Occidente e più direttamente condizionato dalla politica, è anche vero che gli avvocati difendono clienti economicamente sempre più forti e portatori di interessi sempre maggiori, e sono dunque a loro volta in grado di esercitare una pressione politica non indifferente sulla gestione dell’attività giurisdizionale.

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╡ Per quanto riguarda quella penale, invece, la situazione è alquanto diversa. Qui il conflitto tra il principio di legalità e quello del ruolo guida del Partito Comunista è forte, e lo scrutinio dell’attività giudiziaria da parte di un ceto di avvocati autonomo e agguerrito non viene considerato ammissibile. Ma è proprio questo il contesto nel quale il virus della legalità assume la sua forma patogena e sembra poter germogliare la nuova legalità a cui si riferisce il titolo di questo scritto. Il caso Sun Zhigang, la nascita e la repressione della lega per la tutela dei diritti Gongmeng, l’emergere di una categoria coraggiosa di avvocati per la tutela dei diritti (weiquan lüshi), altri fenomeni ed episodi simili – sui quali si rinvia al saggio di Flora Sapio contenuto in questo volume – sono esempi di un fenomeno del tutto nuovo e carico di implicazioni, la cui caratteristica comune è quella di mettere in luce la sempre più evidente contraddizione tra la teoria dello Stato di diritto e la prassi del potere del Partito Comunista, tra il governo (per mezzo) della legge e il governo dell’uomo. Ciò che infatti caratterizza queste forme di dissenso e le rende particolarmente pericolose non è soltanto la natura privata della categoria professionale che le sta conducendo e le sta tecnicamente strutturando nel modo più corretto ed equilibrato possibile, ma proprio il fatto che questi “dissidenti” si limitano ad appellarsi al rispetto della legalità, aderendo nel modo più rigoroso e for-

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male alla legge ed evidenziando in tal modo la contraddizione di fondo in cui si muove l’azione governativa. Il governo cinese, vincolato dalla sua stessa retorica sull’importanza dello stato di diritto e oggetto di nuove forme di scrutinio da parte dell’opinione pubblica, non può infatti più permettersi con la facilità di un tempo di reprimere arbitrariamente chi, in pratica, chiede soltanto una giusta applicazione delle norme legali. E i giudici cinesi si trovano in una situazione sempre più imbarazzante, schiacciati tra la tendenza a un’applicazione tecnica della legge e le resistenze derivanti da un sistema di controllo politico della loro attività che ancora riflette il modello organizzativo leninista dell’unità dei poteri dello Stato36. La magistratura cinese è un potere gerarchico, organizzato in modo piuttosto simile a quello in cui, in molti sistemi giuridici occidentali, sono organizzati gli organi della pubblica accusa. I giudici non dispongono di alcuna garanzia di autonomia o di inamovibilità e l’avocazione dei processi, la revisione delle sentenze e altre forme di ingerenza delle gerarchie interne sull’operato del singolo magistrato sono frequenti, come lo sono le dirette interferenze dei funzionari del Partito Comunista, realizzate sia attraverso strumenti informali, sia per mezzo di appositi meccanismi istituzionali. I giudici debbono rispettare il ruolo «direttivo» delle commissioni politico-giuridiche (zhengfa weiyuanhui) del Partito, mentre ogni


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aspetto della vita concreta delle corti – dal bilancio ai rapporti di lavoro, dagli alloggi all’educazione – è controllato dagli organi locali del governo. Le decisioni giudiziali sono dunque strutturalmente viziate, soprattutto nei casi di controversie politicamente o economicamente importanti o tra soggetti di diverse regioni del paese.

Un effetto particolarmente grave di tale situazione è la vistosa difficoltà di eseguire le sentenze in luoghi diversi da quelli in cui sono state pronunciate, a causa della scarsa collaboratività, quando non dell’ostruzionismo delle amministrazioni locali coinvolte37. Per effetto del radicamento del fazhi, la capacità di interferenza dell’esecutivo e

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del Partito sulle decisioni giudiziarie si sta riducendo, e non sono pochi i casi in cui i giudici hanno avuto il coraggio di prendere delle decisioni legalmente corrette contrastanti con la volontà politica. Ma si tratta di un processo lento, anche perché l’idea di fondo che la decisione giudiziale possa o debba essere indirizzata dal potere politico rimane forte. Il caso della massaggiatrice dell’Hubei Deng Yujiao, dibattutissimo sui media cinesi nell’estate del 2009, è assolutamente emblematico del perpetuarsi, in una forma nuova, di questo atteggiamento. L’arresto della donna, accusata dell’omicidio di un alto funzionario locale e del ferimento di un suo collaboratore che avevano tentato di violentarla, ha suscitato una forte reazione nell’opinione pubblica cinese, che vi ha visto l’ennesimo esempio di ingiustizia e di connivenza di fronte all’immoralità e alla prepotenza dei funzionari. La massiccia mobilitazione del «popolo della rete», che di Deng Yujiao aveva fatto un’eroina e un simbolo della lotta ai funzionari corrotti, ha spinto l’autorità giudiziaria a rilasciare la donna, a derubricare l’accusa di omicidio in eccesso di legittima difesa e a emettere rapidamente una condanna mite, capace di accontentare un po’ tutte le parti coinvolte. Il caso, che è stato considerato una riprova evidente del ruolo fondamentale di garanzia e scrutinio ormai assunto dalla società civile nell’affermazione della legalità, dimostra tuttavia anche quanto la magistratura cinese sia sensibile alle pressioni della politica, aprendo inquietanti prospettive quanto alla malleabilità degli organi giudiziari (e di quelli politici che li controllano) di fronte alle pressioni dell’opinione pubblica38. In fondo, i grandi quesiti che si pongono alla Cina sono ormai molto simili, quando non analoghi, a quelli che deve affrontare l’Occidente: i temi sono il rapporto tra politica, diritto e informazione, le forme di partecipazione popolare alle scelte del


╡ governo, i criteri di rappresentanza e di bilanciamento degli interessi sociali, la tutela delle componenti deboli della società e dell’ambiente naturale, la libertà di informazione. Il modo in cui la Cina tende ad affrontare questi problemi però appare del tutto originale. La questione della legittimazione democratica del potere politico non vi riveste la stessa centralità che ha in Occidente: una progressiva riforma del sistema elettorale verso forme di partecipazione democratica più immediata e diretta è in agenda, ma non è considerata una priorità, mentre l’ammissione di forme di aggregazione politica realmente autonome dal Partito è fuori discussione.

Piuttosto, lo sforzo innovativo è dedicato a istituire e attuare criteri meritocratici e tecnocratici sempre più efficienti per l’attribuzione dei ruoli sociali e la selezione dei governanti, e in questo processo il diritto ha preso a svolgere un ruolo primario. Mentre noi siamo ancora prigionieri di una retorica della legittimazione politica popolare e della libera informazione che tende ad apparire sempre più vacua e superata, la Cina lavora alacremente all’istituzione di un sistema istituzionale “di tipo nuovo”, nel quale la guida politica del Partito e il principio di legalità sono dinamicamente intrecciati e bilanciati tra loro nel supremo interesse della crescita socioeconomica nazionale.

Renzo CAVALIERI

Professore associato di Diritto privato comparato e di Diritto dell’Asia Orientale, Università di Venezia Ca’ Foscari; professore di Diritto cinese presso la Pontificia Università Lateranense; Accademico Fondatore della Classe Asiatica dell’Accademia Ambrosiana; Professorial Research Associate della School of Oriental and African Studies. Tra le sue pubblicazioni: La legge e il rito: lineamenti di storia del diritto cinese (1999); L’adesione della Cina alla WTO (2003); Commercio internazionale e investimenti esteri in Cina (2006); Germogli di società civile in Cina (2010). www.leggicinesi.it/default.asp

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¶ SUSSURRI E GRIDA DELLA NUOVA CINA

Una indagine sugli orientamenti di valore cinesi nella modernità attraverso esperienze di didattica di intercultural management

Cina: non solo moda, ma modello di civiltà


Margherita Sportelli

A partire dalla metà di questo primo decennio degli anni 2000, sollecitato dall’onda di un ormai conclamato miracolo economico che ha investito il Paese, lo studio della lingua e della cultura cinese nelle università italiane ha subito un forte impulso, affiancato dalle necessità di formazione dei settori della produzione e dei servizi, impreparati ad affrontare una differenza culturale percepita come sensibile. Sono così proliferati anche Master e percorsi di formazione postlaurea, presso Scuole di Impresa e di Alta Formazione, collegate alle università e ai centri di ricerca con focus sul Paese di Mezzo e sui mercati asiatici. Contemporaneamente, con il progressivo sviluppo dell’economia e del ruolo della Cina negli equilibri geo-politici e nell’Asia – Pacifico, il Paese ha avviato un restyling di immagine volto alla valorizzazione della sua cultura e alla diffusione della sua lingua nel mondo. E poiché il primo e più ingente patrimonio cinese è quello del wen 文, carattere unico con il quale sottolinea la coerenza e organicità semantica tra lingua e civiltà, è il wen che oggi la Cina intende esportare nel mondo, dopo aver importato in questi anni ogni sorta di know-how

tecnologico, mostrandosi predisposta nel presente alla esportazione non solo di merci, ma anche di intelligenza e creatività. Questo processo è iniziato con metodo cinese, sistematico e capillare, attraverso la fondazione di Istituti Confucio, associati alle principali università estere, non trascurando quelle italiane. La stessa denominazione degli istituti a Confucio, il saggio del VI secolo avanti Cristo, che ha ispirato gli orientamenti di valore dominanti della civiltà cinese, è un chiaro riferimento al radicamento della società cinese ai propri principi fondativi. Lo studio xue 学 , quale fonte di coltivazione della persona umana, un umanesimo fondato su principi di autorità ma al contempo di reciprocità shu 恕, il focus sulla relazione umana e sulla vocazione sociale dell’uomo, che sono tutti valori confuciani, potrebbero contrastare con una nuova Cina più spregiudicata e individualista, impegnata nella gloria dell’arricchirsi – per parafrasare la celebre svolta segnata da Deng Xiaoping, con lo slogan “arricchirsi è glorioso” – e con una proiezione aggressiva della nuova economia socialista di mercato. Quanto a colei che scrive, studio la


¶ Cina da trent’anni, ovvero da tempi ancora incontaminati dalla moda del cinese, nei quali non era facile essere orientalisti senza essere considerati studiosi eccentrici o individui improduttivi, che non dovessero in qualche modo guadagnarsi il pane attraverso una professione o l’acquisizione di una utile competenza. E in questi trent’anni i sentimenti che hanno accompagnato la mia relazione con il mondo cinese sono stati quelli che accompagnano un grande amore, variando dalla passione alla rabbia e viceversa. Essi mi hanno accompagnato dalle meditazioni sotto le zanzariere negli anni ottanta, in una campagna incontaminata che presto sarebbe stata aggredita dalla modernità, fino al tumulto della urbanizzazione di oggi, quando per calpestare la terra gialla, come i cinesi chiamano il proprio Paese, per riappropriarmene, appena atterrata a Shanghai faccio un bagno di folla tentando di riconquistare la città a piedi fino al Bund, ove il fiume Azzurro torna a rivelarsi, grigio di polveri, ferito. E poi gli occhi liquidi dei cinesi, persi nel ricordo di una storia così antica, eppure vividi di improvvisi balenii, che dietro le pupille acquose, nere e profonde, svelano l’intelligenza della sopravvivenza, un radicamento ineluttabile alla propria identità, l’orgoglio di una appartenenza. Come comunicare il cuore della Cina, la sua pancia, il suo pudore

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e la sua riservatezza, la sua sfrontatezza e la sua voglia di riscatto dalle umiliazioni del Novecento, la capacità di cambiamento, il miracolo della crescita e il radicamento dei valori, inscritti nel dna della nazione? La sua capacità di resistenza passiva e la lunga marcia di un popolo contadino verso il futuro, la consapevolezza dei rischi della esposizione alla modernità eppure la fiducia in essa?

Appellativi

di relazione e principi di riservatezza nella comunicazione con i cinesi Spiegare la Cina è una impresa impossibile, che mi riesce più attraverso l’energia della passione che quella dei ragionamenti. Eppure è il mandato accademico e scientifico che mi è dato nei master di Intercultural Management come nei percorsi professionalizzanti dedicati alle competenze di comunicazione e negoziazione con i cinesi. Nel mese di ottobre del 2009 giunsi alla Scuola di Alta Formazione SIAF di Volterra, collegata alla Scuola Sant’Anna di Pisa, per la mia consueta sessione formativa post-laurea dedicata agli orientamenti di valore dei cinesi nella comunicazione e nei comportamenti organizzativi. Ero giunta nel campus silenzioso tra le colline senesi, con la consapevolezza di dover dire molto e di avere poco tempo.


Margherita Sportelli

Quel giorno però il destino mi avrebbe dato una mano: in aula ci sarebbe stata Zhou Yin. Giovane cinese con una solida educazione di base, lavora in Lombardia per un gruppo cinese di import – export nel settore del tessile abbigliamento e ha sposato un giovane italiano. Zhou Yin è prima a giungere in aula tra i suoi compagni e trovandomi alle prese con il pc, ove avrei inserito la mia presentazione didattica, mi saluta: – Buongiorno professoressa, le porto un caffé? Sorrido e mi chiedo quando sia stata l’ultima volta che mi sia stato offerto di portarmi un caffè in un contesto universitario. Sorrido ancora e ringrazio, ma no, due caffè alle nove del mattino per me sono dav-

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¶ vero troppi, ho già fatto colazione ma grazie mille per il pensiero gentile. Attendiamo che la classe si sia composta e comincio. Sono contenta che oggi ci sia in aula una testimone del suo Paese, che avvalori o riproponga una analisi critica della materia che esporrò. Zhou Yin è sottile e ha lunghi capelli neri, ascolta attenta e prende appunti, confessa che dell’Italia le piacciono la mentalità aperta e la cultura, come la qualità della vita, ma che la infastidiscono i pregiudizi dei media sul suo Paese e sulla sua gente: i cinesi? tutti immigrati, contraffattori e mafiosi. Ma i cinesi sono anche grandi lavoratori, parsimoniosi e profondamente attaccati ai valori della famiglia e della comunità, ove tengono in gran conto la relazione umana e il rispetto del prossimo. Amano i bambini, il gioco e la buona tavola, anche se al di fuori del proprio gruppo sembrano chiusi e riservati. E lo sono infatti, ma spesso ciò avviene perché lavorano molto e non hanno tempo per coltivare altre relazioni se non quelle all’interno della comunità sociale ed economica di appartenenza. Questo mi spiega Zhou Yin e lo so, lo condivido, la sua testimonianza in aula però sarà più efficace e reale di qualsiasi teoria io possa proporre. Chi ha paura della Cina? Se qualcuno ne avesse, la grazia di Zhou Yin e la sua garbata fermezza opporranno una solida muraglia a

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qualsiasi pregiudizio. Accanto le siede Cecilia, ha conseguito una laurea triennale alla Facoltà di Scienze Politiche di Milano, è reduce da un anno e mezzo trascorso a Shanghai a studiare la lingua, della Cina le piacciono la frenesia e le opportunità che offre, le resta però un profondo sentimento di inadeguatezza, la consapevolezza che ha molta strada da percorrere, ma lì vede un futuro possibile che in Italia non riesce a immaginare.Zhou Yin ha proiettato il suo futuro in Italia, Cecilia qui non vede futuro e prova un misto di risentimento e rabbia, per le opportunità di lavoro e di vita che il suo paese le nega. La Cina per lei è allora non solo un’attrazione, il fascino della lingua, la prospettiva di una evoluzione, ma una sfida accettata in assenza di un’altra scelta. Chiamo gli studenti informalmente per nome, mantengo il “lei” più per rispetto che per distacco. Chiamerò i miei studenti Cecilia, Fabrizio, Silvia, Serena, Simone, ma per Zhou Yin le cose si complicano. Il cognome è Zhou, il nome è Yin, i cinesi hanno la consuetudine di chiamarsi sempre per cognome, anche tra amici, il nome proprio resta all’interno della famiglia, è denominazione troppo intima e privata, saldamente custodita nella intimità genitore-figlio. I cinesi d’altronde sono riservati o hanxu 含蓄, come si direbbe con 1

1. Bond, M. H., The Handbook of Chinese Psychology, Oxford University Press, New York, 1996, pp. 283 – 293.


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parola appropriata del lessico cinese, che traduce un valore culturale fortissimo e conferisce loro la vocazione alla manifestazione solo indiretta dei propri sentimenti, delle emozioni e persino delle opinioni. Su questa caratteristica della comunicazione cinese, sulla sua preferenza per i messaggi allusi piuttosto che per l’espressione diretta delle idee, per le associazioni simboliche e le risonanze semiotiche piuttosto che per i processi lineari sono stati spesi fiumi di inchiostro. Per descrivere la misura dell’orientamento valoriale di una cultura verso la comunicazione implicita o esplicita, verbale o non verbale, il modello dell’antropologo E.T. Hall ha distinto tra le dimensioni di high e low context (HC e LC) . A Zhou Yin – che dunque sarebbe l’unica a essere chiamata per cognome, ma che conosce le nostre abitudini, e che non desidero discriminare rispetto agli studenti italiani, ma della quale al contempo non voglio offendere la sensibilità culturale arrogandomi il diritto di violare lo spazio sacro della riservatezza onomastica – chiedo allora semplicemente come preferisca essere chiamata. Lei mi risponde: – Mi chiami xiao Zhou, professoressa. Sa di non aver bisogno di spiegarmi perché: ha sancito la giusta distanza, quella che andrà bene per 2

lei e per me. Xiao Zhou significa “piccola” Zhou. L’appellativo che mi chiede tributa a me seniority e autorevolezza, la giusta anzianità e l’esperienza della docente, a sé l’affetto e la benevolenza che un allievo richiede al proprio maestro: piccola Zhou, come dire “cara” Zhou.

Modelli di comunicazione in Cina: un caso di di-

dattica di intercultural management Poi cominciamo. L’esercizio di apertura si chiama DIE : è l’acronimo di “describe”, “interpret” e “evaluate”, dalla lingua inglese. Chiedo cioè agli studenti di descrivere, interpretare e valutare un’immagine che abbia un valore culturale, in quest’ordine, cercando di prestare soprattutto attenzione alla sequenza, senza cedere alla tentazione del processo cognitivo di procedere a un’immediata identificazione funzionale, prima di soffermarsi sulla descrizione di quanto essi vedono, nei dettagli visibilmente oggettivi. L’immagine in questione è quella di un uomo dal torso nudo, che porta “scritti sul corpo”, con vivido inchiostro nero di china, caratteri cinesi in grande numero e apparente disordine e alcune lettere dell’alfabeto latino. Gli studenti eseguono il mandato con cura, lavorando in coppie. Ce-

2. Hall, E. T., Beyond Culture, Doubleday, New York, 1976.. 3. Per approfondimenti sull’esercizio DIE si veda: Bennett, M.J., Bennett, M.J., Stillings, K. Intercultural Communiction Workshop: Facilitators guide, Portland State University 1988.

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¶ cilia lo è con xiao Zhou: parlano fitto tra loro, si confrontano. Scopriranno, a conclusione dell’esercizio, che si tratta della immagine fotografata di Zhang Huan, un artista cinese contemporaneo, noto performer ed esecutore di body art, ormai famoso nel suo Paese come in gran parte d’occidente, residente sia a Shanghai e sia a New York, interprete delle nuove generazioni di cinesi abitatori del mondo. Per quanto alcuni tra i partecipanti abbiano appreso gli elementi fondamentali della lingua cinese nel proprio corso di studi, nessuno è in grado di “leggere” con precisione l’immagine, xiao Zhou ne sarà alla fine l’interprete. Sul capo il carattere del Buddha Fo 佛e i due di guannian 观念, parola che traduce “le idee e le opinioni”. Poco sotto, sempre sulla fronte, campeggia il motto ren wei shang 忍为上, la tolleranza è un valore superiore. Sulla guancia destra, koucai bu hao 口才不好 sancisce che l’eloquenza, al contrario, non è un valore. Sotto la clavicola destra, leggiamo la domanda “hai dei sogni?”, ni you mengxiang ma? 你 有梦想吗?, mentre sul fianco destro dell’uomo compaiono i tre caratteri Kafuka 卡夫卡, che traslitterano il nome Kafka del noto scrittore. Sul braccio destro, dall’esterno verso l’interno, compaiono le dichiarazioni: “sono uno stupido” (xianzai wo shi benren 现在

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我是笨人) e “non ho soldi e neppure tempo” (wo mei qian ye meiyou shijian 我没钱也没有时间) a sancire una condizione di privazione assoluta di qualsiasi qualità e bene. Sotto la clavicola sinistra, le scritte baoyuan tai duo! 抱怨太多!e tai ruan de xin 太软的心 rispettivamente significano “ci si lamenta troppo!” e avere “un cuore troppo morbido”, mentre il braccio porta la proverbiale citazione che “ i diamanti non mutano”, zuanshi hengjiu yuan 钻 石恒久远. Sul cuore, nel quadrante sinistro del busto, in posizione inferiore rispetto alla clavicola, proprio sotto la scritta “avere un cuore troppo morbido” c’è scritto anche yi pin ru xi 一贫如洗, con il significato di “spiantato, povero in canna”, cui sotto si contrappone fuyu 富裕, che equivale ad “avere una vita agiata, essere benestanti”, allusa denuncia di una società di sperequazioni sociali e di enorme divario dei redditi e allusione forse anche al fatto che tai ruan de xin, un cuore troppo morbido e un eccesso di virtù tradizionali, si traduca alla fine in yi pin ru xi, ovvero in una condizione di povertà materiale. Sul ventre, sotto l’ombelico, qi chen dantian 气沉丹田, ci dice che “il qi affonda profondamente nel dantian”, campo del cinabro, luogo della fisiologia taoista e sede del soffio vitale, il qi appunto. Sempre all’altezza del ventre, ma questa volta sopra l’ombelico, appare la scritta kuanrong


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bieren 宽容别人, “essere tollerante verso il prossimo”, che traduce uno dei precetti sociali fondanti del confucianesimo, ovvero la capacità di relazione con gli altri ispirata da un cuore benevolente (ren 仁). Immediatamente sotto il cuore, ma nel quadrante destro del busto, campeggia l’aggettivo shizai 实

在,con il significato di “essere onesto”, schietto e genuino, e traduce le qualità della autenticità e della integrità. E subito sotto shizai, ugualmente confuciana è la scritta feichang shanliang 非常善良 (lett. essere molto buono e onesto), che si riferisce attraverso la stessa scelta linguistica alle qualità dell’uomo

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perbene, la rettitudine dei comportamenti e l’onestà delle intenzioni. Procedendo ancora verso il basso, all’altezza della pancia, chuantong shengyi 传统生意, le vie tradizionali del commercio, si sovrappongono a wangluo jianshe 网络建设, la costruzione del web. Xiao Zhou, da testimone interpreta puntualmente: – L’uomo si chiede come possa affrontare la modernità, con quali strumenti, cosa portare del suo passato nel mondo a venire, quali valori scegliere. E come correggere le mancanze. è un’immagine dell’uomo cinese – un uomo nuovo – che si domanda: che cosa mi manca per essere capace di proiettarmi con la mia umanità in questo tempo? Ma è anche la condizione universale dell’uomo in dubbio, la sua condizione esistenziale in bilico tra una pluralità di valori, le norme della sua religione e le nuove frontiere della tecnologia e della scienza, tra la dimensione della sensibilità sociale e della tolleranza e le nuove frontiere del successo e dell’arricchimento individuale, anche a costo di qualche compromesso. Terminate descrizione e interpretazione, resta da effettuare una valutazione, ovvero da rispondere alla domanda: quest’immagine ci piace? Cecilia ne è entusiasta, quella figura problematica le restituisce l’immagine di una Cina contemporanea, internazionale, proiettata nel futuro, a xiao Zhou non dispiace, ne apprezza il sincretismo, la

mescolanza degli elementi, ma alla fine leggo nei suoi occhi una perplessità, ideologica? Le resta uno sconcerto, che la vocazione cinese alla riservatezza le impedisce di rendere pubblico. La invito, se lo desidera, a dirci liberamente che cosa le dispiaccia, perché è proprio quello lo scopo dell’esercizio: snidare le resistenze culturali. E alla fine xiao Zhou ci svela che quel che la disturba non sono le idee veicolate dai caratteri, ma piuttosto un’immagine di uomo che, per i suoi gusti e per il suo senso del pudore, è troppo nuda, imbarazzante, anche se l’uomo è ritratto a mezzo busto, ha le mani castamente intrecciate sul pube e si tratta di un’opera d’arte. Xiao Zhou, infrangendo la barriera della propria riservatezza e legittimandosi dunque a non essere hanxu 含 蓄, dà prova inconfutabile del perdurare di questo orientamento di valore nel presente ma al contempo testimonia che, se i cinesi sono riservati, ciò non vuol dire che essi siano chiusi. Lo stesso esercizio è stato somministrato a numerosi gruppi di studenti, ultimi tra i quali quelli italiani che hanno frequentato il secondo anno del Corso di Laurea Triennale in Scienza e Tecnica della Mediazione Linguistica nell’Anno Accademico 2010 – 2011 presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere della Università del Salento, nell’ambito dell’insegnamento di Lingua e cultura – Lingua Cinese III con prova scritta.

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¶ Gli studenti hanno descritto, interpretato e valutato l’immagine come segue: Descrizione: Uomo orientale a torso nudo, con corpo interamente ricoperto di sino-grammi, alcuni segni di punteggiatura e lettere alfabetiche. Interpretazione: Il soggetto sembra esprimere i suoi pensieri in maniera spontanea ma silenziosa. La presenza di alcuni punti interrogativi ne è una conferma. La disposizione libera della scrittura sul corpo sottolinea alcuni caratteri in particolare, che emergono in dimensioni maggiori e più marcati. Il messaggio veicolato dal corpo è forse l’espressione di una protesta che l’individuo preferisce esprimere su se stesso piuttosto che attraverso un confronto con il mondo esterno. La macchia posta all’altezza del cuore è uno degli elementi che incuriosisce di più, e il punto interrogativo che vi compare accanto rafforza l’idea che l’uomo si stia ponendo delle domande. Il carattere cinese del cuore compare simmetricamente sulla parte destra del petto, e proprio xin 心 è uno dei caratteri più marcati. La volontà di tacere torna alla mente se si volge lo sguardo al carattere guan 关 (“chiudere”), all’altezza del collo, sede delle corde vocali e quindi della voce. Lo sguardo fiero ma rassegnato appare dissonante rispetto al messaggio. Valutazione: Apprezziamo la volontà di espressione veicolata dall’immagine, anche nella rinuncia alle parole. Per quanto gli studenti italiani possano aver interpretato con correttezza parziale il carattere guan sul collo dell’artista, che dovrebbe infatti essere associato a un altro carattere in posizione a esso inferiore, ma meno visibile nell’incavo del collo, a comporre probabilmente la parola guanjian 关 键,con il significato invece di “nodo, punto cruciale” – che cambierebbe l’interpretazione, stando a significare al contrario che l’artista “dà voce” con forza ai suoi dubbi sui valori del presente a confronto con quelli del passato – quel che più ci appare di dover sottolineare ai fini della nostra indagine è che, nell’analisi della stesso soggetto, una studentessa cinese percepisce come troppo esplicita e spregiudicata (e quindi “non hanxu” o “troppo poco hanxu”) un’immagine che al contrario gli studenti italiani interpretano come estremamente silente e sussurrata (e quindi hanxu).

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Comunicazione

pubblicitaria, corpi e tabù

Nella tradizione dell’arte figurativa cinese è rilevabile l’assenza del corpo, nascosto dall’ampiezza dei drappi e dalla ricchezza dei motivi decorativi. L’arte contemporanea di contro libera il corpo e lo esibisce: esso diventa mezzo espressivo eccellente e assume una centralità mai ricevuta in passato. Tuttavia, quel che si manifesta nell’ambito delle correnti artistiche di avanguardia e che ha funzione di rottura e di crisi, non risulta ancora accettabile per il gusto dell’uomo cinese medio, anche colto, e può addirittura offendere il senso del pudore femminile. La nudità è generalmente considerata esibizionista e disapprovata non solo sul piano morale ma anche su quello della eleganza e dell’estetica. La donna cinese, per esempio, anche in abito da sera non scopre le spalle e in un campus universitario presentarsi in aula per un summer course, anche con una temperatura di quarantadue gradi, con top a bretelle è considerato poco decoroso. Riprova della dovuta attenzione a questo orientamento di valore è l’attento studio dell’advertising condotto da molte aziende del settore della cosmesi. Ampie campagne pubblicitarie sono dedicate dalle marche occidentali più prestigiose ai prodotto per il viso, puntando generalmente sulle proprietà “sbiancanti” del prodotto, in considerazione del gusto cinese che considera eccezionalmente attrattiva una pelle bianca, ma molte meno ai prodotti per la cosmesi del corpo, che si collegano invece alla percezione del benessere e del prendersi cura di sé, piuttosto che alla bellezza tout court.

Zhang Huan, l’arte

sulla pelle

Infine, un sintetico profilo è doveroso dedicare a Zhang Huan, soggetto ignaro delle nostre ricerche didattiche e interculturali. Artista ormai molto noto e apprezzato in Cina, nacque nel 1965 nella provincia centro-orientale dello Henan. A partire dalle provocatorie performance degli anni Novanta all’interno della comunità artistica dello East Village, a Pechino, che gli erano valse anche censure e contrasti da parte delle autorità di governo, al glorioso periodo newyorkese, dal 1998 al 2005, fino al ritorno a Shanghai, ormai star internazionale dell’arte, Zhang Huan è uno dei più interessanti artisti cinesi contemporanei. Oggi anche la fase rappresentata dal soggetto della nostra analisi, quella dell’arte calligrafata sulla pelle, che culminò nel 2000 con l’opera Family Tree, appare superata. Family Tree presentava una sequenza fotografica di grandi dimensioni, ove il volto dell’artista si ricopriva progressivamente di caratteri fino ad appa-

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rirvi del tutto annerito e quindi a scomparirvi. I sino-grammi riportavano i nomi degli antenati della famiglia e invadendo interamente il volto in sequenze successive simboleggiavano il lento perdersi dell’uomo nel proprio albero genealogico, fino a risalire alle sorgenti del proprio passato e a perdersi in quelle origini. La ricerca artistica di Zhang Huan, indipendentemente dalle modalità espressive, ha sempre fluttuato tra passato e presente, tradizione e contemporaneità, istanze dell’individuo soggetto e dell’uomo sociale, “collettivo”, rappresentando una sintesi di estremo interesse dei più importanti snodi valoriali della civiltà cinese. Le più recenti performance, presentate recentemente anche al PAC (Padiglione di Arte Contemporanea) di Milano nel luglio 2010, segnano la svolta della conversione al buddismo dell’artista con il suo Ashman. L’ultimo progetto scultoreo rappresenta un Buddha monumentale realizzato con la cenere d’incenso raccolta nei templi di Shanghai, che lentamente si sgretola sotto i nostri occhi, con i cambiamenti del tempo e dell’umidità, con un soffio repentino di un visitatore distratto, in un processo irreversibile che testimonia la caducità della vita, della memoria, della stessa preghiera e una condizione di precarietà che inesorabilmente ci attraversa, con i sogni, le speranze, l’arte. Gloria di un artista, ascesa di una nazione che si guardano allo specchio e riflettono una tradizione nella quale l’uomo è richiamato a ritrovare la giusta distanza da tutte le sue conquiste, per riappropriarsi della sua misura di uomo e della appartenenza alla sua civiltà.

Margherita Sportelli

docente di Lingua e Cultura Cinese della Scuola di Formazione Permanente della Fondazione Italia Cina (Milano), professore a contratto della Università degli Studi di Trento (Corso di Laurea magistrale in Mediazione Linguistica, Turismo e Culture), professore a contratto della Università del Salento (Lecce, Corso di Laurea triennale in Scienza e Tecnica della Mediazione Linguistica). è esperta di mediazione e intercultural management e conduce attività di formazione nelle Scuole di Impresa, nel settore della comunicazione e negoziazione con la Cina e internazionalizzazione aziendale. è curatrice con Bettina Gehrke della rubrica “La finestra sul mondo”, in Economia & Management, rivista della Scuola di Direzione Aziendale dell’Università Luigi Bocconi di Milano.

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