Ticino7

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№ 44 del 30 ottobre 2015 · con Teleradio dal 1. al 7 novembre

La svoLTa

Con la fine del segreto bancario, la svizzera gira pagina. Una decisione considerata da molti poco ponderata

Corriere del Ticino · laRegioneTicino · Tessiner Zeitung · chf 3.–


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Ticinosette allegato settimanale N° 44 del 30.10.2015

Agorà Accordi fiscali. La svolta?

di

Arti Musica. Ravel e il male oscuro

Silvano de Pietro.................................................

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oreSte BoSSini .................................................

8

di

Marco alloni .....................

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FaBio Martini ..................................................

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aManda PFändler ..............................................................

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Levante Khaled Fouad Allam. Il Corano nel deserto

Impressum

Ascolti Ellery Eskelin. Il narratore

Tiratura controllata

Vitae Darco Degrussa

Chiusura redazionale

Reportage Cuori di tenebra

67’470 copie

Venerdì 23 ottobre

di

di

a cura della

di

redazione; Foto di reto alBertalli/Phovea ....

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Luoghi Cimiteri. Ombre di vita

di

GilBerto iSella; Foto di daria caverzaSio huG .........

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Redattore responsabile

Tendenze Lana. Caldi abbracci

di

MariSa Gorza ....................................................

44

Coredattore

Svaghi ....................................................................................................................

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Editore

Teleradio 7 SA Muzzano Fabio Martini

Giancarlo Fornasier

Photo editor Reza Khatir

Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55

Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch www.issuu.com/infocdt/docs ticinosette è su Facebook

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In copertina

Le colonne del potere Fotografia ©Reza Khatir

Libero verde Spesso nelle vostre pagine vi occupate di verde, banale e impersonale sia una operazione anche parchi e natura: peccato che probabilmente non provocatoria e che segna una bella rottura dopo riuscirete (in tempo utile) a testimoniare con un decenni che hanno visto solo asfalto, semafori bel Reportage gli interventi di “arredo urbano” e posteggi. In fondo questo cantone è stato con i quali Lugano sta cercando di rendere costruito con la pietra e anzi sarebbe una bella meno tetro e più vicino alla mobilità pedonale cosa levare ulteriore asfalto e piantare castagni, il suo centro. Mi aspetto che tra qualche giorno tanto per ricordare a tutti (turisti compresi) che prima delle banche e le piante e le piattaforme delle finanziare qui eravamo in legno spariranno, queste tutti contadini e che gli orti ultime magari se le porterà a Lugano sono spariti solo via qualcuno nottetempo... pochi decenni fa. per alimentare il camino di A proposito di mettere del casa propria! verde in città: vi ricordate Quello che in altri paesi quanta sorpresa e divertisarebbe considerata una mento aveva creato l’interoperazione interessante e vento fatto a Bellinzona, stimolante per tutta la coricoprendo piazza Nosetto munità (penso ai più piccoli con un tappeto di vera erba? che di fiori e piante ne vedoIo c’ero stata e penso sia tra no sempre meno) qui da noi le cose più stimolanti che Una delle rare immagini non fa altro che sollevare disponibili in rete dell’intervento siano state fatte in questo parole pesanti e poco gentili di arredo urbano provvisorio cantone a favore del ververso chi ha promosso quecitato dalla lettrice de. In particolare la sera, sti interventi. Come se in Municipio ci fosse solo uno sparuto gruppo di quando i passi delle persone erano attutiti dal incompetenti che non sanno cosa fanno e come morbido tappeto e si sentiva solo il vociare di spendere i soldi (pochi) ancora a disposizione chi si fermava e si stendeva a guardare il centro a pancia in su. Non so per quale ragione quella vista la situazione finanziaria. Sarò solo un’abitante della collina di Pregas- proposta non sia stata ripetuta, ma se fossi nel sona (qui sì che una volta c’era il verde!), ma Municipio di Lugano (o di Mendrisio, Locarno a me quello che è stato fatto in centro piace, ecc.) non mi lascerei scappare l’occasione, cippo di granito compreso (che cosa avrà poi magari in piazza Cioccaro. Così, tanto per far di tanto funerario, come qualcuno sostiene, aumentare l’arrabbiatura dei soliti detrattori io non l’ho ancora capito). Anzi, penso che (lo sport preferito nel nostro cantone, altro che proprio inserendo elementi naturali come la hockey e pallone!) e bastian contrari. Cordiali saluti, H. F. (mail) pietra in una città dominata dal cemento più


Accordi fiscali. La svolta? Politica. La Svizzera gira pagina. Una parte della società, la maggioranza dei politici, la sinistra, ma anche il Consiglio federale, sono pronti a buttarsi alle spalle decenni di segreto bancario. Un vincolo legale che ha condizionato, nel bene e nel male, l’immagine del paese negli ultimi ottant’anni. L’opinione di Fulvio Pelli. di Silvano De Pietro

I

Agorà 4

stituito nel 1934, il segreto bancario non è stato soltanto il motore dello sviluppo e del successo mondiale del sistema bancario elvetico, ma ha anche proiettato una lunga ombra sull’etica degli affari che la finanza internazionale svolge nel nostro paese. Strumento della storica svolta dovrebbe essere il cosiddetto “scambio automatico d’informazioni” tra autorità fiscali di paesi diversi: una richiesta pressante e ormai ineludibile dell’Unione Europea (UE) e dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), allo scopo di combattere l’evasione fiscale internazionale. Questo nuovo regime verrebbe introdotto in Svizzera con l’applicazione della Convenzione del Consiglio d’Europa e dell’OCSE sulla reciproca assistenza amministrativa in materia fiscale, e con l’adozione di una nuova legge che metta in pratica l’Accordo multilaterale tra autorità competenti sullo scambio automatico di informazioni relative a conti finanziari. Una decisione affrettata e mal negoziata Un primo esame parlamentare, al Consiglio nazionale, della Convenzione sull’assistenza amministrativa e dell’Accordo multilaterale sullo scambio automatico d’informazioni, si è concluso positivamente. Ma se è vero che dal secondo passaggio, al Consiglio degli Stati, ci si attende un probabile parere altrettanto positivo, è però anche vero che le polemiche non accennano affatto a placarsi. Il maggior partito svizzero, l’Unione democratica di centro (UDC), rimane fermamente contrario allo scambio automatico d’informazioni e alla collaborazione internazionale tra autorità fiscali, al di fuori della lotta al crimine organizzato. All’inizio, anche gli altri partiti di centrodestra rimproveravano alla consigliera federale Eveline Widmer-Schlumpf, ministra delle finanze, una certa precipitazione. Ancora in dicembre 2012 il Governo svizzero sottolineava la determinazione a impegnarsi “con tutte le forze” contro lo scambio automatico d’informazioni e a concludere accordi fiscali bilaterali con i singoli stati, basati su un’imposta alla fonte con effetto liberatorio prelevata in forma anonima sui clienti esteri degli istituti elvetici, continuando quindi a garantire il segreto bancario. Poi però la pressione dall’e-

stero è aumentata. La ministra delle finanze ha dichiarato che “dobbiamo fare questa discussione”; e il Governo ha firmato nel 2013 la Convenzione del Consiglio d’Europa e dell’OCSE, nel 2014 l’Accordo multilaterale (frutto del Forum globale sulla trasparenza) sullo scambio automatico, e nel maggio scorso un altro accordo Svizzera-UE sulla stessa materia. Di colpo la musica è cambiata. Istituti di credito e partiti borghesi (eccetto l’UDC) si sono schierati compatti a favore dello scambio automatico d’informazioni. Ha prevalso, evidentemente, il timore che il sistema bancario elvetico non potesse sopravvivere senza integrarsi nella lotta internazionale all’evasione fiscale, adeguandosi all’inasprimento degli standard. Come valutare questa svolta epocale e la pressione internazionale che l’ha prodotta? L’abbiamo chiesto all’ex consigliere nazionale Fulvio Pelli, già presidente del Partito liberale radicale svizzero (e in precedenza anche di quello ticinese), politico di lungo corso e oggi presidente di BancaStato (la banca cantonale del Ticino). Quello svizzero, afferma Pelli, “è un sistema super democratico per cercare di ottenere correttezza fiscale”, ma purtroppo non ha successo tra i paesi europei che “si lanciano in questa avventura di dimensioni ciclopiche, invece di riformare i loro sistemi fiscali in modo tale che la popolazione li accetti e non li trovi eccessivi”. Di conseguenza, “è tutto un mondo di illusioni, perché operativamente è molto difficile realizzare questo scambio automatico facendo in modo che poi le informazioni giungano veramente a chi devono arrivare”. Con quali ripercussioni per il nostro paese? Da un punto di vista politico per la Svizzera e per la sua piazza finanziaria è una sconfitta, di cui è complice il Consiglio federale, il quale, a livello di negoziati con l’OCSE, ha sostenuto la tesi arbitraria secondo cui lo scambio automatico di informazioni era una prassi da considerare generalizzata. Questo non è vero; e il Consiglio federale ha giocato intenzionalmente contro la piazza finanziaria, per poi arrivare in parlamento a dire: c’è una prassi consolidata a livello internazionale e se non accettiamo ci saranno sanzioni di tutti i tipi. Il che è vero. Ma se il governo avesse negoziato meglio, se avesse imposto che allo scambio (...)


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“Se il governo avesse negoziato meglio, se avesse imposto che allo scambio automatico d’informazioni doveva corrispondere l’apertura dei mercati finanziari, allora sì che si sarebbe potuto fare un servizio alla piazza finanziaria. Invece, il Consiglio federale ha deciso di perdere. Senza contropartita” (Fulvio Pelli)

automatico d’informazioni doveva corrispondere l’apertura dei mercati finanziari, allora sì che si sarebbe potuto fare un servizio alla piazza finanziaria. Invece, il Consiglio federale ha deciso di perdere. Senza contropartita.

Agorà 6

È stato un processo troppo rapido? Bisognava discutere più a lungo? È stata una scelta autonoma del Consiglio federale nei suoi rapporti con l’OCSE, impostati molto male. Una volta che l’OCSE dice che una cosa è prassi internazionale, tutti devono adattarsi, altrimenti ci sono sanzioni. E le sanzioni sono inaccettabili, perché non colpiscono la piazza finanziaria, ma la piazza industriale: sono vincoli doganali, regole complicate di approvazione di prodotti… tutta una serie di cose che puniscono un altro comparto, cioè l’industria. Quindi, la prima reazione contraria allo scambio automatico d’informazioni ce l’ha la piazza industriale, che in Svizzera conta più di quella finanziaria. L’errore profondo, veramente grave, l’ha commesso il Consiglio federale non negoziando con l’OCSE un corretto parametro tra paesi che, scambiandosi i mercati, si scambiano anche le informazioni. Questo poteva essere accettabile. Invece così abbiamo lo scambio automatico d’informazioni tra paesi che non scambiano assolutamente nulla e che chiudono i loro mercati a chi non è nella UE o in altre organizzazioni. Significa che cadrà definitivamente il segreto bancario anche per gli svizzeri? No, questo è tutto un altro discorso. Le due cose non sono assolutamente legate. Non c’è nessun bisogno di cambiare le regole in Svizzera, che sono regole sagge e permettono ai cittadini di capire che ognuno è responsabile delle proprie dichiarazioni. Questo è fondamentale: non possiamo pensare che la polizia possa sostituire l’onestà. L’onestà deve essere dei cittadini. I cittadini devono credere nello stato e avere con esso un rapporto di fiducia. E quando ci credono, barano molto meno di quando temono di essere scoperti. Le polizie fiscali sono presenti in tutti i paesi che ci circondano, e l’evasione fiscale in quei paesi è colossale. Vuol dire che con la polizia non si arriva da nessuna parte, o si arriva molto poco lontano. La strada giusta è quella di un rapporto corretto tra cittadino e stato. È questo che bisogna mantenere. Dunque, il segreto bancario per gli svizzeri dovrebbe sopravvivere nonostante lo scambio automatico d’informazioni? E perché no? Lo scambio automatico non c’entra niente con i titolari di conti che non sono contribuenti esteri. Per noi il segreto bancario finirà quando la Svizzera deciderà di farlo finire. Saranno i cittadini a dire, con le votazioni, quando non lo vorranno più.

Frontalieri: un quadro complesso Ma a complicare il quadro, in particolare per quanto riguarda il Ticino, ci sono anche i rapporti con l’Italia in materia fiscale e i problemi relativi al trattamento fiscale dei frontalieri. Dal 1976 vige tra Svizzera e Italia una Convenzione sulla doppia imposizione (CDI), che però non prevede lo scambio di informazioni e risulta quindi chiaramente inadeguata ai nuovi standard internazionali di lotta all’evasione fiscale. Questo ha reso più aspra l’annosa controversia sugli averi depositati nelle banche svizzere, soprattutto in Ticino, da parte di cittadini italiani. Con i suoi cosiddetti “scudi fiscali”, l’Italia non ha soltanto contribuito a indebolire la piazza finanziaria ticinese, ma ha anche messo la Svizzera sulle sue liste nere, penalizzando di conseguenza gli scambi transfrontalieri, gli investimenti diretti e l’industria d’esportazione elvetica. Nel 2011 il canton Ticino ha reagito di testa sua a questo degrado delle relazioni tra i due paesi, trattenendo una parte della quota delle imposte prelevate sui redditi da lavoro dei frontalieri italiani che si sarebbe dovuta ristornare all’Italia. La tensione ora dovrebbe calare, dopo che la ministra delle finanze Widmer-Schlumpf è riuscita a concordare con Roma un Protocollo di modifica della CDI Svizzera-Italia che introduce lo standard OCSE per lo scambio d’informazioni su domanda e una roadmap (cioè un’agenda dei passi successivi) che prevede tra l’altro un Accordo sui frontalieri da finalizzare entro quest’anno. E tuttavia la tensione non è diminuita, a riprova di quanto scottante sia l’intera questione e di quanto profondi siano i solchi che questa vicenda ha scavato tra l’Italia e la Svizzera. Ancora all’inizio di ottobre il consigliere di Stato leghista del canton Ticino, Norman Gobbi, in un’intervista pubblicata dalla “Neue Zürcher Zeitung” definiva “inutili” i negoziati tra Svizzera e Italia e ne auspicava l’interruzione. Cosa ne pensa Fulvio Pelli? L’Accordo sulla doppia imposizione con l’Italia non è già cosa fatta? Non so se sia cosa fatta, perché ogni volta che con l’Italia si pensa di aver fatto qualcosa, poi non lo è per niente. Intorno a questo accordo, di cui si discute e che dovrebbe essere finalmente ratificato, ci sono ancora dei quesiti aperti sui quali le due parti non sono tanto d’accordo. Noi svizzeri vogliamo una regola che in Italia tolga la disparità di trattamento tra contribuenti che favorisce i frontalieri che lavorano in Svizzera. Oggi questi frontalieri sono dei super privilegiati fiscali, i quali al beneficio di lavorare in Svizzera aggiungono anche quello di non pagare imposte in Italia. E questo è profondamente ingiusto verso gli italiani che lavorano in Italia e alimenta il frontalierato oltre il ragionevole. Il problema, con questi accordi con l’Italia che vuole


introdurre la parificazione in tempi lentissimi, non è ancora risolto. Magari i negoziatori lo risolvono. Vedremo. Esistono dubbi sulla sincera volontà dell’Italia di concludere e poi applicare l’accordo? Come spiegare, per esempio, che nella roadmap si rimanda l’attuazione di diversi punti a “un secondo tempo”? Con l’Italia dobbiamo fare due cose. La prima è questo accordo, che è già stato disegnato e doveva essere pronto in giugno ma non c’è ancora. La seconda è l’introduzione dello scambio automatico d’informazioni, che è un altro accordo, supplementare, nel quale entrerà anche un altro quesito irrisolto, quello dell’apertura del mercato finanziario. E la signora Widmer-Sclumpf, o chi per essa, non può continuamente promettere l’apertura del mercato finanziario e non far nulla per ottenerla. Quindi, la seconda rielaborazione dell’accordo di doppia imposizione, o l’accordo specifico che sarà fatto sullo scambio automatico, richiede ancora molto lavoro. Secondo me, che lo scambio automatico entri in vigore nel 2018, retroattivamente nel 2017, è tutto da provare. Ci vuole l’intesa con tutti gli stati; e questi accordi vanno sottoposti all’approvazione del popolo: bisogna stare attenti a come si negoziano. Alla luce di questi accordi fiscali, il problema dei frontalieri sarà poi finalmente risolto? Si arriverà a una “pace del frontalierato”? L’accordo sui frontalieri è difficile. La Confederazione fa gli accordi, ma li fa pagare ai cantoni. Come Ticino, abbiamo un

problema di frontalierato imponente: dal nostro punto di vista, il privilegio fiscale dei frontalieri è assolutamente ingiustificabile. In Italia hanno il problema esattamente contrario. I frontalieri dicono al loro governo: ci facciamo tutti i giorni 30-40 chilometri, avanti e indietro, vi portiamo redditi in Italia, vi risolviamo il problema della disoccupazione andando a lavorare all’estero, e voi per di più ci volete aumentare le imposte? Quindi, in Italia c’è un problema difficile legato alle proteste della popolazione frontaliera, combinate alla politica italiana per la quale chi in Lombardia e in Piemonte aumenta le imposte ai frontalieri perde le elezioni. È per questo che è così difficile questo accordo con l’Italia: perché gli interessi sono profondamente contrastanti. Ma le autorità del canton Ticino si sono comportate bene, secondo lei, in questa faccenda dei rapporti fiscali con l’Italia? Direi che il Ticino ha sbagliato due volte. Per il resto, giustamente, fa gli interessi della sua popolazione. La prima volta ha sbagliato sospendendo il ristorno, perché ha creato un clima ostile che non è servito a niente, perché alla fine ha pagato lo stesso. La seconda volta ha sbagliato aumentando le imposte ai frontalieri, portando l’imposta comunale al cento per cento, perché questa è una disparità di trattamento che porta qualche milione in più al cantone ma che serve adesso all’Italia per fare difficoltà. Questi sono stati due errori di politica populista, nel senso proprio di dire alla popolazione quello che le piace sentirsi dire, senza tenere conto che il diritto è comunque un sistema che chiede parità di trattamento.

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Ravel e il male oscuro Il compositore e pianista francese Maurice Ravel, al culmine della celebrità, dovette fare i conti con una malattia neurologica spietata e gravemente invalidante che di fatto lo portò alla morte di Oreste Bossini

Nel gennaio

Arti 8

del 1935 usciva il nuovo numero della rivista perizia ogni dettaglio del proprio stile e a padroneggiare in surrealista Minotaure diretta da Albert Skira. Il fascicolo con- maniera impeccabile tutti gli strumenti del mondo sonoro, teneva tra l’altro la riproduzione delle impronte delle mani tanto più che la coscienza e la memoria non venivano minidi vari artisti, André Gide, André Derain, Aldous Huxley, mamente scalfite da questa sclerosi inspiegabile e misteriosa. Antoine de Saint-Exupéry, Paul Eluard, Marcel Duchamp, L’apollineo Ravel, stimato come uno dei grandi musicisti del Breton e Maurice Ravel, unico musicista del gruppo. Le im- nuovo secolo da colleghi di natura diversissima come George pronte erano accompagnate da un breve testo di Charlotte Gershwin e Igor Stravinskij, sembrava in preda ai furori di Wolff, una psicoterapeuta e chiromante ebrea tedesca fuggita un Dio invidioso della sua arte e ansioso di scorticare non la pelle, ma l’anima stessa di questo dalla Germania nazista. Valentine novello Marsia. Hugo fece da tramite tra i surrealisti e Ravel, che accettò subito la Progetti e malattia proposta avendo sempre ammiraI primi sintomi della malattia rito da lontano il lavoro di questo salivano a qualche anno prima. movimento artistico. La pittrice ha Nel 1928 Ravel si trovava nella lasciato un vivo racconto del pomepenisola iberica per un tour di riggio di novembre, nel 1933, in cui concerti come pianista. Durante accompagnò Ravel nella sede del l’esecuzione della sua Sonatina per Minotaure, la tana dei surrealisti papianoforte all’ambasciata francese rigini, in rue la Boétie, dove Breton di Madrid, un lavoro suonato in e Paul Eluard li stavano aspettando: pubblico decine di volte, un buco “Lotte Wolff prese accuratamente le di memoria lo piantò in asso a metà impronte delle mani del musicista, che del primo movimento. Grazie alla furono messe una dopo l’altra prima sua abilità di compositore, Ravel su una piastra di nero fumo e dopo su riuscì a concatenare la coda allo un foglio di carta bianca. E adesso era sviluppo improvvisando alla mearrivato il momento di firmare. Ravel glio. Sul momento nessuno diede ebbe un leggero movimento all’indietro peso all’incidente, ma nel corso nel momento in cui gli venne porto il del tempo i segnali di un disordine pennino e disse chiaramente «Non Fotografia con dedica di Maurice Ravel neurologico si moltiplicarono, tanposso, non posso firmare. Mio fratello v’invierà la mia firma domani». Stava succedendo qualcosa di to che il fratello Edouard e gli amici più stretti insistettero tragico, di silenziosamente feroce... Ravel si girò verso di me e perché Ravel si facesse visitare da uno specialista. Il riposo, mi disse «Valentine, andiamo, andiamo in fretta». Mi mossi l’aria fresca dell’Atlantico e l’ossigeno della montagna non davanti a lui e l’attendevo, passo dopo passo, sotto una pioggia sembravano tuttavia un rimedio efficace. Ravel cominciava a tentare le terapie più inverosimili, pur di ritrovare l’equitorrenziale”. librio perduto. In pubblico scherzava con la consueta ironia sostenendo di soffrire di gâtisme e di anémie cérébrale, ma Il corpo come prigione Al culmine della gloria e della fama internazionale, Ravel dentro di sé era angosciato dal timore che non si trattasse stava cominciando a sprofondare in un buco nero, vittima di affatto di un rimbambimento senile, bensì di un male un male oscuro per il quale la medicina non sapeva trovare oscuro e invalidante. Per sfuggire alle chiacchiere e alle non solo un rimedio, ma nemmeno un nome. Nel giro di situazioni imbarazzanti, si gettò nel lavoro, diradando gli pochi mesi Ravel perse la capacità di suonare il pianoforte impegni mondani e chiudendosi nella casa in campagna a e di lavorare, pur mantenendo intatta dentro di sé l’imma- Monfort-l’Amaury, a un’ora da Parigi. Contro il parere dei ginazione musicale. Semplicemente non era più in grado medici, decise di affrontare una massacrante tournée di di esprimersi, di comunicare con il mondo esterno. Aveva quattro mesi in mezza Europa assieme a Marguerite Long, ancora a disposizione il linguaggio, ma anche questa facoltà l’allieva fedele a cui affidava la sua ultima e prediletta crecominciava lentamente a indebolirsi e a svanire. Una condi- atura, il Concerto in sol per pianoforte e orchestra. Per sé, incazione terribile per un uomo abituato a cesellare con infinita pace ormai di interpretare al pianoforte la parte del solista,


riservava il ruolo di direttore d’orchestra, malgrado fosse evidente agli occhi degli esperti che anche quel compito era ormai al di sopra delle sue forze. Ravel presagiva forse che il Concerto sarebbe stato il suo canto del cigno, l’ultimo lavoro consistente portato a termine, anche se le nuove idee non mancavano. Tra i progetti accarezzati c’erano, per esempio, un nuovo balletto per Ida Rubinstein tratto dalle Mille e una notte e soprattutto un’opera su Giovanna d’Arco basata sul romanzo dello scrittore surrealista Joseph Delteil, poi depennato brutalmente dal movimento per mano di Breton. Una condizione di impotenza La catastrofe era dietro l’angolo. Tornato a Parigi, la sera dell’8 ottobre 1932 Ravel, che stava rientrando in taxi all’Hôtel d’Athènes, fu vittima di un incidente con un’altra vettura. Riportò varie ferite al volto e un trauma toracico, oltre alla caduta di qualche dente, ma nulla di serio. Tuttavia, malgrado le migliori cure, sembrava incapace di rimettersi in piedi. Come scriveva all’amico Alfred Perrin, “è stato sufficiente questo stupido incidente per annientarmi per tre mesi. È solo da pochi giorni che ho potuto rimettermi al lavoro e con grande difficoltà”. In realtà, l’incidente sembrava aver scatenato gli effetti perversi della malattia, che la frenetica attività degli anni precedenti aveva soltanto occultato in qualche modo. Nell’estate successiva, passata come sempre a Saint-Jean-de-Luz, vicino al suo paese natale Ciboure, crollarono anche le ultime illusioni. Sulla spiaggia, per mostrare la sua abilità fin da ragazzo di far rimbalzare i sassi sull’acqua, Ravel colpì la vecchia amica Marie Gaudin. Un altro giorno Ravel, ottimo nuotatore, si allontanò da riva come al solito. Gli amici, non vedendolo rientrare, andarono a cercarlo in barca. Lo trovarono al largo galleggiante sull’acqua. “Non sapevo più nuotare”, si giustificò Ravel, “e fare il morto mi è sembrata l’unica possibilità di sopravvivere”. Fu l’ultima estate passata nel paese natale e questo doloroso distacco dal mondo materno segnò un ulteriore cedimento a quella sensazione di paralizzante impotenza che aveva ghermito Ravel dopo la morte della madre nel 1917.

La fine di un mondo Gli ultimi anni furono penosissimi. Come se non bastasse l’incapacità assoluta di lavorare, Ravel, ormai ridotto a uno stato semivegetativo, vide scomparire attorno a sé molte persone a lui care, come l’amico di una vita Cipa Godebsky, il collega Karol Szymanowsky e soprattutto il suo protegé Pierre-Octave Ferroud, un giovane compositore a cui il destino riserbò una sorte davvero tragica, decapitato in un incidente automobilistico in Ungheria. Colette, che aveva scritto per Ravel il libretto de L’Enfant et les sortilèges, l’opera in cui il musicista ha espresso nella maniera più incantevole quella “coscienza poetica degli oggetti” indicata da Breton come fondamento del Surrealismo, vede ancora una volta il vecchio amico nell’estate del 1937. Ravel le appare come un’ombra grigia nella nebbia, sul punto di dissolversi. “Somigliava a Ravel vivo come il ritratto fatto da Luc-Albert Moreau somiglia a Ravel morto; un gran naso corretto già dalla mano invisibile, il mento di Dante, la barba lunga e mal rasata dei morti, un’ombra marcata sotto le orbite e alla radice del naso...”. I più rinomati luminari consultati esclusero che si trattasse di un tumore, pensando piuttosto a una malattia degenerativa del cervello. L’unico di parere diverso era il professor Clovis Vincent, che propose di tentare il tutto per tutto e operare il paziente, nella speranza di trovare un tumore nascosto o qualche altra malformazione. Il fratello Edouard acconsente all’intervento, senza che Ravel ne fosse neppure informato. Credendo di sottoporsi all’ennesimo esame, venne operato nella clinica di Vincent il 19 dicembre 1937. Qualche ora più tardi Ravel aprì gli occhi e chiese di suo fratello, alimentando le speranze in una guarigione, ma subito dopo si addormentò in un coma profondo dal quale non si risvegliò più. All’alba del 28 dicembre, poco prima di compiere 62 anni, il suo cuore cessò di battere e con esso tutto un mondo musicale irripetibile, la Parigi delle avanguardie storiche e dei Ballets russes, di Proust e di Apollinaire, dei salon della Principessa de Polignac e dei cafè artistici come lo Chat noir. Fuori, le illusioni del Fronte popolare di Léon Blum erano già svanite e l’Europa si preparava a un’altra guerra.

Arti 9

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Il Corano nel deserto Scomparso lo scorso giugno, Khaled Fouad Allam è stato saggista e profondo conoscitore dell’Islam. E nel suo ultimo saggio gli spunti sui quali riflettere certo non mancano di Marco Alloni

Levante 10

“Il Corano un libro di guerra? Direi allora che anche la Bibbia è un libro di guerra. E anche il Bhagavad Gita. E anche molti altri testi sacri. I pensieri religiosi sono quello che sono. Siamo noi a farli diventare libri di pace o libri di guerra”. Così si esprime Khaled Fouad Allam in Leggere il Corano nel deserto, il lungo dialogo che ho avuto con lo studioso francoalgerino qualche tempo prima che morisse, edito nel 2015 per i tipi di Aliberti. Non è una considerazione da poco, oggi che imperversano i cultori dell’odio e della discriminazione razziale. Ma soprattutto è una verità filologica che non bisognerebbe mai dimenticare: ogni testo sacro può essere letto come libro di pace o libro di guerra, può portare all’amore o all’odio. Sono gli uomini, i lettori, i credenti i soli responsabili del destino dei loro testi sacri. I testi sono innocenti, le colpe ricadono solo nell’uso che ne facciamo.

parla di Corano riconosce subito che la sola lettura possibile è quella dell’ascolto e della perpetua interrogazione. Invitandoci così a uscire dalle paludi del pregiudizio e a conquistare le terre profonde della poesia, della bellezza e del sentimento. “A mio modo di vedere il Corano si può leggere benissimo anche senza un commentario. E il risultato di un simile tipo di lettura dipende da come ci siamo costruiti nel tempo noi: da come ci siamo emancipati, da come ci relazioniamo con il mondo e da come, per noi – nella nostra grammatica esistenziale e nel nostro repertorio culturale – un determinato verbo può significare una cosa oppure l’esatto contrario. Insomma, la lettura del Corano dipende anche dal nostro cuore”. E ancora: “Io vedo apparire all’orizzonte numerosi manipolatori. Correnti e singoli individui che tentano di costruire il loro Corano e di proporci un’interpretazione del Corano che è esclusivamente loro. E questo in funzione di quanto conosciamo fin troppo bene: strumentalizzare il Corano a fini di guerra”.

La violenza dell’uomo Non è forse in nome del Dio dei Vangeli che si sono compiuti alcuni dei più atroci abominii Una morte prematura della storia cristiana? E non sono Khaled Fouad Allam (1955–2015) (e sospetta) forse le Crociate e l’Imperialismo americano due delle più emblematiche azioni di violenza Leggere il Corano nel deserto è dunque in primo luogo un perpetrate in nome dell’Altissimo? E non è la stessa To- libro attraverso il quale riconquistare un approccio al rah a essere infarcita di riferimenti a guerra, vendetta e Corano – e dunque all’Islam – che rompa definitivamente sterminio? Pure, quanti cristiani e quanti ebrei – e quanti con i luoghi comuni a cui ci ha abituati la cultura dell’odio musulmani – hanno da sempre saputo leggere nei propri e della persecuzione. D’altra parte nacque proprio con testi fondativi un messaggio di tolleranza e comprensione, questo intento: anni fa, incontrando per la prima volta di accoglienza e amore! Le sure coraniche pullulano di Fouad a Urbino, ne discutemmo dietro un bicchiere di vino riferimenti all’amicizia e al rispetto, così come le parabole con l’entusiasmo di chi ha deciso di replicare duramente evangeliche e i capitoli veterotestamentari. Solo che la ai promotori del clash of civilizations. “Bisogna fare un libro pessima filologia e la ancor più pessima moralità di alcuni insieme” mi disse. “Io che sono un espatriato in Europa e tu che cultori dell’odio tale straordinaria evidenza preferiscono sei un espatriato in Egitto lo possiamo fare meglio di chiunque eluderla. E invece di esortarci alla pace e al dialogo ci ri- altro. Se non si riparte dal Corano dell’Islam si continuerà infatti petono – come il dissennato Magdi Cristiano Allam – che ad avere un’immagine fasulla e pregiudiziale”. Accettai subito l’odio sarebbe una prescrizione del Corano. Quando per con entusiasmo. E dopo qualche mese trascorremmo una secoli e secoli nulla ha garantito l’integrazione fra diversi lunga notte a Torino a discutere di quanto avevamo deciso quanto il mondo islamico ispirato a quello stesso Corano. di trasformare in libro. Poi la sua prematura scomparsa e il sospetto che dietro la sua morte possa annidarsi la mano di qualche integralista. Un sospetto che Fouad Allam sembrava Manipolatori e letture di parte Khaled Fouad Allam ragiona a livelli più alti, obbedisce a aver previsto. “Sono minacciato” mi disse in una telefonata. imperativi più seri di questi cultori dell’odio. E quando ci “Ma il libro facciamolo lo stesso, è più che mai urgente”.


Ascolti. Il narratore di Fabio Martini

Di Ellery Eskelin, musicista considerato a ragione una delle voci più lucide e interessanti del (post?) jazz e della musica improvvisata d’oltre oceano, ho già scritto in passato. L’uscita di un suo “solo” mi spinge a riprendere in mano la faccenda. L’ascolto di un solo di sassofono tenore non è operazione scontata. Richiede impegno, passione e una buona dose di curiosità, ingredienti che vorremmo più presenti nel pubblico europeo anche perché ci troviamo di fronte a un artista unico che nel corso della sua vita ha saputo compiere scelte festetiche per nulla scontate. Eskelin, classe 1959, pur avendo una solida formazione jazzistica, si è infatti orientato verso la libera improvvisazione (gran parte della sua produzione è reperibile nel catalogo dell’etichetta svizzera hatOLOGY/Hat Hut). Una scelta ammirevole, se si tiene conto che la maggior parte dei tenorsassofonisti americani delle ultime generazioni ha preferito percorrere le vie di un rassicurante quanto scontato mainstream. In questo CD Eskelin improvvisa quattro lunghi

brani – quattro narrazioni, potremmo dire –, sviluppati utilizzando un linguaggio fondato su note e fraseggi. Tutto l’armamentario di “tecniche estese” sulla base del quale tanti improvvisatori europei hanno edificato i propri linguaggi espressivi, resta per lo più fuori dalla porta. La sua appartenenza alla tradizione più vitale e autentica del jazz e del free jazz emerge fin da subito: nessun compiacimento virtuosistico o funambolismo strumentale (e si tratta di musicista dalle dotazioni tecnica e timbrica straordinarie). Il fuoco resta centrato sui contenuti musicali e sull’elaborazione di un lessico personale perseguito con tenacia, senza mai rinunciare ai contenuti lirici ed espressivi e agli elementi di rischio che questo approccio comporta. Una modalità che, nelle sue radici più profonde, rimanda alla musica di Lee Konitz e Sonny Rollins, improvvisatori “puri” la cui lezione, come del resto quella di Eskelin, merita di essere studiata a fondo, soprattutto oggi, in un epoca in cui la pratica jazzistica si è cristallizzata in cliché e schemi logori e senza vita.

Solo Live At Snugs di Ellery Eskelin hatOLOGY records, 2015

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A

nche quando mi occupo di casi difficili, di storie drammatiche, di fatti difficilmente “digeribili”, voglio capire. Che si tratti di un omicidio, una violenza, una tragedia della natura. Anche se fa male, anche se è difficile, il mio scopo non è “solo” riportare la notizia, informare, che è in fondo il mio compito, il mio lavoro: cerco sempre di trovare un senso, una ragione. Credo sia nella mia natura: già da piccolo smontavo tutti i miei giocattoli, per capire com’erano fatti dentro, il loro funzionamento. Poco importa se poi rimontarli era tutta un’altra storia… Da bambino volevo fare il veterinario, ma i soldi per studiare non c’erano. Ho perso mio papà da ragazzo e ben presto ho dovuto imparare ad arrangiarmi da solo. Così sono diventato giardiniere, un mestiere che mi permetteva comunque di stare a contatto con la natura, che amo e rispetto profondamente. Come poi sia finito a fare il giornalista radiofonico per le “Cronache della Svizzera italiana”, è forse frutto del caso; oppure è così che doveva andare… È nato da un incontro con Jacky Marty oltre 25 anni fa. Dopo qualche chiacchiera mi disse: “Con la tua parlantina, dovresti fare radio”. Ho iniziato con una trasmissione… sul giardinaggio e sono passato poi a collaborazioni sia per la televisione sia per la radio. Non sono diventato subito giornalista a tempo pieno. Per qualche anno – lasciato il mio lavoro di giardiniere – ho fatto l’operatore sociale alla Fondazione “il Gabbiano”. Avevo incontrato i responsabili durante un’intervista per Rete Tre della RSI, e mi avevano chiesto se volessi lavorare con loro. Ho accettato e per qualche anno ho aiutato tossicodipendenti a imparare un mestiere. Anche qui, forse non un caso, dato che uno dei miei due fratelli ha avuto grossi problemi di droga. Anche l’esperienza di operatore sociale si è conclusa e ormai – dopo aver concluso la formazione di giornalista – sono vent’anni che lavoro per le “Cronache della Svizzera italiana”. Mi occupo essenzialmente, ma non solo, di cronaca nera e giudiziaria. Non è sempre facile: si entra in contatto con i lati peggiori dell’essere umano. Ci sono stati momenti nei quali ho avuto difficoltà ad andare in onda, ma anche questo fa parte del “mestiere”. Ho due grandi passioni: la musica e la mia Harley Davidson. Entrambe mi permettono di viaggiare e sognare. Ho comin-

ciato 12enne in un garage con amici e con noi c’era… Steve Lee dei Gotthard (e si è poi capito chi aveva il vero talento). Con il mio gruppo i Brokken Lights (I Fulminati) suoniamo rock. La mia Harley invece mi permette di viaggiare sentendo gli elementi, vivendo appieno il viaggio, senza limiti, visitando posti e conoscendo persone che altrimenti non avrei mai incrociato. Un importantissimo viaggio però l’ho compiuto senza Harley. Ho preso un aereo e sono andato in Canada: ho ripercorso il viaggio di mio zio Dino Degrussa, che nel 1929, a 22 anni partì da Olivone per cercare fortuna oltre oceano. Lì ho ritrovato cugini e zii. Una zia in particolare: la vedova di mio zio, allora centenaria: Shelagh, pronipote dell’ultimo capo della tribù degli Shuswap, Yelheelna Kinbasket. Una donna eccezionale, fermo caposaldo della mia grande famiglia canadese, ma soprattutto punto di riferimento dei superstiti della tribù degli Shuswap, una tribù cui – com’è accaduto quasi ovunque nelle Americhe – è stata rubata la terra dai colonizzatori bianchi, oltre alla proibizione di parlare la propria lingua e vivere le proprie tradizioni. Per quanto io non avessi un legame di sangue né con lei né con la sua tribù, mi sono sentito profondamente vicino a lei e al suo popolo: in mia zia Shelagh e negli indiani Shuswap ho ritrovato il mio amore e rispetto per la natura. Accanto a lei ho ammirato in silenzio i meravigliosi paesaggi naturali delle Radium Hot Springs, così come talvolta, quando ancora facevo il giardiniere, mi fermavo per osservare quello che di solito ci dimentichiamo di guardare: la meraviglia della vita. In Canada ho anche trovato una famiglia, quella che non avevo forse mai avuto: zii, cugini, nipoti, una famiglia “metà bianca e metà rossa”. Ormai mia zia Shelagh non c’è più: il mio viaggio, così come la storia sua e di mio zio li ha raccontati in un documentario, Come Faccia Smorta incontrò Pelle Rossa, con la regia di Andrea Canetta. Così di loro resterà per sempre un ricordo. Io, da parte mia continuo con il mio lavoro, la musica, i viaggi. E non nego qualche dritta ai colleghi che hanno problemi con i pomodori in giardino o l’orchidea che non fa fiori…

DARCO DEGRUSSA

Vitae 12

Da piccolo cercava di capire smontando i suoi giocattoli. Come poi da giardiniere sia passato al giornalismo è un “viaggio” personale tutto da scoprire…

testimonianza raccolta da Amanda Pfändler fotografia ©Flavia Leuenberger


Cuori di tenebra a cura della Redazione; fotografie ©Reto Albertalli/phovea

Il Pantanal brasiliano è l’area umida più estesa del pianeta, una pianura alluvionale immensa ricoperta per gran parte dell’anno dalle acque. Un ecosistema ricchissimo e un luogo capace di evocare suggestioni cinematografiche e letterarie


S

ono ambienti remoti e ostili. Luoghi in cui nessuno di noi, forgiati come siamo dalla civiltà e dalle sue molteplici lusinghe, potrebbe resistere a lungo. Eppure, forse proprio in virtù della loro incontestabile purezza, il fascino profondo e viscerale di quegli spazi ci stordisce, ci abbatte. Potrebbero rappresentare lo scenario perfetto per un film di Terrence Malick (come dimenticare le parole del soldato Witt, cristico protagonista de’ La sottile linea rossa, quando incantato dal rigoglio della natura tropicale si domanda: “Cos’è questa guerra stipata nel cuore

della natura? Perché la natura lotta contro se stessa? Perché la terra combatte contro il mare? C’è forza vendicativa nella natura?”) o l’ambiente in cui collocare una nuova versione cinematografica del romanzo più celebre di Joseph Conrad (“Tenevo le spalle appoggiate al relitto del mio battello, issato a riva sul pendio della sponda come una carcassa di un grosso animale fluviale. L’odore del fango, del fango primordiale, per Giove, riempiva le mie narici; la vasta immobilità della foresta vergine era davanti ai miei occhi; c’erano macchie luccicanti sull’acqua nera dell’insenatura”, da Cuore di tenebra).


Reto Albertalli Classe 1979, dopo aver frequentato la CSIA di Lugano ed essersi diplomato presso la Scuola di fotografia di Vevey, è diventato fotografo professionista. Oggi vive e lavora tra il nativo Ticino e Ginevra, città dove ha co-fodato e dirige l’agenzia fotografica Phovea. phovea.com

a sinistra veduta aerea del Pantanal in apertura un giaguaro si abbevera

Luoghi senza compromessi, in cui la natura, le sue leggi e tutta la bellezza e la violenza che li contraddistingue, possono infettarci profondamente, mutarci in altro. Ed è ciò che a noi occidentali è capitato quando abbiamo percorso quelle acque e quelle foreste, il più delle volte alla ricerca di ricchezze più sognate che reali: la sopraffazione fisica e morale, l’affiorare degli istinti più ancestrali e bestiali (“Il profumo dei tropici e la freschezza degli esseri sono viziati da una fermentazione il cui tanfo sospetto mortifica i nostri desideri e ci condanna a cogliere ricordi già quasi corrotti”, Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici).

La legge del male È in tale cornice che si inscrive la storia di Lope de Aguirre, conquistador e condottiero feroce, che nel 1560 intraprese una spedizione con trecento uomini nelle regioni centrali del Brasile contrassegnata da stragi e violenze inaudite e conclusasi l’anno successivo con la sua cattura e la sua cruenta esecuzione. Uno degli uomini che parteciparono all’impresa, Francisco Vàzquez, tenne un diario dal quale abbiamo tratto alcuni passi. All’incontro con la natura amazzonica e con gli indigeni, fa da contrappunto il crescente abbrutimento


sopra: la pioggia cade sulla foresta del Pantanal (fotografia scattata dall’aereo) sotto: tempesta durante un trasferimento in auto


Tarantola

morale a cui vanno incontro gli uomini che partecipano alla campagna di conquista, guidati da un folle a cui il regista Werner Herzog, nel suo celebre film Aguirre, furore di Dio (1972) diede il volto di Klaus Kinski. “Poi, senza che ce lo fossimo aspettato, penetrammo in una regione completamente disabitata, e per nove giorni fummo costretti a patire la fame poiché eravamo rimasti senza provviste. In verità, il governatore e i comandanti fecero un grave errore a non consultare prima gli interpreti e le guide. E, se questa regione fosse stata più vasta, non so che cosa ne sarebbe stato di noi, perché anche il pesce che avevamo pescato non ci durò a lungo. Del resto eravamo stati presi alla sprovvista e totalmente senza scorte, perché fino a quel momento avevamo sempre trovato dei villaggi in cui passare la notte e nessuno avrebbe potuto immaginarsi che per un lungo tratto non ne avremmo incontrati più. Molti in questo periodo mangiarono solo le portulache e le bietole che crescevano sulla riva e che peraltro non erano mai abbastanza per saziare tutti. Perciò non si poté evitare che qualcuno morisse di fame”.1 “In quella regione gli indiani uccisero il capitano di marina Sebastian Gomez, Molina Villareal, Pedro Diaz, Mendoza e Augustin Rodriguez che si erano allontanati dall’accampamento per cercare da mangiare e per pescare. Le ragioni di quella strage era che il tiranno (Lope de Aguirre, ndr.), approfittando del fatto che gli indiani erano molto pacifici e venivano continuamente a fare scambi nel campo, con menzogne e lusinghe e il permesso che Don Fernando voleva vederli, ne aveva persuasi più di una cinquantina a entrare in alcune capanne; poi li aveva chiusi dentro, fatti prigionieri e messi ai ferri. Ma nel giro di quattro o cinque giorni gli indiani erano riusciti a scappare quasi tutti. Per vendicarsi essi ripresero le armi e uccisero i soldati. Ma non fu

questo l’unico danno che quel fatto ci causò: gli indiani infatti non ritornarono più a fare scambi con noi, così noi eravamo ridotti alla fame per la mancanza di quei viveri che eravamo abituati ad avere da loro in cambio di oggetti di poco valore. (…) Si disse anche, anzi si dava per certo, che Lope de Aguirre, pensando che noi avremmo potuto fuggire con le canoe che erano moltissime e in buono stato, mandando così a monte il suo malvagio disegno, andava di notte a slegarle perché la corrente le portasse via e poi dava agli indiani la colpa di averle rubate”.2 “Lope de Aguirre aveva circa cinquant’anni, era molto basso, di aspetto mediocre, con un brutto viso, piccolo ed emaciato; gli occhi, quando guardava fissamente, gli lampeggiavano nel viso, soprattutto se era in collera. Per essere un uomo non istruito era di spirito vivace e penetrante. Era basco, nato a Oñate, nella provincia di Guipuzcoa. (…) Quando era con altri era turbolento e risoluto; era molto resistente alla fatica e soprattutto alla mancanza di sonno: raramente lo si vedeva dormire, se non per pochi attimi di giorno, di notte lo si trovava sempre sveglio. (…) Era per sua natura nemico dei buoni e dei virtuosi; vedeva di mal occhio qualsiasi espressione di santità e di virtù (…). Era un cattivo cristiano; infatti faceva le cose di cui abbiamo parlato prima, come uccidere preti, monaci, donne e uomini innocenti, senza mai lasciarli confessare quando lo supplicavano e sarebbe stato possibile”.3

note 1 Francisco Vàzquez, Aguirre alla ricerca dell’Eldorado. Relazione sul viaggio del conquisatore folle nella giungla amazzonica (1560-1561), Savelli editore, 1981, pag. 35 2 Op. cit., pag. 51. 3 Op. cit., pag. 120.


Cimiteri. Ombre di vita di Gilberto Isella; fotografie ©Daria Caversazio Hug

s’indovinano transiti, promesse di profondità sconosciute, di visioni che rompono certezze. Volti scaturiti da terre vischiose, o ricoperti di pellicole e piume, volti che talora lingueggiano come onde. Sembrano fare a meno di profili e margini, quasi a difesa dell’imponderabile. Emanazioni, vien da dire, del corpo vitale e amoroso d’un tempo, adesso affidato all’intermittenza del visibile. Simulacri, entità che in ogni modo non divorzieranno dalla luce. Ectoplasmi fotografici.

Luoghi 42

Da un nulla imperfetto, lo sguardo (per Daria Caverzasio) “MIRA”, ti sussurrava uno di loro. E tu anagrammavi “ARMI”. Ma era armato il tuo occhio, o in disarmo la sua mira?

L’ora incerta, i chiarori dell’alba sospesi. Qualcuno varca il cancello, col senso di colpa nascosto sotto le palpebre. Ma non saprà di averlo varcato, perché un cancello è cancellazione, uno smarcare atti e presenze. Guardiano di passi sfiancati, che non riescono a risuonare e si disperdono nel dormiveglia. Nemmeno si scorgono frontiere. Né qui, né lì, soltanto il cigolare a vuoto in uno spazio senza più limiti, orizzonti. “Entrare e uscire, una sola cosa”, questa la sentenza del cancello. Il passaggio, se avviene, è verso luoghi dove ogni testimonianza si riduce ad attriti minimali. Consegnata a marmi e graniti, pare ostaggio dell’immobilità, espressione di un nulla imperfetto. In realtà quei luoghi vibrano. Sono pervasi di trasparenze, baluginii gracili eppure ronzanti, punteggiature d’insetti. Sono luoghi di accoglienza: velati, una faccenda di palpiti. Lanciano occhiate sommesse, simili a quelle dei fiori che stanno per concludere la loro stagione. Dispensano pannelli di immagini fugaci, che appena insorte si confondono, si rifugiano in immagini gemelle. Gocce lunghe, pendenze speculari. Ne rimane l’ambiguo arcobaleno, il suo procedere vagabondo entro festoni di paesaggio in divenire, per un lento succedersi di toni e umori. Qualcosa che ha a che vedere con la magia: il vedere dei morti. Qualcuno varca il cancello, e già s’identifica al nuovo scenario. Volti trapassati, maschere algide attratte da un gioco che soltanto loro padroneggiano. Hanno oscure occhiaie, concavità impregnate di sgomento. Ma in quell’oscuro

Colui o ciò che è fotografato, scriveva Roland Barthes, è “una sorta di piccolo simulacro emesso dall’oggetto, che io chiamerei volentieri lo Spectrum della Fotografia, dato che attraverso la sua radice questa parola mantiene un rapporto con lo «spettacolo» aggiungendovi quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto”. Le immagini – lampade, votive gibigianne – si alleano ai suoni mesti di chi ha lasciato la vita. Le partizioni sensoriali hanno perso legittimità per questo spettacolo. L’aria ha il suo bel tendersi: d’improvviso un mormorio gremito di nomi cari, concupiscenti: “Mamma Aldina, zio Fulgenzio, nonno Patrizio, nipotina Ida…”. Poi, ad accarezzare viluppi di litanie, ecco accenti felpati, sospiri, innominabili brezze. Un angelo si avvicina, con dolcezza ripone i nomi nella custodia dei volti, rifà il silenzio. Indica, in punta d’ala, un’apparizione. È il grande altro mentre svolge la sua sagoma e ne affida minuti lembi a pedine che scivolano su liquide scacchiere di riflessi. Sguardi moltiplicati, l’infinitezza di un unico sguardo diffuso. Poiché l’occhio del morto si dilata, crea aloni e luminelli che si propagano alle cose d’intorno, e nel contempo conquista a sé la loro onnivora superficie riverberante. E così nelle periferie del viso si staglia a ore alterne, anche se per opalescenze o velature, un porticato, un campanile, perfino quel cancello che, trasformatosi in sottile reticolo, ancora è lì a ricordare l’enigma della vita che collude con la morte. Dall’altrove i riverberi attingono armonie, forme e colori. Inventano memorie, leggende di rivisitazioni. Uno spicchio di cielo fa breccia nella testa, un’infilata di colonne risucchia nella sua prospettiva la mente forse solo assopita. Il tranquillo fluire e rifluire di larve, rese iridescenti dalla contiguità, disegna l’interfaccia tra il qui e i panneggi che avvolgono le lontananze cosmiche. Panneggi che spingono ai margini il volto defunto, e allo stesso tempo ne fanno il loro complemento più prezioso. Cancelli morbidi, emblemi di quel nulla imperfetto dal quale la vita costantemente riprende il cammino.



Caldi abbracci Tendenze p. 44 – 45 | di Marisa Gorza

La Settimana della moda milanese da poco conclusasi ha anticipato il mood: basta con le eteree creature dalle gambe chilometriche, meglio paffute e ricciolute pecorelle

U

n vero gregge intento a pascolare lungo i marciapiedi delle lussuose boutique di via Montenapoleone, “testimonial” della Campaign for Wool. Un’iniziativa patrocinata nientemeno che dal principe Carlo d’Inghilterra insieme a The Woolmark Company, in collaborazione con il Salone del tessile Milano Unica, e volta ad educare i consumatori a sce-

gliere la lana quale prodotto naturale ed eco-sostenibile. All’insegna del motto Live naturally and choose wool. E le modelle? Beh, c’erano anche loro, giusto per interpretare le creazioni di dieci giovani talenti, realizzate con lana merino e presentate on stage, vivace passerella che apriva la Wool Week, lo scorso inizio di settembre, lungo le iconiche strade del quadrilatero della

moda. In breve, un’affascinante e didattica esperienza per scoprire come dalla “viva” materia prima si giunga alla raffinata elaborazione creativa... Una lana davvero speciale È un dato di fatto che i capi più belli del guardaroba invernale (e non), quelli più confortevoli, caldi e gratificanti, siano realizzati in lana alme-


no al 90%. I loro colori rimangono intensi e omogenei, né con il tempo perdono forma, elasticità e morbidez­ za. Caratteristiche esaltate quando la qualità del vello è curata al massimo come succede con le pecore merino, foraggiate nei vasti pascoli australiani di proprietà degli allevatori radunati sotto il vessillo de The Woolmark Company, appunto. Certo, vi sono altri velli di animali da cui si ottengono fibre pregiate – dalla capra del cashmere all’alpaca, dalla vicuña al cammello –, ma l’unico pelo che fornisce ciò che si può definire re­ almente “lana” è quello derivato dalle varie pecore. Tra queste la merino, razza definita da un lavoro secolare di selezione, rappresenta senza dub­ bio la preminenza della qualità per

le elevate prestazioni e le esclusive caratteristiche. Il vello d’oro Come già detto, la Woolmark Company è un’organizzazione no profit impe­ gnata nello sviluppo e nella promozio­ ne della lana ottenuta dagli esemplari merino, allevati all’aria aperta nelle regioni dell’Australia moderna. Le prime greggi della razza di origine spagnola furono introdotti nel paese nel 1797, ma già nel 1870 l’Australia conquistava il primo posto nel mondo sia per la quantità che per la qualità della produzione laniera. Primato che, in questa “conquista del vello d’oro”, mantiene ancora oggi. Effettivamente le prestazioni di questa fibra sono preziose dal momento che

Cristina Kebat Visibelli Maestra d’Arte impartisce lezioni a tutti coloro che vogliono avvicinarsi al mondo della Pittura ed espone le proprie opere

insieme a

è in grado di assorbire una quantità di vapore acqueo fino al 35% del suo peso. Tant’è che i capi in merino sono ideali sia per le temperature troppo calde sia per quelle troppo fredde, assicurando le migliori proprietà isolanti e traspiranti. Nondimeno le fibre sono estre­ mamente fini e sottili rispetto alle lane tradizionali, proprietà che rende la qualità merino molto piacevole nel contatto con la pelle; l’ideale per realizzare abbigliamento performante e per le attività sportive, senza dimen­ ticare che la minor tendenza all’ac­ cumulo delle cariche elettrostatiche la rende meno incline ad attirare la polvere e a prevenire la formazione di odori sgradevoli. Insomma, vale tanto oro quanto pesa.

Marilisa

che si affaccia “oltre”, con i suoi Angeli pelosi

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Galleria d’Arte nel cuore del Quartiere degli Artisti. Quartiere Maghetti - Lugano - Per visite e informazioni: tel. 076 558 97 52 - www.civu-pittrice.ch


La domanda della settimana

Le aggregazioni comunali (come avvenuto di recente in Riviera e nel Bellinzonese) permettono di migliorare i servizi al cittadino?

Inviate un SMS con scritto T7 SI oppure T7 NO al numero 4636 (CHF 0.40/SMS), e inoltrate la vostra risposta entro giovedì 5 novembre. I risultati appariranno sul numero 46 di Ticinosette.

Al quesito “Meglio un uovo oggi o una gallina domani” avete risposto:

SI

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NO

33%

Svaghi 46

Astri ariete Il transito di Saturno vi porta a consolidare una scala gerarchica delle priorità. Apprendete le regole e preparatevi a giocare. Incontri inaspettati.

toro Sempre beneficiati dai numerosi transiti nel segno amico della Vergine. Seduttivi e affascinanti come non mai. Possibile concepimento tra il 27 e il 29.

gemelli Mercurio favorevole: se dovete concludere una trattativa fatelo tra il 25 e il 26. Riconoscimenti pubblici. Affrontate una cosa alla volta…

cancro Incremento nelle attività sociali. Nuovi incontri e opportunità di lavoro. Tra il 27 e il 29 la Luna vi sarà favorevole. Novità da un familiare o da un amico.

leone Colloqui di lavoro. Grazie a Mercurio favorevole riuscite a essere brillanti e seducenti. Eventi inaspettati tra il 25 e il 27 favoriti dal transito lunare.

vergine Dovete fare i conti con Saturno e Nettuno in aspetto angolare. Fate chiarezza e abbandonate gli atteggiamenti negativi. Bene tra il 27 e il 29 ottobre.

bilancia Mercurio e Urano in opposizione. Siete brillanti, e non avete intenzione di rinunciare ai vostri ideali di giustizia e bellezza. Irascibili tra il 25 e il 27.

scorpione Marte e Venere favorevoli. Tempeste passionali tra il 27 e il 28 a causa dell’opposizione lunare. Favorite le attività culturali e il lavoro di equipe.

sagittario Mantenete la calma: gli influssi del segno della Vergine stimolano la vostra aggressività verbale. Dieta disintossicante. Maggior riposo tra il 29 e il 31.

capricorno Opportunità tra il 27 e il 29 ma non perdete il treno. Date libero corso alla vostra natura. Particolarmente determinati nelle questioni professionali.

acquario Maggiore propensione di fronte alle situazioni velatamente trasgressive. Sbalzi umorali con la famiglia di origine tra il 27 e il 29 ottobre.

pesci Volete sentirvi più realizzati sul piano creativo, anche a scapito della vita di coppia. Opportunità tra il 27 e il 28. Curate il regime alimentare.


Gioca e vinci con Ticinosette

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La soluzione verrà pubblicata sul numero 46

Risolvete il cruciverba e trovate la parola chiave. Per vincere il premio in palio, chiamate il numero 0901 59 15 80 (CHF 0.90) entro giovedì 5 novembre e seguite le indicazioni lasciando la vostra soluzione e i vostri dati. Oppure inviate una cartolina postale con la vostra soluzione entro martedì 3 novembre a: Twister Interactive AG, “Ticinosette”, Altsagenstrasse 1, 6048 Horw. Buona fortuna!

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Orizzontali 1. È un maestro della comicità • 10. Segno zodiacale • 11. Era in voga la Pop • 12. Una bilancia • 14. Antico Testamento • 15. Sud-Est • 16. Lascito • 18. Il bel Sharif • 20. Teatro greco-romano • 21. Affermare • 22. Cono centrale • 23. Oriente • 24. Sfilata militare • 27. È simile alla cetra • 29. Sua Maestà • 30. Stato asiatico • 31. Arido • 34. Estrosi, strampalati • 35. Tradiscono la patria • 37. Sciarpa pregiata • 39. L’antico Eridano • 40. Sbarbata • 41. La fine della Turandot • 42. Diverbi • 44. L’isola di Ulisse • 46 Isola della Sardegna • 48. Involucro vegetale • 50. Stop! • 52. Lo cela il baro • 53. Il rischio del giocatore. Verticali 1. Vi si sale da Madesimo • 2. È simile al dragoncello • 3. Appunto! • 4. Ferire, danneggiare • 5. Procedura • 6. Velivolo • 7. Il Calcio del chimico • 8. Arrabbiato • 9. Il doppio di quaranta • 13. Assopita • 17. La belva striata • 19. Un acciacco della vecchiaia • 25. Omicida • 26. Sigla radiologica • 28. Una stelletta di richiamo • 32. Questa cosa • 33. Pesce prelibato • 36. Lo dice chi rimanda • 38. Un vano della casa • 43. Agenzia telegrafica russa • 45. Lago dell’Asia centrale • 47. Due romani • 49. Ultimo Scorso • 51. Mezza tara.

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La soluzione del Concorso apparso il 16 ottobre è: INSALATA Tra coloro che hanno comunicato la parola chiave corretta è stato sorteggiato: Fabio Caccia 6514 Sementina Al vincitore facciamo i nostri complimenti!

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Svaghi 47


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