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11/9

UNA FUMOSA VERITÀ

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Ticinosette n° 36 del 9 settembre 2011

Agorà 11/9. Una verità insondabile?

DI

Arti Teatro. Fanciulla allo specchio

MARISA GORZA . . . . . .

Levante Il satrapo a giudizio

DI

DI

MARCO ALLONI . . . . . . . . . . . . .

Letture La vita assente

DI

Vitae Gunda Dimitri

DEMIS QUADRI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

DI

Reportage Lotta indiana Luoghi Discariche

DI

Tendenze Star Trek

ROBERTO ROVEDA . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

TESTO E FOTO DI

G. M. AGAZZI . . .

MARCO JEITZINER . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . DI

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FABIO MARTINI. . . . . .

ROBERTO ROVEDA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Astri / Giochi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Caduta dei capelli … Capelli deboli … Unghie fragili …

L’età delle vittime globali “In che epoca sei nato?” chiede un ragazzino durante la ricreazione a un compagno. “Io sono delle Torri... e tu?”. La nascita di ognuno di noi è indubbiamente legata a una vicenda storica: così, qualcuno ha visto la luce nei giorni delle atomiche americane sul Giappone, altri nelle ore delle stragi italiane di Piazza Fontana, di Ustica e della stazione di Bologna. I più fortunati sono nati nell’anno del primo allunaggio statunitense, altri ancora durante la caduta del Muro di Berlino e lo sgretolamento del comunismo “alla russa”. Molti ragazzi che oggi frequentano le scuole elementari, invece, hanno visto la luce nel settembre del 2001: sono i “figli delle Torri” come dicevamo, o del terrorismo e della paura globalizzata. Sono i figli dell’incertezza e dell’impotenza, della morte in diretta, del crollo della modernità, del simbolo del commercio e degli affari in frantumi. In fondo siamo tutti vittime dell’11/9. È come se le morti legate direttamente e indirettamente al collasso del World Trade Center non abbiano mai avuto fine. Da quella fatidica data tutti, in buona parte del mondo, non hanno fatto altro che attendere il “prossimo attacco”. Che puntualmente è arrivato (Londra, Madrid); altre volte invece è stata la pazzia di un singolo e delle sue idee a gettare nel panico intere nazioni (Norvegia). L’incubo del nemico che viene da lontano (gli alieni, i sovietici, l’Aids) è diventata nell’ultimo decennio la consapevolezza che il nostro peggior nemico potrebbe vivere di fronte a casa nostra. Tutti noi oggi siamo ancora vittime di quell’attacco; ma il paradosso è che siamo diventati anche i “prossimi sospetti”. Una sensazione straziante e comodamente sperimentabile varcando, muniti di un’innocua valigia, il più vicino aeroporto. Buona lettura, Giancarlo Fornasier

... possono essere provocati dalla carenza di biotina.

Impressum

1 x al giorno Biotin > diminuisce la caduta dei capelli > migliora la qualità di capelli e unghie > aumenta lo spessore di capelli e unghie

Editore Teleradio 7 SA 6933 Muzzano Direttore editoriale Peter Keller Redattore responsabile Fabio Martini Coredattore Giancarlo Fornasier Photo editor Reza Khatir

lugano@publicitas.ch Publicitas Bellinzona tel. 091 821 42 00 fax 091 821 42 01 Amministrazione via Industria bellinzona@publicitas.ch 6933 Muzzano Publicitas Chiasso tel. 091 960 33 83 Pubblicità tel. 091 695 11 00 Publicitas Publimag AG fax 091 695 11 04 fax 091 960 31 55 Mürtschenstrasse 39 Direzione, chiasso@publicitas.ch Postfach redazione, Publicitas Locarno 8010 Zürich composizione tel. 091 759 67 00 tel. +41 44 250 31 31 e stampa fax 091 759 67 06 Centro Stampa Ticino SA fax +41 44 250 31 32 service.zh@publimag.ch locarno@publicitas.ch via Industria www.publimag.ch 6933 Muzzano In copertina Annunci locali tel. 091 960 33 83 Undicisettembre Publicitas Lugano fax 091 968 27 58 Elaborazione grafica tel. 091 910 35 65 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch fax 091 910 35 49 di Antonio Bertossi Tiratura controllata 72’011 copie

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Chiusura redazionale 2 settembre

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di Fabio Martini

Q

uel giorno ha segnato una svolta. Non solo nella storia del secolo nascente, iniziato sotto l’infausta luce dello scontro radicale fra culture e civiltà diverse, ma anche per quanto concerne la comunicazione mediatica e la memoria collettiva. Le immagini del Boeing 767 United Airlines 175 che si schianta sulla Torre sud del World Trade Center resterà indelebilmente impressa nelle nostre menti e in quelle delle generazioni future, anche in virtù della compulsiva riproposizione che nel corso di questo decennio ne è stata fatta. In tal senso, nel più recente passato, solo un altro filmato ha avuto la stessa potenza pervasiva e dirompente sull’opinione pubblica mondiale: quello realizzato da Abraham Zapruder la mattina del 22 novembre 1963 a Dallas in Texas, che fissò il momento drammatico dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy. Ancora oggi non sappiamo con certezza assoluta se l’omicidio del presidente americano fu opera di un complotto o l’iniziativa di un singolo individuo. Gli elementi che fanno pensare a un complotto certamente sussistono ma la verità latita. Anche per quanto concerne l’11 settembre sono state avanzate tesi di tipo complottista: la complessità dei fatti avvenuti quel giorno – l’organizzazione di un’azione terroristica senza precedenti, il dirottamento simultaneo di quattro aerei di linea, il crollo delle Torri, l’aereo sul Pentagono e lo schianto dello United Airlines 93 – hanno infatti offerto il destro alle ipotesi più disparate. Ma a favorire il diffondersi di queste posizioni, anche in ambienti come quello giornalistico in cui la cautela e l’esattezza investigativa dovrebbero essere aspetti essenziali della deontologia professionale, più che i fatti in sé sono state le scelte dell’amministrazione Bush che ha cinicamente sfruttato quegli eventi per dare il via a due campagne militari disgraziate sotto il profilo politico, militare e del debito interno. Disgraziate ma redditizie per alcuni particolari settori

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11/9. Una verità insondabile?

Agorà

A dieci anni dai tragici eventi dell’11 settembre, il confronto fra complottisti e ufficialisti resta aperto. Il giornalista Paolo Attivissimo, a cui abbiamo rivolto alcune domande, da anni si dedica all’analisi della documentazione relativa a quei fatti, con l’obiettivo di giungere finalmente a comprendere che cosa accadde quel giorno. Un approccio “laico” e indipendente, di cui, al di là delle opinioni personali, è importante tenere conto

produttivi del paese. Certo, i dubbi e gli interrogativi non mancano, nessuno lo nega, ma proporre un’interpretazione complottista in modo acritico e chiaramente teso a raccogliere audience, come ha recentemente fatto Gianni Minoli in una trasmissione dedicata all’11/9 da lui curata, lascia assai perplessi. Proprio nella prospettiva di un approccio più trasparente e libero da condizionamenti ideologici abbiamo posto alcune domande al giornalista Paolo Attivissimo, da anni impegnato attraverso il suo blog (http://undicisettembre.blogspot.com) a fare chiarezza su quegli eventi. Paolo Attivissimo, che tipo di approccio avete avuto nel vostro lavoro di analisi sui fatti dell’11 settembre e come è nata l’idea di creare un blog dedicato a questi fatti? “L’idea è nata perché cinque anni fa ci siamo accorti che le tesi di complotto più disparate e fantasiose stavano diffondendosi senza che nessuno si prendesse la briga di esaminarle e, se il caso, smontarle con i fatti. Questo stava producendo una vera e propria cortina fumogena che impediva le indagini serie sulle vere zone grigie dell’11 settembre: troppo presi a parlare di aerei fantasma al Pentagono e di improbabili demolizioni segrete, ci si dimenticava degli altri aspetti irrisolti, come la gestione della sicurezza dei voli, le norme e le tecnologie spesso inutilmente liberticide, intrusive e costose introdotte in nome della lotta al terrorismo. Per non parlare della conduzione delle guerre in Afghanistan e Iraq. Ci siamo preoccupati per il clima di paranoia e di caccia alle streghe, spesso con connotazioni antisemite, che aleggiava fra i sostenitori delle tesi alternative. Inoltre, volevamo che i nostri figli potessero avere un quadro chiaro di come sono andate realmente le cose, affinché queste follie non si ripetano in futuro. Così sul nostro blog abbiamo adottato un approccio giornalistico e al tempo stesso tecnico, concentrandoci sugli aspetti degli attentati che si prestavano a una verifica in termini (...)


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strettamente tecnici (per esempio, comportamenti strutturali, incendi, manovre aeree), rivolgendoci a esperti nei settori interessati (aeronautica, ingegneria, telecomunicazioni, esplosivistica), intervistando i diretti testimoni, acquisendo la letteratura tecnica, senza dare automaticamente fiducia a quella che viene impropriamente definita «versione ufficiale». Oltre alla sintesi degli eventi raccontata nel rapporto della Commissione 11/9 statunitense, infatti, ci sono centinaia di rapporti tecnici degli enti coinvolti. Li abbiamo verificati con l’aiuto degli esperti. Questo approccio ci ha permesso di evitare fumose considerazioni politiche: i fatti tecnici non sono né di destra né di sinistra. Gli aerei volano e si schiantano, i corpi vengono dilaniati, gli edifici bruciano e crollano in base a leggi fisiche che non si curano della politica. Lo stesso facciamo noi”.

Agorà

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Gli aspetti che paiono più inspiegabili e sorprendenti sono quelli legati all’attività di controspionaggio – che, a quanto pare, non fu in grado di prevenire l’attacco –, da un lato, e al sistema di difesa aerea, dall’altro. Che opinione si è fatto a riguardo? Come è possibile che dopo decenni di guerra fredda non fosse stato elaborato un piano efficiente di difesa del territorio statunitense? “Paradossalmente, dai documenti e dalle testimonianze emerge che fu proprio la mentalità prodotta da decenni di guerra fredda a creare il ventre molle della difesa statunitense. Tutto l’apparato militare era pensato per difendere il paese da attacchi aerei provenienti dall’esterno, e infatti le difese radar perimetrali, le cosiddette Adiz, erano una cintura fortificata intorno a tutti gli Stati Uniti. Ma dentro quella cintura esistevano amplissimi vuoti. I radar civili e militari interni erano fatiscenti sin dai tempi dell’amministrazione Reagan. Le difese non erano pensate per gestire attacchi aerei provenienti dall’interno del paese. Per esempio, le regole d’intercettazione in caso di dirottamento erano pensate per affrontare dirottamenti convenzionali, nei quali i dirottatori hanno delle rivendicazioni, usano i passeggeri come ostaggi, costringono il pilota ad atterrare da qualche parte e si inizia un lungo negoziato. Quindi i caccia americani, secondo queste regole, si limitavano a seguire a cauta distanza un aereo dirottato, per fornire supporto visivo e informativo. Per questo l’11 settembre, come del resto ogni giorno a quell’epoca, erano pronti al decollo su allerta solo quattordici caccia. I pianificatori degli attentati sfruttarono queste debolezze. Spegnendo i transponder, che identificano gli aerei in volo, i dirottatori si resero sostanzialmente invisibili ai controllori del traffico aereo in mezzo ad altri 4.500 voli. La difesa non sapeva dove mandare i caccia e quand’anche l’avesse saputo, c’era il dramma di cosa fare. Abbattere un aereo civile pieno di connazionali innocenti? Rischiare un abbattimento per errore se un aereo di linea aveva un guasto alla radio e sembrava quindi dirottato quando non lo era, come accadde per il volo Delta 1989? In ogni caso, la rapidità d’esecuzione degli attacchi non diede il tempo materiale alla difesa di capire cosa stava succedendo e che questi non erano dirottamenti convenzionali. In quanto al controspionaggio, va ricordato che all’epoca c’era il cosiddetto «muro»: una serie di normative che vietavano alla Cia di condividere informazioni e indagini con l’Fbi. I due enti sostanzialmente non si potevano parlare per legge. Avevano giurisdizioni separate: la Cia non poteva operare nel territorio Usa. Questo causò ritardi e incomprensioni fatali. Nel corso di attività investigative, alcuni dei dirottatori erano stati identificati prima degli attentati; altri investigatori avevano notato che persone mediorientali si iscrivevano a scuole di volo americane per aerei di linea ma non erano interessate a decolli e atterraggi; ma le due agenzie non si parlavano. Questi ritardi e la mancanza di coordinamento, insieme alla libertà di movimento caratteristica degli Stati Uniti, hanno impedito di collegare tutti i puntini prima che fosse troppo tardi. Questo, perlomeno, è il quadro coerente che emerge dai documenti”.

Tre dei quattro aerei dirottati andarono a segno. Indirizzare un jet di grandi dimensioni contro un bersaglio non mi pare cosa semplice. Si afferma che i dirottatori fossero però appena in grado di pilotare un Cessna… “Secondo la documentazione, i quattro dirottatori che pilotarono gli aerei avevano tutti conseguito una licenza di pilota commerciale e si erano esercitati nei simulatori per aerei di linea delle scuole di volo. Uno, Mohammed Atta, aveva l’abilitazione al volo strumentale (in condizioni di visibilità zero). Un altro, Hani Hanjour, aveva la licenza di pilota commerciale per plurimotori sin dal 1999 e aveva iniziato a frequentare scuole di volo nel 1996. Come risulta dalle interviste di Undicisettembre a piloti di linea italiani, statunitensi e svizzeri, condurre un aereo di linea in condizioni di perfetta visibilità e senza doversi occupare di decollo e atterraggio (le fasi più critiche) o di gestire il traffico aereo era alla portata di piloti con le competenze dei quattro dirottatori addestrati. Sapevano usare il pilota automatico, per cui impostarono la destinazione e lasciarono che l’aereo andasse da solo a raggiungere il bersaglio. Soltanto gli ultimi istanti di volo richiesero un pilotaggio manuale. Abbiamo fatto esaminare a un pilota svizzero i dati delle «scatole nere» dell’aereo che colpì il Pentagono: annidate nelle cifre ha trovato chiare indicazioni del fatto che il dirottatore pilota (Hanjour) ebbe numerosi comportamenti da principiante e commise alcuni errori. Ma il suo bersaglio era largo quasi mezzo chilometro: difficile mancarlo. Non solo: il dirottatore scelse un approccio orizzontale semplice, simile a quello di un guidatore suicida di un camion-bomba, invece della picchiata che tutti immaginano sia più facile ma che, come i piloti sanno bene, è in realtà molto più ardua. Lo stesso vale per le Torri Gemelle: due bersagli larghi 64 metri ciascuno e alti oltre 400 metri. La televisione olandese ha chiesto a un pilota di Cessna di provare a ripetere la manovra al Pentagono usando un simulatore di aerei di linea professionale (di quelli utilizzati per certificare i piloti) e c’è riuscito più volte. Tutto considerato, a detta degli esperti, centrare questi edifici era possibile”. Il crollo delle torri è al centro di un acceso confronto fra complottisti e ufficialisti. Gli esperti sono in grado di portare prove inoppugnabili o, data l’eccezionalità dell’evento e – immagino – l’impossibilità di verifiche sperimentali, le loro restano comunque delle ipotesi tecniche? “Gli esperti del National Institute of Standards and Technology, i vigili del fuoco di New York e i loro colleghi in tutto il mondo non hanno dubbi in proposito: il crollo fu dovuto alla combinazione degli impatti degli aerei e soprattutto degli enormi incendi innescati da ben 34.000 litri di carburante riversati nelle Torri. I roghi furono alimentati dal contenuto delle Torri: bruciò tutto, tramezze, mobili, carta, moquette. Il fatto che una struttura in acciaio (come le Torri Gemelle, prive di elementi portanti in cemento armato) collassi se viene lasciata bruciare è tristemente noto a chi lavora in questo campo. È proprio per questo che le strutture in acciaio vengono rivestite di schiuma antincendio: ma gli impatti degli aerei avevano rimosso questa protezione. Il crollo delle Torri, per quanto non abbia precedenti nella storia dei grattacieli, risulta conforme alle conoscenze del settore e non richiede l’aiuto di esplosivi o altri interventi esterni. Solo un piccolo gruppo di architetti e ingegneri è dubbioso, ma finora non ha saputo portare prove concrete a supporto dei propri dubbi. La ricostruzione tecnica del Nist e dei vigili del fuoco di New York è invece ben documentata e non è una mera ipotesi tecnica, tanto che le nuove normative edilizie statunitensi oggi tengono conto di quanto accaduto l’11 settembre”. La recente trasmissione di Gianni Minoli mandata in onda sul canale televisivo Rai Storia, pochi giorni fa, ha dichiaratamente aderito alla tesi complottista. In quanto “persona


Nel confronto fra tesi ufficialiste e complottiste, almeno in Italia e in Svizzera, mi pare che queste ultime abbiano avuto più successo. Le ragioni sono certamente molteplici e hanno, a mio parere, primariamente a che fare con il bisogno di dare una spiegazione a un evento che ha scosso profondamente l’inconscio collettivo. Qual è oggi l’atteggiamento del pubblico negli Stati Uniti? Non crede che da parte degli enti governativi americani sarebbe stata forse necessaria un’azione più incisiva e duratura per sostenere le proprie tesi?

“I sondaggi indicano che la percentuale dei sostenitori delle tesi di complotto principali, come la demolizione intenzionale delle Torri o l’aereo fantasma al Pentagono, è intorno al 6% ed è in calo. Sono molti di più i dubbiosi, quelli che sospettano che il governo Usa non sia il mandante o l’organizzatore degli attentati, ma comunque non abbia raccontato tutto. Fra questi ultimi non ho imbarazzi a mettermi anch’io: è logico e presumibile che un’amministrazione umiliata da una sconfitta devastante sia reticente e riluttante ad ammettere le proprie incompetenze. Ma il grande pubblico si è ormai stancato delle tesi di complotto, anche perché sono state presentate non da esperti, ma da persone estranee al settore, spesso con toni aggressivi e paranoici che preannunciavano una dittatura di Bush e l’introduzione della legge marziale con deportazioni di massa dei dissidenti (per i quali erano pronte – a quanto dicevano – trentamila ghigliottine). Ma l’elezione di Obama ha sbugiardato eloquentemente queste profezie di sventura. In quanto alla risposta degli enti governativi, è già stata attuata una massiccia azione di trasparenza. Gli atti del processo contro uno dei fiancheggiatori, Zacarias Moussaoui, sono stati pubblicati su Internet integralmente; un fatto senza precedenti. I rapporti tecnici dell’Fbi, della Faa (l’Ente per l’aviazione civile), dell’Ntsb (l’Ente per la sicurezza dei trasporti), dell’Asce (Associazione nazionale degli ingegneri civili) e dei vigili del fuoco a New York e al Pentagono sono tutti consultabili online o acquistabili su carta. Dietro semplice richiesta si possono ricevere copie dei video ripresi dalle telecamere di sorveglianza nelle vicinanze del Pentagono e copie dei dati delle «scatole nere». Chi ha dubbi e vuole informarsi, insomma, lo può già fare. Chi è invece convinto di sapere già tutto e resta fermo all’idea del complotto probabilmente non cambierà idea, qualunque cosa facciano gli enti governativi”.

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informata sui fatti” qual è il suo parere su quegli eventi? Sono, in altre parole, interamente spiegabili o restano delle effettive zone d’ombra? “Le zone d’ombra ci sono, ma non sono quelle citate nel programma, che oltre tutto ha proposto molte argomentazioni già rinnegate dagli stessi sostenitori delle tesi di complotto; le altre sono spiegabili se si esaminano pazientemente tutti i dati e i precedenti tecnici anziché la versione parziale e selettiva proposta dai «complottisti». Un esempio per tutti: si è detto che nei mesi precedenti c’erano state 67 intercettazioni di aerei, tutte in tempi rapidissimi, mentre l’11 settembre le intercettazioni erano fallite, ma si omette un fatto cruciale: tutte e 67 le intercettazioni erano avvenute lungo i confini degli Stati Uniti, dove la sorveglianza radar era capillare. L’unica intercettazione all’interno degli Usa, simile a quelle tentate l’11 settembre, era avvenuta nel 1999 (l’aereo del campione di golf Payne Stewart, a bordo del quale tutti avevano perso conoscenza) e richiese un’ora e venti minuti, come attestano i giornali dell’epoca”.


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Fanciulla allo specchio Quattro attori e un regista, Matteo Tarasco. Ma sopra ogni cosa Alice di Lewis Carroll, una figura femminile capace di ricordarci la grande ricchezza che può derivare dalla sconfitta e dall’esistenza vissuta ai margini della società di Marisa Gorza

Arti

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Romina Mondello è “Alice”, nello spettacolo teatrale presentato al recente Festival di Borgio Verezzi (fotografia di ©Angeles Parrinello)

L’espressione birichina, lo sguardo pieno di meraviglia sottolineato dalla corta frangetta, il fisico acerbo da adolescente... Romina Mondello assomiglia davvero alla piccola Alice Liddell, musa ispiratrice di Lewis Carroll e da lui immortalata in una dagherrotipia del 1858. Già, in piena epoca vittoriana il reverendo anglicano Charles L. Dodgson – questo era il suo vero nome – si dilettava a ritrarre bambine dai 5 ai 14 anni per coglierne la bellezza, lo stato di grazia e la perfezione morale ed estetica, insite nell’età dell’innocenza. Ovvero, quella che nella sua personalissima filosofia rappresentava la “divinità innata”, al di là di ogni convinzione religiosa. Ma ritorniamo a Romina, la giovane attrice italiana che, fin dal suo esordio nel cult televisivo “Non è la Rai”, è riuscita a catturare il pubblico per la sua genuina spontaneità e il sorriso solare. Sorriso, diventato più consapevole e intrigante, dispensato sul palcoscenico di Alice (appunto), l’intenso

e applaudito spettacolo diretto da Matteo Tarasco che, nel luglio scorso ha dato il via al noto Festival Teatrale di Borgio Verezzi, edizione 2011. E se la fanciulla scaturita dalle pagine di Lewis Carroll, da Alice’s Adventures in Wonderland a Through the Looking Glass ha generato nel tempo una notevole produzione poetica, narrativa, visiva, il talento di Romina Mondello la restituisce vibrante ed enigmatica. Persa nelle chimere da lei stessa create per fuggire al male di vivere che fatalmente l’età adulta porta con sé. “Rappresentare uno dei capolavori della letteratura inglese dell’Ottocento è un mezzo per raccontare lo spaesamento (sempre attuale) di una generazione incompresa, contando sulla fascinazione del palcoscenico, capace di ridare valore alla parola poetica” afferma Matteo Tarasco, l’immaginifico regista che ha firmato pure l’originale e incisiva scenografia. Ha difatti ideato una scatola nella quale prospettiva e percezione ven-


gono distorte. Si tratta di una asettica camera d’ospedale comune con la sua singolare edizione? “Entrambe alterano la psichiatrico vittoriano vista dall’alto: il letto e i servizi sono realtà, la prima rifugiandosi nel sogno e nella fantasticheria del attaccati al fondale-pavimento, le pareti laterali sono poi racconto, la seconda immergendosi nella follia della finzione. Poinclinate verso un ipotetico punto di fuga trebbe pure ricordare l’Amleto shakespeariano centrale. Ad aggiungere un ulteriore sfache cerca conforto nella finzione della follia. samento interviene una gradinata posta Mi si perdoni il gioco di parole...”. in alternanza alla stanza – sospesa come Romina Mondello vanta un notevole curle famose scale di Escher? – attraverso la riculum, ha partecipato a numerosi film quale entrano in scena tutti i buffi carattra cui Milano-Palermo e fiction televisive teri creati da Carroll, ai quali si aggiunge come L’isola dei segreti-Korè, ma che cosa un anacronistico Humpty Dumpty in verin particolare la rende così idonea a insione idolo pop ottocentesco. Un mondo terpretare la pièce? “Romina ha sensibilità onirico dove non è mai definito il confine e coraggio, accetta le sfide. Nel dare vita ad tra verità e finzione. Sono veri il Bruco, il Alice scava nel personaggio fino all’essenza Cappellaio Matto (entrambi interpretati con un tocco molto leggero e senza farsi trada Salvatore Rancatore), March la Lepre, volgere dal pathos. Inoltre ha fisicità e doti il Bianconiglio-Infermiera sexy (Giulia atletiche, indispensabili per recitare in una Galiani), la Regina di Cuori, la Duchessa tale scenografia dal percorso così insolito e (Odette Piscitelli) e tutte le altre maschere forzato”. del grottesco quotidiano? Esistono al di Tornando a Carroll, è noto che il chierico fuori della mente di Alice e del manicosi proponeva con i suoi scritti uno scopo Alice Liddell in un dagherrotipo del mio di Wonderland? didattico. I testi apparentemente scritti reverendo Charles L. Dodgson (1858) per bambini, rappresentano una critica Realtà: dilemma della percezione verso la scuola vittoriana, piena di veti La pièce differisce non poco dall’originale, a parte alcune e metodi punitivi. C’è un fine educativo pure nella sua celebri citazioni, per esempio quando la Duchessa sgrida la versione? “Il fine educativo della mia Alice può consistere nel fanciulla per le sue scarse conoscenze, causa dei suoi conti- suggerimento di guardare oltre la realtà oggettiva. Ogni storia è nui stupori. Tuttavia non posso fare a meno di interpellare frutto di fantasia, ma è soprattutto ciò che riusciamo a vedere il nostro regista. L’Alice di Carroll ha delle caratteristiche in quando spalanchiamo l’occhio del cuore”.

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Il satrapo a giudizio Secondo alcuni analisti, il processo all’ex presidente egiziano Hosni Mubarak rappresenta un evento epocale. Certamente si tratta di un fatto senza precedenti per il mondo arabo testo di Marco Alloni illustrazione di Micha Dalcol

Se non consideriamo il processo-farsa a Saddam Hussein e

quello in contumacia dell’ex presidente tunisino Ben Ali, nessun paese arabo aveva mai visto un tiranno raggiungere le sale di una corte. La domanda che sorge inevitabile di fronte a un evento di tale portata è: siamo sicuri che questo specifico processo sia destinato a spianare la strada alla democrazia? E soprattutto: con quale spirito la corte che si sta occupando di valutare i reati di Hosni Mubarak sta portando avanti le indagini e le corrispettive udienze?

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Il problema della credibilità La domanda non è retorica. E all’interno della società egiziana non mancano risposte differenziate. Il popolo non si fida, e inoltre, il fatto che a tenere le redini dell’intera questione sia l’esercito, dai cui ranghi Mubarak proviene e le cui gerarchie egli ha nominato, lo insospettisce ulteriormente. In altre parole: come credere a un processo che vede come imputato un ex comandante in capo della stessa giunta? Il consiglio supremo delle forze armate sembra non voler prestare orecchio ai sospetti della gente. Ma in verità la situazione è molto meno cristallina di quanto appaia. Il ritardo stesso con cui sono iniziati i dibattimenti a proposito delle incriminazioni imputate a Mubarak – in primis aver ordinato l’assassinio di 850 manifestanti durante la Rivoluzione del 25 gennaio – dimostrerebbe che la giunta militare non ha alcuna fretta di arrivare alla sentenza. Anzi, pare miri a protrarre il processo quanto basta perché Mubarak, malato da tempo, muoia. Ma un altro dato singolare è che il processo sembra quasi integralmente fondato su accuse limitate a fatti occorsi durante la Rivoluzione. Singolare, se non altro, perché la popolazione si attende una messa agli atti non già di semplici crimini ma una chiarificazione generale di trent’anni di regime: soprusi, ingiustizie, incarcerazioni indebite, affari di corruzione, vendite clandestine di gas a Israele e quant’altro. La tensione che continua ad aleggiare per il paese e che ogni venerdì vede la popolazione tornare a riversarsi su piazza Tahrir induce d’altra parte alcuni a domandarsi: e se questo processo fosse solo una farsa per addolcire gli animi?

È difficile cogliere quali siano le vere intenzioni del procuratore generale e dei vari responsabili che, finalmente, dopo tante pressioni, sono arrivati a chiamare a giudizio Mubarak. Ma certo lo svolgersi del processo mostra senza tema di smentita che ancora una volta l’ex raìs sembra voler continuare a comportarsi come il padrone indiscusso del paese: senza manifestare, non solo un’ombra di pentimento, ma nemmeno la volontà di riconoscere i fatti per come si sono concretamente dati nel corso di trent’anni. Iconografia di una “vittima” L’avranno notato anche i più sprovveduti. Mubarak sul suo letto d’invalido (vero? presunto?) ostentava, nei modi e nelle parole, lo stesso identico piglio dittatoriale che aveva nei momenti gloriosi del suo governo. Il dito alzato e pateticamente minaccioso, lo sguardo venato di disgusto e disappunto – quasi il Faraone non potesse essere umiliato a quel modo per nessuna ragione al mondo – insisteva anche nella sua condizione di carcerato a proclamare dal basso ciò che dall’alto aveva incessantemente riversato sul suo popolo con un potere insindacabile. Non solo, i due figli Alaa e Gamal stavano di fronte a lui come a impedire che le telecamere lo riprendessero: un fatto che non è sfuggito a molti analisti e che alcuni hanno qualificato come oltraggioso. Certo, c’entra sicuramente la cultura patriarcale e tribale in cui buona parte degli egiziani ancora vive e secondo la quale il padre di famiglia deve essere protetto da qualsiasi insinuazione nei suoi riguardi. Ma più ancora c’entra questo spettro della passata satrapia che ancora aleggia pur dietro le sbarre. Simbolicamente, ma anche fisicamente, Alaa e Gamal esprimevano con quelle loro posture da guardie del corpo un concetto che alla popolazione non è sfuggito: il dittatore è intoccabile. Sia come sia, Mubarak ha cominciato il suo declino fisico e storico. Da oggi in avanti, se non lo protegge la giunta e non lo mascherano i figli, l’aura di immortale dovrà cadere e la sua ora scoccare inesorabile. Così chiede il popolo che per una volta ha trovato la voce per dire: “Basta!”.


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La vita assente

Una donna, di cui non conosceremo il nome neppure alla

» di Roberto Roveda

per aver rifiutato le avance del suo superiore nella fabbrica fine del romanzo. Una città, simile a tante altre, nella grigia di bottoni in cui lavorava e che da quest’ultimo è stata deRomania degli anni della dittatura di Ceausescu. Il tempo di nunciata. Accusata di essere una sovversiva e considerata un lungo tragitto in tram per poi sottoporsi potenzialmente pericolosa, viene spiata e all’ennesimo, periodico interrogatorio da regolarmente interrogata. A tutto questo si parte del maggiore Albu, della Securitate, la aggiunge la sua condizione di donna, in un polizia segreta rumena. Queste le coordinate mondo in balia degli uomini, in famiglia, essenziali di Oggi avrei preferito non incontrarnella società come sul lavoro. mi, ultimo romanzo di Herta Müller, scritPer vincere la paura che l’attanaglia, per non trice di lingua tedesca nata e cresciuta nella cadere in un limbo dove nulla ha più imporRomania comunista e da quel paese costretta tanza, per conservare la propria dignità, la ad andarsene nel 1987 perché indesiderata. protagonista si esercita quotidianamente con Un lavoro, quindi, che riporta l’autrice, il compagno, cercando di mantenere vivi i premio Nobel per la Letteratura nel 2009, ricordi, le emozioni, le sensazioni provate alle sue radici, all’esperienza di donna, di in passato. Una vicenda di una quotidianità intellettuale membro di un gruppo di scritquasi banale per chi ha vissuto nel regime tori dissidenti fortemente avversi al regime, oppressivo di Ceausescu, ma raccontata dalla cittadina di uno Stato che mirava al completo Müller con uno stile incisivo e nervoso, crudo Herta Müller Oggi avrei preferito assoggettamento e avvolgeva in una piatta e senza concessioni, con un uso misurato non incontrarmi uniformità ogni tentativo di differenziarsi, e minimale degli aggettivi. Una scrittura Feltrinelli, 2011 ogni espressione di individualità. impietosa che unisce la “sintesi della poesia In un clima sociale e politico di questo tipo la protagonista e la franchezza della prosa” – per usare alcune parole della del romanzo cerca di conservare la sua sostanza di essere motivazione con cui alla scrittrice è stato riconosciuto il umano, tentando di sfuggire all’ingranaggio della dittatura Nobel – una scrittura fatta apposta per scavare nell’animo e delle sue istituzioni, creato apposta per disumanizzare e umano e che non teme il confronto con la realtà, costellata distruggere l’individuo. È una cittadina caduta in disgrazia soprattutto di paure, frustrazioni e false speranze.

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» testimonianza raccolta da Demis Quadri; fotografia di Reza Khatir

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Gunda Dimitri

Vitae

volevo che si esibissero senza microfoni. E volevo che anche la musica non fosse mai amplificata. Il teatro è andato subito bene. La gente ci veniva. Chiaramente gli spettacoli di Dimitri aiutavano molto, perché dopo la tournée con il circo Knie tutti lo conoscevano. Inoltre i suoi incassi restavano al teatro e aiutavano a pagare anche gli altri spettacoli. Cinque anni dopo il teatro, nel 1975, abbiamo aperto la scuola, con Dimitri e tre docenti. Il primo giorno sono arrivati 45 giovani da tutto il mondo, un po’ hippy, e abbiamo cominciato a lavorare con tre classi. Poi gli allievi sono diminuiti, perché alcuni Con la sua attività ha dato molto alla non andavano bene o non cultura cantonale. Ma, pur essendo una venivano a scuola. Da allora figura centrale per il teatro ticinese, pre- ogni anno sono entrati dodici nuovi studenti e l’istituto si ferisce agire al di fuori della ribalta è sviluppato sempre più. Io non insegnavo, ma sono stata nel 1971, abbiamo aperto il direttrice per circa nove anni. Sin dall’inizio Teatro Dimitri. Non ho più per noi era chiara l’idea di non creare una fatto l’attrice, perché mi senscuola di teatro parlato, perché di quelle esitivo meglio dietro le quinte. stevano oltre: volevamo che al centro della E poi sarebbe stato troppo: formazione ci fosse il movimento. oltre a dirigere il teatro, mi ocHo cominciato a lavorare come artista quancupavo un po’ di tutto, dalla do dirigevo ancora il teatro, che d’invertecnica alla cucina. Quando no era chiuso, per cui avevo più tempo a non c’era nessuno a casa per i disposizione. Ho iniziato facendo quadri nostri bambini, li portavo con con veli e stoffe trasparenti di tutti i colori. me. Allora dormivano sopra Con lo stesso materiale ho creato anche le il teatro. È incredibile come scenografie per tre pezzi di cui Dimitri ha fossero bravi. Era bello: mi curato la regia. Per realizzarle andavo in aiutavano in tutto e gli piaceToscana, perché lì avevo molto spazio. Ma va molto essere lì. Già durante mi sono quasi congelata: non c’erano tavoli l’inverno, quando il teatro abbastanza grandi per lavorare e allora – per era chiuso, andavo in giro un cucire a mano, stoffa sopra stoffa – dovevo po’ ovunque per trovare gli stare per terra, dove era freddissimo. Ma col spettacoli da invitare da noi. tempo ci si abitua anche a quello. Le immaSe sentivo che c’era un nuovo gini erano astratte, a parte qualche abbozzo gruppo, volevo vederlo. Esistedi casa per uno spettacolo, in quanto era vano già i video, ma non mi piuttosto l’ambiente che volevo mostrare. fidavo, perché filmano sempre Anche i miei quadri sono astratti: quando le parti migliori, ma poi lavedo qualcosa, questa trasformazione avviesciano fuori tutto quello che ne automaticamente. Una volta ero in Giapnon è buono... Tutti gli anni pone per una tournée di Dimitri e non avevo organizzavo anche un festiniente da fare. Però ho cominciato a vedere val di danza che durava due tutta la bellissima carta giapponese: da allora settimane. C’era un ambiente ho iniziato, già in albergo, a creare quadri molto bello. Ogni due giorni con carta più o meno trasparente. Ho fatto si proponeva uno spettacolo diverse esposizioni in tutta la Svizzera. Poi, diverso. E nel nostro teatro avendo altri interessi, ho iniziato a costruire invitavo anche cantastorie. gioielli e più tardi anche sculture in ebano e Per cercarli andavo in Italia, argento. Sono molto piccole, mentre i miei nei villaggi, per trovare quelli gioielli per tante donne sono troppo grandi. che non si conoscevano anMa io non voglio crearne di piccoli: quelli li cora. Durante gli spettacoli puoi già comprare dappertutto…

»

D

opo l’istruzione dell’obbligo a Zurigo, ho frequentato una scuola infermieristica a Ginevra. Per un po’ di tempo ho lavorato in quell’ambito, in Svezia, ma poi non ne ho più avuto voglia. Sono così tornata da mio padre, che aveva un atelier a Zurigo. Era scultore, ma, visto che guadagnava poco o niente con quel mestiere e aveva quattro figli, faceva anche gioielli di smalto, d’oro, ecc. La sua era la prima boutique in Svizzera: un piccolo negozio vicino al Bellevue. Lavorando con lui ho imparato cose che mi servono ancora oggi... Più tardi sono andata in Danimarca per un anno presso un atelier di ceramica, prima di tornare da mio padre. Poi ho incontrato il mio primo marito, mi sono sposata e ho avuto il primo figlio. Ma il matrimonio non è durato molto. Quindi ho seguito dei corsi per fare la segretaria, prima di frequentare la Schauspielakademie di Zurigo, che allora era molto più piccola di adesso: per poter mantenere mio figlio e me, di giorno lavoravo negli uffici della scuola, mentre la sera seguivo i corsi per diventare attrice. Finché ho incontrato Dimitri. Prima sul palco. Andavo sempre a vederlo. A dire la verità ci eravamo già conosciuti in precedenza, durante una colonia di vacanza. Comunque poi lui è andato da mio padre a chiedergli di salutarmi e a dirgli che mi aspettava dopo lo spettacolo. Io ero molto timida, ma l’ho fatto. Così ci siamo trovati ogni sera e siamo rimasti assieme. Adesso sono cinquant’anni: mezzo secolo... Quando siamo arrivati in Ticino, abbiamo subito aperto un teatro ad Ascona, dietro al Castello, ma poi ci hanno dato la disdetta perché volevano trasformare l’edificio in appartamenti. Allora, mentre Dimitri lavorava al circo, e io cercavo un nuovo spazio, qualcuno ci ha avvisato che vendevano una casa a Verscio. L’abbiamo comprata e così,


I lottatori rossi testo e fotografie di Gian Marco Agazzi

Il kushti è una tradizionale lotta indiana nella quale la forza non è tutto. Dalla respirazione all’alimentazione, all’astinenza sessuale, sono molti gli elementi che fanno di questa particolare disciplina sportiva un concentrato di cultura e tradizioni. Ma gli akhara – le palestre-monastero dove i lottatori, detti pahalawan, si addestrano senza alcuna distinzione di casta – sono sempre meno, e l’ipotesi di inserire il kushti tra le discipline olimpiche non fa che allontanare questa lotta dalle sue più profonde e affascinanti origini





A

Kolhapur, citta indiana dello stato del Maharashtra, alle cinque del mattino prima del sorgere del sole, si svolge il rito del combattimento nelle akharas, le palestre in cui i lottatori si allenano quotidianamente nella disciplina del kushti. Oltre a essere un’antica lotta – risalente a 3.000 anni fa e le cui prime notizie sono presenti negli scritti epici del Mahabarata e del Ramayana, testi redatti nel XVI secolo durante l’era dei Moguls –, il kushti rappresenta anche una filosofia di vita. Gli atleti, detti pahalawan, a quell’ora hanno già finito la sessione di corsa e si dispongono lungo i bordi del ring, una fossa riempita di terra argillosa impastata con latte, polvere di curcuma, limone e olio di arachidi, il tutto lavorato quotidianamente fino a formare un tappeto di sfere di color rosso intenso. Che la lotta abbia inizio Dopo impressionanti esercizi di riscaldamento muscolare sostenuti a ritmi vertiginosi gli atleti scendono nella fossa, sotto lo sguardo attento di alcuni ex campioni. Prima di cominciare si danno colpi sul petto, sulle cosce, a mo’ di saluto, si gettano addosso manciate

di terra rossa, vicendevolmente. Inizia il combattimento: la lotta è un corpo a corpo in cui ha il sopravvento chi riesce a mettere spalle a terra l’avversario, anche se il vincitore non è colui che dimostra forza bruta o abilità tecnica, ma l’uomo capace di dominare il proprio corpo e quello dell’avversario, nella consapevolezza della rettitudine interiore. Si fronteggiano, sudano, si rispettano: è proprio il rispetto la base di questa disciplina e se qualcuno sgarra viene severamente punito dall’allenatore. Ma è il lottatore stesso il primo a vergognarsi per essersi lasciato andare a scorrettezze e, conseguentemente, non cerca scuse ma accetta la punizione che può essere verbale o corporale. La caduta delle caste Lottano tutti, campioni e ragazzi, con il medesimo impegno e serietà, si controllano zitti, attenti, e mimano le mosse migliori poi, tutti sotto la doccia, a togliersi il rosso della terra, sono le otto e trenta del mattino e – chi andrà a scuola, chi all’università e chi a lavoro anche per aiutare a mantenere l’akharas – si rincontreranno nel tardo pomeriggio per un allenamento e una sessione di gare di fine giornata. (...)


Gian Marco Agazzi Classe 1954, vive a Chiasso e dalla fine degli anni Settanta ha esposto i suoi lavori in numerose gallerie nazionali e internazionali. Per ulteriori informazioni: marco-agazzi@sunrise.ch.

La lotta kushti è un’antica cultura dove gli adepti, senza distinzione di casta, sottostanno a regole molto rigide che vanno, per quanto riguarda la respirazione, dagli esercizi di tecnica yoga, al fine di sviluppare interiormente l’energia prana – che secondo l’induismo regola l’universo – all’astinenza dal fumo, dall’alcool e dal sesso. Ma, soprattutto, a una dieta a base di uova (circa una dozzina al giorno), un chilo o due di carne

di pollo o montone, verdura a foglia verde, e latte di bufala mischiato con farina di mandorle. Per allenarsi gli atleti che praticano il kushti sollevano grosse pietre; per rafforzare i muscoli del collo infatti infilano la testa in un pesante sasso circolare, oppure si mettono il giogo – come avviene con gli animali da tiro – e trascinano un pesante aratro.


Una cultura a rischio Gli atleti hanno un’età che va dagli 8 ai 65 anni, con una completa maturazione verso i 35-40: solo a questa età i pahalawan decidono di sposarsi e di formare famiglia, ma continuando a frequentare l’akharas mattina e pomeriggio per il mantenimento della forma fisica e soprattutto per tramandare l’insegnamento del kushti alle nuove reclute. La Federazione nazionale

indiana è ben consapevole che, se presentasse gli adepti di questa lotta alle Olimpiadi, vincerebbe molte medaglie e per questo vorrebbe cambiar le regole, obbligando lo svolgimento delle gare con regole olimpiche e su normali tappeti gommosi. Ma la conseguenza sarebbe la perdita di una tradizione millenaria e l’intera immagine dei poderosi uomini rosso argilla che praticano una lotta che ha reso grande e unica l’India.


Discariche. Le cattedrali del consumo testo di Marco Jeitziner; fotografie di Flavia Leuenberger

Luoghi

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Il pattume fa parte di noi. Siamo quello che mangiamo, ma anche quello che buttiamo. I rifiuti sono così intrinsechi alla nostra società iperconsumistica, che abbiamo costruito loro una “casa”, la discarica, o “eco-centro”, termine che fa più chic, con tanto di orari di visita (è un luogo aperto, ma non troppo) e videosorveglianza (non tutti ci possono andare). Addirittura, se qualche turista capitato nel Bellinzonese non sa più cosa fare, può andare a farsi un giro nella “cattedrale” del pattume, il termovalorizzatore di Giubiasco. Non è uno scherzo: è accaduto sabato 8 agosto 2010. Evento promosso anche da Ticino Turismo1. Che c’è di male? Nulla. Dell’educazione al consumo, in fondo, stiamo parlando. O meglio, del consumare educatamente. Pattume per tutti! Raccolta differenziata, separata, “turismo del sacco”, tassa sul sacco, “chi inquina paga”, stoccaggio, riciclaggio, ecc. Quante parole conosciamo grazie a enormi e puzzolenti e costosi immondezzai? E quante invece se ne sprecano perché c’è sempre del pattume da qualche parte? Perché ogni europeo in media produce 600 chilogrammi di rifiuti all’anno? Perché il concetto “rifiuti zero” è fantapolitica. Siamo destinati a convivere col pattume, affare sicuro, perché circolare. In poche parole, vivendo si inquina. Così gongolano le “eco-mafie”, gestendo male i rifiuti, e chi risana, o tenta di farlo al meglio. Il problema è che chi inquina, di solito, non vuole pagare, così noi paghiamo chi risana. Contraddizione di fondo, quantomeno. È successo qui, di recente, con il sito dell’ex raffineria Miranco a Stabio: quasi 10 milioni di franchi di soldi pubblici. A guadagnare, nella polemica, la ditta di un’ex parlamentare popolare democratica. Perché gli inquinatori senza scrupoli del passato non sono mai stati chiamati alla cassa? Altri tempi, altre sensibilità, altre leggi, si dirà. Ma quanti problemi in meno (e più soldi in tasca) avremmo avuto se si fosse consumato meno, o prodotto meglio, ma anche demolito e costruito meno?

Un senso alla monnezza Il consiglio turistico, comunque, è da cogliere, perché educativo. Se c’è sempre, ahi noi, qualcosa da buttare, in discarica c’è anche sempre qualcuno o qualcosa che si conosce. C’è l’opera d’arte presa e gettata nel pattume da due netturbini, come accaduto l’anno scorso a Padova, ma c’è anche il pattume che diventa arte da una presa idraulica, arte del riciclo. La discarica è sia luogo sia non-luogo: spazio di raccolta di oggetti con un senso, ma anche spazio di oggetti senza riferimenti e senza identità. Rifiuti, appunto. In Ticino ci sono tante discariche, una quindicina, almeno quelle legali. Strano che l’arte dei rifiuti non trovi molto spazio, mentre si preferisce l’arte nei rifiuti: all’interno dell’inceneritore di Giubiasco verrà infatti installata un’opera. Ma andare per discariche non è mica cosa da tutti e chi ci va, a volte, lo fa di corsa, sia perché deve buttare oggetti praticamente nuovi, sia perché, semplicemente, deve buttare. Rimane però un luogo come pochi che ci appartiene: solo quando siamo presenti, il rifiuto riacquista un senso. In ogni caso, non affrettatevi, chi non può andarci oggi, ci andrà domani, tanto l’autorità cantonale, secondo il cosiddetto “piano direttore”, intende pianificare e realizzare nuove discariche pubbliche. Un rifiuto non si scorda mai Immaginiamo una casalinga di Novazzano o di Coldrerio spiegare ai figli che laggiù, prima del 1991, c’erano parchi e boschi al posto della discarica reattore della Valle della Motta. Immaginiamo i figli rispondere: “e allora...?”. E allora niente, le cose stanno così. Come è vero che il nostro territorio non è solo fatto di splendide vallate, laghi e fiumi (quasi) incontaminati, ma anche di tanti, davvero tanti siti più o meno inquinati, almeno 1.700 quelli individuati finora2. In media, uno ogni 200 abitanti e forse ce ne sono di più. Otto su dieci sono aziende dismesse, il resto discariche a cielo aperto. A volte (come a Stabio o Coldrerio), create proprio sopra la falda freatica, dove si prende l’acqua. Fanta-informazione? No, chiedete a Preonzo dell’ex Petrolchimica, a Bodio dei quintali di idrocarburi e metalli pesanti della ex Monteforno, a Rivera del cromo giallognolo dell’ex Galvacrom, a Cadenazzo dell’ex Fondeca, a Biasca del deposito della Giustizia, a Riazzino dei sedimi ex Cir, a Bioggio dell’ex inceneritore, a Pollegio del deposito Russo, a Locarno dell’ex Officina del gas, a Coldrerio del pozzo di solventi clorurati della ex Penrex, ecc. ecc. Ce n’è per tutti, produttori di ieri, consumatori di oggi e responsabili di domani. Perché un rifiuto, in fondo, non si scorda mai. note 1 www.ticino.ch/it/events/details/Visita-al-termovalorizzatore-di-GiubiascoICTR-/102644.html 2 www4.ti.ch/index.php?id=20537



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L’utopia che ci manca

Star Trek Tendenze p. 48 – 49 | di Roberto Roveda

Per quasi mezzo secolo Gene Roddenberry, il “papà” di Spock, Kirk e dell’Enterprise, ha alzato gli occhi verso le stelle e ha raccontato un futuro migliore del presente

L

a migliore generazione americana del XX secolo è quella che ha combattuto e vinto la Seconda guerra mondiale. Ragazzi nati nella maggior parte dei casi tra il 1915 e il 1925, rafforzati dalla Grande depressione e divenuti adulti negli anni Trenta, nel clima del New Deal di Franklin Delano Roosevelt. Questi ragazzi nei campi di battaglia d’Europa, nei cieli e nei mari del Pacifico impararono il valore della vita… e il senso della morte. Ma soprattutto conobbero il mondo, uscendo da quel limbo di isolamento e di privilegi che già all’epoca erano gli Stati Uniti. Gene Roddenberry, classe 1921, era uno di loro. Pilota in guerra e negli anni successivi, divenne in seguito poliziotto con il sogno nel cassetto di scrivere per il cinema o per la nascente televisione e una predilezione per i western e la fantascienza. Gli inzi non furono facili: Roddenberry non era uno scrittore di successo e neanche un grandissimo talento letterario. Aveva però imparato a osservare gli uomini, a apprezzarne i caratteri, le diverse psicologie, le virtù e i limiti. Questa consapevolezza poteva condurlo al nichilismo oppure allo scetticismo; viceversa fece di lui un grande umanista, nato con circa quattro secoli di ritardo, un uomo che aveva una fiducia inossidabile nelle capacità del genere umano di migliorare, di progredire, non solo attraverso la tecnologia e la scienza, ma soprattutto interiormente, psicologicamente e spiritualmente. Per i filosofi dell’Umanesimo l’uomo era al centro dell’universo, per Roddenberry era al centro anche del futuro. Utopia e nuovi mondi Da questa fiducia nell’uomo e nell’ignoto nacque l’idea alla metà degli anni Sessanta di una serie di fantascienza che uscisse dai canoni classici fino ad allora seguiti dal genere. La fantascienza, infatti, non era stata che il modo per evocare le paure più profonde dell’America che si proponeva di esorcizzare. Gli alieni invasori dei film americani anni Cinquanta erano la trasfigurazione dei “rossi”, i fluidi mortali che avvolgevano l’umanità non

erano altro che rappresentazioni dell’incubo di un’apocalisse nucleare. Dallo spazio potevano venire solo pericoli e il futuro era più incerto del presente per molti americani dei Fifties, che se alzavano gli occhi al cielo era solo per controllare che non arrivassero dischi volanti oppure missili con la stella rossa impressa sulla fusoliera. Roddenberry propose, invece, ai maggiori network televisivi e anche ai produttori cinematografici storie ambientate in un futuro lontano, il XXIII secolo, ma carico di speranze, promesse, sfide. Egli immaginò una società utopica in cui gli uomini tendevano alla piena realizzazione di un ideale politico e morale muovendosi nell’universo come pionieri del Vecchio West non alla conquista ma alla scoperta “di nuovi mondi, alla ricerca di altre forme di vita e di civiltà fino ad arrivare laddove nessun uomo è mai giunto prima”. Comincia così Star Trek, da quasi cinquant’anni – da quando il 22 settembre 1966 venne trasmesso dalla rete americana Nbc il primo episodio intitolato non a caso Where No Man Has Gone Before, «Dove nessun uomo è mai giunto prima»1 –: il successo fu buono, ma non eccezionale, e la serie resse bene per un paio di anni ma poi, alla fine della terza stagione, il 3 giugno1969, il cast viene congedato, i set smantellati e i 79 episodi girati passarono ai circuiti televisivi minori per lo sfruttamento in seconda, terza, milionesima visione. Fino a cadere nel dimenticatoio televisivo Come una fenice In realtà, fu allora che iniziò la vera avventura di Star Trek, che divenne, da prodotto televisivo di intrattenimento, un fenomeno culturale di massa. I ragazzi cresciuti nel clima di speranza e di aspettative degli anni Sessanta, all’alba degli anni Settanta si ritrovavano nel futuro immaginato da Roddenberry, vi riconoscevano le medesime coordinate che ispiravano le loro scelte e i loro desideri. Kirk, Spock, McCoy e tutto l’equipaggio della nave spaziale Enterprise si muovono, infatti, in un universo più progredito, ma in cui è possibile identificarsi, riconoscersi. Un mondo tecnologico dove l’uomo è ancora padrone di se stesso


e usa le macchine come strumenti senza essere da esse dominato o essere diventato a sua volta una macchina. Roddenberry costruisce un universo in cui si aggira un grande vascello che, pur dotato di armi potentissime, è stato creato per esplorare e conoscere, non per distruggere e dominare. E costruisce questo universo basato sull’ideale della Pace Galattica in un momento in cui Stati Uniti e Russia si fronteggiavano con arsenali nucleari capaci di cancellare più volte il pianeta Terra. Crea la Prima Direttiva, il comandamento fondamentale che impone ai membri della Federazione dei Pianeti Uniti di non interferire con civiltà meno progredite tecnologicamente, limitando al minimo i contatti. E questo mentre gli americani erano nel pieno del loro intervento nel sud-est asiatico, impegnati a portare la democrazia con le armi in Vietnam, un’attitudine che non è ancora andata persa a mezzo secolo di distanza… Personaggi indimenticabili Ma soprattutto Roddenberry costruì dei caratteri indimenticabili, esseri umani che mantengono intatta la loro umanità, che imparano dagli errori del passato a controllare molti degli aspetti peggiori del loro essere uomini. In più hanno la straordinaria opportunità di confrontarsi con le civiltà aliene di una galassia che è veramente una Nuova Frontiera, mille volte più esaltante di quella conquistata dagli americani nell’Ottocento. Per i ragazzi degli anni Sessanta e Settanta Star Trek rendeva possibili molti dei loro sogni, compresa quell’integrazione tra le razze che era tutta da conquistare in un’America in cui la gente di colore combatteva per poter accedere alle università oppure sedersi su un autobus riservato ai bianchi. Il ponte di comando dell’Enterprise non è un Eden del futuro, ma è un luogo dove

già cinquant’anni fa era possibile assistere alla collaborazione di persone di tutte le razze e addirittura di un alieno. E così niente di più naturale che in Star Trek tra il capitano Kirk e l’affascinante tenente Uhura – nome che in swahili, una lingua bantu, significa “libertà” – vi sia stato il primo bacio interrazziale della storia dello spettacolo americano. A chi gli chiedeva le ragioni del successo di Star Trek Roddenberry rispondeva: “Mi resi conto che con la creazione di un nuovo mondo con regole nuove si poteva parlare più facilmente di sesso, religione, Vietnam, missili nucleari. Questo è tutto quello che feci in Star Trek”. Lunga vita e prosperità, vecchio Gene, in un’epoca come la nostra, tanto mesta e un poco rinunciataria da tanti punti di vista, avremmo così bisogno di uno come te, di un’altra utopia modello Star Trek2. note 1 Nell’edizione in italiano questo episodio è stato intitolato Oltre la galassia. 2 Gene Roddenberry è morto nel 1991. Dopo la scomparsa, una piccola capsula con le sue ceneri è stata spedita nello spazio per orbitare intorno alla Terra per sei anni, dopo i quali bruciò nell’atmosfera durante la caduta. In suo onore è stato battezzato un asteroide (4659 Roddenberry) e un cratere su Marte. consiglio alla visione Le tre stagioni della serie classica di Star Trek sono disponibili in tre cofanetti distribuiti dalla Universal Pictures e contenenti tutti gli episodi degli anni Sessanta in versione rimasterizzata. consiglio alla lettura AA. VV. Star Trek in Italy, Hazard, 1997. Un catalogo che percorre la storia della celebre serie televisiva dalla serie “classica” fino alle serie più recenti. Un capitolo a parte è dedicato ai film dedicati a Star Trek. per saperne di più In italiano, fondamentale è il sito dello STIC, Star Trek Italian Club (www.stic.it), mentre in inglese esiste un sito ufficiale dedicato alle serie all’indirizzo www.startrek.com.

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La vostra Volvo V60 Ocean Race Edition

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volvocars.ch Leasing Volvo Car Finance: esempio di leasing per la Volvo V60 T3 Start/Stopp Ocean Race 150 CV/110 kW pacchetto Swiss Edition incl. Prezzo di listino CHF 51700.–, rata mensile CHF 439.–, acconto 20%, durata 48 mesi, 10 000 km/anno. Tasso d’interesse nominale 1,9% incl. assicurazione sulle rate Volvo, tasso d’interesse effettivo 1,92%. Cauzione CHF 3000.–, valore residuo conformemente alle direttive di Volvo Car Finance. Assicurazione casco totale obbligatoria non inclusa. La concessione del credito è vietata se causa un eccessivo indebitamento del consumatore (art. 3 LCSI). Offerta valida fino al 30.09.2011 (fino a esaurimento delle scorte) e per i veicoli dei modelli 2012. Consumo in ciclo misto (secondo la norma 1999/100/UE): 6,7 l/100 km. Emissioni di CO 2: 155 g/km (188 g/km: la media di tutti i modelli nuovi). Categoria d’efficienza energetica: B. Volvo Swiss Premium® servizio di manutenzione gratuito fino a 10 anni/150 000 chilometri, garanzia di fabbrica fino a 5 anni/150 000 chilometri e riparazioni legate all’usura fino a 3 anni/150 000 chilometri (vale il limite raggiunto prima). Valida presso i concessionari aderenti. Il modello rappresentato contiene optional dietro sovrapprezzo.


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Tra l’11 e il 17 assisterete all’incentivarsi delle occasioni mondane. Saranno favorite le relazioni sentimentali basate sulla condivisione di interessi comuni. Accelerazione delle attività quotidiane.

Mercurio e Venere transitano nella vostra quarta casa solare: momento adatto per interessarsi di questioni di arredamento. Avrete l’opportunità di riorganizzare i vostri spazi domestici rendendoli più belli.

Crescita dell’aggressività soprattutto quando vi sentite aggrediti nelle vostre vicende più personali. Molto reattivi tra il 13 e il 15 settembre. Situazione di conflitto tra aspirazioni e doveri familiari.

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Grazie a Mercurio troverete nuove fonti di guadagno per lo sviluppo di una vostra idea. Problemi d’ansia riconducibili al passaggio di Marte. Liberatevi delle vostre paure infantili. Moderatevi a tavola.

Con l’ingresso di Mercurio si accentua la natura curiosa e intellettuale. Tra l’11 e il 13 settembre dovrete comunque stare attenti a non adottare atteggiamenti che potrebbero essere considerati indiscreti.

Se volete raggiungere i vostri obiettivi, in questo periodo potrete accorgervi come non mai, che a volte è importante agire dietro le quinte. Favorite in amore le relazioni sentimentali avvolte dal mistero.

Tra l’11 e il 17 settembre potrete giocarvi una serie di opportunità sentimentali. Favorite le collaborazioni professionali con il partner. Sessualmente impazienti. Fase positiva per i nati nella terza decade.

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Tra l’11 e il 15 settembre sarete interessati dal transito di Venere. Momento ideale per creare bellezza. Se volete raggiungere gli obiettivi professionali dovrete far ricorso alle vostre doti diplomatiche.

Conflitti, principalmente per coloro che negli ultimi tempi non fanno nulla per accattivarsi la simpatia dei collaboratori. Tempestose, per quanto riguarda i rapporti familiari, le giornate del 14 e del 15.

Con Mercurio di transito avete la particolare abilità di comprendere prima degli altri la radice delle motivazioni umane. Sfruttate il vostro intuito per avvantaggiarvi professionalmente. Eros alle stelle.

Le capacità intellettuali sono in crescita, ma così anche il vostro spirito critico. Cercate di non esser troppo puntigliosi con partner e soci evitando le parole di troppo. Cautela nelle giornate del 14 e del 15.

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• 15. Il ghiaccio del barman • 18. Atroce delitto • 20. Enormi animali estinti • 22. Dittongo in poeta • 24. Affittare... una vettura • 27. Il primo dispari • 29. Grosso camion • 32. Semplice, puro • 35. Il Nichel del chimico • 36. Bel paesino malcantonese • 37. Le iniziali di Forte • 40. Schiavo spartano • 41. Pari in lieve • 45. Chiude la preghiera • 48. Boro e Iridio • 50. Pari in piante 53. Dubitativa.

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Verticali 1. Il grande tenore modenese • 2. Metallo radioattivo • 3. Recingere • 4. Giaggiolo • 5. Concorso Internazionale • 6. Varietà di quarzo viola • 7. Mori • 8. Generosamente donate • 12. Numero in breve

Soluzione n. 34 2

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Orizzontali 1. Sfavillante • 9. Cantone svizzero • 10. Le cerca il poeta • 11. Si piegano ma non si spezzano • 13. Filo vegetale • 14. Incassi • 16. Cortile agreste • 17. Lo sport della Gut • 18. Argovia sulle targhe • 19. Settentrione • 21. Esagerati, pretenziosi • 23. Uno a Zurigo • 25. Prova attitudinale • 26. Portogallo e Uruguay • 28. Voto scolastico • 30. Dittongo in paese • 31. Si misurano con il goniometro • 32. Millisecondo • 33. Nel mezzo del tavolo • 34. Raffaello, pittore fiorentino • 37. Un contabile (abbr.) • 38. Fiore lilla • 39. Ripari, ricoveri • 42. Uno a Londra • 43. Gola centrale • 44. E’ anche San Vitale • 46. Pronome personale • 47. La candida spia! • 49. Né tuo, né suo • 51. Cuor di cattivo • 52. Il niente del croupier • 54. Misure di lunghezza inglesi • 55. Scende a fiocchi.

» a cura di Elisabetta

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Grazie a Mercurio e a Venere la settimana tra l’11 e il 17 settembre si presenta favorevole alla gestione dei rapporti professionali. Non fatevi travolgere dalla quotidianità. Luna favorevole tra il 14 e il 15.

La soluzione verrà pubblicata sul numero 38

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