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EDITORIALE di Michele Casella

Vincitore del concorso Principi Attivi - Giovani Idee per una Puglia Migliore

È tutto un gioco di ripartenze. E in un certo senso questo numero uno di Pool è davvero una dimostrazione che nulla si crea, tutto si trasforma. A cominciare dal cinema, che in queste settimane sembra inventare il 3d ma ne sfrutta l’evocazione da decenni, oppure la musica, frantumata in migliaia di particelle sonore che rimbalzando da una citazione all’altra. Anche il fumetto, nell’intervista a Laura Scarpa di ANIMALs, si riconosce arte “seriale”, mentre la lingua subisce una mutazione/involuzione che si affida sempre più all’immagine ed all’interazione digitale; i social network si moltiplicano, annullandosi reciprocamente ma contribuendo in maniera inarrestabile alla modificazione di tutti i tipi di comunicazione. A questo panorama, per certi versi desolante e all’apparenza sempre più dilagante, si contrappongono le eccellenze culturali, quelle esperienze folgoranti che possiedono l’urgenza espressiva necessaria. Con Pool proveremo ad analizzarle e promuoverle, consapevoli che l’unica maniera per esistere in questa giungla dell’informazione sia quella di distinguersi e provare a proporre qualcosa di non omologato. Il primo strumento di divulgazione sarà dunque il magazine che avete fra le mani, uno spazio coordinato da una redazione eterogenea e giovane, che ha messo a disposizione le proprie competente professionali con passione e spirito di iniziativa. Il tentativo è quello di tracciare percorsi tra loro convergenti, cancellando quel divario spesso artefatto fra cultura locale e mainstream internazionale, mostrando quali sedimentazioni nascano proprio nel sottobosco indipendente per poi essere rielaborate (e talvolta tristemente massificate) in favore di una fruizione popolare. Su tutto però, svetta la forza dell’affabulazione, un moto narrativo che accomuna i lettori, la redazione ed i protagonisti degli articoli: con Pool ci introdurremo in ogni interstizio di questa connessione semantica, fungendo da collante fra mondi differenti. Con la consapevolezza che un buon articolo non può fornire giudizi o risposte incontestabili, ma che ha il dovere di stimolare riflessioni e suggerire domande. Direttore Responsabile Michele Casella Creative Director Vincenzo Recchia Fashion Director Irene Casulli Multimedia Developer Giuseppe Morea Visual Designer Giancarlo Berardi Hanno collaborato a questo numero Gaetano Antonacci, Simona Ardito, Elisa Caivano, Emma Capruzzi, Annarita Cellamare, Giovanni Celsi, Antonello Daprile, Roberta Fiorito, Valeria Giampietro, Enrico Godini, Barbara Laneve, Adele Meccariello, Paola Merico, Simona Merra, Stefano Milella, Vincenzo Pietrogiovanni, Daniele Raspanti, Davide Rufini, Veronica Satalino

Fotografie di Francesco Calabretto, Valeria Gianpietro Rielaborazione immagine di copertina dell’opera di John Maeda di IMOOD Concessionaria per la pubblicità Imood Via Cristoforo Colombo, 23 - Putignano (BA) Tel. 080.4054243 www.imood.it Stampato presso Grafica Meridionale POOL in attesa di registrazione presso il Tribunale di Bari richiesta protocollata in data 11-08-2009 www.ipool.it Thanks to Piero e Ambrogio “Quando è grosso è troppo, quando è giusto è poco” (R.L.)


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SETTEMBRE/ ARTE

FOTOGRAFIA 2009 FESTIVAL INTERNAZIONALE DI ROMA Quest’anno, dal 29 maggio al 2 agosto, si è svolta l’ottava edizione di FotoGrafia, Festival Internazionale di Roma, promosso dall’Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione del Comune di Roma. L’evento è prodotto da Zoneattive , sotto la direzione artistica di Marco Delogu, e si svolge sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e con il Patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Il Tema di quest’anno è La Gioia: Visioni e Rappresentazioni. I fotografi si riappropriano della felicità di fotografare come atto di gioia e come contenuto e a partire da questo semplice pensiero nascono tutte le “Declinazioni della Gioia”. Il Palazzo delle Esposizioni, nelle sale del Piano Alto e nella Sala della Fontana, si trasforma in un ampio contenitore dove hanno luogo gli incontri, le lectures, i portfolii, la fitta rete di eventi ad hoc e le principali mostre. Oltre al PalaExpo, FotoGrafia si avvale della collaborazione di Accademie e Istituiti di cultura stranieri del dinamico circuito di gallerie romane, scuole e spazi informali, attivi nella capitale. Tra gli illustri partecipanti del fitto carnet di eventi espositivi di quest’anno ritroviamo Nan Goldin, Giorgio Barrera, Gérard Rancinan, Davide Monteleone, Guy Tillim e Geovanny Verdezoto. Story-tellers di autentiche realtà quotidiane, inventori di nuovi mezzi di fruizione dell’arte del disegnare con la luce, come quelli proposti dagli 8 artisti del progetto europeo Mutations II "Moving Stills", una delirante sequenza di video e installazioni che sfidano il rapporto di confine tra lo statico rigore fotografico e la capricciosa mutabilità delle forme video. L’idea che le incalzanti innovazioni tecnologiche stiano sottilmente manipolando la naturalezza della fotografia tout court emerge dallo spazio espositivo che ospita il nucleo dell’intera manifestazione: Gioia. Una collettiva di oltre 30 fotografi selezionati in seguito a una call for proposal pubblicata sul web con cui si invitavano i fotografi ad inviare i loro lavori nel rispetto del tema di quest’anno. Gioia è una vetrina fredda e destabilizzante di fotografie paralizzate in proiezioni e slide show in un percorso di echi visivi e sonori che disorientano. Un’arte resa compressa, sottovuoto e disanimata dalla forzatura del supporto video. Valeria Gianpietro

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GIORGIO BARRERA, WHAT’S BEYOND THE WINDOW? di ValeriaGianpietro

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NAN GOLDIN, TUTTI I BATTITI DEL SUO CUORE di ValeriaGianpietro Nan Goldin nasce a Washington DC nel 1953. Frequenta la School of the Museum of Fine Arts di Boston, nel 1978 approda a New York. Nel 1978 si inaugura il Mudd Club, che riunisce un circuito underground di artisti bohémien, musicisti e antileader di un movimento di una sottocultura newyorkese che Theodore Roszak sintetizzò con il neologismo Counterculture. Esattamente un anno dopo, all’interno di quelle mura, Nan Goldin proietta una viscerale sequenza di 700 diapositive - The Ballad of Sexual Dependency - che raffigura la personale e intimistica odissea di una ristretta cerchia di amici, familiari e coppie di amanti dilaniati dalla paura, dalla crisi identitaria, dall’abuso di droghe e dal cancro dell’AIDS. Quest’anno, in occasione della pubblicazione di Devil’s Playground – volume monografico edito da Phaidon che raccoglie i lavori di 35 anni di carriera dell’artista americana – FotoGrafia 2009 presenta all’interno del Palazzo delle Esposizioni il suo ciclo Heartbeat (2001). In Heartbeat ritroviamo lo stesso stile delicatamente drammatico delle Ballad e delle sue opere successive. Sul sottofondo della tiepida colonna sonora composta per l’occasione da Sir John Tavener dal titolo Prayer of The Heart interpretata dalla voce di Bjork, passano in rassegna 244 fotografie montate in slide show. Nan Goldin spiega:“Sono molto frustrata dalle immagini ferme, non credo nel 'momento decisivo' e una sola fotografia non può rappresentare le molte sfaccettature di una persona. Mi piacciono anche i libri, ma gli slideshow danno molto più spazio alla manipolazione, perché io controllo anche il mood in cui tu guardi le fotografie”. Ogni slide rappresenta una scatola dei ricordi, un racconto sospeso di frammenti di vita quotidiana e domestica di una serie di coppie - accomunate da legami affettivi, sessuali e filiali - che permisero all’artista di documentarne i momenti più intimi. Ogni slide è una fase della sua vita, una scelta governata dal bisogno di dare voce al dolore della marginalità, alla riflessione sulla condizione dell’essere umani, all’incapacità di sopravvivere, alla cruda necessità di amare o di essere amati. All’Amore. Alla possibilità dell’essere o di vivere tante diverse identità nel corso di una vita.

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Nel 2005, in Italia, debutta nelle sale cinematografiche Niente da Nascondere (Cachè) di Michael Haneke. La quinta opera del noto regista tedesco si apre con un esempio di mise-en-scène tanto ricercato da rendere il film uno dei più discussi e controversi del cinema contemporaneo. Cosa vediamo? Inquadratura fissa di una strada di un quartiere medio-borghese, un paio di automobili parcheggiate, una donna uscire da un portone, un ragazzo in bicicletta. Poi l’immagine viene riavvolta sotto i nostri occhi e parte il film. Ecco. Se dovessimo paragonare il linguaggio fotografico di Giorgio Barrera a quello di un regista contemporaneo la scelta cadrebbe su Michael Haneke. Al pari del regista, studioso di psicologia, Barrera (Cagliari, 1969) collabora con Joe Meyerowitz, si immerge negli studi sociologici e alle sue scelte artistiche antepone la street photography e l’arte del rappresentare il quotidiano come spettacolo. Attraverso la Finestra, presentato all’interno del Palazzo delle Esposizioni in occasione di FotoGrafia 2009, è una galleria di fotografie incorniciate in luminosi light box, tutte incentrate sul tema del voyeurismo. Barrera, vincitore del “Premio Internazionale FotoGrafia - Baume&Mercier 2008”, dirige, quasi registicamente, l’occhio dello spettatore all’interno delle abitazioni dei suoi ignari non-protagonisti, oltrepassa il confine della convenienza e provoca immedesimazione in una posizione senza mediazioni, quasi privilegiata, protetta. L’impatto (tele)visivo è assordante, le immagini sembrano sovraesposte selettivamente solo in alcuni punti (come i soggetti all’interno delle case in Ipar-Ondarroa – 2008-2009), marcate da una grana fittizia, un rumore probabilmente aggiunto in fase di ingrandimento dell’opera (Schoneber – Berlin -2008-2009) e l’utilizzo del light box regala agli scatti un’artificiosa luminosità e una vivacità del colore che a stento sarebbero ottenibili su carta stampata. Un valore aggiunto? Probabilmente. Ma la destrezza di Barrera è in ben altro. Il fotografo ha abbracciato un tema e ha saputo mantenerlo, coerentemente, durante tutto il percorso espositivo. E non è da molti. Dietro ogni finestra c’è una storia, dietro ogni storia un puzzle di meccanismi psicologici che completano il senso dell’immagine e lo rovesciano. 01. Ori Gersht - Pomegranate (2006) durata 3'55'’ 02. Nan Goldin - Heartbeat 03. Giorgio Barrera - Finestra # 37 04. Julia Fullerton-Batten - Mirror

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MUTATIONS II MOVING STILLS di Simona Merra Gli sviluppi e le evoluzioni della cultura contemporanea hanno generato in noi un nuovo modo di percepire visivamente la realtà, sia il video sia la fotografia sono entrati nel mondo del digitale, la realtà virtuale del mondo informatico ha liberato la fotografia dall'immagine statica. MUTATIONS II – MOVING STILLS, pone l'accento sul video, esplorando i rapporti che legano l'immagine fissa e quella in movimento, presentando una collettiva di otto artisti europei che hanno dato alla fotografia e al video un trattamento di deformazione, dandoci un'occasione per rinnovare il nostro sguardo sulla realtà. Le tre opere di Peter Aerschman (Paternoster, 5th street, Union Square) in 3D, hanno per oggetto lo spazio e il trascorrere indefinito del tempo, egli riesce a catturare il ritmo delle cose attraverso l'immagine ed il modo in cui si adattano al trascorrere del tempo e alla ripetizione. Dreamsequence,2006/2007 (sequenza onirica) di Gast Bouchet e Nadine Hilbert, presenta un mix di identificazione e rievocazione della memoria, ogni collegamento è lasciato alla percezione dello spettatore per essere assimilato. Ori Gersht (Pomegranate, 2006), ha ricreato una composizione video di natura morta nello stile dei grandi classici della pittura, stabilendo un dialogo tra l'immobilità e il movimento, un proiettile attraversa il campo visivo dell'immagine e colpisce violentemente un melograno che si spacca e in slow motion rilascia frammenti di semi rosso sangue, un rimando alle dilatazioni temporali presenti in Bill Viola, maestro della video arte; Tuomo Rainio, realizza una serie di video in bianco e nero (Crosswise, 2006 e City, 2005) in luoghi pubblici, animazioni fantasma in cui si percepiscono i suoni della città e dei passi umani. Olga Chernysheva (Windows), ci lascia spiare la vita altrui attraverso otto piccoli riquadri che fanno da cornice alle immagini riprese con telecamera in movimento nella notte di Mosca. Jutta Strohmaier (Journey, 2005) utilizza il principio degli scatti fotografici consecutivi presentato sotto forma di video animato e poi ancora, Christoph Brech (Break, 2004) mette a nudo situazioni attraverso la dilatazione del tempo e il senso di lentezza che esso può determinare; l’autore propone infatti un'immagine inizialmente silenziosa di un fiume ricoperto da nebbia e ghiacci, sottolineando il contrasto tra il ritmo lento della natura e la violenza del passaggio di una nave. Infine Matteo Peterlini, (Zeroazero, 2005) mette in mostra una tv posta sul pavimento in modo che lo spettatore possa accomodarsi, in cui si svolge la finale di calcio della nazionale italiana ai mondiali di Spagna 1982. Il pallone non c'è, i tifosi applaudono il nulla, la squadra ha vinto il trofeo senza pallone, non c'è quindi l'oggetto della contesa che rende questo sport una religione.


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SETTEMBRE/ ARTE

RACCONTI IN FORMA DI DISEGNI di Michele Casella

ANIMALS: LA NARRAZIONE TRASVERSALE DI UNA RIVISTA FUORI DAGLI SCHEMI Sofisticato e avventuroso, ANIMALs è il nuovo magazine dedicato al fumetto che sta provando a rivoluzionare l’approccio italiano a questa forma di narrazione per immagini. Un’iniziativa editoriale spregiudicata ed orgogliosa, che affianca fumetto d’autore e approfondimento tematico, letteratura colta e romanzo popolare, grandi firme del mondo letterario a tavole memorabili dotate di una profonda connotazione poetica. Lontano da ogni forma di tendenza modaiola o attrazione per il sensazionalismo, ANIMALs racconta di uomini ed emozioni, puntando la lente d’ingrandimento sul contemporaneo ma concedendosi tutto lo spazio per l’immaginazione ed i mondi onirici. Elegante e minimale nella veste grafica, questa rivista alterna racconti a fumetti ad articoli dai temi eterogenei, ed ha già raccolto autori come Gipi, Bacilieri, Toffolo, Delisle, Stano, David B., ma anche Mattotti, Poli, Vinci, Scarpa e Alajmo. E se non bastassero le splendide tavole a colori realizzate da questi grandi nomi del panorama internazionale, ANIMALs dedica spazio ai profili artistici degli autori, ai loro diari tematici realizzati per immagini e dà spazio ai voli pindarici più liberi per il loro percorso di lavoro. Ideatrice e responsabile di questo ambizioso progetto editoriale è Laura Scarpa, autrice d’esperienza (ai più nota per aver creato il personaggio di Martina e per le miriadi di collaborazioni) già protagonista di altri progetti editoriali legati all’insegnamento e alla didattica del fumetto. L’abbiamo raggiunta via mail per raccontarci sensazioni, visioni e commistioni artistiche di questa splendida rivista.

Con ANIMALs mi sembra che stiate provando ad inserire il fumetto in un panorama di opere più ampio e complesso, forse è proprio questo il motivo dell'interesse destato dalla rivista? I tempi sono ormai maturi anche in Italia per rendere il fumetto un genere letterario? Sembrerebbe di sì, che il fumetto sia cresciuto ufficialmente anche da noi. Noi della Coniglio ci abbiamo scommesso, su questo. Ma non parlerei di genere, piuttosto di un linguaggio così come lo è la letteratura. E all’interno, come la letteratura o il cinema, ha i suoi generi, dal giallo al western, ma ha anche diversi tipi di “scrittura”. Così abbiamo fumetti per bambini, fumetti popolari, fumetti più sofisticati o filosofici, più artistici. Ognuno di questi generi e stili ha diversi livelli di qualità. Non crediamo di dover esaltare il fumetto in quanto tale, ma il buon fumetto. In particolare non ci occupiamo, con ANIMAls, di un certo tipo di narrativa a fumetti, che sicuramente cerca di rivolgersi a un pubblico non esclusivamente fumettofilo, utilizzando codici e stilemi nuovi e, forse, più ampi. Concordi con l'affermazione che il fumetto è un'arte anche più completa della letteratura e del cinema perchè intreccia lo scritto e l'immagine in maniera assolutamente unica? Non amo fare scalette di valori, ma che il fumetto abbia un suo linguaggio unico, che la fusione testo e immagine gli possa permettere di esprimere altro che la letteratura scritta o il quadro, e che lo faccia in maniera decisamente diversa che il cinema, è quello che mi affascina di questo linguaggio.


Ci sono sensazioni, non solo informazioni, che un’immagine, un tratto, rende in un modo diretto, intuitivo forse, e altro che solo la parola può comunicare. Il fumetto utilizza entrambe, ma la sua forza è soprattutto il rapporto tra testo e immagine. Leggendo ANIMALs mi è sembrato che vi sia l'intenzione di non focalizzarsi solo sul fumetto, ma sulla narrazione in senso più ampio, sei d'accordo? Il fumetto resta l’anima centrale, anche la parte più ponderosa, ma proprio perché parliamo di una rivista e non di un libro, inserire elementi diversi è importante. Soprattutto per noi che vogliamo appunto trattare il rapporto testo-immagine. ANIMALs è anche caratterizzata da contenuti, non solo da forma e linguaggio. Dunque vi si trova la vita, la realtà, anche la politica in senso più generale e il pensiero riguardo queste cose, ecco il perchè di racconti e interviste o articoli su temi interessanti... Toffolo nel primo numero prende in esame il tema della riproducibilità, elemento dal quale il contemporaneo non può sfuggire. In che modo l'Italia del fumetto si confronta con i nuovi media e con l'opera realizzata in serie? Il fumetto nasce dalla riproducibilità. Se per l’America è stato soprattutto striscia sui quotidiani, per noi è stato storicamente “giornaletto”. Ma da tempo le opere sono diversificate, a fumetti più pop si sono da più di 30 anni affiancati autori come Magnus, Toppi, Nidasio, Pratt, Battaglia, Crepax, il gruppo Frigidaire, i Valvoline... Alcuni di loro facevano già il romanzo 01. Disegno di Paolo Bacilieri 02. La copertina del quarto numero di ANIMALs 03 e 05. Disegni di Davide Toffolo 04. Disegno di Gipi

a fumetto, oggi graphic novel... romanzi o racconti erano letteratura disegnata, per dirla con Pratt. Anche il pubblico già conosceva queste opere al di fuori dell’ambito ristretto. Oggi è importante la posizione dei fumetti in libreria e la diffusione di libri in edicola, uno scambio complesso... Per i nuovi media, credo che quello che riguarda il fumetto sia soprattutto internet, ancora da affrontare in profondità, ma con scambi che danno ottimi frutti, molto stimolanti, mai sostitutivi. Poi anche l’animazione si è avvicinata al fumetto su carta e lo sostiene in alcuni fortunati e azzeccati casi. Internet sembra una modalità di promozione privilegiata anche per gli autori di fumetto, anche ANIMALs sfrutta il propagarsi dell'informazione digitale? Come dicevo sì, serve alla rivista per comunicare di più e altro, serve anche per trovare autori, per scambiarsi e crescere... pensavo a Makkox, nato proprio da internet e su internet forgiatosi come autore fotre e originale, ma anche ai blog di vari autori, Gipi, Vivès e molti altri... Noi stessi abbiamo un blog che sta rispondendo bene e che prolunga la vita di ANIMAls on line: animals-theblog.blogspot.com

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Pensi che la comunità del fumetto sia ancora chiusa in fiere e circoli per appassionati? Sì, ma si sta aprendo, o almeno lo spero. Ho sempre trovato soffocanti gli ambienti chiusi, ma la comunità fumetto almeno è tra le più simpatiche e, tutto sommato, oneste! :) Il percorso di ANIMALs prosegue anche attraverso pubblicazioni e promozione di autori? Ci stiamo proprio pensando, attendiamo di ripartire a settembre per studiare meglio la risposta del pubblico e varie idee che stiamo covando. ANIMAls potrebbe espandersi, e non solo in rete...


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SETTEMBRE/ ARTE

di Paola Merico

UNA TARTARUGA A SAN PASQUALE Sorride poco come i suoi personaggi, ma non nasconde l’entusiasmo per il successo del libro “Il mio Kenya” (ed. Sinnos 2009), presentato di recente alla festa dell’editoria “Roma si libra”. Luca De Luise, trentacinquenne illustratore e grafico (nonché cartografo poliglotta) nasce in Salento, cresce nel Tarantino (Massafra), approda a Bari. Frequenta il liceo scientifico e la facoltà di lingue, ma da sempre preferisce alla parola il disegno, più congeniale alla incessante inclinazione ad osservare, scomporre, fissare soggetti, tradurre e comunicare per immagini. E’ quindi con una certa timidezza che, nel disordine colorato del suo studio a San Pasquale, si racconta a Pool. Percorso di studi tradizionale, prima esperienza editoriale e poi ancora a scuola. Con la grafica digitale avevo realizzato un portfolio di personaggi paffuti e icone sacre per bambini, che Piemme Scuola (Mondadori) ha raccolto in un poster allegato ad uno dei suoi testi. Ma è stata la visita alla Fiera Internazionale del libro di Bologna nel 2006 a farmi ritornare a matite e tempere, e a stimolare la voglia di “studiare” da disegnatore. Così ho frequentato la scuola internazionale di illustrazione per l’infanzia di Sàrmede (Treviso) dove ho conosciuto Svjetlan Junakovic, maestro abile e generosissimo. Nonostante i tuoi numerosi viaggi, nell’ultimo lavoro ti è toccato disegnarne uno immaginario. Il mio Kenya, che dovrebbe essere presentato il prossimo autunno anche a Bari da Feltrinelli, racconta di un viaggio ipotetico, scritto da Carolina D’Angelo (scrittrice marchigiana, 33 anni); piccoli kenioti si preparano ad accogliere coetanei italiani e condurli alla scoperta di un paese ricco di storia e contraddizioni, attraverso una natura straordinaria. Con il taglio della guida turistica per bambini si parla di scambio interculturale tra mondi diversi, dal punto di vista delle suggestioni e della curiosità infantile su cui non pesano le differenze. In occasione della presentazione in una scuola romana, alcuni alunni si identificavano nelle immagini dei bambini di colore. Per taluni umani le razze non esistono. Con questa collaborazione hai anche contribuito ad una giusta causa. 01


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I proventi del libro vanno alla Onlus Giacomogiacomo, che finanzia la costruzione di una scuola ad Ongata Rongai e borse di studio per studenti kenioti. L’associazione è nata dopo la tragica morte di un bambino italiano – Giacomo- e dal bisogno dei genitori di tradurre quel dolore in occasioni di una nuova vita per qualcun altro. Su richiesta della madre di Giacomo ho creato i contatti per far nascere questo progetto editoriale. Prima del Kenya, illustrazioni a servizio di fiabe e storie. In genere il testo precede l’illustrazione. A volte, con la complicità di editori capaci si formano “coppie creative” di scrittori e illustratori che inventano insieme anche partendo dalle tavole. Per Il Barbiere di Siviglia (ed. Paramica, 2008) ho seguito indicazioni molto precise su soggetti e scene da illustrare, con la libertà di qualche citazione personale, come l’inserimento di elementi tratti da un palazzo di via Maggiore a Massafra. In Fanta-Ghirò (ed. Einaudi Scuola 2007), fiabe italiane scelte e tradotte da Italo Calvino, ho illustrato storie con un taglio più personale. Matite, tempere e acrilici anche per La bella Formichella.

Tecniche tradizionali per una fiaba popolare scritta in polignanese da Vito Cosimo Basile nel 1957, riproposta da Edizioni Associate nel centenario della nascita dell’autore. Data la impostazione teatrale della storia, con scene fisse e poco movimento, ho concentrato il lavoro sulla creazione dei personaggi, ideandoli secondo forme geometriche. Mi sono cimentato con disegni di animali, con la casuale benedizione di un padrino illustre, Danilo Mainardi, che ha apprezzato in particolare la mia formica, giudicandola antropomorfizzata ma scientificamente … verosimile. Da inserire nella prossima cartina del Regno delle due Sicilie. Evito di introdurre formiche nell’attività di cartografo per i libri di storia e d’arte di Laterza, ma c’è spazio per lo studio cromatico. Nel volume Il Risorgimento di Lucio Villari, pubblicato in collaborazione con Repubblica e L’espresso, ho ideato mappe con i colori delle carte del tempo, tratte da dipinti dell’epoca. Mappe caratterizzate per la collana Contromano, come nel libro di Carofiglio Né qui né altrove in cui doveva emergere al primo colpo d’occhio la idea che Bari, vista dall’altro, assomiglia ad un’aquila con le ali spiegate. Progetti per il futuro? Nell’immediato la partecipazione ad una mostra a Bologna sul diritto dei bambini alla cultura; poi una esperienza di “coppia creativa” per una favola sul tema della lotta per l’identità ed il perseguimento delle proprie inclinazioni nonostante le convenzioni. Cose adulte. Non credo che l’innocenza bambina sia una prerogativa infantile. Oggi mi accorgo, quasi per caso, che la cifra dei miei disegni afferma sedimenti antichi, recuperando involontariamente ciò che assorbiva la mia attenzione di lettore bambino e fa parte del me adulto. Non racconto di me stesso, mi tengo da parte, anche se talvolta mi infilo di soppiatto. Come l’avventore casuale della Bella Venezia (Fanta-Ghirò) o la tartaruga sperduta ne Il mio Kenya Non vale ! Questo era un segreto.

01. Un’immagine da Il Barbiere 02-03. Luca De Luise


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SETTEMBRE/ ARTE

L ARTE COME POETICA ASTRATTA: IL VALORE CROMATICO DI KANDINSKY di Giovanni Celsi

LA VILLE LUMIEeRE CELEBRA CON UNA RICCA ESPOSIZIONE TEMPORANEA, L IMMORTALE ARTISTA RUSSO. Il Solomon R. Guggenheim Museum di New York, la galleria Lenbachhaus di Monaco di Baviera e il Centre Pompidou di Parigi, gemellandosi in questi mesi, hanno creato una delle più complete retrospettive degli ultimi 30 anni, dedicata all’opera di Vasily Kandinsky, pittore e teorico. Dopo aver fatto tappa a Monaco fino nella scorsa primavera e prima di partire per il nuovo mondo, sarà il Marais Parigino ad avere l’onore di ospitare - fino al 10 agosto 2009 - cento dipinti dell’artista, frutto di prestiti provenienti non solo da musei ma anche da molte collezioni private. Fondatore dell’Astrattismo e filosofo del Modernismo, il settantottenne moscovita scelse Parigi per trascorrere l’ultimo decennio della sua immensa vita, morì a Neuilly nel 1944, dopo un lungo peregrinare per l’Europa; è ora la città a scegliere lui ospitandolo nuovamente tramite le sue collezioni principali: Le Impressioni (1911), le Improvvisazioni (dal 1909 al 1914), le contemporanee Composizioni, la celebre serie del Cavaliere Azzurro ed i lavori Colorful Life o Guggenheim’s Light Picture, ad oggi totalmente inediti. La mostra parigina celebra una delle più importanti figure artistiche del ventesimo secolo, e può vantare l’arricchimento fornito dalla Fondazione Kandinsky che in occasione del sessantesimo anniversario della sua scomparsa, ha portato eccezionalmente alla luce i manoscritti e gli acquerelli appartenenti al periodo russo dell’artista (1914-1917) e mai visti prima.

Le pareti del Centre Pompidou oggi lasciano straripare dagli argini i limiti nei quali il tempo vorrebbe comprimere l’arte, indicando quello che sarà il futuro, così probabilmente Kandinsky guarderebbe a questo tributo francese; il colore come eterna composizione ed il contrario illeggibile che lo portò a fondare il movimento Der Blaue Reiter (=Cavaliere Azzurro) nel 1911 con l’aiuto di Franz Marc. Queste opere sono l’espressione di un’esigenza di libertà da ogni convenzione o ristrettezza dell’arte, il suo innalzamento spirituale, la spontaneità ingenua che non vuole raffigurare ma esprimere, sposarsi con le altre arti, con la parola della letteratura, con le note della musica. Il colore ha sulla tela una fragranza, un timbro, un gusto. Tramite la rottura della linea dell’orizzonte, spariscono i riferimenti spaziali delle immagini, il rosso e l’azzurro sempre combinati insieme, dilatazione e limitazione, rovente e glaciale; e poi le linee, le macchie, le rette annodate e concitate, le linee statiche e rilassanti portano lo spettatore al disorientamento e all’empatia, un caos ordinato, una colorata vibrazione che è consapevole e catalizzante che lascia vibrare le corde dell’anima e colpiscono, avvolgono, attirano, respingono. Gran precettore della sperimentazione tecnica sia nel campo del colore che della forma, Kandinsky gioca con gli impulsi arbitrari dei pennelli, porta l’immagine violenta ed apocalittica della Guerra Mondiale alla stregua della purezza


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01. Kandinsky - Composition IV 02. Kandinsky - Composition VII 03. Il Centro d’Arte e Cultura Georges Pompidou

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innata dello scarabocchio infantile; poi razionalizza l’astratto, lo scompone e lo restituisce ancora pulsante ed emozionante, spettro di un’espressione che non ha imposizioni come un grido incontrollato dello spirito. Il Pompidou La perfetta cornice di questo evento è il Centro d’Arte e Cultura Georges Pompidou. Istallato nell’autentico cuore di Parigi, il Marais, il celebre palazzo “tubolare” opera di Renzo Piano - tanto caro ai baresi - e Richard Rogers, aprei battenti nel 1977. Rinnovato dal 1997 al 1999, ha accolto nuovamente il pubblico il 1 gennaio 2000, interamente arricchito e modernizzato. Costruito per volontà del Presidente francese da cui ha preso il nome, il Centre è l’autentica istituzione culturale contemporanea, in cui pittura si fonda alla musica, al teatro, al cinema, ai libri, alle arti plastiche ed alla fotografia, paragonabile solo Alla Tate Modern londinese. Negli oltre trenta anni d’attività oltre 200 milioni di visitatori hanno attraversato le sue sale, sono rimasti a bocca aperta davanti alla Hall piena di installazioni luminose, hanno curiosato nel suo bizzarro mercatino. Mantenendo l’obiettivo di far conoscere l’arte dello scorso secolo e gettando le basi per la formazione di quella odierna, il Centre propone ogni anno almeno trenta esposizioni ed una serie innumerevole di manifestazioni culturali, concerti,

balletti, rassegne cinematografiche, conferenze. La sua coloratissima struttura, frutto del lavoro dei due giovani architetti - i tubi blu per l’aria, gialli per l’elettricità, verdi per i fluidi, gli ascensori luminosi, le scale mobili trasparenti che ne lasciano scoperta la facciata – gli conferisce una osservazione privilegiata. Nella mia purtroppo breve vita parigina, il Centre è stato il punto di riferimento dopo essermi puntualmente perso – perché nel Beaubourg è splendido perdersi – con la sua piazza gremita di giovani di tutte le nazionalità, gli artisti di strada, i turisti che posano a lato della meccanica fontana déco, l’odore dei fragranti Churros delle bancarelle, il polline degli alberi, il colore del cielo all’imbrunire, il frenetico movimento di quartiere che non dorme mai. Se doveste saggiamente decidere per una visita a questa meravigliosa città ed in particolare a questo quartiere, permettetemi di darvi una commissione: prendete la linea marrone della metro, in brevissimo tempo una deliziosa vocina vi avvertirà che siete alla fermata di “Arts & Metiers”, lasciatevi accarezzare dal venticello mentre risalite il viale, inebriatevi nel profumo dei bistrots, imboccate la prima stradina e sinistra ed all’angolo alzate gli occhi verso l’ultimo piano. Lì c’è ancora un pezzo del mio cuore.

Kandinsky Vassily Kandinsky era uno dei pittori più importanti dell'Astrattismo. Kandinsky pensava che l'arte doveva comunicare spiritualità e per farlo bene ci doveva essere un'assenza della rappresentazione realistica della realtà. Tra il 1918 e il 1920 si sono formati altri movimenti artistici come il costruttismo, in Russia, Germania e alla scuola del Bauhaus. Il costruttismo voleva mettere l'arte al servizio della società, pianificando città, architettura e facendo oggetti per la casa utili e funzionali ma belli. La scuola del Bauhaus fu fondata nel 1919 dall'architetto Gropius, e fu chiusa nel 1933 dai nazisti. Il Bauhaus voleva mettere l'arte al servizio dell'industria. Kandinsky e Klee insegnavano in questa scuola i corsi di base come la creatività. Egli scriveva poesie e qualche opera teatrale, dipingeva murales, progettava mobili, vestiti e costumi. Tutte queste attività influenzarono i dadaisti tedeschi e l'arte astratta in genere.


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SETTEMBRE/ ARTE

BARI PALCOSCENICO SUBURBANO

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di Barbara Laneve e Valeria Giampietro

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Il 3 e il 4 luglio a Bari ha avuto luogo un evento eccezionale. L'enfant prodige della fotografia americana, Reed Young (membro di Fabrica, il centro di ricerca sulla comunicazione del gruppo Benetton) e lo stilista/artista barese Antonio Piccirilli, (giovanissimo docente alla Naba ed ex assistente dello stilista Antonio Marras) hanno fatto di Bari lo scenario per uno shooting fotografico di moda del tutto insolito. Gli onirici abiti Piccirilli hanno sposato angoli e caratteri tipici della cittĂ , spesso nascosti anche agli occhi di chi ci vive.


INTERVISTA A REED YOUNG

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Partiamo dagli esordi, quando hai iniziato a interessarti di fotografia? Tutto è partito in Minnesota, dove sono nato. Non ero così bravo a scuola così mi sono iscritto al Perpich Center for Arts Education dove ho appreso le basi delle arti multimediali, del sound design e della fotografia. Dopo la scuola, riconoscendo subito la mia propensione per quest’ultima, mi sono trasferito in California dove ho frequentato il Brooks Institute of Photography. Dopo tre anni ero a New York come assistente-fotografo per un’agenzia pubblicitaria. Ho lavorato nel campo della moda per due anni fino al mio successivo trasferimento in Italia dove ho cominciato a collaborare con Fabrica, a Treviso. Attualmente vivo a Milano. La tua fotografia è anche analisi socio-antropologica. Tendi a raccontare le sfumature della condizione umana e il rapporto tra l’uomo e i suoi ambienti quotidiani. E’ possibile rivelare questi aspetti nella fotografia di moda? Requisito per la fotografia di moda è che devi innanzitutto amare la moda. Devi conoscerla per ritrarla al meglio, in tutte le sue forme. Questo shooting mi ha dato la possibilità di arricchire e migliorare la mia idea di fotografia come ricerca. Abbiamo volutamente scelto location poco ordinarie,l’ingresso monumentale della Fiera del Levante, i frangiflutti del Porto, le colonne della parte antica di Bari. I bellissimi abiti di Antonio hanno dato maggiore rilevanza alle mie immagini ed è stata ancora più inaspettata la spontanea collaborazione degli abitanti di quei luoghi. I loro timidi sguardi rivolti alle modelle, così belle e giovani, e il rispetto che ci hanno dimostrato, tipico solo delle generazioni più antiche e radicate in certi valori. Per me la moda è anche questo. Non è solo tempismo o specchio dei nostri tempi. E’ Arte. E un abito non è solo l’espressione artistica del lavoro di uno stilista ma un prodotto che in qualche modo rappresenta quello che sei e che ti circonda. Le tue fotografie possiedono un fascino quasi cinematografico. A quali registi ti ispiri ? Amo molto i lavori dei fratelli Coen, Fargo su tutti, di Fellini e di Paolo Sorrentino. Il Divo è frutto di un lavoro registico impeccabile, mi ha affascinato molto. Il tuo fotografo di riferimento? Nadav Kander, senza ogni dubbio. Israeliano, ha la capacità di fotografare qualsiasi cosa magistralmente, lavorando a colori e con il bianco e nero. Un punto di riferimento, sì. Ma non dimentico Richard Avedon, un maestro da cui non si può prescindere.

INTERVISTA AD ANTONIO PICCIRILLI Questo shooting è stata una tua iniziativa. Com’è nata l’idea? È nato dalla voglia di fare una vacanza in Puglia con Reed. All’ inizio doveva essere un gioco, poi è nato un vero e proprio shooting. Era tempo che volevo lavorare sulla mia città, essendone lontano da tempo. L’ho proiettata in un vero palcoscenico, teatralizzando gli scenari urbani, anche i più inconsueti, attraverso l’occhio “illuminoso” di Reed. In un periodo come quello attuale, in cui la moda sembra già aver detto tutto, cos’è l’innovazione per te? È nell’espressione della creatività contemporanea: deve esserci coerenza tra qualità dei tessuti, ricerca, rispetto del corpo.Il Fashion Designer diventa meno “fashion” e più “artigiano”. C’è bisogno di meno “apparenza” e più costruzione di identità. Lo stilista che ammiri da sempre e quello “nuovo” che trovi più interessante. Nicholas Guesquiere, Yohji Yamamoto e Jean Paul Gaultier. Sophia Kokosalaki come emergente. Il tuo desiderio per il futuro? Dare vita all'identità "memoriale"della mia terra, diventando progettista del mio Abito.

01 - 05. Foto di Valeria Giampietro, realizzate durante la sessione fotografica tenutasi a Bari il 3 e 4 luglio 2009

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P14 Cindy Sherman: oramai è un'istituzione nel panorama artistico contemporaneo, lavora a New York da più di 30 anni, autrice, regista, costumista e modella delle sue opere, nelle quali indaga il concetto di identità attraverso il mezzo fotografico. Le sue immagini sono, come le ha definite il critico Verena Lueken: “performance congelate”, in cui il mezzo fotografico non ha la sola funzione di documentare l'atto performativo ma è, in quanto mezzo espressivo con un suo linguaggio specifico (inquadratura, formato, composizione...), parte integrante dell' atto creativo, le sue performance infatti non hanno altra vita se non all'interno dell'immagine fotografica. Lungo tutta la sua cariera ha assunto una miriade di identità femminili, da eroina di B-movies a regina del Medioevo, da femme fatale a vittima in film truculenti, rivendicando come proprio lo spazio sociale e psicologico che queste donne hanno abitato nel corso della loro storia.

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SETTEMBRE/ ARTE

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di Roberta Fiorito

I 14 ritratti di Cindy Sherman ospitati dalla Gagosian Gallery di Roma (frutto del suo ultimo lavoro) troneggiano imponenti nel salone principale della galleria. I loro sguardi sfidano, fissano dritto negli occhi. L'impressione, appena varcata la soglia, è quella di aver bruscamente interrotto una civettuola conversazione fra borghesi donne di mezza età. Impossibile non provare smarrimento, non rimanere abbagliati dallo scintillare dei loro lussuosi gioielli, dai loro abiti sfarzosi, dalle sofisticate acconciature, elementi questi, ostentati con fierezza a dimostrazione della loro raggiunta condizione sociale di donne di potere. Come spesso accade nel lavoro di Cindy Sherman, l'apparenza a volte inganna, e così l'iniziale ammirazione, quel vago senso di soggezione si trasforma, a sguardo più attento, in profonda commiserazione. L'opulenza e lo sfarzo che caratterizzano, in diversi modi, tutti i ritratti sono solo uno scudo oltre il quale il decadimento fisico diventa il tratto dominante. La macchina fotografica é uno spietato mezzo indagatore che sgretola queste donne e le restituisce ai nostri occhi sotto tutt'altra luce: eccessive e a tratti ridicole. Effetto, poi, amplificato maggiormente dal grande formato di queste immagini. Se da una parte, infatti, i ritratti sembrano ricordare le grandi tele celebrative manieriste del 500 ritraenti principi e nobili del tempo, dall'altra l'effetto “ingrandimento” non lascia scampo, svelando in maniera violenta le imperfezioni, la pelle cadente, le macchie sul viso date dall'età, le profonde rughe a stento coperte dal pesante trucco. La società del benessere, dell'apparenza é in crisi, in profonda decadenza, e Cindy Sherman, sensibile ricettore, attenta osservatrice ci restituisce la sua personale e crudele visione.

CINDY SHERMAN: SGUARDO INDISCRETO

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01. Cindy Sherman - U #477 (2008) 02. Cindy Sherman - U #464 (2008) 02. Cindy Sherman - U #471 (2008) 03



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SETTEMBRE/ LETTERATURA

di Simona Ardito e Vincenzo Pietrogiovanni FotodiValeriaGiampietro

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VOLEVO FARE LANTROPOLOGO INTERVISTA AD ASCANIO CELESTINI Incontriamo Ascanio Celestini in un fresco pomeriggio di luglio, in un piccolo caffè del centro storico di Polignano a Mare. L’occasione ce la fornisce il festival «Il libro possibile», kermesse letteraria organizzata dall’Associazione ARTES e dal Presidio del Libro CARTESIO, che ogni anno porta nelle piazzette polignanesi i nomi più importanti della cultura nazionale. I settanta ospiti di questa ottava edizione si aggirano indisturbati per le viuzze del paese. Tra loro Ascanio, che al nostro arrivo sta prendendo tranquillamente un caffècon alcuni ragazzi dell’organizzazione. È affabile, cortese, più minuto di quanto non sembri in televisione; ci

viene subito spontaneo dargli del tu. Ci sediamo ad uno dei tavolini del bar. Nella piazzetta antistante, i musicisti che suoneranno in serata provano gli strumenti; impossibile registrare l’intervista, ma ad Ascanio non sembra un problema. E infatti la musica contribuirà a creare subito un clima intimo, di chiacchierata informale, con lui che parla e noi che prendiamo freneticamente appunti, protesi verso di lui per non perderci una parola. «Prendete qualcosa anche voi?», ci chiede, ma noi rifiutiamo. Lui ha ancora la tazzina del suo caffè in mano, non sa che


farne, ci giocherà per tutto il tempo dell’intervista. Ascanio è un personaggio estremamente eclettico, la sua carriera spazia dal teatro alla tv, dalla letteratura alla musica; ci sembra naturale chiedergli prima di tutto se sono stati passaggi naturali, se ha avuto difficoltà nel rivolgersi a un pubblico così eterogeneo. Ci risponde a sorpresa: «In realtà io volevo fare l'antropologo»; e noi pensiamo che in un certo senso lo sia. Il suo lavoro, ci dice, consiste nel fare interviste alla gente e scrivere delle storie, «poi che le storie vadano in tv o a teatro non cambia. Non credo che esistano un linguaggio televisivo, un linguaggio teatrale… sono gli inserzionisti e i politici che dettano le regole», e il compito di chi lavora con la comunicazione, a qualunque livello, è di prestare attenzione al linguaggio per evitare che se ne faccia un uso strumentale. È importante che al pubblico arrivino prima i contenuti del personaggio. «Oggi dei bambini sono venuti a chiedermi l’autografo. Non sapevano chi fossi, me l’hanno chiesto solo perché l’hanno visto fare alla loro professoressa. Anch’io da bambino chiesi l’autografo a Bartali senza sapere chi fosse; l’ho scoperto dopo, ma la foto con l’autografo non la trovo più e un po’ mi dispiace». Eppure, commentiamo, ci sembra che oggi non ci sia tutta questa attenzione al linguaggio; si scrive meno e si chiacchiera tanto, frettolosamente, con mail, chat, sms didascalici che informano senza realmente comunicare. «Non credo si scriva meno. In Italia si scrivono un sacco di libri, e infatti siamo qui ad un festival di libri», risponde Ascanio. Certo. Ma nelle statistiche rientrano anche libri di cucina, di fotografia, antologie... libri, insomma, che non possono propriamente essere considerati «letteratura». E che dire poi dei libri comprati e non letti, o prestati, o addirittura rubati? «C’è una famosa dichiarazione di Giulio Einaudi: ‘un libro rubato è un libro letto’. Quando la lessi ne rimasi così impressionato che ovviamente corsi subito a rubare un libro. Rubai Critica della critica di Tzvetan Todorov». Ma perché rubare un libro di critica letteraria?, ci chiediamo. Ascanio ci spiega che nell'introduzione Todorov si domandava appunto quale lettore comprasse i libri di critica letteraria, e dunque chi mai avrebbe comprato il suo, che era un libro di critica della critica. «A quel punto pensai: ‘Cazzo, manco io l’ho comprato, l’ho rubato!’». Scoppiamo a ridere. In fondo la questione della produzione e della ricezione della scrittura è un falso problema, ci dice; ammettendo che sia vero che la gente scrive o legge meno, sarebbe interessante sapere invece cosa fa, se viaggia, se passa più tempo con i propri figli, se scende in piazza e protesta, o se piuttosto ammazza, stupra, ruba. Non lo sappiamo, ma possiamo provare ad esplorare nuove prospettive: l'aspettativa, il desiderio che si celano dietro un sms, anche questi sono problemi interessanti. La conversazione scorre, il centro si sposta sul rapporto tra la scrittura e la memoria, nel momento in cui gli strumenti di scrittura moderna memorizzano tutto, più di quanto realmente ci serva. «Tutto quello che viene memorizzato è di gran lunga superiore a quello che puoi realmente vedere o fruire», conferma Ascanio. Un conto è la memorizzazione, altra cosa è la memoria. «Noi deleghiamo il ricordare ad un supporto e così ci togliamo la responsabilità della memoria»; ma questa è memorizzazione, mentre «quello che io ricordo, è quella la memoria. Un libro, un hard disk, un supporto sono mezzi, attraverso cui aiuto la mia memoria. Il supporto in sé non ricorda niente». E come la mettiamo, allora, con l'identità storica di un popolo?, gli chiediamo. Mentre parliamo, il governo ha da poco approvato il DDL sicurezza che istituisce il reato di immigrazione clandestina; eppure, commentiamo con Ascanio, anche gli italiani, fino a qualche decennio fa, erano immigrati in cerca di fortuna. A che serve allora la memoria collettiva di un popolo? «Non esiste una memoria collettiva che sta lì, a disposizione di tutti» risponde Ascanio. Una memoria di questo genere è un facile alibi, che rischia di farci cadere nei banali parallelismi tra stereotipi, quello dell'immigrato italiano che veniva trattato male ma “ha fatto l'America” e quello del clandestino che oggi viene in Italia a rubare e non vuole lavorare. «Questo,» dice Ascanio «accade perché la memoria è uno strumento, e come tale può essere usato come meglio si crede. Perché si dimentica che l’immigrato è prima di tutto un uomo, un individuo». Più che ricordare il nostro passato, dovremmo forse lavorare sulla consapevolezza che coloro che sbarcano sulle nostre coste sono sempre persone, con una storia, una coscienza e una responsabilità individuali. Anche Ulisse, ricorda Ascanio,

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non era né più né meno che un immigrato clandestino quando naufragò sull'isola dei Feaci; eppure la prima cosa che fece Nausicaa fu prendersi cura di lui, lavarlo, dargli da bere e da mangiare, «perché lo vedeva come un individuo. E se uno vede un individuo in difficoltà, per prima cosa pensa a soccorrerlo». Invece concetti come ad esempio quelli di “clandestino” o “rumeno” identificano non persone, ma stereotipi; generalizzando disumanizzano la realtà, ne fanno un agglomerato di cifre. «In Rwanda gli Hutu chiamavano i Tutsi scarafaggi, e ne hanno ammazzati più di un milione. Non si ammazzano un milione di persone, ma di scarafaggi sì». Ascanio è un fiume, i suoi occhi accesi tradiscono indignazione e passione. Cerca il filo del ragionamento nella tazzina vuota di caffè, con cui ancora giocherella. È tutto un continuo manipolare, ci dice, è nell'etimologia stessa della parola: “mani-polare”, cioè fare con le mani. Cita Wittgenstein per parlare di come tutto sia strumento nelle mani di chi lo usa: la memoria, la storia, il linguaggio stesso. Un treno è uno strumento, dice, e non ha coscienza, non importa che trasporti pellegrini a Lourdes o deportati ad Auschwitz; e il fatto di usare uno strumento permette anche al manovratore che lo guida di sospendere la propria coscienza. Oppure può intervenire un giudizio etico, e a quel punto l’uso degli strumenti diventa consapevole, orientato verso un fine. Comincia a fare buio, quasi un'ora è passata e non ce ne siamo nemmeno accorti. Uno degli organizzatori viene a chiamarlo per la cena, lui continua a chiacchierare e quasi vorrebbe portarci con sé. Riusciamo a strappargli un'ultima battuta al volo: «Ascanio, ma tu non ti senti un po' precario?». «No no», ci risponde, «io sono un lavoratore autonomo!». Ridiamo, ma subito torna serio. «La precarietà», ci dice, «è una condizione che non è legata esclusivamente al lavoro. Se io avessi 500 euro al mese ma una casa mia, l’assistenza sanitaria completamente gratuita, l’istruzione per i miei figli, delle garanzie a sostegno della maternità, il libero accesso alla cultura, o quantomeno a un livello di cultura di base... ecco, in questo modo io potrei condurre un’esistenza povera, certo, ma dignitosa». Ci guarda dritto negli occhi e legge in noi la preoccupazione per il futuro, che è poi il problema di intere generazioni. Pensa alla sua esperienza con il Collettivo PrecariAtesia e ci esorta a non accontentarci, a chiedere per il nostro lavoro ciò che ci spetta e a non prendere solo ciò che vogliono darci. Il contrario di precarietà, ci dice fraternamente, non è stabilità, ma sicurezza.

01 e 02. Ascanio Celestini Un ringraziamento particolare a Michele Campanella del festival Il Libro Possibile


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SETTEMBRE/LETTERATURA

by PaolaMericoe Antonello Daprile

Sara Vannelli (1979) è nata e vive a Roma. Lavora per un’associazione no-profit che opera nell’ambito del volontariato internazionale e della formazione interculturale. Scrive per il teatro. Suoi racconti sono stati pubblicati sulla rivista letteraria internazionale Storie. Dalla prefazione di Lidia Ravera: Sara Vannelli ha orecchio, è intonata, sa registrare i suoni della vita, li percepisce tutti, anche i sottovoce, anche le inesattezze, i mormorii, i rumori, le grida inarticolate, e li riproduce sulla pagina, senza altra ambizione che quella, in realtà nobilissima, di spartire il peso del suo smarrimento con i lettori.

MA SE STO COSI BENE, PERCHE NON RIESCO A SORRIDERE? Katia si cura dall’omeopata perché non riesce ad amare. Luca ha 24 anni, non si interessa di niente ed inventa storie insieme ad un ottantenne cieco malato di Alzheimer. Leo, figlio di una tresca, si chiede se gli eroi possono avere un nome da femmina. Arcimboldo, gay passivo, fa il manichino mimo in una boutique di Fondi. Mimì vuole cambiare ma non capisce cosa. Marlèn è muta, balla, aspetta un figlio. Stralci di storie sospese tra un prima ed un poi solo intuibile. Istantanee di figure smarrite in contesti appena accennati. Forme di resistenza/soccombenza all’assenza o all’invadenza di famiglie parziali e centrifughe, all’assedio degli spot, alla propria ignoranza da “zappe”, all’impotenza ed alla confusione, tanto di fronte al dolore che all’amore. Con il timbro del corto-cortissimo e la cifra della strofa, Vannelli rende uno stato di sospensione che si annuncia dal titolo. Una scrittura in sintonia con lo spirito di una generazione disillusa e deprivata della capacità di sognare. Quella generazione di trentenni (o giù di lì) appanicata per un’adolescenza ormai passata, per un presente che non c’è e per un futuro che non si vede. Una generazione a cui Sara Vannelli appartiene ed a cui dà voce con la franchezza di chi certe storie le ha un po’ vissute. Attraverso i dialoghi, presenti quasi in ogni racconto, l’autrice fa parlare non soltanto le persone ma la realtà e le situazioni che da quelle persone sono vissute e subite.

La scrittura, volutamente sincopata, consente alla Vannelli di ritrarre una realtà quasi sempre magmatica e troppo veloce per starle dietro. Attraverso la forma del racconto breve l’autrice cerca di imprigionare – non sempre ci riesce – quel magma esistenziale che avanza inesorabilmente per poi solidificarsi in situazionirelazioni umane del tutto imprevedibili ed inaspettate. Che dire? Che fare? Come negli Short cuts di Altman, le storie raccontata da Sara sono fatte di lentezze, stasi o passi di danza. Si presentano compatte e densissime, traboccanti di pensieri e situazioni in divenire, fulminanti ed elettriche, permeate da vibrazioni perfino poetiche. Di quella tragica e sgualcita poesia che cresce solo tra gente comune di grandi città avvelenate. In Guarda che me ne vado è inevitabile cogliere la lontana eco di Raymond Carver e della sua scarnificante immediatezza nel rappresentare il ritratto di una società – quella americana – sempre più amara e smarrita. Un altro aspetto merita di essere sottolineato. C’è un ronzio continuo che fa da sottofondo al libro ed alle sue storie. E’ il ronzio delle tv di Berlusconi, dei suoi format, delle sue pubblicità e della sua icononografia. Che sia lui il responsabile della destrutturazione socio–familiare descritta nel libro?


Estratto dal libro GUARDA CHE ME NE VADI di Sara Vannelli Mamma guarda che io me ne vado. Non si gira. Mamma sono incinta. Non si gira. Mamma sono un uomo. Si gira e si accende una marlboro. Fa un gran fumo, ma non i cerchietti nell’aria. Non ne è capace. Ah sì? Allo vatti a fare la barba... Mamma ci andrei se tu non tenessi occupato il bagno dalle dieci a mezzogiorno. Mezzogiorno le due, giorni feriali festivi inclusi i martedì grasso. La donna esce dal bagno sbuffa e lascia passare la figlia. Si sfiorano ma non si toccano, lei ha i tacchi e sul pavimento fa quel rumore che sfrega le orecchie.

IMPARARE E DIVERTIRSI I CORSI DI FORMAZIONE DELLA RIVISTA LETTERAIA INTERNAZIONALE STORIE E LECONTE EDITORE DIDATTICA E AUTODIDATTICA PER CHI CREDE NELLE PAROLE

Ispirati al modello anglosassone di apprendimento a distanza, i corsi di formazione progettati e promossi dalla rivista letteraria internazionale Storie e dalla casa editrice Leconte adottano un programma integrativo, non necessariamente “alternativo” a quelli scolastici e accademici. Inaugurati nel 1992 con il Corso di Giornalismo e Scrittura narrativa, a seguito di un già consolidato tirocinio di lezioni dal vivo, riscuotono numerose adesioni soprattutto fra gli studenti universitari ma anche fra gli appassionati, che apprezzano un progetto dai costi contenuti e capace di valorizzare la libertà di scrittura esplorando le diverse radici culturali della lingua contemporanea. Dalla letteratura al cinema, fino al rock. Scopo del CORSO DI GIORNALISMO E SCRITTURA NARRATIVA è di esaminare le possibilità espressive e comunicative della lingua scritta in una prospettiva professionale o puramente narrativa. Per questo il programma presenta elementi fondamentali per conoscere più a fondo discipline diverse che hanno in comune l’uso della parola. Una quantità di nozioni, consigli, esempi, lezioni d’autore (di Massimo Bucchi, Tess Gallagher, André Brink, Mario Capanna, nonché Sandro Ciotti e Giuseppe Pontiggia, fra gli altri) e prove di scrittura a tema che costituiscono uno stimolo per l’approfondimento culturale. Il giornalismo come testimone dei tempi e la scrittura narrativa come custode del Tempo. Altro obiettivo del Corso è di fornire un costante servizio di assistenza per chi scrive, attraverso una rete di tutor che dialogano con gli allievi offrendo loro un riscontro critico attraverso il quale migliorare la propria scrittura e maturare una personale consapevolezza stilistica. Nel 2007, sulla scorta degli ormai collaudati Corsi di scrittura, viene varato il CORSO PRATICO DI TRADUZIONE LETTERARIA DALL’INGLESE. Non a caso, perché dal 2001 la rivista Storie è diventata internazionale, esce in due lingue (italiano e inglese) e ospita scritti inediti di narratori e poeti contemporanei (Raymond Carver, Joyce Carol Oates, T. C. Boyle, Russell Banks, Haruki Murakami, fra gli altri), con

testo originale a fronte e interviste a tema. Il Corso utilizza materiali di self-study nell’ottica di introdurre subito gli allievi a una dimensione pratica della disciplina e consentendo loro di lavorare con testi originali e d’archivio della rivista e della casa editrice. Infine, nel 2008, ultimo nato della scuderia didattica Leconte, il CORSO DI POESIA. La finalità è quella di stimolare ogni iscritto a scoprire, esercitare o perfezionare la propria attitudine alla scrittura in versi. Un esauriente compendio della produzione poetica contemporanea italiana e internazionale (Ariel Dorfman, Domingo Notaro, Gregory Corso e tanti altri) che si avvale anche qui di una varietà di nozioni, esempi, esercizi ed esercitazioni progettate per incoraggiare la necessità quasi terapeutica di leggere e scrivere poesia. Un programma studiato per illustrare gli aspetti fondamentali della materia e che, al tempo stesso, si pone come punto di partenza per l'elaborazione di uno stile poetico personale. Parallelamente alla formazione a distanza, negli anni la redazione di Storie e Leconte organizza sporadicamente delle sessioni dal vivo dei Corsi stessi, ad esempio a Mantova, Pavia, Agrigento, al Palazzo delle Esposizioni di Roma e più volte a BARI e BRINDISI. Sebbene la vocazione primaria rimanga quella della didattica per corrispondenza, reputata più democratica per costi e logistica, le città pugliesi si dimostrano un territorio particolarmente ricettivo per le attività della casa editrice, tanto che redattori e collaboratori autoctoni si avvicendano negli anni e una nuova sessione di Corsi live in loco è già in programma per il 2009/2010. LA RIVISTA LETTERARIA INTERNAZIONALE STORIE e LECONTE EDITORE Diretta da Gianluca Bassi, Storie è stata fondata nel 1988. Leconte Editore nasce nel 2001 e segna la svolta bilingue della rivista, che nel 2003 è stata premiata dal Writers’ Digest americano come migliore rivista letteraria internazionale.


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SETTEMBRE/ SOCIETÀ

EVOLUZIONE IN RETE: REQUIEM FOR A BLOG. LA SCHIACCIANTE VITTORIA DEI SOCIAL NETWORKS

di Annarita Cellamare schede a cura di Barbara Laneve Valeria Gianpietro Michele Casella

Che vi sia stata una incredibile evoluzione della comunicazione di massa non è certo un mistero, visti i passi da gigante fatti sino ad ora in questo campo. I mezzi di comunicazione sono diventati più semplici nel loro utilizzo, hanno reso la comunicazione multimediale veloce, disponibile ovunque (o quasi) e alla portata di tutti. Insomma l’hanno resa PoP. C’erano una volta le chat sui browser, c’era una volta MSN, c’erano una volta i blog, e ora ci sono MySpace e Facebook, e tutti i social network che hanno sbaragliato il resto. Ma perché dopo il boom dei diari virtuali, durante il quale se non avevi un minimo di tre blog attivi e aggiornati maniacalmente ogni giorno, questi sono sporadicamente spariti? È solo stata una questione di moda? Andiamo per ordine. Per capire come la naturale evoluzione tecnologica abbia fatto sì che i blog siano finiti nel dimenticatoio, è giusto fare un piccolo viaggio indietro nel tempo, e spiegare un po’ più tecnicamente di cosa si trattano questi strumenti virtuali ai quali ci approcciamo quotidianamente. Il blog altro non è che un diario online, come cita Wikipedia, dove l’autore inserisce i propri pensieri, opinioni, riflessioni, considerazioni, ed altro, assieme, eventualmente, ad altre tipologie di materiale elettronico come immagini o video. l termine blog è la contrazione di web-log, ovvero "traccia su rete". Il fenomeno ha iniziato a prendere piede nel 1997 in America. Nel 2001 è divenuto di moda anche in Italia, con la nascita dei primi servizi gratuiti dedicati alla gestione di blog. I primi diari virtuali comparsi furono pochissimi nei primi tempi, tra i quali il famosissimo “Wittgenstein”, blog creato dal giornalista freelance Enzo Baldoni, rapito in Iraq nel 2004. Blog e istant messenger hanno per molto tempo convissuto serenamente. I primi social network hanno cercato di unire il meglio di entrambi: possibilità di condividere informazioni con altri contatti, messaggi in bacheca (i nuovi “post” derivanti dai blog) e condivisione di “media” (audio, foto e video). Myspace è stato il primo, eccellente esempio di questa nuova tendenza. Ma Facebook, da buon concorrente, non ha tardato a farsi notare. Ha saputo prendere spunto dal rivale (e da tanti altri esperimenti analoghi, alcuni dei quali ormai “defunti”). E, ovviamente, ad aggiungervi del suo. Così, un po’ blog (note, post e commenti), un po’ istant messenger (la chat on-the-fly), un po’ posta elettronica, Facebook non sembra fermarsi. E le applicazioni, che sembrano nascere

come funghi ad un ritmo incessante, aggiungono più di quello che un utente medio riuscirebbe a desiderare. Twitter (“l’uccellino” ultimo arrivato), dal canto suo, non ha fronzoli, e non li vuole. Hai la lista di contatti, ha i commenti e i post, e aggiunge quel pizzico di “carattere” che lo distingue dagli altri: il “quando” e il “dove”. Un cercapersone con una marcia in più. Alla luce di tale situazione sembra più che scontato il motivo per il quale i blogs siano finiti nel dimenticatoio e in disuso: funzionalità, semplicità di gestione, ambivalenza, facile ed istantanea diffusione di ciò che si modifica/scrive/inserisce. Ecco cosa differenzia i social networks dai blogs, dando loro maggiore grado di interazione e di innovazione. E’ pur vero che v’è una grande limitazione tecnica nei social networks rispetto ai blogs: la libertà di gestione di essi, limitata dalla proprietà privata. Con un briciolo di infarinatura informatica e tanto tempo a disposizione, chiunque può disporre di una piattaforma per blog e personalizzarla a tal punto da poter introdurre tutte le funzioni tipiche di un social network, ma completamente libero di gestirle a proprio gradimento (riferimenti a mappe globali esterne, liste di contatti, proprietà di tutto ciò che viene inserito – copyright su note scritte, su foto e video inseriti – grande problema che sta facendo proliferare le cancellazioni lampo di molti profili). Facebook e co., invece, sono blindati. Qualunque dato inserito diventa di proprietà di chi gestisce la piattaforma e l’utente perde qualsiasi diritto su ciò che inserisce per un massimo di 5 anni a partire dalla cancellazione del profilo. Ironia della sorte, quindi, è che i blog ti danno libertà totale o quasi, a differenza dei social networks, dove l’utente ha unicamente la possibilità di postare sul proprio profilo, anche a discapito della propria privacy. E ciò nonostante oggi spopolano e aumentano varie versioni di reti sociali, che prendono accezioni completamente differenti dall’idea iniziale di social network, arrivando a far creare luoghi virtuali comuni dove la comunicazione si basa sul “mandarsi a quel paese”. I social networks plasmano la società virtuale del futuro: non per niente qualche tempo fa, mia madre, nonché peggiore nemica della tecnologia, nonché colei che ha imparato ad inviare un sms dopo aver rotto quattro cellulari, mi chiede: “Come si fa un profilo su fessbuch?”


TI MANDO UNA MAIL CON IL LINK IL NUOVO LINGUAGGIO AL TEMPO DI INTERNET Il web è ormai il nuovo mondo di oggi. Navigare è diventato indispensabile per informarsi, accedere ai servizi, accorciare le distanze. La rete si configura sempre più come il luogo virtuale in cui le persone si incontrano e dialogano in uno slang che si è rapidamente diffuso tra gli internauti. E non appare strano, a questo punto, che parole come zippare, chattare, downloadare, scaricare o linkare siano entrate a far parte, a pieno titolo, della nostra vita. Non ci si imbatte più in pochi neologismi. Le parole utilizzate nel mondo virtuale stanno diventando un vero e proprio linguaggio, adoperato anche al di fuori dello stesso mondo online. La lingua del web, dunque, è in continua evoluzione. Nascono nuovi termini e nuove espressioni che vengono declinate e utilizzate nel linguaggio corrente. “Mandami l’allegato per mail”, “Il file è zippato perché troppo grande”, “Puoi scaricare quel programma open source da questo link”. Si tratta di uno slang nel quale confluiscono inglese, spagnolo, informatica, neologismi, acronimi, emoticon ed icone animate. Uno slang di cui nessuno può più farne a meno. Idiomi entrati a far parte del nostro vocabolario. Idiomi intrisi di tecnologia che però si affineranno progressivamente nel corso degli anni. Ma se è vero che il gergo utilizzato nella comunicazione online è comprensibile e funzionale solo all’interno di una generazione, o meglio di una cultura, che è in grado di coglierne il senso, le parole al tempo di internet acquistano un valore enorme. Non fosse altro per il fatto che conoscerle o non conoscerle, comprenderne il significato e utilizzarle in modo appropriato, fa la differenza. Il mondo è sempre stato diviso tra chi utilizza la tecnologia e chi ne è escluso. Oggi si parla, a tal riguardo, di digital divide: gli esclusi sono coloro che non hanno accesso alle reti, non usano le mail e sono fuori dalle logiche, anche linguistiche, del web. Una separazione accentuata dalla scarsa comprensione del lessico. Internet, dunque, fa proprio un linguaggio che necessita di essere padroneggiato. Pena una nuova forma di esclusione sociale e culturale. Il mondo digitale sta ormai imponendo il suo linguaggio anche a chi non lo frequenta. Un lessico, per molti ancora, poco o per nulla familiare. Un linguaggio che è diventato importante conoscere perché lo si possa governare e non essere governati. Veronica Satalino

IQONS

A SMALL WORLD

I FUCKING HATE YOU

COS’È: è apparentemente un nuovo clone di MySpace incentrato sul mondo della moda. Un “social network” destinato a tutti gli operatori di questo mondo: stilisti, truccatori, fotografi, retailers, cool hunter, modelli, dj. COME SI PARTECIPA: Si effettua la classica registrazione del profilo. GRADO DI INTERAZIONE: Iqons mette a disposizione vari attrezzi per il social network: gallerie di immagini, suoni, video, per condividere contenuti e farsi conoscere. GRADO DI INNOVAZIONE: Si rivela utilissimo per fare conoscenze mirate nel settore della moda.

COS’È: la community più elitaria ed esclusiva del web, alla quale si accede solo attraverso pochi, ricercatissimiinviti.Contasolo 300.000 tra cui 15.000 direttori generali, 3.500 laureati ad Harvard e personaggi come Naomi Campbell, Paris Hilton, Quentin Tarantino, con un’età media di 32 anni. COME SI PARTECIPA: Si accede solo se si è ricevuto un invito da chi è già iscritto. GRADO DI INTERAZIONE: È semplice interagire perché si è tutti potenzialmente fidati. C’è sempre grande cordialità tra gli iscritti. GRADO DI INNOVAZIONE: Una cadillac in affitto a NYC, un invito ad un party esclusivo a Parigi, consigli sullo shopping a Tokyo. Basta chiedere e si ricevono le risposte più attinenti. Il target cui si rivolge permette di avere informazioni di altissimo livello e attendibilità.

COS’È: il social network in cui dare liberamente sfogo alle proprie intolleranze ed eccessi d’ira, un sito in cui “troll” di professione possono scatenare liberamente “flame” ed offendere i propri contatti nella maniera più esplicita possibile. Qualora non sappiate come dire a una persona che non la sopportate, cercate il suo profilo su ifuckinghateyou.com e lasciatele un messaggio al fulmicotone. COME SI PARTECIPA: Una velocissima registrazione online. GRADO DI INTERAZIONE: il classico social network... al contrario! È possibile pubblicare foto e lasciare informazioni, ma preparatevi ad un attacco incrociato da parte degli altri utenti. GRADO DI INNOVAZIONE: Una piccola moda che su internet è ormai in voga fin dalla nascita dei primi forum; simpatiche le tag per le foto, dove il commento più edulcorato si limita ad un “bloody stupid!”.

www.iqons.com (B.L.)

www.asmallworld.net (B.L.)

www.ifuckinghateyou.com (M.C.)


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SETTEMBRE/ SOCIETÀ

INTROVERTSTER

MODEPASS

ANOBII

WOOFER UN RINGHIO CONTRO TWITTER

COS’È: la comunità online che ti protegge da coloro con cui non vuoi comunicare. Su Introvertster non si è costretti ad ignorare decine di inviti al giorno o a leggere le follie egocentriche di perditempo chiacchieroni. COME SI PARTECIPA: Classica registrazione online a cui segue un accurata scelta dei contatti da evitare. GRADO DI INTERAZIONE: Basso, Introvertster ti protegge dalle conoscenza fastidiose attraverso la creazione di “black list”. Potrete così mettervi al sicuro da vecchie conoscenze del liceo che vogliono riallacciare i rapporti o dai fanatici di Pat Metheny che desiderano condividere la passione per noiosissimi assoli di chitarra. GRADO DI INNOVAZIONE: Se usato saggiamente può avere un grado di longevità anche più alto dei social network più conosciuti.

COS’È: modepass è un social network made in France originale e innovativo che riunisce fashion designers, grafici, aspiranti stilisti, direttori di web shops, fotografi di moda, web project managers, venditori e-bay di accessori e abiti vintage, artisti e illustratori. GRADO DI INTERAZIONE: Gli utenti possono arricchire il sito di foto, video, articoli, iscriversi a gruppi e aggiornare quotidianamente la propria pagina di informazioni su stile e creatività. GRADO DI INNOVAZIONE: Dopo Lookbook (lookbook.nu/) e Chictopia (www.chictopia.com/), il sito è attualmente uno dei fashion network più seguiti. Per maggiori info visitate il sito.

Evidentemente non siamo in pochi a patire le mutazioni linguistiche prodotte dalla rete, quei neologismi spesso cacofonici che (nella mania di sintetizzare i concetti) hanno finito per semplificare progetti e idee. Per coloro che si sentono soffocare dai 140 caratteri spazi inclusi imposti da Twitter, ecco arrivare Woofer, il social network che funziona al contrario. Perchè i vostri messaggi siano visualizzabili è necessario che superino la lunghezza di 1.400 caratteri, tanto che i creatori suggeriscono di inserire avverbi, essere eloquenti e soprattutto di non usare abbreviazioni. Di certo una provocazione che trova poco sbocco in una rete così caotica e schizofrenica, ma che proprio per il suo essere anticonvenzionale ha suscitato l’interesse della stampa internazionale. Ad usare Woofer il rischio è quello di perdere il tempo sugli avvenimenti, di saltare un passaggio, ma basta fare una singola prova per riassaporare il trasporto di una scrittura elaborata. Il cut-up visivo ci sta trasportando verso panorami degni della fantascienza anni ’50, e la rivoluzione demagogica ha ormai fatto passi da gigante. Conviene, forse, contenere l’imperversare del “pensiero comune” anche attraverso queste piccole forme di resistenza.

airbagindustries.com

(V.G.)

COS’È: un social network dedicato ai lettori appassionati, quelli per cui un libro è il primo mezzo di incontroel’ultimoamicodella sera. Con Anobii hai la possibilità di creare una tua biblioteca preferita, condividere le tue scelte ed i consigli con i tuoi amici. COME SI PARTECIPA: Registrazione lampo sul sito, poi basta perdersi fra le copertine dei libri che avete letto o che vorreste leggere. GRADO DI INTERAZIONE: Alto, le catene di lettura sono più salde di quanti ci si possa immaginare e il desiderio di condivisione si sposa con la propensione alla scrittura ed ai post in bacheca. Interessante poi la possibilità di lasciare piccole recensioni al fianco dei volumi, elemento fondamentale per il passaparola ma anche per parlare di sè in maniera indiretta. GRADO DI INNOVAZIONE: Nulla di nuovo se paragonato ai newsgroup di qualche anno fa, probabilmente ritroverete gli stessi amici e nemici di altri forum, ma l’iscrizione su Anobii si rivela a tutto vantaggio dell’interattività.

(M.C.)

modepass.com

www.anobii.com

Michele Casella



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SETTEMBRE/ SOCIETÀ

by Daniele Raspanti

Scaricare senza pagare è l'attività più popolare in rete. Nonostante leggi sempre più severe, nel mondo la pirateria dilaga. E se fosse un bene? È questa la tesi di Luca Neri nel suo libro “La Baia Dei Pirati. Assalto Copyright”, il volume/inchiesta pubblicato dalla casa editrice Cooper che dà voce per la prima volta ai pirati. Un racconto sulla nuova morale nata fra i giovani, in cui si spiega perché la difesa della proprietà intellettuale non è solo futile: è incompatibile con la libertà in rete.

I pirati, tra baia felice e corti supreme Non ci saranno attori in carne e ossa, non ci saranno colpi di scena, ma le vicende che ruotano intorno al nome di The Pirate Bay sono altrettanto spettacolari e ricche di emozioni. Ma cos’è The Pirate Bay (TPB per gli amanti delle sigle)? Nato nel 2003, questo piccolo sito (progetto di 3 ragazzi svedesi Gottfrid "Anakata" Svartholm, Fredrik "TiAMO" Neij e Peter "Brokep" Sunde) era la base di quello che, in pochissimo tempo, sarebbe diventato un autentico successo sulla rete, e in seguito, anche sulle testate giornalistiche di settore. ThePirateBayèun“tracker”,unraccoglitoredituttiicollegamenti utilizzati per scambiarsi file attraverso la rete BitTorrent. Filesharing, quindi, nonché la parola più odiata dalle grandi major discografiche e cinematografiche. È qui che nasce la telenovela di TPB. Forse per pressioni delle varie case di produzione, forse per l’attività non proprio legale con cui venivano condivisi i “torrent” su The Pirate Bay, ma gli internet service provider svedesi, che per anni hanno lasciato crescere la creatura dei tre ragazzi, hanno scatenato la loro furia in quello che sarebbe diventato un caso internazionale. Come? Bloccando l’accesso al sito in tutta la nazione. Seguiti a ruota anche da altri Paesi (come l’Italia, ma bloccata nel suo intento da un ricorso del Tribunale di Bergamo), gli ISP non hanno avuto l’effetto sperato da questa azione “disperata”:

gli utenti di The Pirate Bay riuscivano comunque a collegarsi al loro sito preferito, attraverso escamotage sempre più creativi. Almeno fino a quando TPB ha cambiato indirizzo del proprio server per aggirare così tutti i blocchi. Purtroppo, dopo queste prime (inutili) prove di bloccare TPB, le autorità svedesi hanno portato i fondatori di The Pirate Bay in tribunale. Tra accuse infondate e giurie non informate dei fatti (ma soprattutto, dello stesso funzionamento di TPB), passando per un giudice (tale Tomas Norström) non riconosciuto dagli avvocati della difesa in quanto “pro-antipirateria e in accordo con la Swedish Copyright Association e la Swedish Association for the Protection of Industrial Property”, il futuro di The Pirate Bay è ora tutt’altro che roseo. I pilastri di TPB (Carl Lundstrom, Peter Sunde, Gottfrid Svartholm Warg e Fredrik Neij) sono stati condannati a scontare un anno di carcere e a pagare, a testa, ben 2,7 milioni di euro. A niente è servito un ricorso dei legali dei ragazzi svedesi, o la recente acquisizione del tracker da parte della Global Gaming Factory.The Pirate Bay, è destinato a sparire, e con esso, una possibile svolta per lo scambio di contenuti audio e video.


Anche i pirati pagano La diffusione dell’ideologia politica pro-condivisione non ha comunque aiutato The Pirate Bay a risollevarsi dalle proprie sorti. Neanche l’acquisizone da parte della Global Gaming Factory ha attenuato l’accanimento di giudici e major. I progetti futuri di Hans Pandeya, CEO di GGF, per The Pirate Bay, prevedevano anche un’eventuale “evoluzione legale” del più famoso e utilizzato tracker del mondo. La sigla TPB sarebbe rimasta, ma con un significato diverso (ancora non definitivo, comunque): The Pay Bay. TPB secondo Global Gaming Factory avrebbe strizzato l’occhio sia alle major sia agli utenti “più golosi” di file. Una quota di iscrizione mensile che, in base al proprio contributo, avrebbe aperto più o meno “il rubinetto” e il numero di download possibili. Nello stesso momento, parte di quella somma sarebbe dovuta andare alle case discografiche e cinematografiche per coprire quei diritti d’autore tanto violati dal vecchio The Pirate Bay. Ma la mossa non è stata delle più intelligenti. Peter “brokep” Sunde decide di dimettersi da portavoce di The Pirate Bay. La FIMI (Federazione Industria Musicale Italiana) e la FPM (Federazione contro la Pirateria Musicale) richiedono un risarcimento di un milione di euro per tutti quegli artisti a cui TPB ha danneggiato. Gli utenti abbandonano la baia per trovare lidi più felici. Insomma, con The Pirate Bay si chiude un’epoca. E purtroppo, con la condanna e la fine del processo non sarà solo il file-sharing a morire, ma anche tutta quella libertà di espressione e con divisione che solo la rete può offrire (qualcuno ha detto Youtube o Facebook?).

I pirati si danno alla politica… e vincono! Le vicende di The Pirate Bay, però, hanno avuto un riscontro positivo, del tutto inaspettato. Il “Partito dei pirati” (o meglio, “Piratepartiet”), fondato in Svezia nel 2006 per assicurare i diritti del file-sharing non può che ritenersi fortunato della vicende di TPB. Soprattuto per la fortuita coincidenza degli avvenimenti accaduti. Nelle elezioni parlamentari del 2006, il Piratepartiet ha provato a dire la sua, ottenendo però un misero 0,69% di consensi da parte della popolazione. Scossa l’opinione pubblica, soprattutto dei più giovani, con le vicende del portavoce di TBP Peter Sunde (conosciuto come “brokep”) e soci, il partito pirata ha deciso di riproporsi anche quest’anno. E, ironia della sorte, mentre TPB ormai veniva affossato ogni giorno di più da un processo ormai perso, il Piratepartiet è uscito vincitore dalle elezioni svedesi del 2009, ottenendo ben il 7,1% dei voti (bastava anche un 4,5%) e quindi uno dei 18 seggi nel parlamento. In seguito, anche in altri Paesi europei si sono istituiti partiti con il medesimo nome, tutto volti a difendere i diritti del file-sharing come canale di condivisione e comunicazione. Anche in Italia è stato istituito il Partito Pirata, ma solo come associazione. Alle elezioni europee del 2009, il Partito Pirata schierava Alessandro Bottoni (come indipendente) con Sinistra e Libertà.


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IO, MICHEL E I GRANDI GIORNI DEL 36 by Adele Meccariello

INTERVISTA A JEAN LOUIS BOMPOINT, DIRETTORE DELLA FOTOGRAFIA DI MICHEL GONDRY È difficile riassumere in poche righe la storia di un direttore della fotografia, jazzista, fotografo, nonché regista, con all’attivo quasi trent’anni di carriera, e il cui nome è legato a film come L’arte del Sogno e Grace is Gone. Così difficile che si fa prima a lasciare che sia lui stesso a raccontarsi. Raggiungiamo Jean-Louis Bompoint negli studi JPL Film di Rennes, dove sta lavorando al cortometraggio di animazione sperimentale NEMASCO, su un tema che gli è molto caro: “l’orecchio vede quel che l’occhio sente”. “Si tratta di un film girato senza telecamera,” – spiega – “direttamente dipinto e disegnato su pellicola cinematografica 35mm, con effetti speciali aggiunti in seguito al computer. L’immagine finale è rigorosamente sincronizzata con la musica, riprendendo così la teoria del “clavicembalo oculare” immaginata da D’Alembert nella sua Encyclopédie”. Negli studi di Rennes si svolge la prima parte della lavorazione, che verrà completata in autunno presso l’Office National du Film du Canada, a Montréal: “È un vecchio sogno di bambino che si realizza, perché è là che ha lavorato per quarant’anni uno dei miei Maestri: Norman MacLaren, e ho sempre sognato di poter lavorare in quel luogo mitico”. Laureato (“più che altro per far piacere ai miei genitori”), ma completamente autodidatta nel mestiere del cinema (“ma quand’ero giovanissimo, ho avuto la fortuna di incontrare maestri come Norman MacLaren, René Laloux, Julien Pappé, Santo Sansonetti e Claude Copin”) e nella musica (“non sono in grado di leggere una sola nota e suono totalmente ‘a orecchio’”),

Jean-Louis Bompoint è spesso legato alla figura di Michel Gondry, e non solo “sul lavoro”: i due, infatti, sono amici da molti anni. Com’è avvenuto l’incontro con Michel Gondry? Ho conosciuto Michel Gondry nel settembre 1983. Ero stato chiamato a lavorare da René Laloux, una fortuna incredibile: a 23 anni ero impegnato nelle riprese di un film professionale in 16mm, con un grande regista, ed ero pagato da una produzione! C’era un ragazzo che veniva sempre a guardarci durante le riprese: era Olivier Florinda, e conosceva a menadito la regione in cui stavamo girando; così s’integrò nell’équipe, per consigliarci sui luoghi più adatti alle riprese; avevamo quasi la stessa età e diventammo amici; Olivier mi disse: “Ascolta… bisogna davvero che ci rivediamo, perché il fratello del mio migliore amico è un pazzo come te, pensa solo a musica e cinema, ed è un tuttofare infernale… si chiama Michel Gondry”. Il destino era venuto a bussare, e… detto, fatto. Ho incontrato Michel Gondry a settembre, nella sua casa di famiglia a Versailles, dove viveva con i suoi due fratelli e la madre, Marie-Noëlle. Lì Michel aveva allestito, oltre al suo laboratorio di fotografia, un piccolo studio di registrazione a 4 piste, dove componeva e interpretava pezzi suoi, in compagnia di diversi altri amici, tra cui un certo Etienne Charry (cofondatore del gruppo musicale


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01 e 02. Jean Louise Bompoint

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Oui Oui, ndr)… Gondry ed io abbiamo fatto subito amicizia, a partire dalle nostre comuni passioni. Nel frattempo, ormai il cinema era diventato il mio mestiere; dal canto suo, Michel lavorava di malavoglia in una tipografia che stampava calendari, dove si annoiava parecchio… Nel 1985 Michel decise di coabitare con suo fratello Olivier in un piccolo appartamento al quinto piano senza ascensore, al 36 di Rue Labat, nel diciottesimo arrondissement di Parigi. Ma quando Olivier lasciò l’appartamento, Michel non poteva mantenere da solo i costi dell’affitto del “36”, così mi propose di andare a coabitare con lui. Era dicembre: sotto una neve abbondante e con un’influenza schifosa, feci il mio trasloco, senza sapere che stavo per passare uno dei periodi più belli della mia vita… Oddio, quanto ci siamo divertiti! Quando parliamo di quel periodo, con Michel, lo chiamiamo “i grandi giorni del 36”! Verso febbraio del 1986, Michel – rientrato a casa una sera – crollò in lacrime sul letto: “Sono stanco di quegli str**zi! Ne ho abbastanza di lavorare in quella ca**o di tipografia di m**da che mi c**a il ca**o sempre più ogni giorno… non ne posso più! Non ci voglio tornare, domani… fammi entrare nello studio in cui lavori tu… mi insegnerai il mestiere… e anche se inizio come apprendista, non m’importa! Sarà sempre meglio di quello che faccio ora”.

All’epoca ero capo montatore nello studio Tele-Hachette, la situazione di Michel mi stava a cuore, così bussai all’ufficio della nostra direttrice di produzione, Chloé Page, dicendole: “Ehm… credo che avremo bisogno di qualche extra per filmare i disegni-test, e ho giustappunto un amico che…” “Allora porta il tuo protetto! Inizia domani!”, mi rispose Chloé. Quando rientrai a casa, annunciai a Michel di essere stato assunto nello studio: non ho mai visto nessuno così felice! Da quel momento, ho trasmesso a Michel tutto quello che avevo imparato… L’allievo ha rapidamente superato il maestro e stava per nascere la “Leggenda Gondry”… Nel film L’arte del Sogno, come sei riuscito a gestire l’ambiente reale di un piccolo appartamento e quello onirico dei continui viaggi nel mondo di Stéphane? Hai avuto un approccio differente, nella gestione della macchina e della luce? Non ho fatto molti sforzi per gestire quello che descrivi tu, perché conosco bene il “mondo” di Michel Gondry, e non abbiamo bisogno di troppe parole per capirci, quando lavoriamo insieme. Ho sofferto molto di più il freddo e gli orari spaventosi piuttosto che per le questioni di luce e/o inquadratura, che ho affrontato senza problemi. Girare un film, che sia con Gondry o con qualcun altro, non mi crea nessun problema d’identità e il fatto di inserirmi in un


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mondo o in un’estetica completamente diversi dalle mie convinzioni artistiche personali, mi diverte ancora adesso moltissimo. Qual è la condizione degli artisti in Francia? Grazie al tuo lavoro, viaggi in tutto il mondo: come ti trovi a lavorare nel resto d’Europa e negli Stati Uniti, rispetto al tuo Paese? La condizione degli artisti in Francia non è migliore né peggiore che altrove. Tuttavia possiamo ottenere facilmente degli aiuti finanziari governativi, nazionali e regionali, molto consistenti, se si intende realizzare un progetto per un film. Godiamo anche dello statuto di “precari dello spettacolo”, che ci permette di avere delle indennità di disoccupazione non indifferenti, quando non lavoriamo. Ma questo statuto sarà presto soppresso dall’orribile presidente Sarkozy, codardo e vile schiavo di questa maledetta “Unione Europea” che dal momento della sua patetica comparsa ha rovinato la Francia. Poi, soffriamo di numerose scorie “culturali”, qui in Francia: un artista multi-disciplinare è male accettato nel nostro Paese, dove viene sempre preferita la divisione dei ruoli, ritenuta più “rassicurante”. I giovani talenti (anche se validissimi) hanno molte difficoltà a farsi riconoscere, a meno che non siano “figlio o figlia di…”. L’Unione Europea ha affossato il nostro mestiere, trasformando le nostre frontiere in un colabrodo, lasciando intervenire chi accetta di lavorare sui nostri film a dei prezzi inferiori alle tariffe sindacali francesi. Non c’è alcun protezionismo, in Francia. Inoltre, l’industria audio-visiva francese è attualmente controllata da due lobby che non posso nominare (a rischio di finire in prigione, dato che sono protette e incoraggiate dal “régime Sarkosyste”), che danno lavoro soltanto a chi accetta di obbedirgli. Come sai, nessuno è profeta in patria, e non è certamente in Francia che viene riconosciuto il mio valore; negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Germania, come quasi ovunque fuori dal mio paese, sono solitamente trattato come una “star”, e ricevo lavoro e accoglienza assolutamente incredibili. È molto piacevole! (ride) Hai lavorato anche in Italia? Che ricordo hai di quell’esperienza? Sono stato due volte a girare in Italia.

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L’organizzazione è assolutamente disastrosa, i produttori sono dei ladri e dei bugiardi, che promettono molto senza mai mantenere la parola fino alla fine! Ma le persone del cinema italiano (dal semplice macchinista fino al regista) hanno davvero TUTTE un talento e un gusto per una qualità assolutamente eccezionale, che hanno fatto sì che il cinema italiano sia ancora uno dei più belli del mondo! Qual è il tuo film preferito come spettatore? E il film che porti nel cuore in quanto membro della troupe? Come spettatore i miei film preferiti restano le commedie leggere girate fra gli anni Trenta e Settanta. I miei preferiti sono Fernandel, Louis de Funès e Stanlio & Ollio. Come membro della troupe, il mio set preferito è forse quello di Londra di due anni fa: Broken Lines. Credo di non essere mai stato così felice della mia vita…da ogni punto di vista! Ci sono dei registi, in tutta la storia del cinema, coi quali sogni di lavorare? Beh, ce ne sono molti, per citare soltanto quelli viventi: Alain Resnais, perché ho un’ammirazione forsennata per l’intelligenza del suo lavoro. Jean-Luc Godard, perché è il padre del cinema moderno e un grande visionario che realizza sempre dei film che sono trent’anni avanti rispetto al loro tempo. Tim Burton, per l’eclettismo del suo talento. Quentin Tarantino, perché è semplicemente brillante in tutto quello che fa, anche se non apprezzo particolarmente il suo “mondo”. Ken Loach, per l’impegno politico e la freschezza dei suoi film.


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Ma questo modo di “funzionare” non è una novità, dato che sia Michel che io lavoriamo esattamente alla stessa maniera, e con gli stessi mezzi che usava George Méliès all’inizio del XX secolo. Nessuna sfida in tutto ciò, quindi. Soltanto rispetto per il lavoro ben fatto.

Dopo quasi trent’anni di carriera ti sta tornando la voglia di impegnarti in progetti completamente tuoi, come NEMASCO: come ha preso corpo questa idea? Nel settembre del 2008 avevo molti progetti professionali, specialmente con gli Stati Uniti. Poi, all’improvviso, è arrivata la crisi economica, e tutto mi è crollato addosso nel giro di pochi giorni, e mi sono ritrovato senza lavoro per dieci lunghi mesi. Per non lasciarmi abbattere e mantenere viva la mia creatività, ho deciso di scrivere un dossier per chiedere sovvenzioni al CNC (Centre National du Cinéma, ndr) e ad altre organizzazioni francesi che sostengono il cinema, per un soggetto di un cortometraggio d’animazione sperimentale: NEMASCO. Ho fatto questo lavoro preparatorio senza credere nel suo successo. E poi, verso il mese di maggio: miracolo! La mia richiesta di finanziamento è stata accettata e potevo prendere in considerazione l’idea di realizzare il mio film. Pensi anche a un film che non sia d’animazione? Mi piacerebbe, un giorno, poter realizzare un film sui miei ricordi d’infanzia. Hai lavorato molto con Michel Gondry, che è famoso per l’uso di trucchi cinematografici “analogici” più che digitali. Questo modo di lavorare rende le riprese più stimolanti, trasformandole in una sorta di sfida? Diciamo che lavorando direttamente con e sulla macchina da presa, si gestiscono in maniera molto fisica e concreta tutte le immagini che vengono prodotte.

Hai curato la fotografia di numerosi video musicali, lavorando per artisti come i Radiohead (Knives out), i Rolling Stones (Gimme shelter) e di recente Paul McCartney (Dance tonight). Come si relaziona un jazzista come te al mondo della musica rock e pop alla quale fornisce “l’immagine”? A parte la musica di Paul McCartney, di cui apprezzo molto la freschezza e la spontaneità, mi fanno davvero orrore il rock’n’roll e il pop, che per me restano un conglomerato binario, su due o tre accordi armonici, di “degenerazione culturale postsessantottina”. Quindi è davvero una sfida per me, dover illustrare uno stile musicale che non stimo affatto: mi dà la possibilità di mettere a pieno regime la mia creatività per sublimare la sfida. È una scommessa che mi diverte un sacco ogni volta. A dodici anni hai scritto a Norman MacLaren e hai avuto l’incredibile fortuna di ricevere una sua risposta e i suoi preziosissimi consigli. Adesso avresti tu dei consigli da dare ai giovani cineasti? Oddio! Se sapessi quante lettere e domande ricevo regolarmente da giovani cineasti di ogni Paese…rispondo (in modo positivo o, più raramente, negativo) a tutte le lettere che mi arrivano e questa cosa mi prende un bel po’ di tempo ogni giorno! Lo faccio perché mi ricordo che da giovane sono stato fortunatissimo ad avere dei maestri prestigiosi che si sono presi il tempo di affacciarsi alla mia “culla”. Così, mi sono sempre ripromesso che quando sarei diventato un “senior” del mestiere, a mia volta avrei trovato il tempo di occuparmi dei nuovi arrivati in cerca di consigli e/o di lavoro. Ad esempio, ora ho assunto un giovane animatore di 21 anni, Julien Regnard, per la realizzazione di NEMASCO. E questo non è che un esempio fra tanti…

03. Jean Louise Bompoint 04. Jean Louise Bompoint e Julien Regnard nello studio JPL Films a Rennes


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IDENTIKIT SEGNI PARTICOLARI: KAIMANO di Michele Casella

CLAUDIO CINGOLI SI METTE A NUDO: DA VIDEO MUSIC AL CINEMA D AUTORE PASSANDO ATTRAVERSO LA MUSICA DEI SEX PISTOLS La prima qualità che noti in Claudio Cingoli quando fai la sua conoscenza è la capacità di metterti a tuo agio appena dopo avergli stretto la mano, forse una deformazione professionale arrivata dalla sua lunga carriera nel campo della televisione e dello spettacolo. Poi la conversazione diventa un fiume in piena di aneddoti e riflessioni, episodi di lavoro e viaggi, luoghi sconosciuti e situazioni improbabili. Come quella volta che ha presentato i Sex Pistols in Italia, o come per la visita allucinata alla casa di Anna Frank, o per il suo primo viaggio in Puglia con l’obiettivo di trovare l’amico fotografo Francesco Calabretto. Il percorso di Claudio è ricchissimo di esperienze in tanti campi della cinematografia e della tv, un lavoro che gli ha dato molte soddisfazioni e che ha subito un’eccezionale evoluzione stilistica. L’esplorazione della pubblicità, del set, del palco rock e della conduzionetelevisivaglihannopermessodicombinarecentinaia di stimoli artistici e di farli convergere in progetti di grande visibilità. Il tutto condito da una sprezzante ironia ed una sincerità nel raccontare che cattura immediatamente l’attenzione. La vita di Claudio Cingoli è decisamente difficile da sintetizzare in poche note biografiche, impossibile dunque fare affidamento alla scheda del suo sito web che si limita ad un elenco solo parziale di quel che è accaduto negli ultimi 22 anni. “Nel 1987 ho abbandonato gli studi di ingegneria nucleare per cominciare il mio lavoro come assistente di produzione.” – ci racconta Claudio senza esitazioni – “Nonostante non avessi alcuna

esperienza nel settore, una mattina un mio carissimo amico era impossibilitato ad andare ad un take pubblicitario e mi presentò per prendere il suo posto. Decisi comunque di improvvisare, puntando sul fatto che parlo correntemente sei lingue e che avrei seguito alla lettera le indicazioni che mi avrebbero dato. La situazione critica si venne però a creare quando mi fu chiesto di andare ad acquistare delle ciabatte per il set, perchè non conoscevo il gergo tecnico e pensai di dover rifornire la troupe di infradito. Era tempo di saldi, e quando tornai ero anche soddisfatto di averle comprate a poco prezzo e di non aver speso interamente le cinquantamila lire che mi erano state date. La conseguenza fu che mi tennero sospeso per aria con un montacarichi per almeno 15 minuti e mi scattarono anche una polaroid che conservo a casa (e spero non venga mai pubblicata). In ogni caso feci un buon lavoro e negli anni a venire son passato da runner ad assistente e successivamente a direttore della produzione. Prendendo dimestichezza con il mondo del cinema e della pubblicità sono diventato aiuto registra perLuchetti,Salvatores,Nichetti,Polanskyetantialtri,acquisendo l’esperienza necessaria per curare nel 2000 la regia dello spot della Svelto. Con questo lavoro ho vinto il Key Award per la miglior pubblicità mai realizzata dalla Lever, arrivando anche alla kermesse di Cannes”. Nel frattempo Claudio matura le competenze necessarie per cimentarsi con la realizzazione di un cortometraggio: nasce Sciare De Focu, un lavoro raffinato e curato in ogni particolare,


01. Claudio Cingoli fotografato da Francesco Calabretto

come racconta lo stesso Cingoli: “Nel 2003 sono passato al cinema con un cortometraggio intitolato Sciare de Focu, le strade del fuoco, una versione acida della ricerca sulle origini del male. Sitrattadiunfilmnonparlato,incuihocercatodidaregrandissima importanza ai suoni e di curare al meglio la fotografia e la produzione”. Ed in effetti il corto risucchia lo spettatore in un viaggio attraverso gli abusi, scegliendo una bellezza luciferina interamente vestita di bianco come accompagnatrice privilegiata. Non vi è alcuna scena di violenza in questi sei minuti di filmato, ma l’ottimo lavoro di sceneggiatura, l’equilibratissima costruzione formale così come la post produzione di immagini e suoni contribuiscono a farne un video a metà strada fra Abel Ferrara e Gabriele Salvatores. “Gli anni passati a dirige pubblicità mi hanno insegnato il giusto compromesso per capire quanto fosse importante curare la fotografia e i colori, come lavorare sulle inquadrature e chiudere un take su un primo piano. Dopo tutti questi anni ho una certa facilità nel trovare velocemente le inquadrature giuste... l’attenzione per il dettaglio ti permette di trovare sempre quel che ti serve”. Altre esperienze fondamentali sono state quelle con Video Music (dove conduce oltre 300 puntate di Segnali di Fumo) e quella del gruppo Punk On Crest, versione assai melodica direttamente derivata del suono del 1977. “Segnali di Fumo è stato una forte spinta a cedere ai miei deliri punk” – ricorda Claudio – “perchè ho sempre avuto il sogno di riproporre quel genere nella sua

forma originaria. Avevo già scritto dei pezzi che però dovevo musicare, quindi mi sono messo con dei veri professionisti per dar vita a questo progetto. Non siamo mai usciti con un cd ufficiale, ma facemmo qualcosa che a quei tempo non era ancora in uso, masterizzammo una decina di brani su un cd-r grazie all’uso dello studio di registrazione a Video Music. Al pomeriggio, dopo aver finito la trasmissione, ci dedicavamo alla musica, peccato che tutto sia finito dopo due anni, due coma etilici e cinque arresti”. Celebrazione di un desiderio è poi stata la presentazione dei Sex Pistols all’Acquatica, in occasione della reunion. “A un certo punto Johnny Rotten fu costretto ad interrompere il concerto perchè la loro brutta performance aveva fatto imbestialire il pubblico. Ci volle un mio intervento sul palco per convincere quella folla a farli tornare in azione, e quella sera lo stesso Rotten mi ha firmato un piatto per ringraziarmi. È dal ‘96 che lo tengo ancora conservato a casa”. A questo punto non restava che cimentarsi col giornalismo, e Cingoli lo fa nella maniera più diretta e intransigente possibile, infiltrandosi nelle notti bresciane e napoletane per scoprire le connessioni fra camorra, cocaina, giovani e mondo del lavoro. Ne vengono fuori due dossier coraggiosi ed incisivi, lontani da alcuna edulcorazione e rivelatori di un’Italia talmente sotterranea da risultare invisibile. “Con Cocaina, che venne programmato da RAI3, lo scopo ultimo era quello di dimostrare che questo stupefacente non viene usato solo come additivo per andare a troie, anche come una medicina per lavorare in due cantieri differenti e permettersi di avere una casa e una famiglia. Per molte persone si tratta di una medicina che ti aiuta a sopportare la fatica e la nostra inchiesta l’abbiamo realizzata a diretto contatto con gli spacciatori”. Oggi Claudio Cingoli è pronto a cimentarsi in un’altra avventura cine-giornalistica, quella immaginata per Expo 2015 e volta a riscoprire la città di Milano attraverso una “docufilmfiction”. Sarà un progetto molto particolare, mai realizzato prima, che utilizzerà una commistione di formati differenti e che prevede dei veri salti nel tempo.


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SETTEMBRE/ CINEMA

di Vincenzo Pietrogiovanni Il 2009 è davvero l'anno del cinema tridimensionale? Se solo fosse una trovata delle major hollywoodiane, non ci sarebbe granché da dire. In un mercato alla continua ricerca di annunci dal sapore di svolte epocali, sarebbe una strategia tutt'altro che sorprendente. Ma così non è. Partiamo dai numeri. Circa 20 film in 3D distribuiti nell'arco del 2009 e più di 100 in fase di preparazione. Ai successi internazionali del calibro de L'era Glaciale 3, Coraline e la porta magica, San Valentino di Sangue o Mostri contro Alieni, si aggiungeranno presto i film di Steven Soderbergh, che è alle prese con Cleopatra, Guillermo del Toro e Robert Zemeckis. Ma è solo la punta dell'iceberg: sono attesissimi Alice nel Paese delle Meraviglie di Tim Burton, e soprattutto Le avventure di Tintin, di Steven Spielberg e Avatar, la nuova impresa “titanica” di James Cameron. A Venezia, saranno proiettati Toy Story 1 e 2 in 3D, nell'ambito di un riconoscimento della Mostra alla Pixar. Anche autori assai più lontani dai budget a nove cifre si stanno cimentando con questa tecnica, come nel caso di Wim Wenders, con un film su Pina Bausch, o di Joe Dante, attualmente in postproduzione col suo The Hole. Numerosi critici e addetti ai lavori ormai ripetono, dalle colonne delle riviste o dei blog specializzati, che il futuro del cinema è nel 3D. Non è un caso che l'ultimo numero dei Cahiers du Cinèma – indiscussa bibbia dei cinefili, nella cui redazione sono cresciuti, tra i tanti, François Truffaut e Jean-Luc Godard – dedichi un intero dossier dal titolo: “Le relief à l'offensive”. Il cinema è arte, ma è anche industria. E in quanto tale è

fortemente influenzata dalla tecnica e dall'economia. È affascinante rileggere la storia del cinema attraverso le interazioni con la storia della tecnologia ad esso applicata. Il primo film tridimensionale, , risale al 1922. Harry K. Fairalle e Robert F. Elder, rispettivamente produttore e regista del film, adottarono il sistema dell'anaglifo, ovvero la proiezione di una sola pellicola su cui sono presenti due immagini filtrate con filtri colorati, generalmente in rosso e ciano, visibili attraverso i noti occhialini duo color. Sempre nel 1922, Laurens Hammond (che qualche decennio più tardi inventerà l'organo che porta il suo nome) e William F. Cassidy escogitarono un altro sistema ad oscuramento alternato, noto come Teleview. In seguito fu inventato un ulteriore metodo, più complesso e raffinato, che utilizza la luce polarizzata. Dopo l'exploit degli anni '20, il cinema 3D si arrestò bruscamente. La qualità dell'immagine era scarsa e gli occhialini assai scomodi annoiarono subito il pubblico. Negli anni '50, furono girati circa 160 film, di cui almeno 100 nel 1953 – considerato l'anno d'oro del 3D ma, probabilmente, anche il suo anno fatale. Si trattava perlopiù di film di genere: animazioni per bambini della Walt Disney, film di fantascienza con robot ed invasori marziani, alcuni western come Hondo con John Wayne. Con La maschera di cera, sempre nel 1953, Vincent Price si affermò come stella dell'horror, il genere cui la tridimensionalità era più congeniale. Nel 1954 Alfred Hitchcok girò Il Delitto Perfetto, con Grace Kelly, da molti considerato il capolavoro assoluto del cinema in 3D.


Nel settembre del 1953, la 20th Century Fox presentò La Tunica in CinemaScope, una nuova tecnica che nel giro di pochi anni sbaragliò qualsiasi concorrenza. Ora che la tecnologia digitale ha migliorato di gran lunga i metodi di ripresa e di proiezione, il 3D si riaffaccia a suon di trombe, per la terza volta nella storia del cinema. Sarà l'ennesima fugace promessa o cambierà davvero le sorti del cinema, com'è successo con l'avvento del sonoro e del colore? Le idee sono confuse, e non c'è unità di vedute. La Universal, la Fox, la Disney o la DreamWorks puntano molto sulle potenzialità del 3D – che pare, tra l'altro, risolvere anche qualche problema con la pirateria. Ma un cambiamento così profondo non coinvolge solo aspetti tecnici ma anche questioni strutturali: la nostra condizione di spettatori di uno spettacolo che va cambiando radicalmente nella sua scrittura, sino a mutare definitivamente la relazione tra noi e le immagini proiettate sullo schermo. A cambiare sarà anche il nostro sguardo? Questa tecnica, appannaggio delle grandi produzioni, incrementerà l'egemonia delle major a discapito di altri modi di intendere il cinema? Visti i tempi accelerati in cui viviamo, forse tra un anno saremo in grado di dare qualche risposta. Una riflessione sul cinema e sul suo potere all'epoca del 3D digitale è anche un modo per riflettere sulla nostra contemporaneità.

JONAS BROTHERS

L'ERA GLACIALE 3 L'ALBA DEI DINOSAURI

CORALINE E LA PORTA MAGICA

di Bruce Hendricks, Documentario USA, 76'

di C. Saldanha e M. Thurmeier, Animazione, USA, 91'

di Henry Selick, Animazione USA, 100'

Sulla scia dei successi televisivi targati Disney Channel, come Hanna Montana, i tre fratelli Jonas conquistano i cuori delle teenagers così come le vette delle classifiche di mezzo mondo. Questo film in 3D è un omaggio ai fan. Infatti, le immagini delle esibizioni live di queste giovani star sono inframezzate da spezzoni di backstage, di pezzi di vita reale che li racconta oltre il palcoscenico, al di fuori delle coreografie. Ciononostante, lo scarso successo di pubblico e le critiche abbastanza negative vorranno pur dire qualcosa.

Terzo capitolo della fortunata serie targata Disney, ancora una volta affidata alla mano abile di Carlos Saldanha, affiancato da Mike Thurmeier. Tra scene esilaranti e momenti di sentimento e commozione, assistiamo alle avventure dei due mammuth, Manny ed Ellie, che aspettano il loro primo figlio, di Diego e del maldestro Sid, che si caccia in un guaio grosso quanto un tirannosauro, e alla storia infinita di Scrat a caccia della sua ghianda. Il 3D rende ancora più avvincente uno spettacolo di intrattenimento puro e semplice, sì, ma di alta qualità.

La piccola Coraline si è trasferita da poco in una casa di campagna. Il suo mondo è grigio, i suoi genitori, presi da stravaganti impegni, non le regalano molte attenzioni. Attraverso una bambola misteriosa, Coraline finisce in un mondo parallelo, intessuto dei sogni più dolci e degli incubi più profondi che un fanciullo possa avere. Troverà ad aiutarla un gatto nero ed un ragazzo un po' strano. Grande successo per questo capolavoro in stop motion, in perfetto stile burtoniano, ma non solo. Una poesia per gli occhi e per gli orecchi.

THE 3D CONCERT


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SETTEMBRE/ CINEMA

LA CInNEMATEQUE A PORTATA DI MOUSE TUTTI PAZZI PER THE AUTEURS

di VincenzoPietrogiovanni

Altri Canali Il principale problema per il cinema, e per gli audiovisivi in genere, è sostanzialmente legato alla distribuzione. Il digitale ha abbassato notevolmente i costi di produzione, al contrario i canali distributivi sono sempre più asfittici. Ogni anno vengono prodotti centinaia di film che non trovano alcuno sbocco nei circuiti classici. Questa rubrica ha l'intento di monitorare le esperienze più significative nella ricerca di metodi alternativi di diffusione delle opere di videomaker e filmmaker indipendenti.

Ormai conta più di ottantamila iscritti, ed il numero cresce giorno dopo giorno. The Auteurs non è il solito sito di film in streaming, e nemmeno una community per cinefili un po' snob; è, piuttosto, la naturalistica evoluzione dei cineclub in voga negli anni '70. Computer portatili, smart phones, Facebook e Youtube hanno cambiato irrimediabilmente il nostro modo di fruire il cinema. La vittoria schiacciante dei multisala sulle piccole sale d'essai ha decretato la fine di un'idea di visione. Ma il cinema di qualità può uscire dal buio della sala e farsi altro. Perchè non posso vedere In The Mood For Love nella sala d'attesa di un aeroporto?, si chiede Efe Cakarel, giovane e facoltoso padre del progetto. I numerosi siti dov'è possibile recuperare perle del cinema d'autore italiano, francese, giapponese, coreano o africano faticano a decollare, perché sono illegali (quindi puntualmente oscurati) o perché non reggono i costi di gestione. The Auteurs, invece, sembra aver raggiunto un perfetto equilibrio tra contenuti offerti e gestione economico-finanziaria, avvalendosi di partnership importantissime. Infatti, ha stretto collaborazioni con Criterion, la più grande casa di distribuzione in dvd di film d'autore del Nord America, con Celluloid Dreams, società europea che sta cercando di acquisire i diritti di distribuzione online dei migliori film del panorama internazionale, e la Costa Films, casa di produzione cinematografica argentina, strategica per il mercato sudamericano. Ma il vero colpo Cakarel lo ha messo a segno con la recente collaborazione con la World Cinema Foundation di Martin Scorsese. Il grande cineasta newyorkese ha deciso di mettere su The Auteurs alcuni capolavori del cinema africano, turco e coreano restaurati grazie alla sua benemerita fondazione. Altro punto cruciale di questa community è la selezione dei film: dai circa 200 titoli nel catalogo online (entro fine anno saranno più di 1000), è subito chiara la sua accuratezza. Non ci sono solo film dai nomi impronunciabili, ma anche titoli noti. Il criterio resta quello dell'autorialità. Il cinema inteso come puro entertainement qui non ci sarà mai. Per accedere a The Auteurs è sufficiente iscriversi, come un normale social network. La maggior parte dei film è in streaming gratuito, in versione originale sottotitolata in inglese; alcuni film possono essere acquistati on demand. L'approccio è triangolare: si guardano i film (in una qualità sorprendente!), si discute, si scopre un paradiso fino a ieri ritenuto perduto. La cinèmatheque è a portata di mouse!

CINELAN DOCU-SHORTS ALL'ARREMBAGGIO Con uno staff tra New York e Londra, Cinelan è la più grande libreria online di brevissimi documentari (dalla durata di 3 minuti) provenienti dalla scena indipendente internazionale. Nato dall'esigenza di creare un nuovo pubblico per opere che altrimenti non avrebbero alcuna possibilità di essere fruite, offre numerosi docu-shorts interessanti. Tra i nomi dei registi presenti con le proprie opere, spiccano quelli di Steve James, regista di Hoop Dreams, Grant Gee, che ha diretto Meeting People is Easy, Ross Kauffman, divenuto famoso con lo shoccante Born into Brothels, e Jessica Yu, regista di Breathin Lessons. Cinelan è divenuto partner di Babelgum – una free web tv che ha creato, con la benedizione di Spike Lee, il primo Film Festival interamente online –, annunciando la nascita della HD Short Film Alliance.


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Lo sappiamo bene, l’industria del cinema americano contemporaneo regna sul mercato globale. Il burattinaio che muove i fili di questo teatro dei sogni è il sistema delle major, che principalmente alimenta il canale di distribuzione del cinema americano nel mondo con produzioni da centinaia di milioni di dollari a film. Accanto a questo potente organo di mercato emergono realtà indipendenti minori gestite da aziende di produzione e distribuzione meglio conosciute come mini-majors (Lionsgate, The Weinstein Company, DreamWorks SKG). All’interno di questo universo indie, dal 2002, nasce il movimento Mumblecore, che ridimensiona la natura del cinema indipendente. I giovani filmaker riuniti intorno a questo filone puntano all’essenzialità dell’idea di fare del cinema una mera passione, producono i loro lavori con risorse pari a zero (parliamo di budget inferiori ai 20 mila dollari), girano con semplici videocamere digitali e camcorders (In Search of a Midnight Kiss di Alex Holdridge è stato interamente girato con una Sony HVR-Z1), non si affidano ad una sceneggiatura scritta né ad attori professionisti. Andrew Bujialski, Mark e Jay Duplass, Aaron Katz e Joe Swanberg, che riconosciamo tra le figure più rappresentative del Mumblecore, ci dimostrano che si può fare un buon film, si può parlare di società, di relazioni umane e di problematiche universali senza necessariamente dover ricorrere ai soldini delle major. E ci riescono, dannazione se ci riescono. John Cassavetes, uno dei padri del documentarismo del cinema indipendente americano, sosteneva che bisogna dimenticare quello che già si conosce, essere totalmente sinceri (non importa quanto la cosa faccia soffrire) e creare qualcosa che conti. Sembra essere questa la filosofia del Mumblecore, che si pone di fronte allo spettatore con la sincerità di un bambino che ti invita a guardare un cartoon. Ed è quello che accade con i suoi personaggi, anti-eroi di una fascia generazionale che va dai 23 ai 30 anni, che discutono delle loro frustrazioni lavorative (Funny Ah Ah – 2002), di quanto sia complicato e doloroso mantenere un rapporto affettivo (Baghead – 2008), di quanto sia ancor più difficile trovare qualcuno disposto ad amarli (In Search of a Midnight Kiss – 2008). Confessioni di creature disorientate costantemente in cerca di risposte quando, si sa, non esistono risposte. Nel Mumblecore predomina l’esitazione che dimostrano i giovani protagonisti nel comunicare (Mumble: borbottare, biascicare), la sensibilità, la disillusione ma anche le atmosfere bizzarre e divertite del regista predecessore di questa corrente, Kevin Smith. Gran parte di questi film sono già stati presentati e premiati al Sundance Film Festival, al South By Southwest e a Cannes. Per poter godere di queste imprescindibili operette vi sconsiglio di attendere nell’assurdo limbo della distribuzione italiana. I dvd sono disponibili – a prezzi stracciati – sui seguenti siti: www.play.com www.amazon.com

OH YEAH, IT S ' ONLY TEENAGE WASTELAND!

di Valeria Giampietro

IL MUMBLECORE E IL NUOVO CINEMA INDIPENDENTE AMERICANO.

01. Hannah Takes The Star - scatto a fine riprese 02. Locandina di Mutual Appreciation.

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SETTEMBRE/ CINEMA

HUMPDAY

DI LYNN SHELTON (USA 2009) Ben e Andrew, ex compagni del college, si ritrovano dopo 10 anni. Ben, sposato con Anna, conduce una vita tranquilla. Andrew, al contrario, è un artista girovago. Una notte quest’ultimo si presenta alla porta di Ben e assieme rivangano i bei tempi andati del college. Un giorno, in preda ad una scommessa, i due si ritrovano a girare un film porno per un hump festival. Irresistibile commedia mumblecore dove una coppia di amici indiscutibilmente etero improvvisa l’amore omosessuale in modo divertente, o divertito, e mai volgare. Il film, nelle sale statunitensi già dal 10 luglio, è stato presentato nella sezione Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2009 e ha vinto il Premio speciale della Giuria al Sundance per lo “spirito d’indipendenza”. (Voto: 7/10)

RECENSIONI

IL MIO VICINO TOTORO DI HAYAO MIYAZAKI (GIAPPONE-USA 1988) Dopo vent’anni d’attesa arriva nelle sale italiane Totoro. Prodotto dallo Studio Ghibli e distribuito dalla Lucky Red, il film, ambientato negli anni ‘50, narra delle avventure delle sorelline Satsuki e Mei. Nel bosco attiguo alla casa dove si sono trasferite incontreranno Totoro, creatura magica della tradizione nipponica che aiuterà le piccole nel momento del bisogno. Totoro è il punto d’origine di tematiche che ritroveremo sviluppate nei lavori successivi: Il Sogno (Il Castello Errante di Howl), il legame tra l’uomo e la natura (La Città Incantata, Ponyo sulla Scogliera), l’amore e l’altruismo. Postilla: Negli stessi giorni di lavorazione al film gli animatori della Ghibli davano vita a Una Tomba per le Lucciole (1988) di Isao Takahata. Tratto dal romanzo autobiografico di Akiyuki Nosaka , Grave of the Fireflies, il film narra della tragica storia di due fratelli durante la seconda guerra mondiale. Un assoluto capolavoro che la Yamato Video propone in Italia con una versione rimasterizzata di 7 minuti di montaggio extra rispetto alla prima edizione dell’88. Imperdibile. (Voto:8/10)

DRAG ME TO HELL DI SAM RAIMI (USA 2009) a cura di Valeria Giampietro

Presentato al Festival di Cannes 2009 nella sezione "Proiezioni di mezzanotte", prodotto dalla Ghost House Pictures – dello stesso regista – il film sarà distribuito dalla Universal Pictures. Drag Me to Hell narra la storia di Christine, impiegata all’ufficio prestiti, che affronta lo sfratto di un’anziana megera, la signora Ganush, la quale, per vendicarsi, le pratica un maleficio che renderà la sua vita un inferno. Sam Raimi, meglio noto per la trilogia di Spider-Man, ritorna, dopo ben 16 anni, a deliziarci con un genere che predilige da sempre:l’horror. Per quanto Drag Me to Hell non pareggi i conti con l’egregia trilogia “The Evil Dead” (La Casa, 1981; La Casa 2, 1987 e L’Armata delle Tenebre, 1993) il film rinverdisce i dissacranti e viscerali canoni dell’horror amalgamandoli all’ironia slapstick tipica del cinema muto. L’ennesimo capitolo di un maestro senza eguali. (Voto:7/10)

GHOST TOWN DI DAVID KOEPP (USA, 2008) Bertram Pincus è un dentista distaccato e misantropo che perde la vita per soli sette minuti durante un banale intervento di colonscopia. Al suo risveglio si ritroverà capace di vedere e parlare con i fantasmi. Ghost Town, del noto sceneggiatore americano David Koepp, è disponibile su dvd – americano - già dal 27 dicembre 2008. Ci sono voluti sette mesi perché il film venisse distribuito in Italia dalla DreamWorks. Decisamente troppo per un film che rivela l’inaspettata posizione da outsider di un regista da sempre autore di script di blockbuster come La Guerra dei Mondi, SpiderMan o Angeli e Demoni. Una sorprendente commedia che recupera i canoni classici delle romantic comedies degli anni ‘80 e irrobustita dall’interpretazione di un Ricky Gervais praticamente perfetto. (Voto:7/10)



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SETTEMBRE/ CINEMA

EBOMAN di Michele Casella

EBOMAN realizzerà la performance di SenSorSuit il 19 settembre a Bari, durante la manifestazione È Qui La Musica della Fiera del Levante

L ARTISTA SENSORIALE Il carattere sensoriale e prettamente fisico della musica di Eboman è ciò che la rende doppiamente interattiva: il performer usa il corpo esattamente come fa il pubblico, anzi, utilizza visi, voci e movimenti di coloro che lo stanno guardando per rimescolare la parte dei visual in tempo reale. Una nuova forma di vjing, in cui il musicista applica sul proprio corpo dei sensori che possono comandare il ritmo con movimenti del tutto naturali. Stesso discorso per le immagini che si alternano sullo schermo, realizzate dai collaboratori di Eboman e montate in perfetto sincrono con la parte sonora. Per questo progetto, intitolato SenSorSuit, l’artista olandese prevede un lavoro dinamico e coinvolgente, in cui la techno meno allineata si combina con l’elettronica dai tratti assolutamente ballabili. Un elettroshock per la dancefloor, in cui ritmo e scansioni delle immagini vengono percepiti dal pubblico come flusso diretto ed assolutamente sinergico. Biografia: Eboman si chiama Jeroen Hofs, è olandese ed è nato nel 1973; attivo sin dai primi anni 80, è unanimemente considerato un guru dei remix e dei campionamenti. Se in principio si limitava ad creare dei remix estratti da film, dimostrando un’attenzione verso l’integrazione fra la comunicazione visiva e le sonorizzazioni, è dal 1991, quando ha iniziato a studiare alla scuola d’arte e di Media Technologydi Utrecht, che ha iniziato ad investire molto del suo tempo nello sviluppo dei visual della sua creatura: i Sample MadnesS. Lo sviluppo di questo software per mixare immagini e suoni lo ha reso il DVJ (audiovisual laptop DJ) più famoso in Europa. Eboman ha suonato in centinaia di festival e iniziative sparse in giro per il mondo, fra cui International Film Festival Rotterdam, Roskilde (DK), Stedelijk Museum Amsterdam, Lincoln Centre NYC, Sonar (SP), OnedotZero (UK), Museum of Modern Art Barcelona, ICA London, MOMA Montreal, Liquid Room (JAP) e Queen Elisabeth Hall London (UK). WEB: http://eboman.info/



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SETTEMBRE/ CINEMA

di Michele Casella

Timido ed introverso, laconico e gentile, ma d’improvviso entusiasta e coinvolto quando si comincia a parlare di argomenti verso cui sente affinità: è questa l’idea che ci dà Örvar Póreyjarson Smárason, fondatore dei Mùm dal 1997 ed oggi leader di questa band dai tratti assolutamente fiabeschi. Lo raggiungiamo al telefono in un’afosa mattina milanese, appena arrivato in Italia per raccontare del nuovo ed intenso album intitolato “Sing Along To Songs You Don't Know”. Oltre ad essere un concept album, “Sing Along To Songs You Don't Know” è anche un’ode alla luce; perchè avete scelto questo tema così particolare? Credo fosse importante focalizzare il nostro nuovo lavoro su un tema importante ed ho pensato di concentrarmi sull’idea di combattere la paura e l’inquietudine di questi tempi. La luce è per me un simbolo.

DISCOGRAFIA Yesterday Was Dramatic – Today Is OK (TMT, 2000; reissue Morr Music, 2005) Finally We Are No One (Fat Cat Records, 2002) Summer Make Good (Fat Cat Records, 2004) Go Go Smear the Poison Ivy (Fat Cat Records, 2007) Sing Along to Songs You Don't Know (Morr Music, 2009)

Anche il disegno della candela in copertina va inteso in questo senso? Come hai avuto l’idea di inserirlo nella grafica del disco? Vado a nuotare ogni giorno ed una volta l’immagine di una candela mi è apparso d’improvviso nella mente. Mi è sembrata un’idea dai connotati decisamente artistici ma anche piena di immaginazione e per certi versi molto surreale, cosi ho pensato che potesse essere adatta alla nuova immagine di copertina. Inoltre nei colori e nel concept è molto ispirata all’album “Daydream Nation” dei Sonic Youth. Il sogno è un’altro dei leit motiv del nuovo album, presente sia nell’immaginario sonoro dei Mùm che nelle singole composizioni, sei d’accordo? Credo che la ragione sia nascosta nel fatto che alcune persone

hanno un fortissimo legame con ciò che accade loro durante il sonno... Un po’ come accadeva a Lovecraft con la sua opera narrativa? Esatto! Anche lui aveva questo doppio filo fra sogno e veglia, quasi un confine evanescente che trasportava nei suoi racconti. Immagina poi che ho sempre voluto realizzare qualcosa di surreale seguendo lo stile francese e tedesco, ma senza sfiorare i toni epici. La parte strumentale è diventata molto legata all’elettronica rispetto al passato, come mai? In questi anni è diventato moto più difficile (se non impossibile) capire cosa sia realizzato con l’ausilio dell’elettronico e cosa con gli strumenti tradizionali. In “Sing Along To Songs You Don't Know” ci sono molte parti realizzate con un pianoforte preparato, ma trovi soprattutto tanti strani esperimenti sonori che realizziamo per non annoiarci mai in quello che facciamo. Credo comunque che in ogni album dei Mùm ci sia stato un grosso e determinante cambiamento, dagli esordi fino ad oggi. Perchè avete scelto di pubblicare questo nuovo album per la Morr Music? Conosciamo Thomas Morr fin dal 1999 ed assieme a lui abbiamo realizzato tanti progetti differenti. La sua etichetta discografica è davvero di grandissima qualità, molto efficiente dal punto di vista lavorativo, ed era ovvio per noi continuare un percorso assieme. Mi sembra che il nuovo album, ben più che in passato, sia ricco di storie e di narrazioni, come hai affrontato la sfida della


scrittura dei testi? In effetti si tratta di storie molto astratte, ma per fortuna la scrittura delle liriche mi riesce molo facile. Solo con la musica posso trovare il modo di trovare le parole per scrivere un racconto sulla fine del mondo (come nel caso di “The Smell Of Today Is Sweet Like Breast Milk In The Wind” ndr), ma credo che il grado di astrazione che raggiungo renda la sua comprensione impossibile quasi per tutti.

Che tipo di performance live state preparando per promuovere “Sing Along To Songs You Don't Know”? Si tratterà di un concerto più attento ai suoni acustici, ma pur sempre piena di gioia e di vita. In un certo modo voglio rappresentare un compendio della nostra storia come band, passando in rassegna quel che abbiamo realizzato in passato fino ad arrivare alle nuove composizioni.

Di recente anche in Italia è stato pubblicato il tuo libro “Scapigliata, Lisciata” (edizioni Scritturapura), qual è l’idea alla base del volume e come procede la tua attività di scrittore? L’immagine da cui tutto è partito è quella di una fanciulla addormentata su un letto che troneggia al centro di una grande biblioteca, di lì inizia una storia molto sognante e sorprendente. Ho sempre desiderato essere un poeta ed ho iniziato a scrivere poesia molto preso nella mia vita. Il libro, per certi versi, è parecchio complicato da raccontare, perchè si tratta di una storia che racchiude al suo interno un’altra storia, che a sua volta ne contiene un’altra. Ho appena finito un nuovo libro di poesie che verrà pubblicato in autunno, magari vedrà anche una traduzione in italiano dato che ho mantenuto un ottimo rapporto con l’editore Scritturapura...

RECENSIONE ALBUM MÙM - Sing Along To Songs You Don’t Know (Morr Music) Voto:3/5 Da sempre giudicata una band unica grazie a connotazioni musicali che li collocano letteralmente in un mondo parallelo, i Mùm hanno subìto un’importante evoluzione sonora che però non ne ha mai fatto perdere gli essenziali elementi identitari. Con Sing Along To Songs You Don’t Know si torna dunque al suono acustico, al protagonismo della voce e della melodia, ai ritornelli ed ai cori sorretti principalmente da pianoforte ed ukulele. Una scelta decisamente diversa rispetto al loro capolavoro del 2002 – il bellissimo Finally We Are No One uscito su Fat Cat – ma che sembra andare incontro al desiderio di narrare storie oniriche e surreali. Folk nell’animo ma sognante nella realizzazione, “Sing Along To Songs You Don’t Know” rinnova l’immaginario della band islandese e ne rinsalda gli intrecci fra musica tradizionale ed approccio sperimentale.

Negli ultimi temi hai intensificato l’ascolto della musica folk? Il nuovo album sembra partire proprio da queste basi sonore... Non in particolare, ma di certo mi sto allontanando da quel che accade nella musica contemporanea. In realtà non ascolto molte nuove produzioni, ma cerco di ripescare dischi più vecchi. Mi piace molto il pop ed il jazz cosmico degli anni settanta... musicalmente parlando mi sento molto europeo!


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SETTEMBRE/ MUSICA

TORTOISE IL RITMO DEL VENTO di Michele Casella

Beacons Of Ancestorship (Thrill Jockey) CD-LP Voto: 5/5

Beacons Of Ancestorship, il nuovo album dei Tortoise presentato in un recente tour europeo, rappresenta la completa smentita di coloro che hanno catalogato la band di Chicago come una commistione fra jazz ed elettronica di esclusiva connotazione cerebrale. Disco di eccellente sintesi stilistica, compendio di una carriera sempre stimolante ed incredibilmente proficua, questa sesta prova su lunga distanza crea un trait d’union tra l’omonimo lavoro d’esordio ed i recenti indirizzi sonori. Chiave di volta dell’intero album è la strepitosa Charteroak Foundation, la tracce che chiude l’opera e che concentra quasi l’intera storia dei Tortoise in appena cinque minuti e sette secondi. Probabilmente meno epica e “trascendentale” di tanti viaggi sommersi nei mari di Millions Now Living..., ma egualmente intensa e melodicamente appassionata. Una cavalcata assai kraut che svela i tratti più progressivi della loro musica in un riuscitissimo flirt tra Chicago e Brasile. Non è un mistero infatti che queste tartarughe allucinate (e un’intera scena della città del vento) siano state fortemente affascinate dall’anima jazz di questa terra del Sud America. La partenza è invece di tutt’altra tipologia, poichè High Class Slim Came Floatin' In mostra il lato più dub e dilatato della band fino allo sbandamento da accelerazione che riserva la seconda parte del brano. Con Prepare Your Coffin ci si avvicina agli Stereolab con i bpm accelerati, mentre in Northern Something i ritmi mesmerici racchiudono l’essenza di un gruppo che ha sempre puntato sull’incrocio di batterie e percussioni varie. Sembra invece di ritrovare le session del primo mitico “Tortoise” nel caldo alt.country di The Fall Of Seven Diamonds Plus One; il tempo si prende una pausa, per poi ripartire ad una cadenza sensuale, mentre in Minors si torna al suono algido di TNT.Monument Six One Thousand riesce poi a riformulare l’incontro tra una chitarra

ed una batteria elettronica, giocando coi sincronismi e coi loop, ma soprattutto immergendo l’ascoltatore in una spirale pseudomelodica decisamente irresistibile. Sebbene i Tortoise non abbiamo mai apprezzato l’idea di aver partecipato all’età del post-rock (nè tantomeno di averne rappresentato la carica esplosiva), è davvero indicativo per una formazione talmente (post)moderna utilizzare questa nomenclatura dai tratti un po’ evanescenti. Gli stili, le atmosfere, gli umori e le immagini evocate da Beacons Of Ancestorship portano il marchio del jazz elettrico di Miles Davis, delle intuizioni di Jim O’Rourke e dei Gastr Del Sol, ma fa convergere le idee di alcuni dei migliori brani scritti dal quintetto, da Gamera a Goriri, da Djed a Ry Cooder. Quel che c’è adesso da augurarsi è che la benemerita Thrill Jockey di Bettina Gibbons decida di pubblicare una altro dvd che documenti le straordinarie performance dal vivo di questa band. DISCOGRAFIA SU THRILL JOCKEY Tortoise (1994) Millions Now Living Will Never Die (1996) TNT (1998) Standards (2001) Its All Around You (2004) A Lazarus Taxon (2006) Beacons Of Ancestorship (2009)



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SETTEMBRE/ CINEMA

DISFUNZIONI MUSICALI. PERCORSI SONORI FRA VINILE E DIGITALE

a cura di Michele Casella

NANCY ELIZABETH Wrought Iron (Leaf)

SPARKLEHORSE+FENNESZ In The Fishtank 15

CD - Limited Edition LP

Konkurrent/Goodfellas CD – LP Voto 5/5

Voto 4/5 Titolare di un album di debutto decisamente sopra la media e fuori da ogni precisa coordinata cronologica, negli ultimi due anni Nancy Elizabeth si è dedicata in maniera incessante al rapporto fra la sua voce e l’amato pianoforte. Arriva adesso Wrought Iron, un album che l’artista britannica assimila proprio alle opere in ferro battuto ed alla sua attenta lavorazione; fuor di metafora, le undici tracce qui contenute si sviluppano attorno a malinconici accordi di chitarra, atmosfere tranquille e solitarie in cui la tenue vocalità della Elizabeth trova massima espressione e intensità. Capace di giocare con una sezione ritmica minimale così come con una piccola sezione di fiati perfettamente integrata, questa musica contiene un fascino misterioso e d’altri tempi, inserendosi nella ristretta cerchia di pubblicazioni di alto profilo realizzate nel 2009 da giovani cantautrici. Incantevole dal vivo grazie ad un personalità timida eppur carismatica, Nancy Elizabeth scalda il cuore con la passionalità di Divining, il folk di Bring On The Hurricane e l’eleganza vellutata di Tow The Line, accostandosi a personalità ormai affermate della scena quali Emiliana Torrini, Nina Nastasia e Ani Difranco.

Fra le tante (e proficue) collaborazioni di Christian Fennesz, una delle più interessanti ed attese è sicuramente quella con Sparklehorse, probabilmente il miglior cantautore che gli Stati Uniti ricordino da molti anni a questa parte. L’occasione per questo connubio artistico arriva dalla In The Fishtank, l’ormai mitica serie di pubblicazioni olandese che ospita in studio band della scena alternativa con l’intento di creare composizioni assolutamente inedite e fuori dall’ordinario. L’obiettivo in questo caso è perfettamente centrato e l’uscita numero 15 della serie si rivela unica e indimenticabile: le due anime di Fennesz e Mark Linkous si amalgamano con incredibile armonia, riuscendo a rimanere perfettamente riconoscibili sebbene racchiuse in una composizione unica. La fragile voce dell’autore di Vivadixiesubmarinetransmissionplot si adagia sulle atmosfere rarefatte e lisergiche dello sperimentatore viennese, svelando visioni sonore di lucente bellezza. In altri momenti il rimescolio elettronico prende il sopravvento in un’entropia glitch, ma poco dopo è la chitarra acustica a tornare protagonista di ballate oniriche (If My Heart) o di malinconici intrecci fra elementi digitali e accordi delicati (Mark’s Guitar Piece). Questa nuova release della In The Fishtank alterna dunque momenti di apparente quiete a stridori e forti tensioni, creando un’opera di improvvisazione e ragionamento che conferma la straordinaria ed imprescindibile poetica di Fennesz e Sparklehorse.


AMORE, TI REGALO UNA PLAYLIST di Gessica Bicego Il tempo si fa sempre più veloce, ingoia i momenti e le epoche, inglobandoli e superandoli e rendendo difficile rimanere al passo. Per questo a volte accadono eventi che ci lasciano senza parole, cose che all'improvviso ci appaiono chiare ma che non avevamo mai notato. Modi di dire o di fare, situazioni che lentamente scompaiono nell'avanzare continuo del tempo. Proprio per questo mi ritrovo a ventitre anni a ricordare cose che ormai sembrano accadute una vita fa, e che mi fanno sentire non più giovane. L'adolescenza dei nostri genitori e i loro primi amori furono caratterizzati da un film, Il tempo delle mele che ancora oggi è divenuto simbolo di un’epoca. Ma qual è il nostro "tempo delle mele"? Difficile darne una definizione, soprattutto perchè oggi abbiamo a disposizione una vasta scelta di cose; parlo di cose in tutti i sensi intendendo quindi sia situazioni che oggetti materiali. Per questo “il tempo delle mele” diventa soggettivo, ben lontano da un concetto universale. Per quanto mi riguarda, se chiudo gli occhi e penso ai primi amori, l'immagine che mi viene in mente è quella di una musicassetta, uno di quegli oggetti rudimentali che ormai non esistono più. Ricordate quanto era bello attaccarsi allo stereo con gli occhi “luccicosi”, scegliere le canzoni preferite, decidere in che ordine metterle e poi premere REC? Nel frattempo estrarre dalla custodia il foglio e scrivere la lista dei brani, magari qualche frase d'effetto e un "Ti amo" a lato. Poi i tempi si sono evoluti ed è arrivato il magico compact disc. Le cose sono cambiate ma non di molto. Non c'erano più i nastri, debellati da una superficie metallica, ma in fondo il concetto rimaneva lo stesso. Ore e ore a creare copertine, passando dai disegni ai ritagli dei giornali, e questa volta il "Ti amo" stava direttamente sulla liscia superficie di policarbonato. Le personalità più artistiche creavano addirittura nuovi tipi di packaging, degni davvero di nota. Per vederne degli esempi vi basterà dare un'occhiata al film Nick e Nora,infinite playlist, una commediola poco entusiasmante ma che nonostante tutto vanta copertine di compilation a dir poco splendide; a crearle è ovviamente il protagonista dal cuore infranto, che tenta così di riconquistare il cuore di una dolce fanciulla...tipico! Ed eccoci infine arrivare all'epoca moderna, fatta di tecnologia spicciola alla portata di tutti. Cose come il touch screen, che fino a pochi anni fa erano relegate alla fantascienza o a film come "Minority Report", è ora alla portata di tutti. In pochi non conoscono cosa sia un i-pod o un hard disk. Il mondo dell'arte e quello della scienza hanno capito che per conquistare il mercato gli ingredienti essenziali sono tre: design, tecnologia e basso costo. Ed ecco allora il boom di catene come l'Ikea, che permettono a tutti di avere in casa pezzi dal design accattivante spendendo davvero poco. Oppure lettori mp3 colorati e carini a poco più di cinquanta euro. Ma quando tiriamo un lato della coperta, l'altro irrimediabilmente si accorcia. E allora viene naturale chiederci: cosa abbiamo perso in tutto questo? Probabilmente il valore delle cose, quel concetto astratto che rendeva unici anche gli accessori più umili. L'abbassamento dei costi comporta una massificazione degli oggetti che possiamo avere, ci costringe a diventare piccole pedine in serie. Tornando al "tempo delle mele', dopo musicassette e cd... adesso a cosa siamo arrivati? Abbiamo perso l'originalità, la voglia di avere qualcosa di unico, e forse abbiamo anestetizzato i nostri sentimenti. Per questo non stupitevi se dopo aver detto al vostro patner "amore mio, ti sto facendo un cd con tutte le mie canzoni preferite, quelle che mi fanno pensare a te" lui ti risponderà "Che tesoro...ma non e' che potresti passarmi direttamente la playlist così la metto nell'i-pod?". Benvenuti nel 2009!

VV.AA. Ze records Story 1979-2009

VV.AA. Horse Meat Disco

FRUIT BATS The Ruminant Band

PISSED JEANS King Of Jean

(Strut/Audioglobe) CD/2LP CD – LP Voto 4/5

(Strut/Audioglobe) 2CD/2LP CD – LP Voto 4/5

(Sub Pop/Audioglobe) CD – LP Voto: 4/5

(Sub Pop/Audioglobe) CD – LP Voto: 2/5

Dai Beatles a Nick Drake, i Fruit Bats proseguono la loro avventura sonora concedendosi deja-vu sonori provenienti da svariate fonti musicali dei favolosi anni 60/70 ma evitando l’accusa di plagio grazie a composizioni perfettamente calibrate. La memoria scorre veloce alle migliori pubblicazioni di Paul McCartney pur possedendo un mood tipicamente statunitense che sembra arrivare dalle rive di Portland o dalla nuova, folgorante scena di Seattle (attuale base lavorativa della band). Ottime canzoni di impianto classicamente folk.

Spigolosi e indisciplinati come vuole il copione del punk-hardcore, i Pissed Jeans tornano a violentare i padiglioni auricolari più sensibili con una prova di eccezionale ferocia sonora. King Of Jeans, però, non sembra spostare di una virgola i limiti di originalità di un genere così abusato, in cui reggono ancora i chitarroni che non superano i tre accordi in fila e gli effetti sonori tipicamente anni 80. Inutile concentrarsi poi sulla voce, impegnata a passare dal canto sguaiato al sussurro angosciante, nè sul ritmi acceleratissimi che mantengono una certa orecchiabilità ma che si rivelano troppo monotoni e ridondanti. Destinato ad un pubblico di appassionati immarcescibili.

Che la parola d’ordine in àmbito dance sia, da un po’ di tempo a questa parte, la tanto amata/vituperata 'disco', se ne sarà accorto più di qualcuno; i dj e produttori di estrazione sommariamente 'elettronica' che, in numero sempre crescente, propongono un recupero creativo degli stilemi 'disco' (tempi, sonorità, arrangiamenti) non si contano più; soprattutto (chissà perchè poi) in nord Europa, la 'nu disco' conta più di un asso (da Lindstrom a Todd Terje, da Prins Thomas al giro della Eskimo). Devono essersene accorti anche alla Strut, quando hanno deciso di proporre l’ennesima raccolta dedicata esclusivamente alla Zè Records, privilegiando, appunto, il lato 'disco' di una produzione ben più frastagliata e 'storta'. La Zè Records nasce infatti a New York verso la fine dei '70, una città dove all’epoca due 'stili', coevi e opposti, la facevano da padrone: il punk e, appunto, la 'disco music', il CBGB's da una parte e lo Studio 54 dall’altra. I fondatori della Zè, un esule parigino e un giornalista inglese, entrambi di stanza a NY, tentano l'impossibile e ci riescono: avvicinare quanto più possibile due mondi che, fino ad un giorno prima, si guardavano in cagnesco, e cioè far coesistere creativamente gli spigoli del punk con le morbidezze del tardo funk, e viceversa. Sono gli anni, i luoghi in cui i Talking Heads sperimentano con Brian Eno e tirano fuori Remain in Light (si ascolti al proposito 'Bustin' Out” dei Material con Nona Hendrix alla voce, e se il giro di basso vi ricorda quello di Born To Be Alive di Patrick Hernandez non scandalizzatevi: ballate, piuttosto!), è l'epoca in cui quello che trent’anni dopo verrà chiamato 'punk funk' vede, per la prima volta, la luce. Di quella mirabile fusione qui, come si è accennato, è però ampiamente privilegiato l’aspetto prevalentemente ballereccio, con punte nel funkettino irresistibile che apre la raccolta (I Was (Not Was) di Tell Me That I’m Dreaming, peraltro presenza costante nei dj set di James Murphy, il signor Lcd Soundsystem), nelle poliritmìe portoricane di Kid Creole remixato da Lerry Levan (da East Harlem al Paradise Garage) o nei 'breaks' e nei singulti di 'the beat goes on' di Casino Music. Del resto, del 'lato oscuro' dell’etichetta, da quello che flirtava apertamente col punk e una forma elementare di 'free jazz', c'è ben poco (a parte l'arcinota epilessìa in forma musicale che è Contort Yourself di James Chance & The Contortions). Ad Alan Vega il compito di sparigliare le carte con Jukebox Baby, rockabilly per marziani, come Elvis sulla Luna, inedita su disco (all’epoca uscì solo su 45 giri) e, anche per questo motivo, davvero speciale. E la' lezione' della Zè devono averla imparata bene quelli di Horse Meat Disco, che altro non è che il passaporto per il mondo di una serata londinese di successo (@ the Eagle a Kennington, ogni domenica): 2 cd, uno mixato, l’altro no, di 'disco' music prosciugata fino all'essenzialità: niente 'disco divas', niente violini, molta, moltissima attenzione per il 'groove'. La disco music ai raggi X. Enrico Godini


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SETTEMBRE/ CULTURA

JOAKIM Milky Ways

FUCK BUTTONS Surf Solar

6 ORGANS OF ADMITTANCE Luminous Night

THE CLEAN Mister Pop

(!K7/Audioglobe) CD Voto: 3/5

(ATP Recordings/Goodfellas) 7” picture disc voto: 4/5

(Drag City) LP – CD Voto: 3/5

(Morr Music/Goodfellas) LP – CD Voto: 3/5

Oltremodo contaminato e portatore di un’entropia a tratti fortemente escapista, Joakim prepara la sua terza prova su lunga distanza provando a fondere soluzioni dai connotati eterogenei. La partenza di Milky Ways sembra appartenere ad un album post-rock (e svela l’affezione per le produzioni Tigersushi), ma con l’ascolto delle tracce si passa da influenze dance anni 70 a ritornelli pop in stile Gigolo Records, per poi arrivare a fascinazioni kraut e voluttà exotica. Estremo eppure assolutamente melodico, Joakim svela piacevoli miscele elektro-pop in battuta lenta.

Tornano i Fuck Buttons, la nuova frontiera della psichedelia miscelata al movimento dell’hardcore digitale. Assurta al ruolo di icona sonora grazie ad debut album dai risvolti visionari, la coppia di Bristol è ormai pronta a pubblicare Tarot Sport, un doppio LP dall’estetica sperimentale che si svela eccezionalmente sognante ed inaspettatamente ballabile. Ad anticipare questo masterpiece del 2009 arriva il nuovissimo 7” picture disc Surf Solar, dove i caos elettronica della title track viene scandita dalla battuta in 4/4 e da atmosfere decisamente eteree. Più contratta e rilassata la b-side New Crossbow, che si propone come trait d’union tra il primo ed il secondo album. Coadiuvati al banco di produzione da Andrew Weatherall, i Fuck Buttons partono da un approccio minimale per rivelarsi nella saturazione dei suoni, nei feedback taglienti e nell’elettricità da rave del terzo millennio.

Epico ed allo stesso tempo intimo come la camera da letto di un cantautore dei nostri tempi, il nuovo album dei Six Organs Of Admittance apre visioni lucenti e tensioni emotive. Un lavoro vibrante, con elementi provenienti alla tradizione del medio oriente e vocalità che ricordano le produzioni più ieratiche della new wave anni 80. C’è una severità in Luminous Night che sembra nascondere una profonda malinconia, rarefazioni che in Cover Your Wounds With The Sky si avvicinano alle pubblicazioni della Kranky e sommergono melodie minimali di provenienza forse onirica. Il primo disco di questo nuovo autunno.

Nuovo capitolo di un percorso sonoro cominciato oltre nel 1978, Mister Pop è un album con lo sguardo proiettato al passato ed in cui è possibile ritrovare elementi caratteristici di band appartenenti all’hall of fame delle musica. Basti ascoltare Back In The Day (così disincantata da apparire una b-side dei Velvet Underground) o Factory Man (dolcemente pop nei ritornelli e british negli stilemi strumentali) per riconoscere le evidenti connessioni con la new vawe storica ed il songwriting anglosassone. Un buon disco con un piccolo gioiello nascosto, la strepitosa cavalcate indie di Tensile.


MOMART, PLAY MUSIC Hanno iniziato a incontrarsi ad aprile scorso in un luogo che, per quanto legato al divertimento notturno e alla musica, ha sicuramente un carico di significati particolare. Il Moma di Adelfia, la discoteca sequestrata al clan Palermiti ad ottobre del 2007, è stata affidata dalla Regione Puglia al Teatro Kismet di Bari e all’associazione Libera con l’obiettivo di renderla nuovo spazio di condivisione e confronto. Il Moma è diventato MOMArt, Motore Meridiano delle Arti e primo passo, a seguito di diversi incontri, è stata la firma del Manifesto del Coordinamento musicale, un protocollo che mette insieme i principali festival, radio, etichette e associazioni di Bari e provincia, uniti per tracciare strade comuni. Il Manifesto prende forma quindi come primo passo operativo di un percorso di “cantiere”, ovvero di una fase durata circa tre mesi durante i quali le varie realtà si sono incontrate negli spazi del Moma per conoscersi ed elaborare delle possibili strategie di condivisione. Ciò che ne è nato, in prima istanza, è una vera e propria mappa dei festival musicali di Bari e provincia, raccolti ora per la prima volta in un unico materiale promozionale diffuso in oltre 10mila copie sui comuni interessati. Le direzioni artistiche hanno quindi cercato di unire le forze per far sì che i calendari non coincidano – dove possibile – e che quindi lo stesso pubblico possa scegliere nel corso dell’estate e dei vari periodi dell’anno dei veri e propri itinerari. “Abbiamo creato un calendario e un materiale comuni di modo da supportare gli uni le iniziative degli altri”

ha specificato, durante la firma del Manifesto, Michele de Palo dello staff MOMArt. Su questa scorta quindi, il coordinamento è l’unione di professionalità, attività, spazi ed esperienze legate al mondo musicale e rappresenta per tutto il territorio un’importante ricchezza dal punto di vista culturale, artistico, sociale e aggregativo. Nel Manifesto si legge che: “il coordinamento MOMArt sul piano più propriamente operativo, nell’ambito delle proprie finalità, intende realizzare: un coordinamento organizzativo, un ufficio stampa nazionale, un osservatorio musicale, percorsi di formazione e consulenza e un evento che sia una sorta di “festival dei festival”, momento di incontro e aggiornamento”. Tutto questo si inserisce nell’obiettivo di partenza del MOMArt. La discoteca sequestrata alla criminalità organizzata è stata affidata con un protocollo d’intesa – siglato da Regione Puglia, Tribunale di Bari, Prefettura e Questura di Bari – al Teatro Kismet OperA e all’associazione Libera e rientra nel programma “Bollenti spiriti” dell’Assessorato alla trasparenza e cittadinanza attiva di Guglielmo Minervini. L’attività futura del MOMArt, la cui apertura al pubblico è prevista per l’autunno, si muoverà quindi proprio nel segno del confronto, dell’incontro fra giovani creativi e operatori del settore che possano qui trovare un motore per azioni e idee da realizzare, senza mai dimenticare anche l’impegno contro la mafia.


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SETTEMBRE/ MUSICA

WARM-UP SPAZI INNOVATIVI DI MUSICA SOTTERRANEA Nella sovraproduzione musicale di cui siamo vittima in questa prima era digitale, l’eco indistinto delle singole cellule sonore porta ad un’entropia sempre più estesa ed amplificata. Eppure la possibilità di fare una cernita nel caos dei singoli “space” esiste ancora, perchè soprattutto a livello sotterraneo c’è tanto da svelare sia in Italia che nella sola Puglia. Proprio in questo senso, Pool si propone di dare spazio e visibilità – non solo nazionale – alle eccellenze artistiche della nostra terra, realizzando performance che mettano in connessione realtà artistiche di estrazione ed ambiti differenti. In questo numero iniziamo proprio da una collaborazione col MomArt, che permetterà a cinque band regionali di esibirsi al fianco di artisti di maggior successo durante “E Qui la Musica”, la rassegna musicale organizzata dalla Fiera del Levante dal 12 al 20 settembre. Gruppi tra loro differenti, che esprimono alcune delle anime sonore di questa terra e che si prefissano di essere fuori dalle omologanti convenzioni dell’ascolto. Sarebbe il caso di scommettere su alcuni di questi progetti e constatarne il riscontro attraverso un lavoro di comunicazione su larga scala. Molti ne rimarrebbero stupiti.

di Michele Casella

BIG CHARLIE Provenienti da un sottobosco musicale legato a realtà nordeuropee di carattere alternativo (o anche sperimentale) i Big Charlie sono già diventati la next big thing del panorama indietronico. Le poche tracce finora circolate fra gli addetti ai lavori possiedo il giusto grado di appetibilità pop e ritmiche coinvolgenti, roba da far rizzare le orecchie ai più grossi talent scout di mezza Europa. Sorretti da ritornelli killer, i brani preparati dalla coppia Milella / De Ruggieri si distinguono per una struttura formale impeccabile e per l’eccezionale recettività di stimoli uditivi. Non resta che vedere se nei Big Charlie prevarrà l’affezione per le sonorità da band alternativa o se prenderà piede la versione più ballabile e ritmicamente irresistibile.

Dalla loro biografia Big Charlie è formato da Matteo De Ruggieri (già conosciuto agli addetti nel settore per il suo progetto sperimentale Eraser) e Stefano Milella (la mente “elettronica del gruppo barese Fabryka). I due riuniscono tutti i loro suoni in un progetto irriverente che strizza l’occhio a Phoenix, Beck, senza disedgnare le sonorità electro dettate da influenze quali Daft punk e Justice. Il tutto viene mescolato abilmente a richiami dell’incontrollabile e pazzo ritmo bebop. Big Charlie è bianco come il Nuovo. Big Charlie è chiunque si rivede in lui. Ha grandi orecchie per ascoltare tutte le voci, tutti i suoni, tutte le note. Big Charlie è il grande salto. E’ vedere ogni cosa dall’alto. Nel ritmo frenetico, nel battito di charliestone, nei movimenti sobbalzanti Big charlie non può farti paura.. E' un passo di danza sincronizzato.


PUNTINESPANSIONE REDRUM ALONE Contaminati da un’elettronica con radici ben piantate nell’immaginario contemporaneo ma allo stesso tempo con evidenti riferimenti ad un passato dai connotati ‘popular’, i Redrum Alone rappresentano la quintessenza di un suono che non può essere ricondotto ad un preciso topos musicale. Pur poggiando le loro tracce su tappeti ritmici abbastanza regolari, i due si rivelano talvolta particolarmente elektro, talatra dilatati ed onirici. Dalle Client alla minimal techno, da The Hecker alla roba Planet Mu, i Redrum Alone potrebbero diventare una versione edulcorata ma ugualmente coinvolgente dei Justice.

BREAD PITT Ironici e destabilizzanti fin dal nome che si sono scelti, i Bread Pitt rappresentano una delle più interessanti proposte indie arrivate in Puglia negli ultimi anni. Merito di un approccio (miracolo!) originale e di una libertà espressiva da far invidia a Need New Body, band alla quale sembra legati da un filo rosso grazie ai continui cambi di stili e riferimenti di cui è farcita la loro glassa sonora. Il rock anglofono, la storia del punk italiano, le colonne sonore dei maestri pulp, tutto converge nella musica dei Bread Pitt includendo la sperimentazione dei mitici Bz Bz Ueu. Da tenere sott’occhio per possibili successi oltreoceano...

Eccellenza sonora della musica popolare italiana – ma inscindibilmente legati alle radici musicale della loro terra natale – dopo sette anni di attività i PuntinEspansione possono essere considerati una delle espressioni più concrete di commistione fra canzone d’autore e tradizione pop. Autori di testi che viaggiano spediti fra ironia e denuncia, i cinque giovani musicisti puntano sul carattere acustico delle loro composizioni, spesso insistendo sull’efficace utilizzo del mandolino. Affascinati da Piero Ciampi come dalla Bandabardò, i PuntinEspansione mostrano numerosi punti di contatto con i Gang, la band che maggiormente li ha influenzati e con la quale è anche nata una felice collaborazione.

KAMAFEI Commistione sonora che prova a intrecciare reggae, dub, rock e flamenco-dub. I Kamafei arrivano da importanti progetti in cui la pizzica e la tradizione popolare del Salento hanno avuto un posto di primo piano. Il risultato di questi esperienze convergono ora in Spitte de Focu, uno spettacolo musicale che è anche un lavoro discografico dove vocalità, percussioni e chitarra convergono in una festa di danza e gioia assolutamente travolgente. Considerati punta di diamante della nuova scena etnica pugliese, i Kamafei restano avvinti alle loro origini culturali per poi abbandonarsi alle nuove sonorità provenienti dal mondo. Le cinque band in “warm up” si esibiranno durante la manifestazione É Qui La Musica della Fiera del Levante, in una produzione marchiata Pool e MomArt 12 settembre REDRUM ALONE

Dalla loro biografia: Redrum Alone è un progetto di musica elettronica che coinvolge più persone. Tutto inizia nel 2003, quando Tommaso Qzerty Danisi compone OniricAct su richiesta del regista Mario Tani per un suo esperimento video, ma la situazione si inverte: dopo aver ascoltato il brano il regista decide di girarne il videoclip sfruttando la stessa idea. Nel frattempo Qzerty continua a comporre brani usando ritmiche tra le 119 e le 130 battute al minuto, cassa dritta, synthpad dal sapore ambient e potenti bassline retro-analog. Nel frattempo Tommaso Danisi conosce il bassista Piero "Peet" Pappalettere che entra nel progetto come uomo macchine. Sul palco per l'occasione si esibiscono Qzerty (synth) e Peet (laptop) e il vj Ape5 che da quel momento entra a far parte del progetto. I Redrum Alone hanno anche autoproducono il promo-cd “patchcord” e diviso il palco con artisti come: These new Puritans, Kruder & Dorfmeister, The Banshee, Amari, Modaxì, Shape, Acampante, Atari.

Dalla loro biografia: i Bread Pitt, nati nel 2001 a La Ciutad del Pan, sono accasati presso la benemerita net-label barese Lepers.it e hanno o all'attivo una manciata di CD-R scaricabili liberamente dal sito dell’etichetta. Ultima fatica è “Non fate allarme”, il disco della maturità, o meglio della marcitura, contenente le anti-hit “La verde Groenlandia”, dal tema meteo-ecologico, “Do You”, dedicata alle complicazioni da youtube, “La prova costume”, per i fanatici del body-sculpture, “Pasticazzo”, un balletto residentsiano cantato in anglo-altamurano, e la esilarante porno-freakkeria di “Fatto di gommal”. Ma è dal vivo che sprigionano tutta la loro squilibrata verve: un base ritmica ossessiva, melodie ipnotiche e surreali, un cantato para-core, espressioni grottesche, testi da teatro dell’assurdo. Di certo uno dei nomi più ricercati sui motori di ricerca, ben 43.700.000 pagine si occupano di loro (o di “forse cercavi: Brad Pitt”?).

Dalla loro biografia: Le canzoni dei PuntinEspansione raccontano di luoghi comuni, manie, vizi, frammenti d’amore e puntuali riferimenti al sociale. Ciò che caratterizza i testi è l’osservare la realtà da una posizione privilegiata, senza filtri, nè maschere, ma ricorrendo esclusivamente all’ironia e alla metafora. Il suono dei PuntinEspansione si può definire un Rock d’autore, dotato di una forte identità stilistica e caratterizzato dal contrasto a tratti morbido a tratti ruvido, di atmosfere acustiche ed elettriche, rese grazie al connubio di strumenti come il mandolino, chitarra elettrica e suoni elettronici di tastiera. I PuntinEspansione hanno all’attivo circa 200 concerti, segnati da episodi importanti, quali, l’apertura dei live di: Teresa De Sio, Gang, BandaBardò, Folkabbestia, Antonio Onorato.

Dalla loro biografia: KamaFei è un composto in griko, che vuol dire caldo che scorre, quel caldo che ci accompagna in ogni stagione, che nasce dagli strumenti tra l’antico ed il moderno. L’idea del nuovo spettacolo della band, è quella della festa… dei colori… del divertimento; proprio ricordando una tradizionale strofa salentina “Se te vite lu labbru rrusicatu, dinne ca è stata na spitta de focu”. Le “spitte de focu” sono le scintille che si sprigionano dai tizzoni ardenti, e si possono paragonare allo stile dei Kamafei, ogni tanto si scatena qualcosa, all’interno della musica del collettivo salentino si nota il profondo legame alla propria cultura, ma anche la necessita, la voglia, il desiderio di scoprire la contaminazione con altre culture, altre esperienze musicali diverse.

13 settembre BREAD PITT 14 settembre PUNTINESPANSIONE 16 settembre KAMAFEI 17 settembre BIG CHARLIE


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SETTEMBRE/ TECNOLOGIA

ALLACONSOLE

di Daniele Raspanti

THE SECRET OF MONKEY ISLAND Per molti è stata una sorpresa, per i veterani del settore un’autentica reliquia. Ma all’E3 di Los Angeles (svoltosi dal 2 al 4 Giugno 2009), la LucasArts ha attirato l’attenzione di tutti sul ritorno di quello che è stato un mito dei primi anni Novanta: The Secret Of Monkey Island. Non tutti conosceranno la frase “Sono Guybrush Treepwood, e voglio diventare un pirata”. Ma l’avventura old-style della software house statunitense, a distanza di quasi 2 decenni (la prima edizione risale al 1990), continua ad essere una delle più giocate nel settore degli “abandonware” (software senza più diritti di vendita), grazie anche alla sua sottile ironia e ai dialoghi molto spesso demenziali. In 19 anni, il panorama videoludico ha subito notevoli evoluzioni, sia per quanto riguardo il puro comparto tecnologico sia i generi più commercializzati. Eppure la richiesta di avventure grafiche semplici, divertenti e senza troppe pretese non è mai mancato. LucasArts ha ascoltato questi giocatori e ha riproposto, a prezzo “popolare” (massimo 10¤), uno delle sue pietre miliari. Come da tradizione LucasArts, la Special Edition di The Secret of Monkey Island non è solo una semplice rivendita dell’episodio originale. I grafici hanno ripreso l’avventura del mitico Ron Gilbert (“papà” di tutte le avventure grafiche LucasArts) e l’hanno adattata alle potenzialità della maggior parte di computer, console e dispositivi esistenti (è stata pubblicata anche una versione Iphone/Ipod), mantenendo comunque lo stile e il carisma del primo capitolo della saga. Piccolo particolare molto interessante per i nostalgici: durante il gioco, premendo semplicemente un tasto (ad esempio, F10 nella versione PC), verrà presentata l’avventura con la grafica “retrò” del 1990.

GHOSTBUSTERS

STREET FIGHTER 4

SIM CITY

WEAPONS OF FATE

“Who ya gonna call?”. A questa domanda, i più attenti potrebbero rispondere “Ghostbusters!”. Sono passati 25 anni dal primo capitolo della serie, e Dan Aykroyd e Harold Ramis tornano per scrivere un nuovo copione. Molti potrebbero pensare ad un terzo capitolo (creando finalmente la trilogia tanto attesa). Ma i due attori hanno invece optato per la sceneggiatura dell’omonimo videogioco. In sviluppo per anni, tra smentite e conferme, Ghostbusters: The Videogame è finalmente uscito, attirando l’attenzione di tutti i fan, nonché della critica specializzata e dei più scettici, che hanno apprezzato il lavoro dei programmatori della Terminal Reality. “Una trasposizione quasi perfetta del film e dell’ambientazione” è il pensiero che chiunque avrebbe avuto nel momento in cui ci fosse stato un joypad in mano e anche solo 2 minuti per gustarsi il gioco. Una chicca: nel trailer originale del film, quando viene mostrato lo spot pubblicitario degli Acchiappafantasmi, il regista Ivan Reitman ha utilizzato un numero 1-800 (invece del 555 inserito poi nella pellicola finale). Componendolo, si sentivano le voci di Dan Aykroyd e Bill Murray che dicevano: “Ciao, siamo a caccia di fantasmi”. Il numero ha ricevuto oltre 1000 chiamate al giorno, per oltre 6 settimane.

Il re è tornato. Forse una frase che non si adatta a presentare un videogioco. Ma quando è il caso di uno dei fenomeni più popolari dei primi anni ’90, tutto è consentito. Ogni giorno, nelle sale giochi di quegli anni, decine e decine di ragazzini inserivano monete da 200 lire per poter giocare a uno strano gioco, che faceva di immediatezza e giocabilità i suoi punti di forza (e ad effetti grafici che lasciavano, almeno per l’epoca, a bocca aperta): questo fenomeno prendeva il nome di Street Fighter 2. Oggi, dopo svariate prove nel ripetere quel successo nell’attuale mercato (saturo di titoli simili), la giapponese Capcom presenta Street Fighter 4 (su Xbox360, PS3 e PC). Un esperimento che ha permesso di unire la spettacolarità delle attuali tecnologie ad uno stile un po’ retrò, ma ancora molto valido. Personaggi in 3D che sembrano usciti direttamente dal pennello di un disegnatore. La solita immediatezza del collaudato “premi-e-colpisci”. La sempreverde voglia di “farsi una partitina” senza troppi fronzoli.

Creare, gestire e ricreare la vita di una o più persone. Voglia di sentirsi un dio? Non proprio. Diciamo, simulare una vita e “ammirare” gli effetti di qualunque azione sul nostro operato. E’ questa la frase con cui si può definire in breve uno dei bestsellers più conosciuti nel settore videoludico degli ultimi anni. The Sims nasce nel 2000 dalle mente geniale di Will Wright (già creatore di Sim City, videogioco utilizzato da alcune università come strumento di studio per simulare tutti gli aspetti dell’urbanizzazione). Il simulatore di vita della Electronic Arts è ora giunto alla sua terza edizione, evolvendo tutte le sue caratteristiche (nonché complessità degli algoritmi alla base dei comportamenti dei “Sims”) per renderlo il più completo possibile. Oltre ad una miriade di azioni nuove e ad una grafica rinnovata e adeguata agli attuali standard (senza però eccedere), potremo seguire il nostro alter-ego digitale in ogni aspetto della sua vita: creativo, ricreativo e (ahimè) anche lavorativo.

Dalla penna di J. G. Jones (e la mente di Mark Millar) al fumetto, dal fumetto al film di Timur Bekmambetov. Ora, come ogni film d’azione che si rispetti in Hollywood, arriva anche la controparte digitale. Wanted: Weapons of Fate si presenta come l’epilogo naturale del film omonimo. Questa volta non ci sarà più Angelina Jolie a fare da spalla al nostro erore. Il nostro Wesley (interpretato nel film da James McAvoy) vuole delle risposte, e sulla sua strada troverà tanti nuovi personaggi pronti ad aiutarlo (nel bene o nel male). Il videogioco (distribuito dalla Warner Bros. Interactive) propone al giocatore gli eventi che seguono la fine della versione cinematografica, riuscendo però a mantenere l’azione frenetica già vista sia su celluloide sia su carta. Un elogio va ai programmatori: le sparatorie (con tanto di “curvatura dei proiettili”) sembrano uscite direttamente dal film, senza però mettere in difficoltà l’utente, che si troverà davanti a controlli estremamente veloci da imparare.


Phony



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