biblioteca di arte 13
Marta Nezzo
ugo ojetti critica, azione, ideologia Dalle Biennali d’arte antica al Premio Cremona
ILPOLIGRAFO
Il presente volume viene pubblicato con il finanziamento del Dipartimento dei Beni Culturali: archeologia, storia dell’arte, del cinema e della musica dell’Università degli Studi di Padova
progetto grafico Il Poligrafo casa editrice Laura Rigon © copyright dicembre 2016 Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan, 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it ISBN 978-88-7115-971-3
indice
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Premessa i. note sparse sulla formazione di un manager della cultura
13 La costruzione del dire
25 Arti e politica delle arti: prime contaminazioni
28 Il Manifesto e la norma
ii. biennali antiquarie e biennali antiquate: ojetti fra firenze e venezia
39 1911. Ritrarre una nazione
54 1919-1922. Progetti fiorentini per il dopoguerra
60 1919-1922. La penetrazione nelle Biennali veneziane
iii.
1922. logica e logistica di un apparato barocco
81 Organizzazione
90 Vernissage
94 Sfide critiche: giornalisti e professori
100 Il confronto con la “Fiorentina primaverile�
105 Corollari e derive
iv.
1922-1925. arte decorativa e critica applicata
113 Monza
127 Parigi
136 Tokyo
v.
1925-1930. fantasmi veneziani
147 Un intellettuale fascista
151 Maraini alla Biennale: aspettative
156 Delusioni
vi.
1931. tipizzare l’antico fra ville e giardini
159 L’organizzazione
165 Piacentini e Ojetti
170 Concorsi
vii.
1932-1936. i «commentaires vivants» fra madrid e venezia
175 Una nuova figura professionale
177 Muséographie
181 Effetti collaterali
viii.
1937-1940. ripensare firenze
185 Arte domenicana fra interessi civici e politica internazionale
192 Lorenzo de’ Medici ago della bilancia: contro l’alienazione del patrimonio storico
194 Il Cinquecento toscano: la patria di fronte al baratro
ix.
1939-1943. un explicit oscuro
203 Proposizioni naziste
207 Proposizioni italiane
210 Il confronto internazionale
218 Il Premio Cremona
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epilogo
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antologia
ugo ojetti critica, azione, ideologia
ÂŤLudus est nobis constanter industriaÂť, Ugo Ojetti
«En s’approchant, ils aperçurent dans un coin de la toile le bout d’un pied nu qui sortait de ce chaos de couleurs, de tons, de nuances indécises, espèce de brouillard sans forme; mais un pied délicieux, un pied vivant! Ils restèrent pétrifiés d’admiration devant ce fragment échappé à une incroyable, à une lente et progressive destruction. Ce pied apparaissait là comme le torse de quelque Vénus en marbre de Paros qui surgirait parmi les décombres d’une ville incendiée» Honoré de Balzac, Le Chef-d’œuvre inconnu
per Anna Maria e Mario
premessa
Ugo Ojetti fu collezionista e opinionista sagace, ma fu, soprattutto, un raffinato censore del sistema delle arti italiano e, ancor più, un manager delle esposizioni, sorta di “curatore” ante litteram, teso fra passione antiquaria e ricerca di nuove qualità espressive, connotate da un alto potenziale identitario ed economico. L’inflessione ideologica del suo operare s’inscrisse pienamente nel quadro sociale che lo vide protagonista e con esso maturò, di tempo in tempo, sensi stratificati. L’intento di queste mie pagine è modesto: indaga l’intensità del personaggio sotto il segno del fare. Segue cioè il filo rosso della sua esperienza, affiancando scritti pubblici e carte private, così da individuare il legame intercorso fra indirizzo critico e attività organizzativa. Non ne viene alcuna pretesa esaustiva: in altri termini non si troverà qui di seguito il lenticolare censimento di tutte le sue imprese, né una ponderosa ricostruzione dei molti autori cui fece il verso o da cui trasse gli schemi interpretativi, le suggestioni e le idee, poi abilmente trasformate in senso applicativo. Croce, Fiocco, Marangoni, Berenson e molti altri si muovono qui su uno sfondo affollato e vivace ma sfocato. Il mio obiettivo, più semplicemente, è riassumere e strutturare la sua “azione per l’arte” in un percorso credibile, in attesa che altri vogliano approfondirne i dettagli. La scelta dei nodi fattuali a tal fine rilevanti affianca allestimenti importanti e di felice riuscita a tentativi sfortunati ma altrettanto illuminanti. Anche la selezione di articoli e documenti, centonati in appendice, è rada e ha l’unico scopo di sottolineare taluni spunti, certe sue insistenze e ossessioni argomentative.
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premessa
Non è un caso. Mi decido infatti a pubblicare questo volume in un momento in cui il consumo economico e ideologico dell’arte rende il nesso cultura-società sempre più virtuale e criticamente appannato. Il distacco fra espressività e pubblico, l’antitesi fra tutela e necessità politico-finanziarie, la divergenza fra programmi scolastici e urgenze educative non sono problemi d’oggi, bensì gli stessi che Ojetti affrontò nella prima metà del XX secolo, con risultati contrastanti. Ricostruirne la chiaroscurata vicenda può dunque aiutarci a riflettere, umilmente, su opzioni, rischi e vantaggi dell’azione per l’arte. Rivolgo un pensiero affettuoso a Paola Barocchi †, sotto la cui supervisione iniziai a frequentare le carte Ojetti giacenti alla BCNF. Desidero ringraziare Franco Bernabei, Jolanda Covre, Miriam Fileti Mazza, Chiara Piccinini, Gianni Carlo Sciolla, Giuliana Tomasella e Giovanna Valenzano che, in stagioni e modi diversi, hanno confortato questo lavoro. Resto debitrice alle archiviste della BCNF, che mi hanno facilitato la consultazione del Fondo Ojetti quando ancora non era ordinato, ricordando con speciale simpatia la dottoressa Paola Pirolo e la dottoressa Rosaria di Loreto. Un gratitudine particolare desidero esprimere a Michela Gambato, Patrizia Leone, Lisanna Pasotto e Cinzia Romanelli, presenze costanti, rassicuranti e risolutive della Biblioteca di Storia delle Arti Visive e della Musica, presso l’Università di Padova. Un debito altrettanto grande ho nei confronti di Rosa Sentito e Andrea Dalla Libera, che vegliano sulla ricerca universitaria, sul suo compiersi, difendendola dalle procelle burocratiche. Stefano sa la mia riconoscenza.
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i. note sparse sulla formazione di un manager della cultura
La costruzione del dire Ojetti si presenta sulla scena pubblica a poco più di vent’anni1, come scrittore: nel giro di poco pubblica un libro di poesia, parecchi racconti, articoli di costume, un romanzo2, nonché un’inchiesta, ove si spinge Alla scoperta dei letterati del suo tempo3. È quest’ultima iniziativa, targata 1895, 1 Nasce a Roma il 15 luglio 1871, morirà il 1° gennaio 1946, dopo lunga obnubilante malattia (vd. F. Casnati, Ugo Ojetti, vent’anni dopo, «Il ragguaglio librario», XXXIII, 5, maggio 1966, pp. 81-83). Gli studi sul suo operato godono da tempo del supporto di diversi archivi. Il primo e, sin qui, il più importante è il Fondo Ojetti manoscritti da ordinare, 250, della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (qui ampiamente citato e d’ora in avanti indicato come Ojetti 250, con l’ulteriore distinzione PVP – Partecipazioni alla Vita Pubblica – e Mss – Manoscritti); rimangono però anche un Fondo Ojetti alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma (per lo più corrispondenze con artisti) e la straordinaria raccolta fotografica relativa alla Prima Guerra mondiale, messa insieme dal soldato-giornalista e oggi conservata presso la Fondazione Giorgio Cini di Venezia. Anche la sua biblioteca ebbe il medesimo destino di frammentazione: la parte letteraria rimane al Gabinetto Veusseux, mentre i libri d’arte furono venduti, parecchi anni dopo la sua morte, sul mercato antiquario tedesco (vd. Holstein Katalog 34, Bibliothek U. Ojetti, Frankfurt am Main, s.d., teil 2). La mia consultazione del fondo fiorentino è avvenuta alcuni anni fa, sulla base di un inventario di somma e consistenza meritoriamente redatto allora dagli archivisti: reca perciò una segnatura limitata a sezione, busta e talora camicia. Oggi, tuttavia, è disponibile, sul sito della Fondazione Memofonte una più dettagliata “anagrafe” delle carte fiorentine, cui rinvio senz’altro. 2 Ricordo i suoi primissimi titoli: Paesaggi, Roma, Tip. Forzani e C., 1892; L’ambasciatrice e i suoi diritti nel secolo XVII e XVIII, «Rassegna Nazionale», 1° agosto 1892, pp. 401-440; Senza Dio, Milano, L. Omodei Zorini, 1894; La rivolta dei nobili, rubrica “Racconti e novelle”, «Illustrazione italiana», XXI, 13, 1° aprile 1894, pp. 203-204. Per un quadro biografico asciutto ma generale rinvio a M. Nezzo, Ritratto bibliografico di Ugo Ojetti, «Bollettino d’informazioni. Centro di Ricerche Informatiche per i Beni Culturali», XI, 1, 2001. 3 U. Ojetti, Alla scoperta dei letterati, Milano, Dumolard, 1895.
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capitolo primo
a dargli una prima luce, attraendolo nel circuito polemico degli intellettuali più in vista4. A partire dal 1896 inizia a frequentare anche il sistema delle arti figurative5, percorrendo il variegato panorama espositivo fin de siècle come conferenziere6 e recensore7. La sua miglior occasione, in tal senso, sono le neonate Biennali veneziane: la serie di articoli per «il Resto del Carlino», dedicati all’edizione del 18978, gli vale, a pari merito con Vittorio Pica, il secondo posto al concorso per la critica9. Due anni più tardi, ripresentatosi, si colloca terzo10. 4 Vd. I. Nardi, Il primo passo. Note sulla formazione di un giornalista letterato Ugo Ojetti, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1990. 5 Qualche quadro. I: Fra gli Italiani, «Il Marzocco», I, 48, 27 dicembre 1896, p. 1. 6 U. Ojetti, Il pensiero nella pittura, «Il Marzocco», II, 2, 14 febbraio 1897, suppl., pp. 1-2 (discorso tenuto la sera del 29 gennaio a Venezia nella Sala Marcello). Meno di un anno prima aveva pubblicato L’avvenire della letteratura in Italia, Roma, Società editrice Dante Alighieri, 1896 (discorso tenuto in Venezia, nella Sala Benedetto Marcello per invito della Lega fra gli insegnanti la sera del 2 aprile 1896), ora in Nardi, Note sulla formazione..., cit., pp. 106 ss. 7 U. Ojetti, L’avvenire della pittura sacra e il concorso di Torino, «Corriere della Sera» (d’ora in poi «CdS»), Milano, 13-14 novembre 1898; Due piccole esposizioni milanesi, «CdS», 10-11 gennaio 1899; Francesco Paolo Michetti e la mostra di Berlino, «Nuova Antologia», CLXIII, 651, 1° febbraio 1899, pp. 518-534; L’Esposizione di Venezia. Le sculture, «CdS», 7-8 maggio 1899; L’Esposizione di Venezia. Favretto, Michetti, Sartorio, «CdS», 17-18 maggio 1899; Il verdetto del giurì per le compere alla Mostra di Venezia, «CdS», 2-3 giugno 1899; L’Esposizione di Venezia. I pittori danesi, svedesi, norvegesi, «CdS», 27-28 luglio 1899; L’Esposizione di Venezia. Tedeschi, austriaci, ungheresi, svizzeri, «CdS», 1-2 agosto 1899; L’Esposizione di Venezia. Inglesi, scozzesi, americani, «CdS», 8-9 agosto 1899, pp. 2-3; L’Esposizione di Venezia. Francesi e belgi, «CdS», 11-12 agosto 1899, pp. 2-3; I pittori olandesi a Venezia, «CdS», 13-14 agosto 1899, pp. 2-3; Gli psicologi italiani alla Mostra di belle arti di Venezia, «CdS», 24-25 agosto 1899, pp. 2-3; L’Esposizione di Venezia. I paesisti italiani, «CdS», 15-16 settembre 1899; Onoranze a Segantini a Milano. Un trittico alla Permanente, «CdS», 27-28 novembre 1899, p. 1; L’arte italiana a Parigi, «CdS», 19-20 marzo 1900; La pittura lombarda nel secolo XIX. I, «CdS», 22-23 maggio 1900; La pittura lombarda nel secolo XIX. II, «CdS», 29-30 maggio 1900; I primi risultati dell’Esposizione di Parigi, «CdS», 13-14 giugno 1900; La pittura mondiale a Parigi. I ritratti, «CdS», 25-26 luglio 1900; La pittura mondiale a Parigi. Paesisti e paesani, «CdS», 13-14 agosto 1900; La pittura mondiale a Parigi. Marine e marinai, «CdS», 24-25 agosto 1900; La pittura mondiale a Parigi. Gl’idealisti, «CdS», 12-13 settembre 1900; La pittura mondiale a Parigi. Vita intima e vita cittadina, «CdS», 18-19 settembre 1900; L’arte mondiale a Parigi. La scultura, «CdS», 25-26 settembre 1900; L’arte mondiale a Parigi. Quel che siamo e quel che sembriamo, «CdS», 20-21 ottobre 1900; L’arte decorativa a Parigi. Majoliche e porcellane, «CdS», 4-5 novembre 1900; L’arte decorativa a Parigi. Il mobilio, «CdS», 17-18 novembre 1900. Segnalo sin d’ora che, nelle sequenze di articoli proposte in nota, il riferimento autoriale comparirà soltanto al primo titolo, sottintendendo Id. per i successivi; sarà invece di volta in volta esplicitato l’uso di pseudonimi. 8 B. Cinelli, Arte e letteratura: fra Bernard Berenson e Gabriele D’Annunzio (1896-1901), in “Il Marzocco”. Carteggi e cronache fra Ottocento e Avanguardie (1887-1913), a cura di C. Del Vivo, Firenze, L.S. Olschki, 1985, pp. 169-191: 182. Il ciclo fu poi ristampato in L’Arte Moderna a Venezia, Roma, Enrico Voghera, 1897. 9 In merito vd. M.M. Lamberti, 1870-1915: i mutamenti del mercato e le ricerche degli artisti, in Storia dell’arte italiana, II, III, Torino, Einaudi, 1982, pp. 3-172. 10 Gli articoli appaiono sul «Corriere della Sera»: U. Ojetti, L’esposizione di Venezia. Le sculture, 7-8 maggio 1899; L’esposizione di Venezia. Favretto, Michetti, Sartorio, 17-18 maggio 1899; L’esposizione di Venezia. I pittori danesi, svedesi, norvegesi, 27-28 luglio 1899; L’esposizione di Venezia. Tedeschi, austriaci, ungheresi, svizzeri, 1-2 agosto 1899; L’esposizione di Venezia.
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note sparse sulla formazione di un manager della cultura
Sin dal principio, dunque, il giovane inquadra nell’istituzione veneziana un irrinunciabile punto d’irraggiamento per il proprio lavoro e, insieme, una fattiva vetrina commerciale. Scrive per l’edizione del 1897: Se agli artisti italiani giovani e vecchi, neofili e neofobi, ha direttamente giovato l’esposizione del 1895 a Venezia, mostrando loro, almeno in parte, quel che si pensa, quel che si sente e quel che si fa fuori di qui in fatto d’Arte, essa ha loro infinitamente giovato in modo indiretto: inducendo, cioè, nel gran pubblico scettico e distratto dietro irraggiungibili e pur basse chimere, l’idea che la patria può ancora, quando parla nel nome dell’Arte, parlare alto e solenne ed essere ascoltata con reverenza singolarissima ed essere amata con sincerissimo affetto. Così lentamente si comincia a pacificare il dissidio, a definire l’equivoco tra gli artisti e i non artisti, tra i pochi che credono e i molti che non credevano, e l’Arte comincia ad entrare nella vita nostra, non come una mendica da dovere a ogni passo soccorrere con elemosine furando i danari al mantenimento delle ufficiali razze equine o agli stipendi degli ispettori bancarii e governativi, ma come una regina che dai suoi occhi emana luce, gloria dalla sua bocca, oro dalle sue mani. Questa nuova concezione che, per parlare francamente, dirò economica, dell’Arte, è in Italia dovuta alla prima mostra di Venezia. E questa seconda mostra è una seconda e anche più limpida argomentazione in favore di essa.11
Recensirà le Biennali ininterrottamente sino al 194012, con interventi cadenzati, spesso poi ristampati in album o volume13. Per le prime edizioni stila capillari repertori di quadri e sculture, che avvicinano la cronaca giornalistica all’elenco. In particolare, negli anni dal 1897 al 1914, che potremmo considerare “di formazione”, lavora come cardatore di notizie, opere e nomi: sgrossa la moltitudine per trarre alcuni fili sui quali ragionare, ampliando al contempo la rosa delle proprie conoscenze. Registrando sempre nuovi artisti, ne esamina la fortuna, per ricamarvi anche qualche corollario interpretativo personale. È un modo per acquisire un panorama di riferimento ed elaborare un metodo preciso, due cose che appaiono, a uno sguardo ravvicinato, intimamente connesse. Interessato ai testi di Guyau e
Inglesi, scozzesi, americani, 8-9 agosto 1899, pp. 2-3; L’esposizione di Venezia. Francesi e belgi, 11-12 agosto 1899, pp. 2-3; I pittori olandesi a Venezia, 13-14 agosto 1899, pp. 2-3; Gli psicologi italiani alla Mostra di belle arti di Venezia, 24-25 agosto 1899, pp. 2-3; L’esposizione di Venezia. I paesisti italiani, 15-16 settembre 1899; Il verdetto del giurì per le compere alla Mostra di Venezia, 2-3 giugno 1899. Nella giuria figurano Ettore Ferrari, Pompeo Molmenti e Adolfo Venturi. Il primo premio (lire 1.500) va a Ugo Fleres («Rivista d’Italia»); il secondo (lire 1.000) a Diego Angeli («Flegrea»); il terzo, ex aequo, a Ugo Ojetti («Corriere della Sera»), Vittorio Pica («Emporium») ed Enrico Thovez («Stampa»), 500 lire cadauno. Speciali menzioni (300 ciascuno) ad Achille De Carlo per il volume L’arte a Venezia e a Mario Morasso per gli articoli su «Nuova Antologia». (s.a., I critici premiati, «Illustrazione Italiana!», XXVI, 52, 24 dicembre 1899, p. 449). 11 Ojetti, L’Arte Moderna a Venezia (1897), cit., pp. 12-13. 12 Nezzo, Ritratto bibliografico..., cit., passim. 13 U. Ojetti, L’VIII Esposizione Internazionale di Venezia, Milano, Treves, 1909; Note critiche, in La Nona Esposizione Internazionale d’arte in Venezia, fasc. IV, Milano, Treves, 1910; La Decima Esposizione d’Arte a Venezia - 1912, Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1912 (“Collezione di Monografie illustrate. Serie Esposizioni”); Note critiche, in L’undecima Esposizione Internazionale d’Arte in Venezia, fasc. IV, Milano, Treves, 1914.
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ii. biennali antiquarie e biennali antiquate: ojetti fra firenze e venezia
1911. Ritrarre una nazione Se l’apprendistato critico di Ojetti è intimamente legato alla valutazione del contemporaneo e alle polemiche sull’amministrazione culturale, la sua prima grande prova organizzativa guarda invece all’arte antica. È nel 1908, sotto la guida del sindaco Francesco Sangiorgi, che s’iniziano a progettare, a Firenze, i festeggiamenti per il cinquantenario dell’Unità d’Italia, previsti per il 1911, in cordata con Torino e Roma1. La manovra tradisce la ricerca del consenso da parte di una giunta comunale di colore popolare, progressista e dunque sospetta alle fasce più tradizionaliste della popolazione, che intravedono, nel modello di sviluppo da essa proposto, un pericolo per l’equilibrio socio-economico della città. Sono proprio gli stanziamenti in favore delle iniziative culturali a permetterle di comporre aspirazioni differenti, esaltando quegli interessi locali in cui si proietta, da oltre una generazione, cioè sin dai tempi di Ubaldino Peruzzi, la vocazione artigianale, turistica e colta dell’Atene d’Italia2. Infatti, dopo la perdita del ruolo di capitale, per contenere la marginalizzazione, la classe dirigente aveva impresso una forte accelerazione alla crescita di commerci e servizi, utilizzando il patrimonio artistico come potenziale attrattivo. Indispensabile in tale quadro il supporto degli intellettuali, coinvolti in una diversificata rete di associazioni e protagonisti d’innumerevoli conferenze, tese fra i toni
1 Vd. M. Nezzo, La mostra del ritratto e le Biennali d’arte antica in Firenze, in Altrove, non lontano. Scritti di amici per Raffaella Piva, a cura G. Tomasella, Padova, Il Prato, 2007, pp. 85-90. 2 S. Fei, Nascita e sviluppo di Firenze città borghese, Firenze, G&G, 1971.
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capitolo secondo
paternalistici, riservati agli operai, e le civetterie salottiere delle lezioni su La Vita Italiana, a Palazzo Ginori. Al giro del secolo i tesori letterari e artistici fiorentini (e italiani), ben s’addicono a calibrare sapere ed evasione3. E se la spettacolarizzazione della cultura implica la neutralizzazione del suo potenziale problematico, lasciando l’informazione sedimentare imbelle nei bacini dell’autocompiacimento, si rivela al contempo una ghiotta occasione autopromozionale per gli oratori. Scrittori e studiosi possono farne il motore di una popolarità personale, magari già cercata attraverso le collaborazioni a giornali e riviste. Un settore, quest’ultimo, vivace a Firenze, dove, a fianco di Guido Carocci e del suo «Arte e Storia», nodale si rivela l’esperienza del «Marzocco», fra i cui collaboratori si conta, sin dal 1896, Ugo Ojetti. Stabilitosi nel capoluogo toscano al giro del secolo partecipa attivamente al brulicante laboratorio locale: dagli Amici dei Monumenti alla Leonardo da Vinci4; dalla citata Commissione di Belle Arti all’Associazione per la difesa di Firenze Antica5. Sono gli anni della vicinanza a Corrado Ricci, per la battaglia politica sulla legge per le antichità e belle arti. Inevitabile, in tale quadro, la convergenza con i progetti politico-culturali del sindaco Sangiorgi, per il quale il giornalista romano elabora alcune acutissime Note per un’Esposizione del Ritratto italiano in Firenze nel 19116, parallelamente impegnandosi nel locale comitato per le feste per il cinquantenario dell’Unità. L’operazione, in verità, s’ispira latamente alla Festa dell’arte e dei fiori, tenutasi nel 1897, per celebrare il genetliaco della Società Belle Arti e della Società di Orticultura7. Per la manifestazione del 1911 si pensa infatti nuovamente ai fiori, ma anche a una mostra di pittura storica, ripartendo ovviamente i compiti fra distinte gerarchie organizzative. Nel progetto espositivo, presentato alla Commissione comunale d’arte, Ojetti rileva che il Ritratto «è la pittura in cui gli artisti più accademici e convenzionali diventano fatalmente sinceri ed espressivi. La nostra esposizione – aggiunge – riassumerebbe tutt’una storia ignorata, rialzerebbe rinomanze abbandonate, e mostrerebbe, con una piacevolezza aneddotica,
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Cerasi, Gli Ateniesi d’Italia..., cit. Sulle riviste post-unitarie vd. G.C. Sciolla, Per le riviste della Nuova Italia. Qualche considerazione in margine, «Annali di critica d’arte», IX, 2013, pp. 351-369; sulle riviste citate vd. “Il Marzocco”. Carteggi e cronache..., cit.; G. Di Cagno, Arte e storia. Guido Carocci e la tutela del patrimonio artistico in Toscana, Firenze, Ponte alle Grazie, 1991 e M. Vannini, “Arte e storia”. Cultura e restauro a Firenze fra Ottocento e Novecento, Firenze, Edifir, 2011. Sulla Leonardo vd. A. Orvieto, Storia e cronaca della Leonardo, a cura di N. Maggi, Firenze, SEFi, 2007. 5 La difesa di Firenze antica. Una petizione al Senato per il disegno di legge sulle antichità e belle arti, «CdS», 7 dicembre 1908. Per ottenere adesioni si forma nel giugno 1908 una Commissione composta dallo stesso Ojetti, dal conte Gamba, da Nello Tarchiani e Angiolo Orvieto. 6 U. Ojetti, Note per un’Esposizione del Ritratto italiano in Firenze nel 1911. Alla Commissione comunale d’arte, Firenze, Tipografia Claudiana, 1908 (Ojetti 250, PVP 8bis, 11). 7 L’originaria coincidenza con la seconda Esposizione internazionale veneziana è premonitrice, poiché, a lungo termine, l’obiettivo sarà fondare un equivalente appuntamento fiorentino, baricentrato sull’antico. 4
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biennali antiquarie e biennali antiquate: ojetti fra firenze e venezia
la continuità della nostra pittura anche in epoche finora credute povere solo perché non sono state studiate»8. Già per le celebrazioni milanesi del Sempione, nel 1902, aveva proposto il medesimo tema, in concorrenza con le iniziative europee: Il successo meraviglioso che le mostre di Velasquez e di Franz Hals, di Rembrandt e di Van Dyck hanno avuto all’estero in questi ultimi anni potea suggerire a Milano una mostra storica [...] di ritrattisti italiani, da Antonello da Messina fino al Longhi e al Piazzetta per ricordare al mondo quanto quei quattro grandi e anche tutti i ritrattisti inglesi [...], debbano ai nostri sommi.9
Ma nel 1908 probabilmente Ojetti ha ben presente anche la recente “Exposition des Portraits peints et dessinées de XIIIe au XVII siècle”, aperta alla Bibliothèque Nationale di Parigi fra aprile e giugno 1907 o l’ancor più vicina “Portraits d’Hommes et de Femmes Célèbres (1830 à 1900)”10. Sul piano storico-artistico, il tema da tempo ha catalizzato l’attenzione di autori come Burckhardt, Simmel e Warburg e nel 1902 è uscito Das holländische Gruppenporträt di Alois Riegl. Si tratta dunque di un interesse esteso, per di più complicato, a quest’altezza, da fattori ideologici: nel 1905 è comparso Die Germanen und die Renaissance in Italien11 di Woltmann. Il volume reca oltre cento riproduzioni di ritratti, che utilizza per dimostrare la diffusione capillare, nel bel paese, della razza tedesca, cui avoca l’origine biologica dei maggiori esponenti della nostra cultura dal Trecento in avanti. La reazione a simili formulazioni fisionomiche, serpeggianti nell’Impero guglielmino a sostegno delle teorie pangermaniste12, costituisce forse la ragione più intima della scelta ojettiana. Peraltro il critico, proprio nel 1908, avvia la fortunata serie scrittoria dei “Ritratti d’artisti italiani”. Se il modello monografico è il punto cardinale che lo orienta nel complesso mondo dell’arte, certo l’icona individuale – picta – gli deve sembrare un eccellente medium aggregante. Catalizzando l’attenzione visiva, può mediare, in via accessoria, messaggi diversificati, sollecitando magari le ansie identitarie della nazione e rinserrando il volto della collettività. Altrettanto importanti – bisogna sottolinearlo – sono per lui gli scopi pratici che muovono l’amministrazione civica; propone dunque un’esposizione capace, in-
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Ivi, p. 11. U. Ojetti, Quattro Esposizioni mondiali, «CdS», 3-4 gennaio 1902, se ne evince come, per la mostra dedicata all’apertura del Sempione, Ojetti, già nel 1902, avesse sognato una Mostra del ritratto. Sulla vitalità critica, ma anche creativa, del tema rinvio a T. Casini, Il ritratto tra riscoperte e patriottismo. La mostra del ritratto italiano e le radici iconografiche dell’identità nazionale, «Annali di critica d’arte», IX, 2013, t. II, pp. 567-576. 10 Catalogue des Portraits d’Hommes et de Femmes Célèbres (du 1830 à 1900), exposés par la Société nationale des Beaux-Arts dans les Palais du Domaine de Bagatelle du 15 mai au 14 juillet 1908, Paris, Moreau Frères Éditeurs, 1908. Vd. E. Miraglio, Seicento, Settecento, Ottocento e via dicendo: Ojetti e l’arte figurativa italiana, «Studi di Memofonte», 6, 2011, pp. 63-75: 66. 11 Leipzig, Thüringische Verlagsanstalt, 1905. 12 Vd. G.L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich (1964), Milano, Il Saggiatore, 1994. Mi sono già soffermata su questo genere di sollecitazioni nel mio Critica d’arte in guerra. Ojetti 1914-1920, Vicenza, Terra Ferma, 2003. 9
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iii. 1922. logica e logistica di un apparato barocco
Organizzazione Torniamo dunque a Firenze. Nel luglio del 1921 il solito manipolo d’irriducibili1 può tentar di rianimare l’esangue progetto delle Biennali antiquarie, proponendo al nuovo sindaco – Antonio Garbasso – il vecchio programma di massima, modificato appena: dall’elenco degli allestimenti, immaginati a lungo termine, sparisce l’esposizione dedicata al “Libro italiano”, riversata nella “Fiera internazionale del libro”, d’impianto commerciale2. Nell’agosto 1921 la Giunta comunale delibera d’urgenza l’approvazione del programma per “Mostre periodiche di arte retrospettiva”, da aprirsi con un’esposizione di pittura italiana del Seicento e del Settecento3, in vista della quale si stanziano 50000 lire4. Ojetti, come s’è detto, lascia la babele veneziana, concentrandosi sulla sua città adottiva. Dove però, nel frattempo, l’apertura al contemporaneo si fa sensibile; la primavera del 1922 ve-
1 Lettera a stampa al sindaco di Firenze, firmata da Biagi, Cecconi, Dami, De Nicola, Di Pietro, Gamba, Giglioli, Guicciardini, Maraini, Marangoni, Ojetti, Paolieri, Poggi, Rusconi, Soarez, Tarchiani, Tinti e Toesca (Ojetti 250, PVP 1, 1, I). 2 Rinvio in merito a Nezzo, Un’identità da ridisegnare..., cit., nota 122. 3 Sindaco A. Garbasso a Ojetti, Firenze, 10 agosto 1921 (Ojetti 250, PVP 1, 1, I). Vi si nominano i membri della neonata Commissione esecutiva: Carlo Gamba Ghiselli, Luigi Biagi, Aniolo Cecconi, Giacomo De Nicola, Filippo Di Pietro, Edoardo Giglioli Hyller, Giulio Guicciardini, Alfredo Lensi, Antonio Maraini, Matteo Marangoni, Ferdinando Paolieri, Giovanni Poggi, Arturo Jahn Rusconi, Roberto Soarez, Nello Tarchiani, Mario Tinti, Pietro Toesca, Luigi Dami. 4 Sindaco A. Garbasso a U. Ojetti, Firenze, 19 agosto 1921 (Ojetti 250, PVP 1, 1, I), lettera relativa all’istituzione della Commissione di finanza, creata per curare la parte economica della mostra. I membri sono tutti dipendenti comunali; fra loro Ojetti.
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drà, oltre alle antichità e ai fiori, un’altra mostra5: quella manifestazione d’Arte Moderna Decorativa e Applicata, che è più nota come “Fiorentina primaverile”. Ricordo che proprio il successo economico dell’allestimento dedicato nell’11 al ritratto aveva fornito il fondo di partenza per una nuova struttura da adibire a polo culturale e, appunto nel nuovo edificio, ideato da Fantappiè e Tognetti per il parterre di Sangallo6, si colloca questo terzo cuore espositivo. La seconda Biennale antiquaria invece troverà spazio nei saloni di Palazzo Pitti7. È una scelta importante poiché l’antica reggia medicea – passata alla dinastia sabauda, dopo il lungo interludio lorenese – è entrata da poco a far parte del patrimonio demaniale. Si tratta del già menzionato ringraziamento tangibile che Vittorio Emanuele tributa al popolo nel 1919, per la vittoria armata dell’Italia. Passano così all’Opera nazionale combattenti e all’amministrazione delle Antichità e Belle Arti numerosi edifici fra i quali, appunto, Pitti con il giardino Boboli8, le regge di Milano, di Venezia e quelle campane: Capodimonte e Caserta. L’auspicio è che rinascano come sedi museali, il che – a dire il vero – a Ojetti piace poco9. Inevitabilmente, poiché teme che la transizione induca disuso, cioè fruizione asettica da parte di un pubblico sonnacchioso e non più eccitato
5 M. Malan, Le tre mostre d’arte fiorentine per l’inaugurazione del Palazzo delle Esposizioni, «Il Giornale d’Italia», 9 agosto 1921. 6 Si tratta – scrive Ojetti – di «un palazzo nuovo, appositamente costruito per esposizioni artistiche ed industriali, nel giardino detto il Parterre, tra piazza Cavour e il Mugnone. È un palazzo pieno di luce, disegnato dagli architetti Tognetti e Fantappié, eretto a spese del Comune e della camera di Commercio. Il solo Comune, che ha dato l’area, vi ha speso più d’un milione. Il palazzo è a un solo piano, molto alto da terra, così che anche le sale del sottosuolo illuminate a luce artificiale, secondo l’uso venuto di moda in alcune “gallerie” milanesi, accoglieranno quadri e statue» (U. Ojetti, La Fiorentina primaverile, «CdS», 26 marzo 1922). 7 Il telegramma che ne avvisa Ojetti è datato 22 agosto 1921 (Ojetti 250, PVP 1, 1, I). Vd. anche Rosadi al sindaco Antonio Garbasso: «[...] Sin d’ora dichiaro di non avere alcuna difficoltà a cedere per la Mostra il richiesto uso del primo piano di Palazzo Pitti e del reale Giardino di Boboli per quel periodo di tempo che sarà necessario per l’organizzazione e l’esibizione della Mostra; attendo di conoscere precisamente l’epoca da cui dovrà decorrere la concessione, per sospendere le altre eventuali che venissero chieste nel frattempo da Associazioni o da Comitati». 8 La quadreria era sotto la tutela delle Belle Arti già da molto tempo. Anche se, con le leggi del 24 giugno 1860 e del 24 agosto del 1862, Galleria e Palazzo erano stati assegnati alla Corona assieme al loro contenuto, le collezioni dovevano rimanere aperte al pubblico nelle loro sedi. Perciò durante il giorno esse erano sotto la tutela della Direzione delle Gallerie mentre la sera esse tornavano sotto la responsabilità della Real Casa. Le spese di manutenzione erano pagate dalla corona, ma i proventi museali andavano alla Direzione delle Gallerie. L’effettiva cessione delle raccolte – 540 opere d’arte – avviene nel 1912; con quelle il Re lascia in deposito alla Galleria (dunque alla Sovrintendenza degli oggetti d’arte per la Toscana) tutti i mobili e gli arredi in essa contenuti. Puntualmente Ojetti ne dà annuncio con il suo La Galleria Pitti passata al Ministero dell’Istruzione, «CdS», 24 febbraio 1912, p. 5. 9 Scriverà: «Per chi chiede a un monumento, prima delle sagome e misure della bellezza, la sua ragione morale e il suo ammonimento, è altrettanto vero che queste regali architetture senza più re sono adesso come quadri da una chiesa passati in un museo. Davanti ad essi si seggono gli studiosi, non s’inchinano più i fedeli» (Prefazione, in I Palazzi e le Ville che non sono più del Re, Milano, Treves, 1921 (p.n.n.). Per approfondire il suo disappunto vd. Ojetti, I palazzi e le ville..., cit., (17 settembre 1919), vd. supra, p. 55, note 71 e 72.
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dalla “presenza regale”. Ma, soprattutto, perché avrebbe preferito l’attribuzione diretta, per tanto prestigiosi edifici, a province e comuni, anziché allo Stato; il tutto a ulteriore valorizzazione di alcuni precisi poli geografici – innanzitutto Venezia e Firenze – destinati a maturare un ruolo guida nelle cose d’arte e cultura. Non a caso, in particolare per quanto riguarda Pitti, propone di collocare, nella vicina Meridiana, «la squisita e poco nota fiorentina galleria d’arte contemporanea»10, appoggiando inoltre la richiesta della Soprintendenza perché alla Galleria palatina venga affiancato un museo della mobilia italiana. Il primo progetto rimanda al suo ruolo di ispiratore e promotore della Società degli Amici della Galleria d’arte moderna, attiva dal 191311; il secondo alle sue convinzioni sull’arte decorativa, «una necessità per la storia e per la vita del costume italiano» e «un bisogno per l’insegnamento pratico dell’arte industriale, la quale [...] da Stoccolma a Vienna, da Monaco a Bruxelles, ha progredito solo dove ha trovato il consiglio e il soccorso di questi musei»12. Dunque, allestire la mostra del Sei e Settecento in Palazzo Pitti significa attrarre la sede indemaniata nell’orbita delle iniziative civiche, insieme rivendicandole la possibilità di partecipare a quell’ibridazione tra formule espositive permanenti e temporanee, della cui sperimentazione Ojetti sostanzia le Biennali fiorentine. Solo così, evidentemente, gli par possibile superare la malinconia per «quel palazzo scoronato, destinato allo sbadiglio d’un museo, le stanze numerate come le celle d’un penitenziario»13. Perché la sua valutazione dei musei italiani – è bene ricordarlo – non è affatto rosea. Da anni, sul «Corriere», ne denuncia la problematica fruibilità e l’incapacità di infondere e diffondere nella vita reale il bisogno della bellezza. Di più: la staticità del museo gli pare, sul piano simbolico e pratico, incapace di produrre quelle connessioni storiche e formali di stretta attualità, che le esposizioni temporanee, invece, sanno continuamente reinventare, valorizzando – attraverso gli oggetti d’arte – valori etici e politici “altri”. Valori, appunto, che la conflagrazione europea ha 10
Ibid. Una società di amici della Galleria fiorentina d’Arte moderna, «CdS», 31 maggio 1913. Vi si annuncia la costituzione, a Firenze, della Società degli Amici della Galleria Fiorentina d’Arte Moderna, che conta venticinque soci fra i quali Ugo Ojetti, Egisto Fabbri e «Il Marzocco». Lo scopo dell’associazione è comperare quadri e donarli alla Galleria di Firenze, recentemente riordinata grazie a Nello Tarchiani e arricchita dal deposito di quadri di proprietà comunale, fra i quali quelli del lascito Diego Martelli (con due paesaggi di Pissarro). D’ora in avanti la Galleria verrà gestita congiuntamente dallo Stato e dal Comune. Primi doni della Società sono un Ritratto di Boldini e una Spiaggia di De Nittis. 12 Ibid. 13 U. Ojetti, I Taccuini, 1914-1943, a cura di P. Ojetti, Firenze, Sansoni, 1954, note del 1° gennaio 1921, p. 21. Sulla dialettica istituita, durante il Ventennio, fra «una politica museale certo deludente» e «una politica espositiva clamorosa» vd. M. Dalai Emiliani, Musei della ricostruzione in Italia, tra disfatta e rivincita della storia, in Carlo Scarpa a Castelvecchio, catalogo della mostra (Verona, 10 luglio - 30 novembre 1982), a cura di L. Magagnato, Milano, Edizioni di Comunità, 1982, pp. 149-70; Ead., «Faut-il brûler le Louvre?». Temi del dibattito internazionale sui musei nei primi anni ’30 del Novecento e le esperienze italiane, in Per una critica della museografia del Novecento in Italia. Il “saper mostrare” di Carlo Scarpa, Venezia, Marsilio, 2008, pp. 13-49. 11
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contribuito a decrittare. Il museo può ospitare e conservare opere “orfane”, ma non può farsi centro permanente di accumulo, a uso esclusivo (o quasi) degli storici dell’arte. Lo aveva scritto a chiare lettere già nel 1919: Lo scopo di queste pubbliche gallerie nella stessa mente dei loro fanatici è mutato più volte in questi cento o centocinquant’anni. [...] Quando prima furono istituite, vennero a significare la distruzione di un privilegio: con esse, cioè, il popolo veniva a godere i tesori dei re. Poi, si disse che i giovani artisti vi avrebbero potuto copiare e studiare le opere dei veri maestri che per lo più non erano i loro professori viventi. Più avanti invece le gallerie furono esaltate come la pratica traduzione del principio dell’arte per l’arte il quale toglieva all’arte ogni altro scopo eroico, religioso, decorativo, pratico. Da ultimo, s’era venuti a considerarle un luogo di puro studio come le Università: fatte prima per gli studiosi poi pel volgo. Da questo ultimo vizioso concetto le opere d’arte sono state ivi trattate più come libri negli scaffali d’una biblioteca che come bellezze da far valere in buona luce, su fondi adatti, tra spazi di riposo, alla sovrana. E più che poche opere davvero insigni e bellissime, si è cercato negli ultimi anni di comprare opere, comunque, degli autori e delle scuole che mancavano in una raccolta, anche se bisognava strapparli alla loro regione nativa. Fatica vana verso uno scopo universale e irraggiungibile. In questo periodo durato fino a ieri, anzi fino ad oggi, il distacco degli affreschi fu fatto con gioia, al minimo pretesto. [...] Poter raccogliere e appiccare in fila, per epoche, sulle pareti di venti, cinquanta, cento gallerie tutta la pittura d’Italia, compresi gli affreschi, con tanti cartellini e un numero d’ordine come quello sul petto degli ergastolani; poter giocare ogni tanto ad allineare quella turba in modo diverso come schede di censimento o carte da briscola: ecco l’ideale. Certo alla Minerva nessuno s’è mai proposto d’attuarlo così totalmente e tirannicamente. Era la stella dei naviganti: guidava ma non poteva esser raggiunta. Intanto si sventravano Roma, Firenze, Bologna: ma in compenso si ingrandivano i musei. S’ammazzava, ma s’aveva cura dei cimiteri. Civiltà, anzi cultura.14
L’opposizione Kultur-Civilisation, vecchio adagio antigermanico, spiega bene perché il suo interesse vada tutto alle esposizioni temporanee, che propongono un modello di fruizione estetica, politica e identitaria, continuamente reversibile e rinnovabile, in antitesi all’immobilismo predatorio del museo. Pensate appunto come pinacoteche virtuali, vistosi surrogati delle infinite gallerie nazionali possibili, queste mostre sono pronte a diventare alimento intellettuale, storiografia pratica dell’arte, mille e mille volte ricostruibile attraverso un corpus di opere da una stagione all’altra appositamente scelto. Gioco d’immagini infinitamente adattabile, al fine di riproporre l’antico al ritmo sincopato e instabile della modernità, esse potrebbero essere l’incarnazione dei repertori fotografici di «Dedalo», rivista concepita contro la staticità interpretativa e votata ad aprire la vetrina storico-artistica al pubblico non specializzato. Inseguendo il medesimo sogno, le Biennali fiorentine non si chiudono agli approfondimenti specialistici, ma
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U. Ojetti, I quadri a casa loro, «CdS», 25 maggio 1919.
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li tollerano: l’obiettivo è la “formazione” del pubblico, che attraverso il contatto con il secolare patrimonio artistico verrà opportunamente “educato”. Delle esigenze paludate e nobili della storiografia Ojetti si serve secondo opportunità. Ad esempio per ottenere il placet municipale a esporre, nel 1922, Barocco e Rococò, scrive senza esitazione: La pittura di quel periodo non è rappresentata in modo organico in nessuna delle nostre grandi raccolte. Le sue opere e spesso i suoi capolavori sono ancora dispersi in chiese e in collezioni private, mal conosciuti, dimenticati, per lo più in cattivo stato di conservazione e in pessimo di visibilità. La nostra Mostra sarà dunque, in grande parte, anche una rivelazione; raccogliendo qualche centinaio di opere caratteristiche, scegliendole con sagacia, distribuendole per scuole o per regioni, essa può essere il felice inizio di quel lavoro d’indagine che l’arte del Seicento e del Settecento attende anche in Italia.15
Sul piano pratico, la “nuova” esposizione16 si vale della matrice organizzativa già collaudata per la “Mostra del Ritratto”: un esecutivo centrale emana le commissioni di studio cittadine e regionali, mirate a coinvolgere musei e istituzioni. Ad esse compete «un vero censimento della pittura barocca italiana [...] a furia di ricerche, di schede, di cataloghi, di indici e sulla scorta dei ricordi personali»17. Una prima scrematura di cinquemila opere costituisce il bacino da cui cavare, con vaglio ulteriore, l’immagine di due secoli dell’arte nostra. La selezione successiva si svolge sulla base di un’ampia documentazione fotografica, richiesta ai possibili prestatori18. Per avere un’idea della qualità e quantità delle forze sin dal principio chiamate in campo, basta volgersi ad alcuni elenchi conservati in archivio. Si va da Bologna a Milano, da Padova a Roma, cooptando soprintendenti, critici d’arte, artisti e professori universitari, in una serrata sequenza di improbabili accostamenti: da Longhi19 a Pogliaghi, da Muñoz a Giolli20. Proprio Roberto Longhi ricorderà il carattere farraginoso di questi comitati regionali, «nei 15
Mostra della pittura italiana del Seicento e del Settecento, 1922 (Ojetti 250, PVP 1, 1, I). Sull’occasione vd. anche F. Amico, La immane e preziosissima esposizione fiorentina del 1922, «Bollettino della Società di Studi Fiorentini», 14, 2005 [2008], pp. 105-113; Miraglio, Seicento, Settecento..., cit.; F. Amico, Gli studi sul Seicento alla vigilia della mostra del 1922, in Arte e critica in Italia nella prima metà del Novecento, a cura di G. De Lorenzi, Roma, Gangemi, 2010, pp. 37-59. 17 La mostra di arte del 600 e 700, 19 aprile 1922, ritaglio di giornale, conservato in Ojetti 250, PVP 1, 1, I. Nel suo Discorso di chiusura (conservato nella redazione manoscritta in Ojetti 250, Mss 1, 2, b. 8 e successivamente trasfuso in U. Ojetti, La Mostra della pittura italiana del Seicento e del Settecento. Relazione del presidente della commissione esecutiva, Firenze, Giannini, 1922) ricorderà: «Ormai avevamo una bella sala in Palazzo Vecchio, nel quartiere di Cosimo, con un finestrone che, tagliato nel largo muro, ci offriva un gran piano di pietra serena, solenne come una mensa d’altare. Le cassette degli schedarii per luogo e autore, in quattro mesi, occuparono tutto quel piano». 18 Lettera (con firma illeggibile) a Ojetti il 20 ottobre 1921 (Ojetti 250, PVP 1, 1, I). 19 Per un confronto fra le prime due Biennali vd. R. Longhi, Critica d’arte e buongoverno. 1938-1969, in Opere, XIII, Firenze, Sansoni, 1985, pp. 61-62. 20 Vd. in merito gli elenchi conservati in Ojetti 250, PVP 1, 1, I, peraltro non pienamente corrispondenti a quelli definitivi pubblicati da Ojetti nell’opuscolo La mostra della pittura italiana del Seicento e del Settecento. Relazione... (1922), cit. 16
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quali (salvo le poche eccezioni del Fogolari e del Cantalamessa, del Fiocco e del De Rinaldis) non è ingiuria dire che mancavano gli specialisti rendendo perciò quasi impossibile la coordinazione dell’immenso lavoro»21. Ciascuno è arruolato in base alle competenze reali o presunte e ai favori – “istituzionali” o meno – ch’è in grado di rendere: la potenziale consulenza scientifica vale insomma quanto la capacità di agevolare o mediare prestiti. In merito è chiarissimo Pietro Toesca, che nell’estate 1921 scrive a Ojetti: Della commissione genovese per la Mostra del ’600 sarebbe bene che facesse parte anche il prof. Giovanni Campora, ispettore dei monumenti e presidente dell’Accademia Ligustica di Belle Arti. Appunto nella collezione di codesta Accademia [...] si trovano importantissimi dipinti genovesi del ’600 e del ’700; e il Campora potrà essere utile non soltanto per concedere quelli che saranno scelti ma anche per trovarne altri nelle collezioni genovesi ch’egli conosce assai bene.22
Si cerca di sfruttare anche qualche singolare esperienza: emblematico in tal senso il contributo inizialmente chiesto a Fogolari, comunque necessario all’apparato organizzativo, in quanto responsabile delle Gallerie veneziane. Rivangandone l’attività al fianco del maggior generale Roberto Segre23, nella primavera 1919 (cioè all’epoca dei forzosi prelievi di opere d’arte, in conto restituzioni, da Vienna24), Ojetti gli chiede una particolare consulenza sulle collezioni private già residenti nel vecchio impero asburgico. Ma Fogolari ironizza: Carissimo Ojetti, rispondo subito alla tua tanto più che la risposta è in massima negativa perché non in Austria e Ungheria, ma io sono stato solo a Vienna, e mi sono fatto subito tal fama di ladro che nessuno mi ha più aperto una sua raccolta. Quindi oltre le pubbliche e la Lichtenstein io ben poco conosco. Molto meglio conosce Vienna nelle raccolte private De Nicola. In quanto a Vienna potreste rivolgervi al Planiscig del Museo Etrusco che sa tutto e molto si interessa. È un po’ antiquario, ma chi non lo è oggi? In quanto alla ricerca delle opere nella mia regione farò del mio meglio con Fiocco e compagni.25
21 R. Longhi, Note in margine al catalogo della mostra sei-settecentesca del 1922, in Scritti giovanili, Sansoni, Firenze 1961, pp. 493-512: 493. 22 Pietro Toesca a Ojetti, 13 agosto 1921 (Ojetti 250, PVP 1, 1, I). 23 Di recente Antonino Zarcone ha pubblicato la biografia Il generale Roberto Segre: come una granata spezzata nel tempo, Roma, Ufficio Storico dell’Esercito, 2014. 24 Vd. i due memoriali: P. D’Ancona, A Vienna col generale Roberto Segre, Roma, L’Agave, 1922 e R. Segre, La missione militare italiana per l’armistizio (dicembre 1918 - gennaio 1920), Bologna, Zanichelli, 1928. Fra i coadiutori alla missione ci fu Gino Fogolari: durante la prima campagna di recupero di oggetti d’arte a Vienna, conclusasi il 14 marzo 1919, si prelevarono opere in conto restituzione e cioè «i dipinti che l’Austria ci tolse nel 1898 nel 1816 e nel 1838 e non volle rendere dopo il 1866» (G. Fogolari, Prefazione, in G. Fiocco, Catalogo delle opere d’arte tolte a Venezia nel 1808, 1816, 1838, restituite dopo la vittoria, Venezia, Officine grafiche C. Ferrari, 1919, pp. II-VII: III-IV). Obiettivo non secondario della missione era anche quello di elaborare liste in grado di supportare, in sede di trattati di pace, pesanti richieste di quadri a titolo di risarcimento danni. Sull’argomento vd. Nezzo, Critica d’arte in guerra..., cit. 25 Fogolari a Ojetti, 19 agosto 1921 (Ojetti 250, PVP 1, 1, I).
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Certo l’ipertrofia della seconda Biennale non si dispiega soltanto nella rete di contributi e collaborazioni: anche l’integrazione della mostra in una fastosa rete di eventi culturali correlati è spia significativa di un forte investimento di energie e competenze. A contornarla, oltre alla “Fiera del libro” e alla “Fiorentina primaverile”, di cui parleremo più avanti, son previsti concerti a Palazzo Pitti, nel giardino di Boboli e a Santa Trinita, con pezzi di Boccherini, Veracini, Haydn, Mozart, Monteverdi, Vivaldi, Porpora, Bach, Cimarosa, Frescobaldi, Carissimi, Benedetto Marcello26. L’occasione, insomma, dev’essere artistico-mondana, così da innestare stabilmente queste mostre toscane nel quadro dei più ambiti appuntamenti italiani. Per questo Ojetti è estremamente attento alle questioni finanziarie e al sostegno governativo, al punto che nel febbraio del 1922, di fronte all’insoddisfacente profilo economico della convenzione con le ferrovie dello Stato, ricorre al ricatto dimissionario. «Anche questa volta – scrive al sindaco – la nostra Città è stata ingannata dal potere centrale; un’impresa d’arte, di cultura, e di buon gusto degna del gran nome e delle tradizioni di Firenze e ormai pronta è stata annullata dalla sorda ignoranza della burocrazia romana»27. Si è ormai a ridosso dell’inaugurazione e la frattura si compone. In ogni caso, va sottolineato che non si tratta di bizze da primadonna, poiché le Biennali sono concepite come un meccanismo a rotazione, entro cui ogni mostra genera i presupposti finanziari per la successiva; perciò tutte le possibilità di sopravvivenza stan dentro i numeri attivi di un bilancio finale, non culturale, ma economico. Strettezze che accomunano tutte le più importanti sedi espositive della penisola, rendendo disagevole la convivenza. Si legge sui giornali veneziani, già in marzo: La sola cosa che può spiacerci si è che Firenze con questa Esposizione d’arte antica e con la primaverile d’arte moderna presieduta da Sem Benelli tenti di far passare in secondo ordine la XIII Biennale nostra. Speriamo che ciò non avvenga, e ciò non avverrà se la XIII Esposizione biennale provvederà a costituirsi “subito” un “attivo” e non ingenuo ufficio di stampa che lavori indefessamente come fanno a Firenze gli uffici delle Esposizioni accennate. Ciò non avverrebbe sicuramente se noi potessimo contrapporre alla mostra d’arte antica di Firenze la riapertura di Museo Correr in palazzo Reale [...].28
In effetti il problema della concorrenza – poco artistico e semmai commerciale e turistico – s’aggrava con il proliferare delle occasioni, innescando un’inevitabile competizione fra iniziative in qualche modo omologhe. In gioco ci sono non soltanto l’attenzione del pubblico, ma proprio i sopra menzionati finanziamenti governativi, esplicati in tre modi: riduzioni ferroviarie, sovvenzioni dirette e acquisti per la Galleria nazionale d’arte moderna. E se quest’ultima questione mette a confronto soltanto le diverse
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Vd. appunti e preventivi conservati in Ojetti 250, PVP 1, 1, I. Minuta di Ojetti al Sindaco di Firenze, in data 8 febbraio 1922 (Ojetti 250, PVP 1, 1, I). 28 La Mostra del ’6oo e ’700 a Palazzo Pitti, 17 marzo 1922. Purtroppo il ritaglio di giornale conservato in Ojetti 250, PVP 1, 1, I, non reca indizi della testata. 27
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tura la fine della stagione liberale. Ogni richiamo all’unità e all’orgoglio, in tale quadro, rischia di diventare fumoso, di assumere significati cangianti. La pressione e poi l’ascesa di Mussolini determineranno una crisi nel rapporto fra istanze culturali e governative: mutando la natura del soggetto di riferimento – non più meramente istituzionale ma ideologico – il rapporto Stato-intellettuali diverrà pericoloso. Siamo dunque al diapason che segna l’avvio della diaspora morale del paese. Così, accanto all’approssimativo magnificat di Grosso, sciorinato in primavera, già l’estate risuona di voci schierate e crudamente consapevoli. Ad esempio il giovane Sergio Ortolani, allievo di Pietro Toesca e Adolfo Venturi (e in seguito interprete convinto dell’antifascismo crociano), analizza pregi e difetti della parata di Pitti senza eccessiva indulgenza o aggressività. Ma, fatto un suo bilancio, conclude sibillino: Si batta pur grancassa circa l’influenza del paesaggio veneto su quello inglese e moderno, specie se si intende al Guardi: ma si calmino gli esaltatori di una problematica Arte Nazionale del 600 e del 700. La Storia della Pittura, dopo Caravaggio, diventa europea e ragionar di nazione, quando l’Italia era divisa in provincie straniere, è falso. Veri artisti abbiamo avuto; ma una unità concreta, una umanità d’accordo, un comun grido, no! Del resto che fa ciò? Nulla meno che l’Arte soffre le infatuazioni nazionalistiche, e se queste servono ai giornalisti di destra e ai rappresentanti del governo nei discorsi inaugurali, il critico d’arte non la beve. C’è altro, oggi, ripresa critica coscienza di noi stessi, da preparare ed affrettare: quella fusione di volontà e di spiriti che solleverà alla grande opera i nostri artisti, quella colleganza di giovani educati che perpetuerà la tradizione, quella unità di sentimento umano che sola costituisce, nella storia come nell’Arte, quella realtà che ha nome Nazione.102
E proprio qui sta il punto: se l’arte, nel suo stesso farsi, è libera di sprezzare il condizionamento ideologico, non altrettanto avviene per le attività organizzative che ne disegnano la pubblica fruibilità. Anzi è proprio la logistica, il cosiddetto “sistema delle arti” a costituire l’ospite ideale per incubare il virus della dipendenza politica. Non a caso già la solenne chiusura della mostra, il 6 novembre 1922, nove giorni dopo la marcia su Roma, vede l’onorevole Siciliani, sottosegretario di Stato per il settore, ricordare commosso «qual è il compito del nuovo Governo che si propone di tenere sempre alto il nome d’Italia in ogni campo dell’attività. Siamo poveri – dice – siamo poverissimi e ci proponiamo di cingere un triplice cordone francescano, ma faremo intero il nostro dovere»103. Inizia così un gioco delle parti in cui la critica vivrà una situazione discontinua e complessa.
102 S. Ortolani, Le mostre fiorentine, «Le cronache d’Italia», 6 luglio 1922, pp. 83-88: 88. Per una bibliografia di S. Ortolani vd. O. Morisani, In memoria di Sergio Ortolani, «Critica d’arte», XIV, 1949, 4, pp. 322 ss. 103 Ancora la cerimonia di chiusura della Mostra della Pittura del ’600 e ’700, «Unità Cattolica», 8 novembre 1922.
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1922. logica e logistica di un apparato barocco
Poco prima di Siciliani parla Ojetti, ancora prudente rispetto all’avvenuta “rivoluzione” fascista, sulla quale abilmente tace104. Della mostra si dice contento: l’obiettivo di rivalutare Sei e Settecento – e le sue autonomie regionali – è pienamente raggiunto e anzi, nel riallacciarne la storia al Rinascimento, si è affermata la libertà e la sincerità dell’arte italiana d’ogni tempo105. Non accenna, ovviamente, all’impulso dato alle mode del mercato, antiquario e non; preferisce sottolineare come – trovata per Tiepolo e Guardi «un’ascendenza diretta e sicura fin nel cuor del Seicento» – l’esposizione abbia ripristinato il nesso fra Rinascimento e Novecento, marcando la continuità della tradizione italiana fin sulle soglie del presente:106 E finalmente ultima conclusione e ultimo vantaggio della Mostra, è stato il conforto che essa ha dato ai pittori viventi: e dico viventi non solo per dire di quei pittori che respirano e camminano, ma per dire di quelli che operano, che anzi adesso tornano ad operare con rispetto della tradizione, con amore dei loro antichi, felici di trovare in Italia, di trovare anche in questi due secoli d’arte italiana, guide e maestri ben più sicuri e più saldi di quelli che per seguire la moda essi andavano a cercare oltremonte. Le visite e i consensi più cari ci sono stati insomma quelli dei pittori. Chi si è innamorato del calmo equilibrio di Guido Reni, del “dolce Guido”, e chi dei nervosi capricci del Magnasco; chi della grassa pittura di Luca Giordano nei suoi quadri d’erbe e di frutta e chi del modellare caravaggesco a colpi e rimbalzi e scivoli di luce. Ma il fatto si è che una verità è apparsa a tutti, senza contestazione: che lo sforzo dell’Ottocento è stato di ricongiungersi al Settecento dopo il lungo e freddo riposo dell’Accademia neoclassica. E se adesso la moda volge a una più piena e semplice costruzione dei corpi, anzi di tutto il quadro, è utile imparare da questi maestri la perfetta conoscenza dell’arte, l’equilibrio tra ragione e fantasia, tra fantasia e verità, tra originalità e tradizione, e la volontà di parlar chiaramente a tutti, non solo, per geroglifici e criptogrammi, agl’iniziati.107
Il catalogo, curato da Nello Tarchiani, conosce due edizioni cui si aggiungerà presto un volume patinato, con la riproduzione di trecento opere e l’introduzione di Luigi Dami108. Passando poi ai numeri, l’impresa vanta 104 Segna nondimeno nei suoi taccuini: «Forse siamo davanti a un’eclissi della libertà». E ancora: «C’è tanto ardore e tanta passione nei più di questi giovani e tanta volontà di bene nei più dei loro capi, e la stupidità del parlamentarismo è da tanti anni tanto disgustosa e in tanti scritti io l’ho tante volte derisa e bollata, che bisogna aspettare per giudicare» (Ojetti, I Taccuini..., cit., pp. 104-105). 105 «Il Barocco insomma, anche in pittura come in architettura non è la decadenza e la contraddizione al Rinascimento: è la sua logica conclusione, meglio è un ritorno, come nel primo Rinascimento, alle scuole provinciali, alle varietà regionali, agl’incancellabili e liberi e singolari caratteri della vita ideale d’ogni nostra città che, ad ogni epoca di resurrezione e di vigore, formano i cento petali del fiore dell’arte nostra. E la constatazione di questo risorto regionalismo sarebbe la terza tesi che adesso si può dedurre da questa mostra. La quarta è il riconoscimento della sincerità del nostro Seicento». Ojetti 250, Mss 1, 2, b. 8, c. 21. Ricordo sempre il parallelo Ojetti, La mostra della pittura italiana del Seicento e del Settecento. Relazione... (1922), cit., pp. n.n. 106 Ivi, c. 23 e Relazione..., cit. 107 Ivi, cc. 23-24 e Relazione..., cit. 108 U. Ojetti, L. Dami, N. Tarchiani, La pittura italiana del Seicento e del Settecento alla Mostra di Palazzo Pitti, Roma, Bestetti e Tumminelli, 1924.
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capitolo terzo
un attivo di duecentoquarantamila lire, nonostante le pochissime agevolazioni ottenute rispetto alla Biennale veneziana. Un reale aiuto e sostegno è invece venuto dal pubblico e dal Comune di Firenze, a dimostrazione «di che propaganda morale e politica è, pel nostro paese, l’arte, il rispetto dell’arte, l’esaltazione dell’arte come documento della civiltà d’un popolo, come garanzia della sua civiltà avvenire»109. L’ampiezza degli effetti, non solo scientifici110 ma soprattutto divulgativi, è ben chiara. Crocianesimo, purovisibilismo, avanguardia, tradizioni, metodo critico, nazionalismi, regionalismi: l’abbecedario di un sistema delle arti in piena trasformazione è stato sciorinato al grande pubblico, con uno sforzo chiarificante forse inedito. E, per Ojetti, questa è senza dubbio la vittoria più grande: il trionfo della critica nella sua funzione mediatrice ed educativa, vissuto come una palingenesi e forse anche come una sfida disciplinare, trasparente e visibile. Egli stesso, abitualmente refrattario alle disquisizioni e agl’intarsi dottrinali, si concede, in sede di consuntivo, una personale, soddisfatta fantasia, che suo malgrado risente della spinta crociana: Mentre noi vedevamo questi dipinti, uno da Parigi, uno da Roma, uno da Londra, uno da Venezia, ecco ritrovarsi nella stessa sala e nella stessa luce, figli d’uno stesso padre che dopo uno, due, tre secoli tornavano sotto uno stesso tetto, faccette d’un solo diamante, tratti d’un solo volto, sogni della stessa fantasia, pensieri della stessa mente, delicatezza dello stesso occhio, pennellate della stessa mano, ci pareva talvolta che al nostro lavoro presiedesse qualcosa di più vivo anche del nostro amore per l’arte, della nostra devozione a Firenze: lo spirito stesso dell’artista, la sua presenza ideale come quella d’un dio sul suo altare che, pietra a pietra, noi gli ricostruivamo; e un poco anche la riconoscenza di lui, tanto lontano e tanto vicino, pel fervore della nostra pietà e della nostra fede. E nessuna lode ci è poi stata così dolce quanto quei fuggevoli colloqui con le ombre.111
109
Ojetti 250, Mss 1, 2, b. 8, c. 21., c. 30 e Relazione..., cit. «Non mi perdo nel gioco infinito delle attribuzioni. Chi voglia vedere di quanto sicuro e durevole profitto sia stato per gli studiosi d’arte l’esame diretto e il confronto da vicino di tante opere quante quelle che abbiamo qui riunite, esamini, numero per numero, le due edizioni del nostro catalogo» (Relazione..., cit.). 111 Ibid. 110
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illustrazioni
Crediti fotografici Figg. 1-8: da C. Anti, La scultura negra, «Dedalo», 1921, I, III, p. 592-621 Figg. 9-24: da Il concorso del Giardino Italiano a Firenze, «Architettura e arti decorative», XI, luglio 1931, pp. 533-546 Figg. 25, 26: da P. Solari, Estetica razzista, «Pan», II, 1, 1° gennaio 1934, pp. 262-269 Figg. 27-30: da U. Ojetti, Andreotti e il ritratto, «Pan», II, 6, 1° giugno 1934, pp. 191-202 Figg. 31, 32: da E. Cecchi, Pittura italiana dell’Ottocento, Milano, Hoepli, 1938 (nuova edizione), tavv. 98, 112 Figg. 33, 34: da Exposition de l’Art Italien de Cimabue à Tiepolo. Catalogue, Paris, Petit Palais, 1935 Figg. 35-43: da N. Tarchiani, L’arte Italiana al Petit Palais, «Pan», III, 8, 1° agosto 1935, pp. 550-559 Figg. 44-46: da Mostra Medicea, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Medici, 1939), Firenze, Marzocco, 1939 Fig. 47: da Mostra del Cinquecento Toscano, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi, aprile-ottobre 1940), Firenze, Marzocco, 1940
Avvertenza Le didascalie qui pubblicate riproducono quelle originali.
Contro l’avanguardia: argomenti visivi 1. Idolo dei Baluba (Catanga), Roma, Museo etnografico
6. Feticcio raccolto nell’Alto Ogoué (Gabon), Roma, Museo etnografico
7-8. Idoli arcaici dei Bamba (?) (Angola settentrionale), Roma, Museo etnografico
Il Concorso del Giardino italiano legato all’omonima mostra fiorentina del 1931 9. Arch. Ferdinando Reggiori, progetto per un giardino pubblico italiano, primo premio ex aequo, assonometria
10-11. Giulio Minoletti e Alberto Cingria, progetto per un giardino pubblico italiano, primo premio ex aequo, pianta e dettaglio prospettico del viale d’ingresso
19-20. Arch. Tomaso Buzzi e Carlo Bruno Negri, progetto per un giardino privato, menzione onorevole, assonometria dell’assieme e dettagli
21. Mario Chiari, progetto per un giardino privato, menzione onorevole, assonometria
Passione per la scultura, passione per il ritratto 27. L. Andreotti, Lo scultore Granucci (1924) 28. L. Andreotti, La Marchesa Ada Niccolini di Camugliano (1917)
29. L. Andreotti, Il pittore Aldo Carpi (1924) 30. L. Andreotti, Paola Ojetti (1932)
31. T. Signorini, Convalescente, Collezione Ojetti, Firenze
32. D. Trentacoste, Madame Herbillon, Collezione Ojetti, Firenze
37. I Prigioni e il Tondo di Michelangiolo 38. L’angolo di Antonello da Messina
39. La vetrina dei cristalli di rocca 40. La vetrina delle maioliche
46. Copertina del catalogo della Mostra Medicea, Palazzo Medici, Firenze 1939 47. Copertina del catalogo della Mostra del Cinquecento Toscano, Palazzo Strozzi, Firenze, aprile-ottobre 1940
iv. 1922-1925. arte decorativa e critica applicata
Monza Il lavoro di squadra egregiamente svolto per Firenze fra 1911 e 19221, accredita il gruppo toscano anche presso altre, nascenti sedi espositive. La più interessante è senz’altro Monza, dove, dopo la fondazione dell’Università delle arti decorative, è in gestazione una parallela mostra periodica. È bene ripetere alcuni dettagli, relativi all’iter che avvicina Ojetti a simile iniziativa. Al tempo delle esposizioni universali di Torino (1902) e Milano (1906) anche l’Italia aveva preso atto dell’attiva potenzialità estetica insita negli oggetti d’uso. E, come s’è accennato, Ugo lungamente s’era occupato del problema, con ampie promenades critiche affidate al «Corriere» e in alcuni casi raccolte in volume. Inoltre, nel 1906, cioè all’epoca della nomina di Corrado Ricci alla Direzione Nazionale Antichità e Belle Arti, aveva presentato ai lettori una sua precisa mozione, indicando nella separatezza degli istituti d’arte decorativa2 dalle accademie di belle arti, uno dei più gravi ostacoli al progresso del settore3. Con ciò aveva ottenuto di vincola1 Inserirei all’attivo di tale bilancio anche l’opera, svolta dal gruppo sui notiziari di riviste d’arte specializzate. A titolo d’esempio ricordo la ricchezza delle informazioni fiorentine in periodici come «Pagine d’arte». Vd. Nezzo, «Pagine d’Arte»..., cit. 2 Vd. supra. 3 «Quando si sarà pensato all’arte antica e medievale, si dovrà pur pensare all’arte moderna. Le accademie e gli istituti di belle arti, come sono ordinati oggi, rappresentano un danno non un vantaggio alla cultura artistica nazionale. I loro regolamenti medievali contraddittori e spropositati soffocano gli studenti. [...] Soli in Europa noi seguitiamo a tener separate le scuole d’arte decorativa dalle scuole di belle arti, tanto separate che il ministero di belle arti ne ignora l’esistenza e se ne occupa il ministero dell’agricoltura coi risultati che ogni esposizione d’arte industriale viene mostrando e che ogni industriale d’arte può narrarvi ridendo», (U. Ojetti, Dopo la nomina di Corrado Ricci, «CdS», 4 settembre 1906).
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capitolo quarto
re la creatività liminale – l’oggettistica di pregio – ai problemi formativi della gioventù artistica. E in tale ambito, nel 1911, aveva fatto un ulteriore passo in avanti: diventando «rappresentante del Ministero di Agricoltura, industria e commercio nel Consiglio dirigente della R. Scuola professionale delle arti decorative industriali di Firenze»4, approdando, di fatto, là dove progettualità amministrativa e prassi d’insegnamento s’incontrano. Negli anni immediatamente successivi, però, tanto impegno per le industrie artistiche era rimasto quasi sospeso, eccezion fatta per qualche articolo occasionale, interamente modulato sul pregresso5. Era stata la Grande Guerra a dargli nuove motivazioni, per la sollecitazione sinergica attivata dal connubio arte-violenza. Dopo l’armistizio, dunque, come membro della Regia Commissione d’inchiesta, istituita da Orlando per determinare i danni a uomini e cose, aveva ribadito la rovina patita dalle «decine di migliaia d’oggetti d’uso casalingo, in città e più in campagna, i quali per tradizione e per gusto venivano costruiti ed adornati con un’arte popolare, rozza di forma e di colore, ma tipica»6. La distruzione veniva ricondotta ai nodi fondamentali del suo pensiero in materia, considerata cioè tanto più grave per la mancanza di musei dedicati: «A Venezia, a Milano, a Torino – scriveva – qualche cosa s’è raccolto nei musei comunali, ma d’arte nobile e ricca: assente il Governo. I più bei musei d’arte decorativa popolare s’incontravano invece – perché non s’ha da dire se è la verità? – proprio in Ungheria e in Austria, cominciando da Graz: scuole per i ladri»7. Nei suoi nuovi ragionamenti spiccava l’assorbimento del prodotto di manifattura popolare nella più nobile categoria del decorativo, secondo un modello d’incremento di valore innescato proprio dalle richieste di risarcimento al nemico8. È in tale corrente di pensieri – come ricordavo – che i progetti per una Mostra dei Mobili e un’altra di Moda erano stati inseriti nell’elenco delle auspicate Biennali d’arte antica; e sempre in tale gioco egli tornava a riflettere sull’Arte che s’insegna9, cioè sul senso delle scuole d’istruzione artistica. Una volta di più la sua logica era tutta organizzativa e nemmeno si poneva il problema dello stile, arrivando persino ad apprezzare l’operato di coloro che in altri tempi aveva definito barbari, soltanto perché economicamente vitale. Anche i pochi articoli dedicati alla questione nel 192010, confermavano questa nuova linea. Sia pur tornando a diffidare della diffusa opzione critica che innestava la ricerca del moderno sull’arte popolare, 4 Vd. il decreto di nomina firmato dal ministro Nitti, in data 16 agosto 1911, ms., conservato in Ojetti 250, PVP 1bis, 2, 1, c. 6. 5 Ad esempio U. Ojetti, L’arte paesana in Italia, «CdS», 23 novembre 1913. Si tratta della recensione al volume Peasant Art in Italy, suppl. a «The Studio», [1913]. 6 U. Ojetti, Bellezze perdute, «CdS», 24 marzo 1919. 7 Ibid. 8 Prima della guerra aveva relegato l’arte paesana al ruolo ancillare di brutta copia delle auliche espressioni cittadine e cortigiane. Vd. infra. 9 Vd. supra, p. 28, nota 69. 10 U. Ojetti, Vetri antichi, rubrica “Libri d’arte”, «CdS», 23 gennaio 1920; Id., L’arte in campagna, «CdS», 21 febbraio 1920, pp. 1-2; Id., L’Italia nel bujo, «CdS», 22 settembre 1920.
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1922-1925. arte decorativa e critica applicata
il giornalista reclamava concentrazione sugli aspetti pratici della questione: la necessità, ad esempio, di legare la crescita delle esportazioni italiane alla vitalità culturale della nazione. Così, piangendo il colpevole naufragare della nostra partecipazione all’Esposizione d’arte decorativa moderna, organizzata dalla Federation of Art degli Stati Uniti d’America nel 1920, commentava senza mezzi termini: Ancora oggi non riusciamo a persuaderci che alla penetrazione commerciale giova sopra tutto la penetrazione dell’arte, della cultura, magari della moda; che cioè a vendere all’estero macchine agricole o tessuti di cotone o automobili giovano proprio le così dette frivolezze dei concerti di musica, degli spettacoli teatrali, delle mostre d’arte pura e d’arte decorativa, dei tornei di scherma, delle gare di volo o di corsa, magari dei discorsi di filosofia o di morale tenuti con dignità e buon successo dai cittadini della nazione esportatrice nel paese in cui quei prodotti industriali devono essere importati.11
La spregiudicatezza di tali orizzonti, sganciati dal nesso artistico originario, è pienamente evidente oggi: la cultura conservata, studiata, valorizzata e spesso salvata in nome del “ritorno” che è in grado di offrire, è uno dei miti più vividi e sconcertanti della nostra contemporaneità. Ecco, il pragmatismo ojettiano se ne può considerare l’incunabolo. Ulteriormente maturato fra le pieghe della propaganda bellica, ha ormai retrogusto pubblicitario, restringe gli spazi delle battaglie estetiche per imporre l’urgenza del fare. Questo, precisamente, è l’Ojetti che partecipa al Congresso indetto nel 1922 dalla Famiglia Artistica di Milano, in preparazione alla prima Biennale di Monza. L’ovvia unità di intenti che lo avvicina al direttore della Società Umanitaria, Augusto Osimo, non deve distrarre dalle assonanze che lo legano al giovane Roberto Papini12, a sua volta coinvolto nel progetto. Quest’ultimo da tempo subisce l’influsso del corrierista: lo troviamo infatti, nel 1921, a esaltare il ritorno alla bottega, argomentando che «in arte tornare alla tradizione non significa imitare le forme esteriori dei nostri antichi, saccheggiare di nascosto e in palese i loro vecchi stili; significa ricreare in noi lo stato di preparazione e di grazia cui i nostri antichi erano giunti»13. Ma soprattutto è convinto che in passato «l’artista nasceva dall’artiere»14. Non è dunque un caso che il terzetto Osimo-Papini-Ojetti, al congresso fondativo della Biennale monzese15, proponga all’ordine del giorno
11
Ojetti, L’Italia nel bujo..., cit. Per note biografiche e bibliografiche esaurienti rinvio a Cronache di Architettura 1914-1957. Antologia degli scritti di Roberto Papini, a cura di R. De Simone, Firenze, Edifir, 1998. 13 R. Papini, Dall’artiere all’artista, Conferenza tenuta a Milano per invito dell’Università Popolare, il 13 marzo 1921, «La Coltura popolare», X, 5, 1921, ora in Cronache di Architettura..., cit., pp. 18-25: 20-21. 14 Ibid. 15 Agli esordi della composita esperienza monzese R. Papini dedicherà Le arti a Monza nel 1923, Bergamo, IIAG, 1923. La vicinanza fra Papini e Ojetti trova riscontro anche nell’impegno di quest’ultimo per il discorso inaugurale La Università delle Arti decorative in Monza, Monza, Tip. della scuola del Libro, 12 novembre 1922, pp. 13-14; concettualmente tale testo è un calco di L’arte che s’insegna... (1919), cit. È stato riprodotto da F. De Giacomi in R. Bossaglia, 12
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capitolo sesto
spazio sempre più piccolo perché contenga il più di stanze e di comodità che in quella angustia si possa. L’architettura è un’altra cosa.68
L’ambito pratico dell’azione professionale, un sostrato sindacale cui richiamarsi per comporre i dissidi, insomma la ragione comune del costruire è ciò che manca a Ojetti per integrarsi alla duttilità della prassi piacentiniana, che, con il 1932, s’arricchirà dell’incarico di coordinare personalità espressive diverse nei lavori per la Città Universitaria di Roma. L’anno seguente, il loro sodalizio naufragherà sul concorso per la stazione di Firenze69.
68
U. Ojetti, Ancora sulla nuova Berlino, «CdS», 7 agosto 1931. Nel 1933, infatti, i due si ritrovano – assieme a Marinetti, Cesare Bazzani e Armando Brasini – nella commissione giudicatrice del concorso per la stazione di Firenze. Ojetti sin dal 1932 aveva approvato, con poche perplessità, per lo più relative ad alcune demolizioni non strettamente necessarie, il progetto presentato da Angiolo Mazzoni per conto del Ministero delle Comunicazioni (U. Ojetti, La nuova stazione di Firenze, «CdS», 15 luglio 1932). Quest’ultimo tuttavia, date le crescenti proteste, su pressante richiesta del Sindacato nazionale degli Architetti aveva bandito un concorso. Al momento della decisione proprio Piacentini, trascurando l’opinione del giornalista, ottiene la vittoria del gruppo toscano capitanato da Michelucci. Ojetti lo recensirà freddamente, assieme agli altri progetti e alle motivazioni dei giudici, ne Il concorso per la stazione di Firenze, «CdS», 10 marzo 1933. Con ogni probabilità, proprio da qui nasce la celebre polemica sulle colonne e gli archi che è, in sostanza, una estrinsecazione del dissidio interno alla commissione. Essa prende avvio da U. Ojetti, Lettera a Marcello Piacentini («La Tribuna», 31 gennaio 1933, poi «Pegaso», V, 2, febbraio 1933) e si dipana infuocata fra il quotidiano e il mensile in febbraio e marzo (vd. Lupano, Marcello Piacentini..., cit., p. 174, nota 26), coinvolgendo progressivamente anche altri interlocutori, fra i quali Bontempelli. Viene poi ripresa e quasi integralmente riprodotta sul fascicolo di «Casabella» del febbraio 1933. Vd. E. Crispolti, Il mito della Macchina e altri temi del Futurismo, Trapani, Celebes, 1969, pp. 639-641 e Barocchi, Storia moderna dell’arte in Italia. III..., cit., pp. 228-237, con antologia. 69
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vii. 1932-1936. i «commentaires vivants» fra madrid e venezia
Una nuova figura professionale Conviene oramai chiudere le divagazioni sulla mostra del 1931, con una postilla. Pur nel tentativo di domare lo stile moderno, nemmeno quest’ultima “Biennale” perde di vista la realtà e i bisogni di Firenze, né, tanto meno, il progetto di rifondare l’idea stessa di allestimento espositivo. Ojetti, a partire dal 1914, era stato membro della Commissione per il recupero e l’arredo dei Quartieri Monumentali di Palazzo Vecchio1. Intervento, quest’ultimo, ispirato dalla ricostituzione dello studiolo di Francesco I, a sua volta iniziato con i proventi della “Mostra del ritratto” e, nel 1931, vicino a concludersi. Non a caso il quartiere del Mezzanino, ormai restaurato benché ancora privo di mobilio e suppellettili, era stato incluso nel percorso di visita dedicato al “Giardino italiano”. Scorrendo il catalogo della mostra un particolare colpisce: l’apertura d’ogni sezione è affidata alla descrizione dei locali e non ai pezzi esposti, che seguono umilmente. Prassi già accreditata in precedenza, ma sempre gestita in sordina: anche la Mostra del 1911 aveva infatti appaiato contentore e contenuto in proficuo dialogo, riservando però alle sale storiche un breve trafiletto e non lunghe pagine, come in quest’ultima occasione. Qui la virata si avverte con chiarezza: d’ora innanzi, proprio sul recupero degli ambienti storici alla pubblica fruibilità, Ojetti concentrerà i propri sforzi di curatore. Dopo il 1931, nelle esposizioni antiquarie – ormai cadette ma organizzate pur sempre a Firenze – il lievito comparativo/valutativo rispetto alla 1 Con lui Guido Carocci, Enrico Lusini, Francesco Gioli e Alfredo Lensi, responsabile dell’Ufficio Belle Arti di Firenze.
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capitolo settimo
modernità sarà ridimensionato e laddove ancora gli allestimenti manterranno un nucleo caldo e generativo, ne verranno esiti ideologici più che artistici. Comunque, in omaggio all’ormai rilevantissimo ruolo di mediatore fra Firenze e lo Stato, il critico s’impegna su sempre nuovi fronti. Sin dal 1932 è presidente della prevista “Mostra della liuteria italiana antica e moderna”, con sede in Palazzo Vecchio. La manifestazione dovrebbe abbinarsi al primo Maggio Musicale Fiorentino, previsto per il 1933, con relativo congresso internazionale. Dai suoi Appunti2 apprendiamo che le sono assegnate otto stanze del quartiere di Leonora (già dei Priori) ove esporre liuteria antica e moderna, «stampe rappresentanti strumenti, concerti, ecc. (da affidarsi all’Istituto del libro)», quadri e arazzi, nonché libri italiani e stranieri sul medesimo tema3. Il percorso composito, profittando di materiali differenti, moltiplica il target di fruizione. Fra i commissari previsti in un primo momento, troviamo i soliti Poggi e Tarchiani, Alfredo Lensi e alcuni musicisti. Si sperano prestiti da numerosi musei e conservatorî, anche esteri. I lavori proseguono fin quasi al compimento, come attestano alcune lettere datate dicembre 1932, ma all’ultimo ragioni di indole finanziaria fan sperare in un rinvio della manifestazione alla successiva edizione del Maggio4. A prescindere da fallimenti e recuperi, importa qui notare la crescente onnipresenza di Ojetti, che, attraverso la continua dilatazione delle proprie prospettive organizzative, si presenta sempre più come interprete o mediatore globale del sapere. Verso la metà degli anni Trenta, il suo profilo professionale evolve: come Accademico d’Italia e membro del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, nonché di infiniti comitati di coordinamento e controllo amministrativo è, sempre più, un supervisore e un oratore di Stato. E se le capacità più comunemente accreditategli rimangono quelle di giornalista e censore delle arti, non si può negare che i suoi persistenti interessi fiorentini, i contatti con le gallerie private milanesi e con la Chiesa, i rapporti con il governo e con il côté culturale internazionale, ne facciano un vero curator, prefigurando professionalità del terzo millennio. Riesce infatti a gestire una sorta di polimorfismo disciplinare, obbligandosi a interagire con ambienti, strumenti, occasioni differenziate: il tutto sempre sperando, talora invano, di mantenere stabili alcuni dei suoi tradizionali obiettivi. La duttilità nell’affrontare l’esistente e nello strutturare situazioni è ciò che ha da offrire al mercato del lavoro intellettuale fascista; la possibilità di palesare con diverse modalità una propria idea dell’Italia (e con essa dell’arte,
2
Appunti per la mostra di liuteria antica e moderna, ds. (Ojetti 250, PVP 1, 14). Ibid. 4 Nel Verbale della seduta del 21 febbraio del 1933 del Comitato per la Mostra Liuteraia (cc. 62-69), Ojetti rinvia, a seguito di una lettera dell’On. Delcroix, la mostra alla seconda edizione del maggio (Ojetti 250, PVP 1, 14). Su quest’ultimo vd. 1933-2003 Le ragioni di un Festival. Nascita e ambiente culturale del Maggio Musicale Fiorentino, atti del convegno (Firenze, Gabinetto G.P. Vieusseux, 10-11 maggio 2003), a cura di M. Bucci, G. Vitali, Firenze, Polistampa, 2004 (“Antologia Vieusseux”, 28). 3
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1932-1936. i «commentaires vivants» fra madrid e venezia
del sentimento nazionale, della storia) è ciò che spera, in cambio, dal sistema culturale imperante. Dunque, da un lato, giornalismo pluritematico, svelto a coprire qualsivoglia area della Terza pagina; e, su un versante altro ma complementare, agguerrita tecnica e logistica delle esposizioni, variamente orientate. Muséographie È forse anche per questo che, nel 1934, proprio Ojetti – e non il direttore di qualche grande Pinacoteca – è accreditato fra i rappresentanti dell’Italia al Congresso internazionale di museografia di Madrid5. Da tempo vicino agli organismi culturali filiati dalla Società delle Nazioni, egli va a illustrare il nuovo compito che il patrimonio artistico italiano s’è visto progressivamente costretto a ricoprire nel corso del Ventennio: quello di agente mediatico6. E poiché di esso il museo – attempato garante della conservazione e della pubblica fruizione – rimane estrinsecazione rigida, se ne forzano i chiavistelli presentando trionfalmente in Spagna la nostra dilagante pratica delle esposizioni temporanee, più adatte all’instabilità di tempi e mezzi. Non ci si fermi alle apparenze; perché la particolarità non sta nel modello base – la mostra – in sé anodino, ma nelle dimensioni qualitative e quantitative ch’esso – anche grazie a Ojetti – ha assunto, cioè nella capacità di proporre alla fruizione assemblaggi d’opere pari, in valore e densità numerica, alle collezioni permanenti nazionali7. Solo così si può attrarre un pubblico sempre più vasto: Les galeries, musées et expositions ont trois sortes des visiteurs : ceux qui s’y rendent pour pouvoir dire qu’ils y ont été ; ceux qui les visitent pour connaître le passé et vivre un instant parmi des personnages, parmi des costumes, ob-
5 Muséographie. Architecture et aménagement des musées d’art, Conférence internationale d’études (Madrid 1934), Société des nations, Office international des musées, Institut international de coopération intellectuelle, 2 voll., Paris 1935. Accanto a Ojetti sono Roberto Paribeni (archeologo, direttore delle Antichità e Belle Arti sino al 1933 e ora membro dell’Accademia Reale d’Italia; in realtà assente affida il suo discorso a Ettore Modigliani) e Amedeo Maiuri (archeologo e direttore del Museo Nazionale di Napoli); escluso dalla partecipazione (ma segnalato negli atti per il suo riordino della Galleria Sabauda di Torino) troviamo Guglielmo Pacchioni. Sull’esclusione vd. A. Gallizi Kroegel, The Journal Mouseion as Means of Transnational Culture. Guglielmo Pacchioni and the Dawn of the “Modern Museum” in Italy, in The Museum is Open. Towards a Transnational History of Museums 1750-1940, hg. v. A. Meyer, B. Savoy, Berlin, De Gruyter, 2014, pp. 89-100. La letteratura in merito è ormai piuttosto articolata: M. Dalai Emiliani: “Faut-il brûler le Louvre?” Temi del dibattito internazionale sui musei nei primi anni ’30 del Novecento e le esperienze italiane, in Per una critica della museografia del Novecento in Italia. Il “saper mostrare” di Carlo Scarpa, Venezia, Regione del Veneto - Marsilio, 2008, pp. 13-49; M. Nezzo, Museen und Museumspolitik im faschistischen Italien in den 1930er Jahren, in Museen im Nationalsozialismus. Akteure - Orte - Politik, hg. v. T. Baensch, K. KratzKessemeier, D. Wimmer, Wien-Köln-Weimar, Böhlau Verlag, 2015, pp. 83-99. 6 Illustrerà, per converso, i lavori madrileni in U. Ojetti, Ogni Museo a modo suo, «CdS», 21 novembre 1934, poi in Id., Ottocento Novecento..., cit., pp. 209-216. 7 Che tale paradigma sia stato esportato nel contesto europeo, se non altro per la rilevanza dei prestiti internazionali e soprattutto a partire dal 1922, è dimostrato. Ne accenna Haskell, The Redirection..., cit., pp. 130-131.
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antologia
L’Avv. Bellomi espone l’idea di pubblicare un catalogo in italiano e in tedesco con le foto di tutte le opere esposte. Il Dr. Briebach è senz’altro d’accordo. Gli artisti tedeschi discutono quindi fra loro l’opportunità di porre limiti minimi di grandezza alle opere da esporre per il tema di pittura storico-politico: essi decidono sui tre metri quadrati come minimo. L’Avv. Bellomi trova interessante la proposta, e assicura che anche i pittori italiani saranno invitati ad attenersi a tale norma. Si conviene poi di non dare alla stampa alcun comunicato circa i risultati del convegno prima della approvazione delle rispettive superiori Gerarchie. L’Avv. Bellomi considerato che tutti gli argomenti della discussione possono ritenersi esauriti suggerisce di inviare due telegrammi di omaggio uno al Dr. Goebbels e uno all’Ecc. Farinacci. I presenti plaudono alla proposta. La seduta ha termine alle ore 18.30. **** In un incontro successivo svoltosi il giorno 26 febbraio 1942 tra il Dott. Briebach e l’Avvocato Bellomi venne così fissato l’ammontare premi. Per il tema di pittura storico-politico 1° premio ex aequo italiano ...... ₤ 75.000 1° premio ex aequo tedesco ....... RM 10.000 2° premio ex aequo italiano ....... ₤ 55.000 2° premio ex aequo tedesco ....... RM 7.500 3° premio ex aequo italiano ...... ₤ 35.000 3° premio ex aequo tedesco ...... RM 5.000 Per il tema dei ritratti 1° premio ex aequo italiano ...... ₤ 35000 1° premio ex aequo tedesco ....... RM 5000 2° premio ex aequo italiano ....... ₤ 25.000 2° premio ex aequo tedesco ....... RM 3.000 A disposizione della giuria per premi minori da parte italiana ₤ 25.000 da parte tedesca RM 4.500
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Finito di stampare nel mese di dicembre 2016 per conto della casa editrice Il Poligrafo presso la Grafica & Stampa di Vicenza