Paesaggio con ombre in un interno

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poligrafie

voci, storie, narrazioni

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Spomenka Š timec

PAESAGGIO CON OMBRE IN UN INTERNO

traduzione dall’esperanto di Carlo Minnaja e Giulio Cappa

ILPOLIGRAFO

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in copertina Carl Vilhelm Holsøe, At The Window, 1900

Copyright © maggio 2018 Il Poligrafo casa editrice srl 35121 Padova piazza Eremitani – via Cassan, 34 tel. 049 8360887 – fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it ISBN 978-88-9387-056-6


INDICE

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Prefazione Carlo Minnaja

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PREFAZIONE Carlo Minnaja

Le pagine che seguono raccontano la fine di un amore; amore coraggioso, perché difficile fin dall’inizio, per la diversità di cultura, di lingua, di abitudini tra i due partner. Lui è reduce da un precedente matrimonio: i ricordi dell’esperienza passata toccano, pur se in maniera non invadente, anche questo nuovo rapporto che, stabile per vari anni, si va sgretolando; lei all’improvviso si sente sola, e comincia a percepire cosa resta di un uomo quando lui non c’è più. C’erano state, sì, delle avvisaglie, ma la porta non si era mai definitivamente chiusa. E adesso? Aggrapparsi ancora a una speranza? A un ricordo? A mille ricordi insignificanti, che irrompono nella nuova solitudine, quando si percepisce che invece proprio quella sicura routine era l’elemento essenziale del loro rapporto? Lo sfondo è il mondo esperantofono, dove è libera la comunicazione in una lingua neutra – senza sentirsi in una manifesta inferiorità dovendo parlare la lingua dell’altro, la “grande” lingua della quale, nonostante gli sforzi, non si riesce a sentirsi padroni allo stesso livello, mentre l’esperanto mette tutti sullo stesso piano. In questo mondo l’autrice è pienamente immersa, avendo fatto della cultura esperantista la sua professione: collaborazioni a riviste, partecipazioni a congressi, organizzazione di eventi, tendenza all’ospitalità che viene ritenuta ovvia, come è naturale tra i membri di una minoranza: minoranza esigua a livello planetario, ma fortemente coinvolgente, perché la prima interazione è proprio il poter comunicare, e la scelta dell’esperanto come mezzo di comunicazione non è casuale, ma insistita: significa aver voluto impiantare la relazione su una base di parità. Ma è sufficiente la parità linguistica? Riesce ad attu-

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PREFAZIONE

tire sufficientemente altre disparità? I matrimoni tra esperantisti sono davvero più stabili, o sono le separazioni a risultare più dolorose? Una volta finita quella parità ritorna la differenza, anche economica, tra chi proviene da un paese con una valuta forte e accettata ovunque e chi è schiacciato dalla situazione finanziaria mondiale, dove l’appartenenza ad un paese trascina nel baratro della vergogna, del “non poter pagare”, dell’insolvibilità. L’autrice volutamente non esplicita nomi di nazioni, ma il lettore che ricorda quanti decenni è durata la guerra fredda coglie sicuramente la realtà di certi sentimenti. L’insicurezza si manifesta nelle frasi spezzettate, nell’ascoltare una vocina che si atteggia a volte ad arrogante maestra di vita, a volte a nascosta complice, a volte a sorella compassionevole, a volte a irritante commentatrice estranea. Ma la situazione si evolve e la barca della vita da qualche parte porterà. Spomenka Š timec, nata nel 1949 nell’allora Jugoslavia, scrittrice di romanzi e racconti in esperanto e in croato, è stata tradotta in varie lingue. Paesaggio con ombre in un interno, il cui originale in esperanto è stato pubblicato nel 1984, è la prima traduzione in italiano di una sua opera.

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Mi sentivo un po’ come uno scotch usato che si vuole usare di nuovo ma non tiene più. Peggio ancora: mi sentivo come se mi stessero strappando via insieme a un mucchio di pulviscolo che mi ostacolava. – Perché lo hai permesso? Perché ti sei lasciata appiccicare così? – diceva una vocina cattiva dentro di me, mentre il nostro “noi” si scollava a forza dividendosi in un “lui” e un “io”. A forza? Non proprio. Io avevo bisogno di forza per staccarmi. Lui no. O molto meno. Era una sera senza corrente. Qualcosa non funzionava, ho cercato le candele al buio. Le ho trovate. E anche i fiammiferi. Lui stava seduto a tavola, pesante. Io ero inconsapevole, parlavo di banalità. Ha detto il mio nome e io ho lasciato le candele e mi sono girata verso di lui. C’era qualcosa di inquietante nella sua voce. Ho capito subito, terrorizzata. Ma non volevo crederci. Non avevo voglia di crederci. Ero nel corridoio mentre prendeva il cappotto. Ho guardato come ha infilato prima la manica destra e poi la sinistra. Volevo che il suo abbottonarsi durasse a lungo. Invece è finito subito. Non l’ho aiutato. Ha fatto due passi verso di me e mi ha abbracciato con superficialità. Naturalmente, ho fatto la cosa più vergognosa in questi casi: mi sono messa a piangere. Ho visto che due lacrime si sono infilate nella pelliccia della sua giacca – si è staccato in fretta e se ne è andato spedito. La porta si è chiusa. Ho sentito il cigolio delle sue scarpe, il portone che si è aperto e si è chiuso. So come cammina lungo la stradina davanti casa, e si volta e se ne va. Se ne va. A dire il vero, quella sera delle candele non era arrivata all’improvviso. Sentivo già da qualche tempo che stavamo scendendo lungo un pendio. Perché? Perché mai le storie finiscono?

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Mi sono ricordata di Tolstoj. “Tutte le famiglie felici si somigliano. Quelle infelici sono infelici ciascuna a modo suo”. – Adesso tocca a te essere infelice. Succede a tutti – ha generalizzato la vocina dentro che godeva a farmi male. Accomodati, prego. Strada in discesa. Quando andavo in montagna addirittura mi piaceva il momento in cui mi sentivo spinta dalla gravità verso il basso. Se ti piace, è una bella sensazione correre giù dalla montagna. Se non ti piace, i muscoli ti fanno male per lo sforzo di frenare. Io frenavo. Ma scendevo lo stesso. *** E adesso? La casa si era riempita di un silenzio che mi stringeva la gola. E adesso? E adesso? La stupida domanda cercava a tentoni un’uscita di sicurezza. – Torna in cucina. Comincia a fare qualcosa. – Qualcuno dentro di me dava ordini, dolcemente. – Ecco la cucina, spingi la porta. – Ho visto i piatti sporchi e ho pensato di lavarli. Ma a un tratto non sono più riuscita a stare in piedi. La tristezza mi ha piegato le caviglie e mi sono dovuta sedere sulla sedia più vicina. Più in là c’era il vuoto del suo posto vuoto. Ho aspettato qualche momento. Prima che il silenzio mi soffocasse è ritornata la vocina che ha detto ironica: – Avanti tutta verso l’infelicità! – Vedendo che restavo seduta ha capito che quel tono non faceva proprio al caso. Ma non ha chiesto scusa. – Cerca di muovere la testa a destra, adesso a sinistra. – Ho ubbidito. Non perché mi piacesse, ma per far vedere che mi sforzavo di collaborare. E mi ha incoraggiato ad alzarmi, e mi ha spinto al lavello pieno di piatti sporchi. Quando ho visto la sua tazza da tè mi sono arresa. Oppure è la vocina che si è arresa? Mettermi a letto? Telefonare a un’amica? La vocina era molto garbata. Prima credevo che sapesse solo essere ironica. Invece ha reso più completa l’oscurità della mia camera e ha lisciato senza stancarsi le lenzuola combattendo insieme a me

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contro l’insonnia e la veglia. In giro per la stanza abbiamo bevuto insieme dell’acqua. La mattina dopo avevamo tutte e due gli occhi cerchiati. Solo che i miei erano un po’ più violacei. *** Lui si è stancato della nostra convivenza. Io no. Ecco tutta la storia. Il mio stupido eterno sogno di contemporaneità: mentre lui..., io… Mentre lui batte a macchina le sue lettere, io lavo un maglione. All’improvviso quel “mentre” ha avuto come effetto il distacco. E io che cosa volevo? Che smettesse di scrivere e venisse a mettere le mani nel lavandino? Quattro mani nella schiuma. Era l’immagine che avevo della vita in comune, prima che cominciasse. Un mattino sul mio cuscino si è svegliato un estraneo. Il suo bacio ha penetrato solo lo strato più sottile della mia pelle. Ha cominciato a non esserci. All’inizio ha preso a sparire così. Dopo se ne sarebbe andato anche fisicamente. Avevo voglia di tornare a casa. Sono stata senza casa per così tanto tempo. Quando infilavo la chiave nella serratura sapevo già che avrei trovato la casa vuota. Negli ultimi tempi lui aveva voglia di andare in giro. E anche quando c’era, non c’era. Allora la vocina, per rallegrare la serata, ha proposto questa diagnosi: – Comincia a non esserci più! Ekmalĉeestas! 1 Senti che bella espressione. Sembra lingua azteca! – Mi hanno fatto un po’ ridere gli sforzi della mia vocina. Era quasi l’abbozzo di una carezza. Ma la battuta è durata poco. La tristezza ha trovato il modo di dilagare di nuovo: – Dove ho sbagliato? – chiedevo alla mia faccia nello specchio. E non riuscivo a ricordare niente. Il fatto che eravamo stati insieme per tanti giorni non mi aveva annoiata. Sei anni non mi erano bastati. Avrei potuto rifare gli stessi viaggi e incontrare di nuovo con lui le stesse persone.

1 Nella composizione di questa parola, formata da cinque radici significanti (est, essere; as, tempo presente; ĉe, prossimità; mal, contrario; ek, aspetto incoativo), è evidente la caratteristica agglutinante della lingua esperanto. L’autrice (tramite la vocina) avvicina con autoironia il termine da lei stessa coniato alle lunghe complicate parole della lingua atzeca.

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– Voglio andare a dormire! – ho detto con tono infantile. Mi ha coperto le spalle e con un fazzoletto si è dato da fare per asciugarmi gli occhi. Non abbiamo più parlato della cosa. Sembrava che mi fossi calmata. Al mattino era rimasta solo l’amara sensazione di qualcosa che non si può cambiare. *** Quando sono arrivata nella sua città mi ha detto che avrei conosciuto la sua ex moglie. Non ero granché curiosa. Sentivo un certo disagio, avrei preferito vederla da lontano per non dover parlare con lei. Non so perché, avevo un senso di colpa. Mi consolavo: c’era una volta una coppia felice che si è disfatta e ora ognuno ha diritto alla sua… Quello era l’incoraggiamento giusto per affrontare l’incontro. – Vuoi che andiamo a trovarla oggi? –, ha chiesto un pomeriggio. Non ha detto “lei”, ha detto il nome. Avrei preferito rispondere di no, ma ho accettato. Deve pur succedere, una volta o l’altra. Ho aspettato che si allacciasse le scarpe. La cosa non è durata molto. Ho sperato che lei non fosse in casa. Eravamo davanti alla casa di lei. Avevo in mano una bottiglia di vino mentre lui bussava alla porta. – Non sono in casa. – Mi sono rallegrata. – Prova ancora – ho detto. Forse per essere sicura? O invece, dato che ormai siamo venuti fin qui, che succedesse pure. Sollevata, ho camminato vicino a lui, mentre lasciavamo la strada. Che impressione fa incontrare la propria ex moglie? Nella conversazione non capiterà per caso la prima minestra di porri, preparata insieme un pomeriggio lontano? Quella minestra e quel pomeriggio appartengono solo a loro. Nessuno può condividerli. Il fatto che mi sia fissata su quel particolare è stato solo l’inutile tentativo di entrare nella sua vita prima che ci fossi io. Ho visto presso parenti una loro foto: stanno tagliando la torta nuziale. Lui ha un aspetto ridicolo, lei è bella. Tengono il coltello insieme. Un giorno stavo tornando da un negozio e lei era davanti alla nostra porta. Con un’amica. Ho capito subito che era lei. Ci siamo 40


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strette la mano, ci siamo detti i nomi. Per confermare che eravamo noi. Tutte e due con un accenno di sorriso. Le ho invitate a entrare, con il timore di fare errori di lingua. Quella lingua non sarà mai la mia. Dal suo primo giocattolo appartiene a lei. La misuro con gli occhi senza guardarla. Ha bei denti. È più magra di me. Mentre parliamo la sua “esse” stride un po’ alle mie orecchie. Ha i seni piccoli. Calze con strisce alle ginocchia, come una ragazzina. – Avete fame? –, per fortuna sono venute in due. Darle subito del tu? Porto una tortina al formaggio. Desidero che sia buona. Il formaggio fa buona impressione. Lei parla lentamente e a voce alta, come se io capissi meglio se parla forte. Io riempio le pause con un sorriso. Sul ripiano dello scaffale… l’album di fotografie. So che da qualche parte anche lei ha un album con estati simili e lo stesso uomo. Ogni tanto sorride e chiede dove è stata fatta la foto. Io elenco paesi e città. A chi non viaggia molto gli esperantisti sembrano persone molto intraprendenti. E ricche. Ma lo sono? Usciamo in giardino. Ci chiniamo sulle piante, commentiamo. Un insetto si arrampica sulla sua gamba, lei tira su la gonna per mandarlo via. Una vespa? Un’ape? Al vedere la sua coscia mi vengono in mente le mani di lui. – Vuoi metterci su un po’ di cipolla, se ti ha punto? – ho domandato per scacciare subito un’immagine di carezze che era apparsa all’improvviso. – Cipolla? Per cosa? – Da noi è un rimedio popolare per le punture d’ape. Ridiamo della saggezza popolare. Ci invita a casa sua. Sabato. Accetto. È simpatica. “Noi” dobbiamo andare da “loro”. Non ho voglia di dire che preferirei restare a casa. Senza ospiti. Quando lui ritorna la sera, lo aspetto sulla porta. – Ho conosciuto la tua ex. Ha bei denti e un aspetto interessante. – Non parlo della scena con l’insetto in giardino. – Perché vi siete separati, in realtà? Lui cerca di spiegarmi quell’“in realtà”. Non capisco, ancora no. Non c’è bisogno di capirlo, basta viverlo. 41


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Sabato penso ad alta voce se bisogna portarle dei fiori. Lui dice che non ce n’è bisogno. Impiego un po’ più del solito a scegliere che cosa mettermi. Lei ci aspetta. Io mi sento confusa. Non è come le solite visite del sabato agli amici. Esce dalla cucina con un barattolo. Si rivolge al suo compagno: – Vuoi aprirmelo? Lui lo apre senza dir parola. Lei ha una bella camminata mentre ritorna in cucina. Penso a quante volte Jan avrà aperto conserve per lei. Cena. Cerchiamo un argomento neutro e lo troviamo. Mentre mangio il secondo, la forchetta mi scivola due volte dalle dita. Nessun commento. L’argomento non era la goffaggine. Dopo il dolce ci sediamo in poltrona per ascoltare della musica. – Che cosa ti piace? Rispondo malvolentieri a questa domanda quando si tratta di musica. Per qualche motivo mi sembra indiscreta. Un cane, il coccolone di casa con un brutto nome, a un tratto mi passa vicino di corsa e con la coda mi rovescia addosso il bicchiere. Si mettono tutti a pulirmi. Lei porta uno straccetto umido e frega sulla macchia. Mi fa strano sentire la sua mano sul mio corpo. Dopo proviamo a cantare. Cos’è che sappiamo tutti? Niente. Vengo da un mondo con un altro repertorio. Allora lei comincia a cantare. Con una voce molto gradevole. Il mio sguardo fissa le sue dita sulle corde della chitarra. Cerca le parole, il testo se l’è in parte dimenticato. – Non te ne ricordi ancora un po’? Non si parlava di occhi? Jan non si ricorda. Davvero se l’è dimenticato? A un tratto lei ritrova il filo delle parole smarrite che si riannoda nelle nostre orecchie. Si parla di abbandoni, di un’attesa, della speranza di un ritorno. La canzone comincia a crescere su di noi e a riempire la stanza. Sono tutti imbarazzati. Nessuno aveva pensato a quel ritornello quando lei l’ha proposta. La chitarra ha smesso e la calma è tornata. Abbiamo tutti uno strano sorriso sulla faccia. Ce n’è voluto un po’ prima di riuscire a trovare un nuovo argomento di conversazione. Una volta trovato, me lo sono tenuto stretto per scongiurare un’altra deviazione.

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Dopo poco Jan ha guardato l’orologio. Abbiamo salutato e ci siamo avviati verso casa. – Non è stato nemmeno così terribile! – ho detto rompendo il silenzio. Solo adesso mi ha abbracciato. Mi sono intristita senza motivo. Stava per piovere. Aprire un ombrello su un amore perché non si bagni. *** Ho aperto l’ombrello e l’ho tenuto con attenzione per evitare di bagnarmi. Mi ha impedito di camminare? Non so perché un po’ di pioggia è passata, la mano che teneva l’ombrello ha cominciato a gelarsi. Non sarebbe stato facile sfregarla? L’idea non è venuta a nessuno. Ho continuato a camminare decisa a trattenere tutto quello che era possibile salvare. *** A Jan non piaceva appartenere a qualcuno. Ho imparato a pensare come lui e ho combattuto la mia inclinazione al possesso. Sentivo come vedeva in cattiva luce le donne che parlavano di “mio marito” e del “mio uomo”. Così si parla degli oggetti. – Ho messo una lettera sul tuo tavolo. – La tua macchina da scrivere non funziona più. I pronomi cercano di prestarci la loro apparente individualità. A volte il pensiero possessivo mi sfuggiva di bocca: – A casa nostra… Lì si rompeva. Di nascosto mi ero innamorata del pronome “noi”. Se per caso lo pronunciava lui, mi ci sedevo dentro comoda, come nell’acqua calda di una vasca da bagno. Ma lo diceva di rado. Non mi sentivo abbracciata spesso da quel pronome. – A casa tua… – diceva, e io accettavo l’eufemismo. Non voleva che le cose appartenessero a tutti e due, voleva che ognuno appartenesse a se stesso. Cercavo di capirlo, ma a me appartenere piaceva. Mi piaceva appartenere alle persone a cui si era attaccato il mio amore. Che non era selettivo. Non parlava di tipi, di centimetri, di quozienti di intelligenza. Aveva le sue unità di misura che io stessa

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un colpo d’aria. Passano lentamente davanti al mio bancone, appoggiandosi al bastone. – Le interessa il nuovo libro in esperanto? – non avevo ancora perso il mio slancio. – Vuole comprare il nuovo libro in esperanto? – l’ho guardata negli occhi con curiosità. – No, grazie! Mio marito ce l’ha già! – Forse lei si sbaglia, signora. Suo marito non può avere questo libro. È uscito dalla tipografia solo ieri. – No, grazie! Mio marito ha già un libro in esperanto. Finalmente ci siamo capite! Al suo signor marito qualcuno una volta ha appioppato un libro. Forse sono passati anni. Non c’è mai stato il tempo per aprirlo. A cena eravamo sedute a distanza di qualche tavolo. La signora, con una rispettabile spilla stellata sul petto, spiegava qualcosa ai suoi commensali. Il gioiello sul vestito rifletteva un fulgore di lampade. Ho abbassato gli occhi sul mio piatto. – Non mi avrebbe fatto pena se avesse avuto i crampi allo stomaco, quella sera – la vocina era scatenata. Io preferivo la predica: sii indulgente con tutti quelli che non comprano libri. Abbi pietà di chi non legge. La vera tolleranza è la tolleranza verso i non lettori. *** – Be’, vedi, l’esperanto ti ha comunque aiutato a praticare… la tolleranza – mi ha detto lui abbracciandomi alla fine della lettura. – Di sicuro. Ad esempio, verso di te, tutti i giorni. Senza parlare dello stimolo alla fantasia. È il motivo per cui gli esperantisti di professione non avrebbero il diritto di chiedere l’aumento di stipendio. – Esperantisti di professione. Che categoria! Quanti ce ne sono al mondo? Quindici? Non senti che hai tra le braccia un pezzo unico? *** Presto sarà dicembre. Magari dovrei mandare una lettera di ringraziamento al mio medico immaginario. È la sola persona che 68


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non mi ha affossato la fantasia. Grazie, inesistente signor dottore di un paese immaginario. Tu salvi la reputazione di tutti i maschi. Ho sfogliato le pagine di “ginecologo”. *** Mi fanno male le ovaie. Specie la sinistra. Da parecchi giorni vengo tormentata con le iniezioni. Non sento nessun miglioramento. Amici dalla Cina l’anno passato mi hanno fatto avere un pacchetto tramite una hostess esperantista. Una voce piacevole mi ha dato il buon giorno al telefono: – Le ho portato le erbe da Pechino. – Come, scusi? – Da Pechino. Lei ha ordinato delle erbe. Dio santissimo, me ne ero quasi già dimenticata. – Meraviglioso! Grazie! Le istruzioni insegnavano delicatamente come bagnarle e metterle tiepide sotto l’ombelico in un sacchetto di stoffa. Presto mi è sembrato che la casa ne avesse preso l’odore. Nessuno sentiva quell’odore, io sì. Sul mio copriletto si era formata una macchia indelebile, che aumentava ogni sera, quando mi coprivo dopo aver messo un sacchetto di erbe sulla pancia. Mentre stavo sdraiata in quel modo, evocavo il tipo di paesaggi in cui le erbe potevano essere cresciute prima di venire raccolte. E in che posto il samideano22 le aveva comprate per me. Non era un samideano qualsiasi. Era la persona giusta. Anzi due. Ricordo bene il balconcino dell’albergo del congresso, bevevamo un pessimo succo di frutta senza sapore e ci siamo affascinati a vicenda. Quella è stata la nostra Boulogne-sur-Mer23. Per qualche giorno. Riusciranno a seguire le mie idee? E ce ne siamo scambiate molte prima che io, due anni dopo, abbia avuto il coraggio di scrivere di… ovaie. 22 Samideano (sam-ide-an-o, adepto della stessa idea) è il nome che a volte si danno gli esperantisti, alludendo all’idea comune di comprensione tra persone di lingue diverse tramite una lingua internazionale non etnica, che ponga tutti sullo stesso piano. 23 Cittadina francese sulla Manica, sede del primo congresso mondiale di esperanto nel 1905. L’allusione è all’emozione che ebbero tutti i partecipanti a quell’incontro di oltre seicento persone di decine di paesi diversi che parlavano per la prima volta tra loro in esperanto.

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Eh, Zamenhof, né tu né io potevamo prevedere che avresti fatto da intermediario tra un’erba cinese e le mie ovaie. Una sera, quando ero sdraiata con le fitte al fianco sinistro, ho desiderato ardentemente un medico che parlasse esperanto. Un ginecologo. Della sua fama non sapeva nessuno. Solo le donne guarite. Centinaia. Come ho trovato il suo indirizzo? Probabilmente per vie contorte. Amici di amici di amici. No, sarebbe troppo complicato. Meglio un’amica in Romania. Proprio lei mi ha risposto quando le ho scritto dei miei dolori. “Prova da lui. Se vivesse negli USA…”. Per fortuna non vive lì. È vecchiotto. Sopracciglia vaste e molto tempo a disposizione. Parla lentamente. Con correttezza. Dopo i primi dieci minuti smetto di cercare gli errori. Non ce ne sono. Come fa a conservare, isolato com’è, un esperanto così? Forse a casa, con la moglie? Non ho il coraggio di domandarglielo. La sua pazienza mi ha conquistato. Un uomo che ha tempo. La sua sala d’attesa al suo paese sarebbe stata moderna negli anni Cinquanta. A quel tempo si plaudeva alla risoluzione di Montevideo24 e si credeva che il mondo avrebbe cambiato ritmo. Poi non è successo nulla di travolgente. Il medico aveva tempo e sorrideva. Ha chiesto di me nei dettagli. Non per riempire un modulo vuoto. Per sapere. Il mio corpo si compiaceva di un’attenzione così completa. Quando con una mossa lenta ha infilato i guanti sulle dita scrupolosamente lavate, mi sono sentita in buone mani. Unghie con le lunette limate, bianche e pulite. Ecco l’uomo che ha guarito molte donne, ho pensato con ottimismo, sdraiata sul tavolo. Dopo la visita ha parlato con la sua voce lenta. È stato piacevole sapere che si trattava di una banalità che gli altri dottori non erano stati capaci di scoprire. Ma il mio dottore era speciale. Dove abita, insomma? Da qualche parte nell’Europa dell’Est. Non so dove collocarlo. Dove può vivere uno specialista così bravo e così sconosciuto? Anche scoprirlo è difficile. Non si può scrivere ad

24 La risoluzione approvata dall’UNESCO nella sua seduta di Montevideo il 10.12.1954 riconosceva “i risultati raggiunti tramite l’esperanto nel campo degli scambi internazionali intellettuali e per l’avvicinamento dei popoli del mondo”.

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una Associazione aderente all’UEA25 e chiedere una raccomandazione per il migliore ginecologo esperantista. Penso che viva più a est di Leningrado. Non ho mai immaginato fino alla fine la mia visita da lui. Mi basta che arriviamo al punto in cui dichiara lentamente e con convinzione che il problema si può eliminare molto facilmente. Allora alzo gli occhi dalle sue labbra e guardo di fianco per un momento. Non sento le sue parole fino alla fine. Resta il senso della facile possibilità di guarire. E il piacere di un colloquio. C’è qualcosa nella conversazione con un ginecologo esperantista che manca quando sei in un ospedale ufficiale. Invece lui discorre tranquillamente. È un dottore che ha tempo. Per mesi sono diventata così intima col mio dottore che ora credo che esista. Ma i dolori ultimamente si sono affievoliti e per il momento ho smesso di cercarlo. Mi basta che esista. Una volta, a dicembre, mi piacerebbe mandargli una cartolina di saluti. Ringrazia di cuore per l’incoraggiamento la sua paziente Peccato solo che non si sappia il suo indirizzo. Nemmeno il paese. *** In supporto all’ipotesi che siano i maschi a distruggere la fantasia, ho un altro testo nel cassetto: Valentina! *** Nicola si è fermato davanti alla vetrina di una cartolibreria: – Ecco Valentina! Mi unisco all’ammirazione. Dietro al vetro c’era davvero Valentina. Era una macchina da scrivere, non una donna. 25 L’Associazione Mondiale di Esperanto ha affiliate un’ottantina di associazioni nazionali.

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– Ha vinto il premio di quest’anno per il design. Non è una macchina da scrivere, è un’opera d’arte! – si è entusiasmato con foga giovanile. L’abbiamo ammirata insieme. Valentina brillava dietro il vetro del tipico splendore sfumato dell’oggetto inarrivabile. Siamo stati subito d’accordo: se mai compreremo una macchina da scrivere, sarà Valentina. Quella rossa. Ce ne siamo andati via senza più tornare. Il desiderio di possesso è il principale segnale dell’invecchiamento. Sono passati appena pochi congressi dopo la passeggiata della macchina da scrivere in vetrina, e già ero nel negozio. Per comprarla. Da sola. – Valentina? – il commesso cerca nella memoria. Non si ricorda di un’esposizione in vetrina. Lui non veniva il pomeriggio. Io cerco di descriverla. Le parole non rappresentano bene gli oggetti. Ci si mette troppa partecipazione. Il commesso non sa niente della mia passeggiata davanti a Valentina. Io ricordo il viso di Nicola, e anche le sue parole. Finalmente un aiutante si è ricordato. Gli aiutanti hanno la mente fresca. Si trattava di quel modello che all’epoca aveva ricevuto un premio, ma che dopo non era stato più prodotto. È seguita la spiegazione sul perché il mercato non era rimasto incantato quanto me. Il modello era stato ritirato. Una nuova cascata di spiegazioni. Non le piacerebbe vedere dei modelli nuovi? Non mi piacerebbe. Volevo la macchina di quel pomeriggio. Avevo l’occasione di comprare un sogno e non si vendeva più! L’ostacolo è piccolo. Non si vende nel mio paese. Ma il mondo è mio! La sera ho scritto a un amico di un paese vicino. Busta leccata, francobollo in alto a destra: “Caro, anni fa mi sono innamorata di una macchina da scrivere che nel mio paese non si vende più. Si chiamava Valentina. Quella rossa. Ti è capitato di crescere con un desiderio insoddisfatto? Sii uomo, setaccia tutto il paese. Me ne serve una sola. Potresti portarla al congresso quest’estate. Scusa se ti rompo le scatole, ma si tratta di un sogno di gioventù. Nel tuo paese sarà possibile trovarla?” 72


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Un bacio alla fine della lettera ha messo il sigillo su una speranza. Il tipo ha preso sul serio il compito. Presto sono arrivate sue notizie. Il diavolo porti via me e le mie bambinate! La macchina non è raccomandabile. Anche per questo non si produce più. Restano alcuni pezzi, se proprio insisto. Ma la cosa costa una follia in rapporto alla qualità. “Caro”, ho risposto con entusiasmo, “tu sei il detective dell’anno. Comprendi il tuo ruolo storico nella mia piccola vita? Si tratta del sogno, davvero. Il ricordo di una passeggiata pomeridiana dell’epoca in cui potevamo pagare la quota per la TEJO con la tariffa più bassa26. Con i tuoi anni, pensa quanto dovresti pagare quest’estate… Comprala!”. Temevo che non avesse capito. Ma l’ha comprata. All’autobus del congresso abbracciavo i miei conoscenti. È arrivato anche lui. Il bacio di un tale, che un addio aveva interrotto mentre parlavamo l’anno scorso, il paese scorso. Ancora nel suo abbraccio, con le labbra sulla sua cravatta, ho chiesto di Valentina. Brontola, ma ce l’ha. – Fa’ vedere! Vado incontro a Valentina. Discorsi lunghi e senza senso. A un amico esperantista a volte mancano 350 giorni dell’anno. L’inseguimento di un filo interrotto l’estate scorsa, quando gli addii ci hanno mandato a casa. – Eccola! – nel suo gesto non è mancata la teatralità. – Quella? Grigia? – ho nascosto la delusione e ho aperto la scatola. Dentro, ben imballata, c’era una macchina da scrivere grigia. Semplice, ordinaria. Aveva, quello sì, il nome “Valentina” scritto sopra. – Me la immaginavo diversa! – ho cominciato a mettere insieme le parole per camuffare il disinganno. L’avevo vista anni fa in una vetrina, era rossa e aveva proprio un altro aspetto. – Ho setacciato mezza città. È fuori produzione. Credevo che tu volessi quella o niente. Che dovesse essere anche rossa, non avevo capito che era una caratteristica cruciale. “Maschiaccio!”, ho pensato amaramente. “Tipico uomo grigio! Che cosa significa il colore nella sua vita?” 26 TEJO - Tutmonda Esperantista Junulara Organizo (Organizzazione Mondiale della Gioventù Esperantista). I paesi all’epoca considerati in via di sviluppo fruivano di quote di adesione ridotte.

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– Ti sei dimostrato un esploratore brillante. Perfetto da sfruttare. Capisci il tuo ruolo? Una persona che insegue un’immagine, la trova e la porta: grigia! Ci siamo messi a ridere. Ho pagato la fattura. Il congresso mi ha risucchiata. Nel programma serale un allegro studente dello Zimbabwe ha fatto musica con uno strumentino miracoloso. Dopo, nella mia camera, con la musica dello Zimbabwe nelle orecchie, ho disimballato Valentina. – È carina – ho detto per consolarmi, forse grazie alla musica appena sentita. L’ho messa in funzione, ci ho infilato la carta. Ho deciso di scrivere il mio nome. Si è inceppata. Non parlava la mia lingua. Le mancavano le lettere accentate. La posizione dei tasti mi confondeva. Invece dei numeri usciva punteggiatura. – La modificherò. La renderò usabile. Eccola, è lei, Valentina! Dovevo tenerla, anche se brontolando. Per imparare la lezione su come si armonizzano sogno e realtà. *** Sogno e realtà. Per abitare nel mio paese Jan si era privato della sua lingua materna. Volevo evitare il suo isolamento linguistico. Sogno. La realtà era molto più cruda. Volevo eliminare dalla sua cerchia i principianti per non farlo disperare. Quelli che parlavano un esperanto perfetto improvvisamente sembravano bestie rare. Ne andavo a caccia con passione e li guidavo a casa nostra per condividerli con lui. Quando facevo la spiritosa per loro sui piatti pieni, sentivo che gli piaceva. Di ospiti ne venivano a bizzeffe: il mio libro dei visitatori sembrava un elenco del telefono. Quando arrivava un ospite, lui restava a casa. Gli ospiti mi piacevano perché facevano rientrare Jan. E a tutti e due piacevano quelle serate con la chitarra che lasciavano piccole montagne di piatti sporchi in cucina. Qualche volta ho notato una gradevole invidia da parte di certi ospiti: ci invidiavano perché parlavamo la lingua in cucina, tra spezie e uova sbattute, in bagno, grattando via lo sporco dai bordi della vasca, a letto, sussurran-

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do con le labbra sulla pelle. Avevo compassione di quelli che usavano l’esperanto solo per insegnare nelle lezioni iniziali dei corsi di base. Per tutta casa mia venivano srotolati i materassi di riserva. Le nostre conversazioni più vivaci riguardavano la compilazione della lista della spesa. – Non abbiamo più asciugamani puliti! – sussurravo la sera, invece delle carezze. L’aumento dei visitatori l’abbiamo tutti e due constatato. La diminuzione del fare l’amore, no. *** Quando gli ospiti andavano via, mi piaceva accompagnarli alla porta. Dopo le strette di mano tornavamo in camera in due. Lo abbracciavo come dopo una lunga assenza. – Sono felice perché l’ospite è andato via e tu no. Non potevo toccare spesso quell’argomento con franchezza: l’ho salutato così tante volte che i saluti che mi separavano da altre persone in stazioni e aeroporti mi hanno ficcato in testa la paura costante dell’allontanamento. A ogni nuovo addio sentivo di nuovo il piacere che lui rimanesse qui. Ero pronta a corromperlo, perché restasse. – Tu pensa a battere le tue lettere, oggi i piatti li lavo io. Temeva di sfruttarmi. Non ho mai avuto il coraggio di confessargli che mi piaceva il rumore della sua macchina da scrivere attraverso il muro, mentre stavo in cucina a stirare camicie. Il ferro caldo lisciava la superficie delle asole. Sognavo. L’odore dei tessuti stirati riempiva la cucina come i pensieri dei miei giorni passati e futuri. – Sei la sola donna che conosco a cui piace lavare i piatti. – Per via dell’ikebana – dicevo. Mi piaceva mettere in ordine prima le tazze blu, ordinare i piatti secondo il colore, mettere in una pentola forchette e coltelli come fiori, con i petali all’insù. Dei piatti bagnati asciugavo solo quelli che per colore erano estranei all’armonia. Le tazze sporche conservavano conversazioni passate. Mentre le lavavo tornavano fuori i discorsi. Solo le parti che volevo sentire. Ogni piattino apparteneva a una

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Bisognava innaffiare i fiori. Lui faceva il galletto e mi ha abbracciato allegramente. Ho riso per una cosa che aveva appena detto e per un secondo la mia testa è rimasta sulla sua spalla. L’ho alzata subito. Bisognava far vedere che non era successo niente? O era già troppo tardi? – Buona notte! – gli ho detto semplicemente, con la bocca piena del sapore di cose passate. Avevo il suo sguardo sulla nuca mentre andavo verso la porta della mia camera. Ma evidentemente aveva deciso di definire “abbraccio” quello che era successo. – Non mi va di salutarti. Neanche fino a domani. Una frase collaudata del suo repertorio di viaggio? Il mio orecchio ne ha preso nota a modo suo. La sua pelle odorava di un profumo di sapone diverso. Ho provato un piccolo shock. Non era il sapore di cose passate. – Non è mia abitudine infilarmi nel letto di chiunque passi di qui – volevo pensare, ma ero un po’ curiosa del nuovo odore. La sua barba mi grattava durante i baci. La vocina era scomparsa da qualche parte, altrimenti mi avrebbe certo spinta tra le sua braccia. Si vede che eravamo già in sintonia. Al mattino ho sentito un piacevole bruciore sulla faccia: l’ardore degli attori di una notte. Con la spietatezza delle cose di tutti i giorni il mattino è entrato nella stanza. – Ehi! – gli ho dato un colpetto sulla spalla – mi hai spinto via dal letto – era sdraiato di traverso, nella “posizione di chi prende possesso”. Per qualche motivo il risveglio non mi ha sorpreso. Abbiamo cenato amici, ci siamo svegliati amanti. *** È partito per uno stato vicino, per una breve visita. Io, ubriaca di un sapore nuovo che mi aveva invaso improvvisamente, ho indovinato il treno con cui sarebbe tornato. Vicino ai binari, dove di solito ci si congeda soltanto, il bacio del ritorno aveva il sapore di una promessa. 90


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Agli amici – aveva il diritto di appartenere anche a loro – non intendevo far capire in che cosa si era trasformata la sua visita. Mi sono sforzata di evitare il suo sguardo in loro presenza. Se i nostri sguardi si fossero incrociati, sarebbe stata già una dichiarazione pubblica. Gli occhi mi brillavano. Non si poteva evitare un invito serale dagli amici. Molti invitati, pochi posti a sedere. Ho trovato spazio su un sofà occupato. Si è infilato vicino a me e non si è mai alzato. Se appena avessi mosso il braccio, la mia blusa avrebbe toccato il suo maglione. Ho dovuto concentrarmi intensamente sulla conversazione in corso. Un bambino della casa ostacolava i discorsi. Aveva delle automobiline e le faceva andare addosso a me. – Dammela. Ti faccio vedere. Ho preso un’automobilina e senza chiedere permesso l’ho fatta scorrere lungo la coscia del mio vicino di destra. L’automobilina è andata per un po’. Al bambino piaceva. – Cambiamo strada adesso? Proviamo a viaggiare su questa strada qui. L’ho fatta scivolare delicatamente lungo i blue jeans dell’uomo dal sapore nuovo. L’auto ha corso a lungo senza fermarsi. Il bambino è stato d’accordo che questa coscia autostradale era di qualità superiore. Avevamo un autentico pretesto per farla correre di nuovo. Il padrone della coscia parlava sopra le nostre teste di argomenti cosmici. Il bambino e io giocavamo con l’automobilina. Purtroppo, il piccolo si è stufato presto del gioco e se ne è andato in cerca della sua bicicletta. Ho rimesso delicatamente l’automobilina sul pavimento e sono ritornata alle grandi conversazioni sopra le nostre cosce. *** Ci sono persone che ci fanno visita una volta sola nella vita. Una di queste ora deve partire. E proprio a lui ho permesso di darmi una lezione lampo sull’essere dimenticati. Al mattino mi sono svegliata con la sensazione di una fine. Era ancora coricato accanto a me e respirava tranquillamente. Non avevo il coraggio di muovermi. Non volevo che la cosa finisse. 91


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Il sapore delle cose passate è ricomparso mentre i suoi capelli erano sul mio cuscino. E adesso? – Vorrei venire via con te. Non era un desiderio. Forse una dichiarazione. Ma non l’ho detta. L’ho solo pensata. O è uscita ad alta voce? Perché lui nello stesso istante ha aperto gli occhi e ha detto: – Sei matta. Ci siamo guardati per un momento. Non volevo un’avventura di passaggio. Anche se non ero sdraiata di traverso, volevo di più, ero già possessiva. Ho deciso. Quando mi sono alzata per telefonare in ufficio, nel corridoio il mondo era per terra: durante la notte il planisfero era caduto dal muro. – Ehi, tu, hai scosso il mio mondo stanotte! – gli ho gridato mentre era ancora coricato. Si è messo a ridere: il piacevole ruolo di chi causa terremoti. Per i miei giorni liberi nessuno ha fatto storie in ufficio. Tutto si è sistemato bene, come sempre quando si sa esattamente che cosa si vuole... Abbiamo preso due biglietti per il mare. Per il mare più vicino. Sapore nuovo di cose passate. “L’hai già detto al conducente che mi ami?” All’autista del pullman non c’era bisogno di comunicare niente. Molto si vedeva. Mi sono voltata nel pullman per vedere gli altri viaggiatori. Intorno a noi sedevano persone scure in faccia. In me c’era una allegria dal sapore nuovo. Molti gesti li ho riconosciuti. Pezzi di frasi lo stesso. Ma avevano una sfumatura nuova. I paesaggi hanno cominciato a rincorrersi dal finestrino del pullman. Anche le città. È durato qualche giorno. In una mano lo zaino, nell’altra lui. Una volta ha tolto il braccio per fare una foto. Un soldato gentile si è offerto di cedergli il posto vicino al finestrino dove c’era una visuale migliore. Voleva vedere se mi avrebbe scambiata con un safari fotografico. Nonostante la febbre della caccia, non ha voluto barattarmi con nessun paesaggio. Dopo ha imparato a fare le foto tenendomi abbracciata. Nella tasca della blusa, un garofano e un’iris. La guida aperta alla pagina della città più bella. La città delle lune di miele e dei viaggi della maturità. Abbiamo combinato le due cose.

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– Non mi meraviglierei affatto di restare incinta. Ci sono cose dal sapore nuovo. – Come era possibile? E se avessi ordinato un liquore di assenzio? Ci tenevamo per mano in un ristorante con un nome che alludeva alla speranza. La candela bruciava lentamente, così è parso alla cameriera, che dopo qualche ora ci ha portato il conto senza dire una parola. Abbiamo dovuto sciogliere le dita per cercare il portafoglio. Di che cosa parlavamo? Sì, di che cosa parlavamo? Ricordo il suo maglione bianco e la luce della candela negli occhi. Che cosa mi è successo? Ho tirato fuori le gocce di vitamine e le ho messe nel bicchiere di succo. – Già per il bambino? – si è meravigliato. Nei suoi occhi si è mossa la luce danzante della candela sul tavolo. Abbiamo organizzato una seduta del comitato32 per votare sul bambino: “a favore”, “contrari”, “astenuti”. Avrà dei dubbi? È saltata fuori una lista di nomi per bambini. Li ho letti ad alta voce. Cominciamo da “A”. Ajna. Ci siamo fermati alla “A”. Ajna. Come una cosa qualunque33. D’accordo. Così in fretta sono d’accordo solo persone che non vivranno mai insieme. Ajna ha viaggiato con noi fino all’ultimo giorno. Quando sono andata alla biglietteria e ho coraggiosamente acquistato un biglietto per il ritorno. Uno solo. – Per il primo treno o per uno successivo? – ha domandato l’uomo allo sportello, indifferente. – Il primo. – Avevo deciso. Che succeda. Devo pur tornare a casa. Non vale più la pena di rubare altri minuti.

32 “Seduta del comitato” (komitatkunsido): durante i congressi sia dell’Associazione Mondiale di Esperanto sia dell’Organizzazione Mondiale della Gioventù Esperantista si svolgono le sedute dei rispettivi comitati, massimi organi decisionali sull’attività dell’associazione. Qui è un richiamo scherzoso all’importanza e formalità di quelle sedute. 33 In esperanto “ajn” è una particella che indica indefinitezza, “qualunque, come che sia”.

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Non volevo essere triste. Ci sono persone che non sono mai visitate dalla fortuna. A me è successo. Venti minuti dopo sono venuta a chiedere allo stesso sportellista se per favore poteva darmi lo stesso una cuccetta per un treno successivo. Si trattava di altre due ore. Ben due ore. Le persone senza futuro hanno davvero soltanto il presente. Da qualche parte scendevano veloci i granelli bianchi degli orologi a sabbia. Mi ha accompagnato al vagone. Ho messo lo zaino sul treno e sono uscita per abbracciarlo. Nel bacio non si sentiva per niente l’addio. Il treno è partito, con me dentro. *** Dopo molte ore, a casa, ho trovato sulla tavola una tazza piena, da cui aveva bevuto. Nel mio portasapone era rimasto il suo sapone bianco. L’ho annusato, e il ricordo di lui mi è penetrato fino alle reni. È arrivata una sua cartolina illustrata. Le detesto. Le illustrate non sono in grado di comunicare niente – lisci volti ingannevoli di città lontane. “Sto seduto su questo ponte e mi spremo le meningi su come far entrare in questo piccolo spazio tutto quello che vorrei dirti”. Saluti ad Ajna. A me abbracci. E il suo nome in un angolo, piccolo. Non lo vedrò mai più senza emozione. *** L’idea di Ajna mi sveglia di notte. Ajna è cambiamento. Ajna è amore. Paura. Voglia. Desiderio. Ricordo. Dico il nome di lui per farmi coraggio. Silenzio. Rispondo qualunque cosa voglio. Voglio una cosa qualunque. Alla sera tiro le tende della mia stanza. Ma prima guardo le stelle. Sembrano lontane. Cosa sta facendo adesso? È coricato vicino a sua moglie?

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Stendo la mano e tiro velocemente la cordicella del suo lume da notte. Buio. Mi arrampico nel letto. Sembra molto grande. Spingo via la carta del suo paese, su cui ieri mi sono addormentata, e aggiusto il cuscino. Solo i miei capelli sento sotto le dita. *** Penso ad Ajna e mi addormento. Sonno tranquillo di una donna fortunata. L’avventura mi ha sballottato dentro rimescolandomi e non mi ha più lasciato. Non era amore, ma salvezza. Male, ma è stato così: tutto l’amore che era rimasto nel colino dopo la partenza di Jan l’ho riversato sul nuovo indirizzo. Con un entusiasmo nuovo, come se tutto succedesse per la prima volta. E solo a me. È ritornata l’atmosfera dimenticata del primo amore: un tremito pieno di speranza, come quello che anni di vita in comune cancellano senza lasciare traccia. Pensare a… una lettera. Aspettarla. Una certa eccitazione mi riempie al solo pensiero che una sua lettera potrebbe arrivare al mio indirizzo oggi. Una lettera non arrivata rovina tutte quelle arrivate. E subito dopo la delusione spunta in me una nuova allegria. Ottimo che la lettera non sia arrivata oggi. Altrimenti domani sarebbe un giorno vuoto. Ora, aspettiamo. Domani. Per consolarmi riprendo la vecchia lettera. La rileggo. Mi fermo sulle virgole, analizzo i pronomi: io, tu, lui, lei, noi. – Quali noi? – domanda la vocina, divertita. Dopo averla riletta, guardo nella busta. In profondità, proprio fino al fondo. Forse è caduta una parola che non ho ancora letto? Indosso la busta come un guanto. La mia mano ci entra perfettamente. Dentro cerco le impronte delle sue dita quando ha messo dentro i fogli. Uno sguardo ai francobolli. Sotto di loro una traccia nascosta delle sue labbra? Quando la vocina non è in casa, penso a sua moglie con un po’ di vergogna e un po’ di buon umore. Disonesto da parte mia, sì.

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Finito di stampare nel mese di maggio 2018 per conto della casa editrice Il Poligrafo srl presso Q&B Grafiche di Mestrino (Padova)



graphie

testi, modelli, immagini della scrittura femminile

1.

Contessa Lara Novelle toscane a cura di Carlo Caporossi

2.

M’ama? Mamme, madri, matrigne oppure no a cura di Annalisa Bruni, Saveria Chemotti, Antonella Cilento

3.

Neera Teresa a cura di Antonia Arslan

4.

Caterina Percoto Novelle scelte a cura di Elisabetta Feruglio prefazione di Antonia Arslan

5.

Marchesa Colombi Novelle scelte a cura e con prefazione di Carlo Caporossi premessa di Antonia Arslan

6.

Antonietta Giacomelli Vigilie (1914-1918)


poligrafie

voci, storie, narrazioni

1.

Mariuccia Beghetto Passi di donne prefazione di Erminia Macola

2.

Emilio Cannarsi Il cerchio di gesso e altri racconti presentazione di Aldo Comello

3.

Piero Bertoli La grande avventura 1915 - 1918. Tre anni di guerra con i bersaglieri, con gli alpini e negli ospedali da campo

4.

Maria Serena Alborghetti Sulle piste d’Africa

5.

Giovanni Magnano di San Lio Il deserto di Giobbe

6.

Luigi Migliorini La mia lucida follia

7.

Maria Serena Alborghetti Riflessi in uno specchio. Voci di donne da un paese in guerra

8.

Riccarda Pagnozzato Ore immense. L’arte la mia vita

9.

Massimiliano Colucci La mela e altri peccati poco originali

10. Giovanni Spitale Hestia 11. Alberto Giordani Soglie 11. Spomenka Š timec Paesaggio con ombre in un interno





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