Design e formazione
Design e formazione ContinuitĂ e mutamenti nella didattica per il design a cura di Laura Badalucco e Luca Casarotto
ilpoligrafo
Pubblicazione a cura di Laura Badalucco Luca Casarotto Coordinamento editoriale Chiara Pagani Progetto grafico e impaginazione Officina 3am Illustrazioni Andrés Babic´ Crediti fotografici Gruppo comunicazione WDW 2016 Editore Il Poligrafo casa editrice
Nella pubblicazione sono presenti i risultati di WELCOME DESIGN WORKSHOP 2016 Venezia, Magazzini Ligabue 4 - 8 ottobre 2016 Iniziativa ideata e finanziata da Università Iuav di Venezia Corso di laurea in Disegno industriale e multimedia Corso di laurea magistrale in Design del prodotto e della comunicazione visiva Coordinamento scientifico Laura Badalucco Luca Casarotto con Medardo Chiapponi Coordinamento organizzativo e comunicazione Chiara Pagani Pietro Costa Progetto grafico Officina 3am
Gruppo comunicazione WDW 2016 (fotografie, video, illustrazioni e social media) Andrés Babic´ Luca Ferrari Martina Frausin Shpetim Gjika Valeria Mento Federico Rita Federico Rossini Chiara Scalvini Tihana Starcˇevic´ Arianna Tonello Si ringraziano Dorella Cecere Salvatore Crapanzano Ferruccio Dilda Alberto Favretto Giuseppe Ferrari Roberto Grossa Igor Guadalupi Alisa Kesac Michele Lazzarini Lorena Mio Andrea Pertoldeo
© Copyright dicembre 2017 Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova via Cassan, 34 - piazza Eremitani tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it ISBN 978-88-9387-049-8
Indice
7 /// Introduzione / Laura Badalucco e Luca Casarotto
Riflessioni, pensieri 12 /// Esperimenti e istituzioni. Corsi di Design all’Università Iuav di Venezia / Medardo Chiapponi 20 /// Siamo pronti al cambiamento? Il design e i dilemmi dell’educazione / Raimonda Riccini 32 /// Didattica e design: tra ritmo e senso del progetto / Laura Badalucco 46 /// Chaos is order yet undeciphered / Francesco Messina 58 /// Il futuro ci prospetta di tornare alle basi / Luca Casarotto
Attività, progetti 70 /// I workshop Iuav. La libertà del progetto / Chiara Pagani 72 //// Illustration 80 //// Infographic Design 90 //// Interaction design toolbox 98 //// Inspiring product design 106 //// Materials 114 //// Motion Design 122 //// Photography 130 //// Sketching 138 //// Sound Design 146 //// Typography 154 //// Video Making
162 Frammenti 172 Designer 176 Autori dei saggi
Introduzione Laura Badalucco e Luca Casarotto Una delle caratteristiche principali della formazione del design è la sua capacità di cambiare e di rinnovarsi ciclicamente. Tale necessità di cambiamento è ancora più importante in questo momento storico caratterizzato da trasformazioni forti e continuative. Basti pensare, solo per fare un esempio, alla pervasività della tecnologia e alle sue implicazioni positive e negative che richiedono, da un lato, nuove riflessioni sul nostro rapporto con gli artefatti e, dall’altro, nuovi approcci nell’acquisizione e utilizzo delle nozioni e delle informazioni. Tutto ciò ha evidenti conseguenze anche nella didattica, ancor più marcate se consideriamo lo specifico della nostra disciplina. Sarà forse anche per questo che rileviamo la necessità di porre nuovamente delle domande sulla formazione dei designer, e questo ci sembra un ottimo punto di ri-partenza. Basandoci su questo principio, nella primavera del 2016 abbiano iniziato a pensare se e come fosse necessario trasformare una delle costanti dei corsi in design: i workshop. Nel complesso sistema che ordina la didattica universitaria, ci pareva efficace partire da questi momenti più svincolati dai regolamenti in modo da provare ad affrontare liberamente alcuni temi. A Venezia, nell’Università Iuav nella quale ci troviamo, affacciati sul Canale della Giudecca all’interno della struttura dei Magazzini Ligabue, i workshop di design si svolgono tra fine settembre e gli inizi di ottobre, la settimana prima dell’inizio della didattica, in modo da avviare l’anno con la giusta energia. Proprio per questo si chiamano “Welcome Design Workshop”, un nome suggerito da Francesco Messina nel 2015 quando, dopo una lunga ed emozionante storia trevigiana, i corsi di laurea in Design dello Iuav si spostarono a Venezia nelle sedi dell’ateneo. I workshop si sono configurati così come un’attività intensa di benvenuto che ha mantenuto il suo nome augurale anche negli anni successivi. Siamo allora partiti dal loro significato originario che rimanda al lavoro appassionato di bottega, di laboratorio, oltre che all’accezione più recente di occasione di lavoro a contatto diretto con il mondo economico-produttivo. Riflettendo da un lato sul significato della parola e, dall’altro, su quali fossero gli aspetti della professione che la didattica attuale ha meno occasione di frequentare, abbiamo pensato di configurare l’edizione del 2016 come una possibilità di sperimentare e di riflettere sulla didattica. Ad immaginare con noi questa iniziativa c’erano Medardo Chiapponi, Chiara Pagani e Pietro Costa. Con loro abbiamo prima ipotizzato e poi realizzato un’attività nella quale il tema centrale fosse non un ambito di progetto, ma la capacità di sperimentare, di lavorare sulle proprie abilità e sulle sfide
7 /// INTRODUZIONE / LAURA BADALUCCO E LUCA CASAROTTO
oltre i limiti delle proprie conoscenze, liberi dall’ansia di applicarne subito i risultati progettuali o, perlomeno, con la possibilità di pensare di impiegare la propria sperimentazione in qualcosa che potrebbe offrire uno sguardo verso uno dei tanti futuri possibili, magari il meno prevedibile, magari il più lontano dal modello di riferimento attuale. In questo modo si è potuto immaginare di affrontare temi che riguardano alcune competenze di base a volte troppo poco valorizzate oppure che attraversano più ambiti di progetto o, ancora, di approfondire alcune sollecitazioni nate dai momenti di confronto tra docenti e studenti. Abbiamo poi deciso di stressare fino al limite (come si direbbe di un materiale) questa iniziativa, utilizzando pochi giorni di lavoro, meno del consueto, per aumentarne il ritmo, consci di una diffidenza iniziale verso la possibilità che ciò permettesse di arrivare a qualche risultato. Il tema del tempo di progetto era uno degli elementi di questa sperimentazione. I risultati hanno stupito tutti: i designer che hanno accettato la nostra sfida e hanno lavorato come docenti dei workshop; un bel gruppo di nostri giovani laureati che hanno avuto il ruolo di tutoraggio, di mediatori tra docenti, studenti e università; gli studenti del triennio e della magistrale della filiera di Design del nostro ateneo, mescolati tra loro per accrescere il confronto, con un’apertura anche verso studenti provenienti da altri atenei italiani (per una felice intuizione di Medardo Chiapponi) e noi stessi. Tutto ciò ha rafforzato la nostra convinzione che si debba ricominciare a parlare seriamente di didattica, in modo libero e con l’umiltà di chiedere a chi ha già affrontato alcune questioni in altre discipline anche ben lontane dalla nostra, riconoscendo quella capacità di cogliere spunti trasversali che è un’altra delle caratteristiche del nostro mestiere. Ce lo ricordano Raimonda Riccini e Francesco Messina che hanno condiviso, o, meglio, anticipato la necessità di riflettere sulla didattica e che abbiamo poi coinvolto nella realizzazione di questo volume proprio perché dalle tante conversazioni con loro sono emersi alcuni dei punti salienti qui trattati. Grazie a loro abbiamo capito che avremmo potuto offrire un contributo critico alle discussioni sulla formazione dei designer in Italia. Da qui è nata anche la struttura di questo volume che, da un lato, vuole raccontare pensieri e considerazioni sulla didattica e sul suo futuro – cercando di offrire più spunti di riflessione che ricette o risposte già pronte – e, dall’altro, intende mostrare progetti e attività che evidenzino quanto sia importante sperimentare e stimolare studenti e docenti a riflettere sul senso e sui limiti del progetto. Due sezioni, dunque. Nella prima – pensieri e riflessioni – intendiamo offrire un contributo critico partendo da chi siamo, da dove siamo partiti, a che punto siamo ora per poi spingere lo sguardo più avanti possibile e domandarci quali siano gli attrezzi
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dei quali avremo bisogno. Nella seconda – attività e progetti – cerchiamo di raccontare i risultati della nostra sperimentazione con la speranza che ne emergano la forza e il valore non solo grazie al singolo progetto, bensì per la ricchezza complessiva e la varietà. Due ulteriori parole chiave definiscono per noi il risultato ottenuto: libertà e autonomia. Quella libertà e quell’autonomia che sono fondamentali per poter far crescere la capacità di pensiero critico indispensabile nel lavoro del designer. Tutto questo non sarebbe stato possibile se non avessimo trovato un gruppo di progettisti che ha creduto nel nostro progetto, ha accettato la sfida e ha lavorato in modo intenso e appassionato. Per questo i nostri ringraziamenti vanno a Silvana Amato, Ivo Arzenton, Massimo Barbierato, Arrigo Bedogni, Barbara Busatta, Dario Buzzini, Francesco Caredda, Carlo Gaino, Francesco Meneghini, Manuel Mingardo, Lorenzo Palmeri, Michele Perissinotto, Ramin Razani, Francesca Rizzato, Orsetta Rocchetto, Gianni Sinni, Matteo Stocco, Daniele Tabellini, Lorenzo Toso, Fabio Visintin, Miro Zagnoli e Carlo Zoratti così come a tutti gli studenti che hanno partecipato con quell’insieme di profondità e spensieratezza che è fondamentale in queste occasioni. Un ulteriore ringraziamento va a Monica Pastore, Anna Saccani, Anna Silvestri che con il loro gruppo comunicazione WDW2016 ci hanno seguito in tutti i workshop e che, con grande pazienza, ci hanno aiutato a trasformare il tutto in questa pubblicazione. Un ringraziamento particolare va poi a Chiara Pagani per l’instancabile lavoro, la professionalità, la pazienza e l’allegria che porta nel suo lavoro, a Pietro Costa per il supporto, l’esperienza e le buone idee, a Medardo Chiapponi per il sostegno, per la profondità di pensiero e, soprattutto, per il suo instancabile lavoro di design in questi anni all’Università Iuav di Venezia.
9 /// INTRODUZIONE / LAURA BADALUCCO E LUCA CASAROTTO
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ON
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Esperimenti e istituzioni. Corsi di Design all’Università Iuav di Venezia di Medardo Chiapponi
L’esperienza rara, se non unica, nel panorama universitario italiano del sistema formativo in design nato all’interno della Facoltà di Design e Arti dell’Università Iuav raccontata da chi l’ha vissuta in prima persona.
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1 Nel corso degli anni sono cambiate le denominazioni: per esempio, disposizioni legislative hanno modificato il precedente termine “laurea specialistica” in “laurea magistrale” e si è passati da due lauree magistrali a una sola con due curricula. Tutto ciò non modifica però in modo sostanziale le considerazioni che stiamo facendo sul progetto formativo complessivo. 2 Ritengo doveroso citare alcune persone con cui abbiamo condiviso quell’esperienza e che, per il loro ruolo, hanno contribuito in modo determinante alla realizzazione del progetto della Facoltà di Design e Arti e dei corsi di Design, dottorato di ricerca incluso: Marino Folin, Oberdan Forlenza, Marco De Michelis, Sergio Polano, Walter Le Moli, Angela Vettese, Giovanni Anceschi, Raimonda Riccini e Maria Luisa Frisa. 3 Pieno sostegno ai corsi di design e poi di moda è stato assicurato da Federico Tessari per tutto il periodo della sua Presidenza della Camera di Commercio di Treviso. Mi fa piacere inoltre menzionare l’appoggio convinto, nell’esercizio delle rispettive funzioni, di esponenti del mondo imprenditoriale come Ennio Bianco, Katia Da Ros e Giuseppe Milan.
Un’avvertenza iniziale è dovuta ai lettori di questo testo: esso è essenzialmente una riflessione in prima persona su una vicenda, per certi versi straordinaria, a cui l’autore ha avuto la fortuna di partecipare. Va quindi valutata con tutte le cautele che meritano le testimonianze dei protagonisti ai quali è giusto attribuire tutte le responsabilità connesse al loro operato. A loro resta comunque la convinzione di aver vissuto un’esperienza singolare e la speranza che questa possa essere utile a qualcuno e a qualcosa. I corsi di laurea triennale e magistrale in Design sono nati all’Università Iuav di Venezia in una fase speciale dell’Università italiana e della medesima Università Iuav. Specifici corsi di studio in Design erano stati introdotti da pochi anni (1994) nel sistema universitario italiano. Si trattava in quella fase iniziale di un unico corso di laurea quinquennale al Politecnico di Milano e di diplomi universitari triennali in alcuni Atenei, tra cui l’allora Istituto Universitario di Architettura di Venezia. L’anno accademico 2001-2002 segna l’avvento di due importanti innovazioni. A livello nazionale prende avvio una nuova organizzazione dei corsi di studio in Design, sostituendo laurea quinquennale e diploma universitario triennale con due corsi di laurea uno triennale e uno biennale pensati in successione, è la nascita del cosiddetto modello 3+2. L’Istituto Universitario veneziano, nel frattempo, si trasforma in Università Iuav di Venezia e affianca alla storica Facoltà di Architettura una Facoltà di Pianificazione e una di Design e Arti in cui trovano posto il corso di laurea triennale in Disegno industriale (trasformazione del preesistente diploma universitario) e, in seguito, il corso di laurea specialistica in Design del prodotto e della comunicazione visiva e multimediale e il dottorato di ricerca in Scienze del design1. In quel momento una serie di concomitanti situazioni favorevoli crearono le condizioni per impostare in modo particolarmente innovativo, con riferimento al contesto universitario italiano, i corsi di design. Tra le principali situazioni favorevoli si possono citare il sostegno dell’Ateneo, anche nei riguardi del Ministero, al nascente progetto e la sua collocazione in una Facoltà di Design e Arti comprendente corsi di laurea diversi tra loro (oltre a design, arti visive, scienze e tecniche del teatro e, poco più tardi, moda) ma accomunati dalla condivisione di riferimenti culturali e obiettivi formativi2. Altro fattore peculiare, non ultimo per importanza, era un rapporto molto stretto con un tessuto imprenditoriale e produttivo come quello di Treviso, di cui era espressione tangibile il supporto della Camera di Commercio3. In estrema sintesi si può dire che il principale fattore di innovazione su cui hanno potuto contare la Facoltà di Design e Arti, e i corsi di Design al suo interno, è stata la possibilità di creare un sistema formativo articolato prescindendo in buona misura da logiche puramente accademiche, introspettive e, di fatto, autoreferenziali. Questa condizione testimoniava la lungimiranza di un Ateneo che sapeva guardare alle esigenze di una realtà esterna al contesto accademico per definire i propri progetti
13 /// ESPERIMENTI E ISTITUZIONI / MEDARDO CHIAPPONI
4 Per alcuni di noi questo modo di rapportarsi a modelli di riferimento aveva un importante precedente esplicito: il dibattito sull’interpretazione storica del Bauhaus che, nella Hochschule für Gestaltung Ulm, aveva visto come protagonista Tomás Maldonado e aveva contribuito a modificare la linea “continuista” di Max Bill e al cambio di direzione della Scuola. Si veda, a proposito del riesame critico del Bauhaus elaborato a Ulm, la documentazione contenuta in Maldonado, Tomás, Avanguardia e razionalità, Einaudi, Torino 1974. 5 Queste caratteristiche hanno connotato, in Italia, le fasi iniziali di pochi altri percorsi formativi. Tra questi si può citare il primo DAMS attivato negli anni Settanta del secolo scorso presso l’Università di Bologna. 6 Per contro, una tale “dipendenza” dai protagonisti aveva in sé le radici di una scadenza temporale. Al sopraggiungere di quella scadenza e al mutare delle condizioni di contesto sarebbe terminata, e in effetti è terminata, quella esperienza sperimentale. 7 Le imprese di questo tipo, che caratterizzano il panorama italiano, hanno potuto valutare e apprezzare con ritardo rispetto a quelle di altri Paesi il contributo di designer con una specifica formazione universitaria, semplicemente perché questa formazione non esisteva. Si è cercato di trasformare questa circostanza in un vantaggio strutturando il corso di laurea per rispondere nel modo migliore alle esigenze, anche inespresse, di queste tipologie di imprese.
e le proprie priorità. Al tempo stesso, rendeva quell’esperienza rara, se non unica, nel panorama universitario italiano facendone così un punto di riferimento anche a livello internazionale e inserendola a pieno titolo nella migliore tradizione dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Non c’era, nella storia delle istituzioni formative, un modello unico con cui confrontarsi. Molti di noi prendevano come riferimento la linea di sviluppo che, partendo dal Bauhaus, è proseguita con la Hochschule für Gestaltung Ulm da un lato e, dall’altro, le diverse riedizioni del Bauhaus negli Stati Uniti. Sovente però ognuno di noi aveva in mente fasi e protagonisti differenti della stessa istituzione. Questa pluralità di modelli di riferimento e la varietà di interpretazioni e preferenze nell’ambito del medesimo modello rendevano pressoché inevitabile una presa di coscienza critica del modo di rapportarsi alle esperienze ispiratrici. Ciò significava di fatto non inseguire una loro a-storica riproposizione integrale bensì prenderne alcuni elementi qualificanti e calarli nel contesto storico (istituzionale, culturale, sociale, economico ecc.) contemporaneo4. Tra i principali elementi che hanno caratterizzato tanto i modelli storici di riferimento quanto i corsi di Design e l’intera Facoltà di Design e Arti vanno certamente ricordati il marcato carattere sperimentale e un’ampia possibilità di scelta, inusuale per la situazione italiana, per ciò che concerneva gli insegnamenti e i rispettivi docenti. Scelta abbastanza eccezionalmente libera di prescindere da logiche tipicamente accademiche e orientata a perseguire obiettivi formativi avanzati. L’insieme di queste condizioni ha costituito un forte fattore di attrazione per importanti studiosi provenienti dal mondo accademico, ma anche per professionisti e artisti esterni5. Tanto che il progetto formativo della Facoltà, e in buona misura anche dei corsi di Design, era basato più sulla pluralità di contributi e sul confronto di idee, riferimenti culturali e poetiche che non su una rigida struttura organizzativa. In altre parole, uno dei principali fattori che hanno contribuito a connotare la nascita e lo sviluppo di quella sperimentazione, e a determinarne i risultati positivi che le si possono riconoscere, è stato la presenza di un gruppo di persone che ne condividevano principi ispiratori e obiettivi6. Ciò era vero soprattutto con riferimento alla laurea magistrale. Un maggior numero di principi “strutturali” ha invece connotato fin dall’inizio il corso triennale di Design dell’Università Iuav di Venezia. Dal punto di vista dei contenuti l’opzione più innovativa anche rispetto al panorama internazionale è stata quella di non avere corsi di laurea nettamente distinti tra Design del prodotto e Design della comunicazione bensì un unico corso di laurea integrato. Le ragioni di fondo di tale opzione sono la crescente importanza delle aree tematiche di intersezione tra prodotto e comunicazione e i requisiti delle occasioni di lavoro che ai laureati triennali è in grado di offrire un sistema imprenditoriale caratterizzato da una netta prevalenza di imprese medie, piccole e piccolissime7.
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8 Parliamo qui di numero contenuto pensando all’università di massa italiana. Gli allievi di scuole di Design di altri Paesi, per non parlare dei modelli storici di riferimento, sono mediamente inferiori di un ordine di grandezza.
Ci si doveva inoltre confrontare con una diretta conseguenza della consapevole assunzione della struttura “seriale” del 3+2 e delle differenze sostanziali che ne derivano rispetto ai percorsi formativi a ciclo unico propri tanto dei modelli di riferimento internazionali quanto della tradizione universitaria italiana. La necessità di formare allievi che dopo la laurea di primo livello fossero in grado di optare, avendo la preparazione necessaria, sia per entrare nel mondo del lavoro, sia per proseguire gli studi accedendo al secondo ed eventualmente al terzo livello, imponeva una radicale revisione dei contenuti e della struttura organizzativa. La formazione professionalizzante non poteva più essere collocata al termine del percorso ma doveva essere anticipata nel triennio. A ben vedere, si doveva anche distinguere tra due diversi tipi di professionalità da ottenere in successione. Obiettivo della laurea di primo livello era l’acquisizione di quella che si può definire una “professionalità ristretta”, ossia una cassetta degli attrezzi concettuali, metodologici e tecnico-operativi che consentissero, dopo il completamento del ciclo triennale, di inserirsi nel mondo del lavoro con il know-how di base richiesto. Diverso il discorso della laurea magistrale in cui l’obiettivo era di fornire agli allievi una “professionalità allargata” che comprendesse, oltre alle conoscenze strumentali e operative, anche la consapevolezza delle ragioni del proprio operare e una conoscenza approfondita dei mutamenti in atto nella cultura materiale contemporanea. Ciò ha richiesto un equilibrio mutevole tra insegnamenti teorici e storici, da un lato, ed esercitazioni progettuali dall’altro, nonché un progressivo passaggio da una didattica in cui prevale la trasmissione di conoscenze e competenze a una in cui aumenta il “tasso di ricerca” nell’esperienza degli allievi che diventano sempre più soggetti attivi nella produzione di conoscenze e competenze. Progressivo è anche il grado di responsabilizzazione degli allievi che procedono da una laurea triennale in gran parte etero-organizzata a una magistrale in cui prevalgono principi di auto-organizzazione con la possibilità per ognuno di decidere quali insegnamenti seguire prima e quali dopo e di scegliere tra numerose attività opzionali. Tra le premesse che hanno reso possibile una simile impostazione si deve menzionare il numero contenuto di allievi ammessi8 che consentiva, tra l’altro, di svolgere al meglio le esercitazioni progettuali grazie anche a un’interazione diretta tra docenti e studenti. Infine, la consistente presenza di docenti esterni all’Università è stata fin dall’inizio una scelta strategica dell’intera Facoltà motivata, nel caso dei corsi di Design, da una riflessione sulle modalità e persino sulla possibilità di insegnare a progettare prodotti e artefatti comunicativi. In particolare, le circostanze e i modi in cui si insegnano e si apprendono attività professionali creative, tra cui va incluso a pieno titolo anche il design, pongono questioni di primaria importanza nel momento in cui tale insegnamento viene istituzionalizzato e collocato in un contesto universitario.
15 /// ESPERIMENTI E ISTITUZIONI / MEDARDO CHIAPPONI
Siamo pronti al cambiamento? Il design e i dilemmi dell’educazione1 di Raimonda Riccini
«Non può esistere educazione senza filosofia dell’educazione, cioè senza una teoria capace di finalizzare l’attività dell’educatore» Tomás Maldonado (1959)
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1 Prendo direttamente il sottotitolo del libro di Howard Gardner 1991. 2 L’espressione è di Andrea Branzi 1988.
Il testo che segue è pieno di interrogativi e di pochissime certezze. Fra le certezze – o quelle che mi sembrano tali – c’è la constatazione che oggi la formazione nel campo del design si trova in una situazione simile a quella che avevano di fronte i “padri fondatori” della progettazione moderna tra fine Ottocento e primo trentennio del Novecento. Dovendosi misurare con un fattore di discontinuità dirompente come il sistema di produzione industriale e la conseguente “meccanizzazione del mondo”, alcuni si proponevano di preservare le vecchie competenze maturate nel tradizionale sistema di produzione dell’architettura e delle arti applicate, adattandole e utilizzandole “alla maniera moderna”. Altri invece sostenevano che la portata dei cambiamenti tecnologici e sociali implicava – e anzi imponeva – di dotarsi di altre competenze e di saperi tutt’affatto nuovi. Non è pedanteria storica ricordare la contrapposizione fra Henry van de Velde e Hermann Muthesius, espressa plasticamente alla conferenza del Werkbund di Colonia del 1914, o le contraddittorie opposizioni fra il Bauhaus di Walter Gropius, Johannes Itten e quello di Hannes Meyer. Attraverso l’immaginario, anche visivo – opere architetture oggetti colori rappresentazioni –, al quale quei conflitti rimandano, siamo portati nel cuore del problema, che la scuola di Weimar e Dessau ha così bene saputo rappresentare, benché in maniera non esplicita e programmatica (Chiapponi 2017, p. 96). L’attuale situazione per certi versi è ancora più simile a quella che, alla metà del XX secolo, avevano davanti coloro i quali vedevano con chiarezza le ragioni – politico-sociali, prima ancora che estetico-formali – del perseguire una discontinuità rispetto al passato nell’insegnamento del design. Nel 1958, nel suo discorso all’Esposizione internazionale di Bruxelles, Tomás Maldonado (1974) sottolineava una situazione paradossale: «Mentre la formazione del disegnatore industriale continua beatamente a vivere all’ombra di un Bauhaus già leggendario, il disegno industriale in quanto tale si trova in una situazione particolarmente incerta; mentre sulla formazione del disegnatore industriale si pretende di sapere già tutto, sul disegno industriale si sa sempre di meno» (p. 55). Fu lo stesso Maldonado, e il suo gruppo di “monaci sulla collina”2, a reimpostare radicalmente il sistema della formazione e a proporre una visione strutturata e coerente di cosa fossero il disegno industriale e le nuove professionalità che questo metteva in campo nella società del secondo dopoguerra e della ricostruzione. La rivoluzione ulmiana avvenne precisamente grazie alla rottura nei confronti di quel Bauhaus “già leggendario” e all’introduzione di un set di strumenti radicalmente “altri”, in consonanza con i tempi nuovi: un corso fondamentale del tutto rinnovato e basato su presupposti scientifici; una serie di discipline coerenti con la visione professionalizzante del disegno industriale; una curiosità “febbrile” verso saperi che si affacciavano allora sulla scena (cibernetica, teoria dell’informazione, teoria dei sistemi, semiotica,
21 /// IL DESIGN E I DILEMMI DELL’EDUCAZIONE / RAIMONDA RICCINI
ergonomia...); e soprattutto un’attenzione problematica tanto alle metodologie quanto alle teorie psicologiche e pedagogiche (Maldonado, 1984, p. 5). Ma il cambiamento avvenne anche perché furono inglobate nel mondo del design tipologie oggettuali e prodotti industriali che non rientravano neppure lontanamente nell’orizzonte problematico del Bauhaus. Ecco, io credo, in analogia con quel lontano 1958, di poter affermare che in Italia si pretende oggi di sapere già tutto sulla formazione del designer, mentre sul design si sa sempre di meno. Da un lato l’ormai incontrollabile estensione del termine design e delle sue universali (presunte) attribuzioni professionali impedisce al formatore di dotarsi di strumenti che, in modo forse riduttivo ma necessario, stabiliscano i confini, osmotici ma riconoscibili, entro i quali svolgere l’azione formativa. Dall’altro lato, si deve constatare che nel nostro Paese manca quasi totalmente una riflessione aggiornata e attenta sulla questione della formazione nel mondo delle discipline progettuali. Se posso permettermi un inciso polemico, al contrario che nelle scuole del passato nelle nostre università vige un abissale e presuntuoso fai-da-te, avulso dal dibattito internazionale sulla pedagogia: mentre nel Novecento le scuole sapevano guardare a Dewey e Montessori, si facevano contaminare dalla Gestaltpsychologie e dal Neopositivismo, noi continuiamo a ignorare le linee pedagogiche di punta, le metodologie più aggiornate. O, pur conoscendole, non ne facciamo uso nel ridiscutere e impostare i nostri programmi formativi. In particolare ci sono due questioni sulle quali mi sembra impossibile non provare a confrontarsi: 1) la rivoluzione cognitiva, le neuroscienze e gli studi sul cervello, con le loro implicazioni sui processi della conoscenza e, di conseguenza, sui modelli pedagogici; 2) la rivoluzione digitale, con le sue ricadute sui sistemi di apprendimento e di trasmissione della didattica (e-learning, ma non solo) (Maldonado 1997, 2005). Proprio attorno a questi due nuclei si sono sviluppate le più recenti teorie dell’apprendimento, in uno stretto legame con i due opposti atteggiamenti di accoglienza o rifiuto degli strumenti digitali nel processo educativo. Diversi studiosi hanno affrontato il problema in termini non dicotomici né apocalittici, come nel caso dello psicologo americano Haward Gardner che, sulla base dei risultati di Project Zero, un programma di ricerca sperimentale di lungo periodo, ha cercato di chiarire i meccanismi dell’apprendimento e dello sviluppo delle facoltà cognitive nei bambini e negli adolescenti. Negli ultimi tempi il programma si è concentrato sul «modo in cui i processi cognitivi, la personalità, l’immaginazione e il comportamento dei giovani possono essere influenzati, e forse radicalmente trasformati, dall’utilizzo che essi fanno» dei media digitali (Gardner e Davis 2013, p. 9). In questo studio si pone l’accento proprio sul fatto che «la questione più rilevante [è] come i media digitali stanno trasformando e continueranno a trasformare l’educazione» (p. 159). Su questo punto c’è un accordo sostanziale fra gli studiosi:
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3 Cfr. fra gli altri Casakin 2007, Lebahar 2007, Moineau e Martin 2012, Ferraris 2014, Salama 2015, Design Pedagogy 2015.
le “generazioni app” si presentano sulla scena della formazione scolastica e universitaria dotate di attitudini specifiche, che derivano dall’essere immersi sin dalla nascita all’interno di quella che Luciano Floridi (2017) ha chiamato “infosfera”. Nella fase di preparazione alla scrittura di questo testo, ho fatto una rapida ricerca bibliografica e una panoramica di riviste specializzate per aggiornare le mie conoscenze sul tema. I risultati sono desolanti. Mentre in ambito anglosassone, in particolare, e in quello francese esiste una copiosa letteratura sull’argomento, non ho trovato che poche tracce di studi riferibili al contesto italiano3. Nel nostro orizzonte culturale questo problema semplicemente non esiste. Dal che si sarebbe tentati di inferire che il formatore italiano continui a programmare e riprogrammare le strutture dei corsi di Design come farebbe un bricoleur che dovesse costruire un oggetto a partire dai pezzi di analoghi oggetti esistenti e da qualche pezzo aggiuntivo acquistato in un magazzino del fai-da-te. (E per fortuna, sono i designer stessi che, quando devono affrontare l’impegno didattico, sentono il bisogno di riflettere su ciò che fanno, come si vede anche dai testi di questo libro). Le pagine che seguono sono un embrionale tentativo di delineare qualcuna delle questioni attorno alle quali a mio parere andrebbe avviata una riflessione, per capire se e come accogliere all’interno dei nostri profili formativi il cambiamento che le tecnologie, i sistemi tecnologico-produttivi e i nuovi scenari sociali e culturali sembrano portare con sé. E se questi spostano o meno il “baricentro” della disciplina, secondo la definizione che ne hanno dato Giovanni Anceschi e Massimo Botta (2013, s.n.p.): «Il nostro baricentro disciplinare è il nucleo, la spina dorsale, lo zoccolo duro, del sapere in questione. È ciò che pur provenendo da esperienze anche disparate va a costituire il suo fulcro centrale comune. È la parte più universale e ad un tempo più specifica del design, ma soprattutto la più stabile. È il sapere che nessun’altra disciplina possiede e propone. È il suo sapere necessario»”. I dilemmi della formazione In un bel libro sulle “tre culture” del XXI secolo (scienze sociali, scienze naturali, scienze umanistiche) Jerome Kagan (2013) ci fa riflettere sui modelli della conoscenza nella nostra cultura, dominata saldamente da quello delle scienze naturali. Tuttavia, dice Kagan, questo modello contiene in sé differenze profonde. Da un lato la chimica e la fisica, che si occupano di cose ed eventi che “resistono al cambiamento” come atomi, elettroni, la struttura dell’ossigeno o la velocità della luce; dall’altro la biologia, le cui strutture – geni, cellule, organi e organismi – sono variabili e mutano nel tempo. Continuamente, incessantemente. A quali di questi due modelli si deve rivolgere lo scienziato sociale, si chiede Kagan? Il nostro autore non ha dubbi: «Sembra più razionale per gli scienziati sociali scegliere un quadro di riferimento che assume cambiamenti dinamici fra i vincoli contestuali
23 /// IL DESIGN E I DILEMMI DELL’EDUCAZIONE / RAIMONDA RICCINI
Chaos is order yet undeciphered1 di Francesco Messina
Teoria e pratica dell’osservazione. E del confronto. Con riferimenti, diretti e non, a vicende di insegnamento e di studio in un triennio universitario dove si insegna il Design della comunicazione.
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1 Il caos è ordine non ancora decifrato
Una serie di necessarie premesse -1. In forma di incipit. Pasolini, in una sua bellissima poesia, ci ricorda che: «Per essere poeti, bisogna avere molto tempo: ore e ore di solitudine sono il solo modo perché si formi qualcosa, che è forza, abbandono, vizio, libertà, per dare stile al caos». Non servono commenti, ha a che fare con il titolo. 0. Per imparare a fare qualcosa servono teoria e pratica. Serve l’esperienza. Per imparare qualcosa va bene tutto. Va benissimo anche la rete. Che però non ha un indice, come hanno invece i libri fatti bene, che però sono cari e non sono a portata di mano. Eppure. 1. Affinché un artefatto grafico possa garantire la circolazione di informazioni corrette e persino generare sorpresa o interesse, con soddisfazione delle persone alle quali il messaggio è diretto e buona pace di chi l’intera operazione l’ha commissionata, serve che gli elementi di cui è composto (in varie forme) funzionino bene. E per funzionare bene serve che tali elementi dialoghino tra loro efficacemente. Fanno la stessa cosa le parole e la musica in una song ben congegnata e, allo stesso modo, questo devono fare anche le parole e le immagini di un artefatto grafico. Devono garantire di aver sviluppato tra loro un buon rapporto dialettico. In pratica, serve che i due elementi, per essere efficaci, dicano la stessa cosa ma – attenzione –, in modi diversi e correlati; o meglio, serve che raccontino la stessa cosa senza ripetersi, perché fare del buon graphic design (a meno che non si tratti di qualcosa che mira a una “semplice” operazione di chiarificazione dei dati) significa fare storytelling e, se ci si ripete, si è solo noiosi. Già, far bene non è facile; per provarci l’impegno è d’obbligo, e anche se ai più non sembra, ci sono delle regole da imparare. Bene, in questo modo abbiamo appena messo insieme due punti forti sostenuti da due persone ben diverse: Dietrich Fischer-Dieskau e Milton Glaser, rispettivamente un grande baritono e un grande grafico. Bello sapere d’accordo mondi così diversi, è un buon segno. Infatti, solo quando scopriamo che le dinamiche interne (tra testo e immagine) contenute nei messaggi che progettiamo devono essere veramente ben congegnate, cominciamo ad avere un’idea corretta e matura di un mestiere che chiede senza sosta studio, attenzione e molta pratica. E già spiegare questo a degli studenti che (come me alla loro età) vorrebbero riprogettare il mondo intero senza saper ancora usare la matita, è cosa che richiede pazienza. Bisogna accettare di imparare a conoscere bene i due linguaggi, quello delle parole e quello delle immagini. Cosa non difficile, ma impegnativa. Trovare “le parole giuste” per un titolo, un claim, un breve testo o una semplice didascalia è parte del progetto grafico. E per questo non dovrebbe essere necessario rivolgersi sempre ad un copywriter. Le parole hanno una forma, e le frasi di conseguenza, quindi influenzano enormemente l’esito di un progetto. Molti copywriter (che comunque non sono sempre immediatamente disponibili) non lo sanno. Ma questo, ci tengo a sottolinearlo, non riguarda solo l’ambito editoriale (certo il titolo per un libro
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o un disco è fondamentale!) ma anche quello dell’industria. Entrate in un’azienda media, o anche medio-grande italiana (che, per la cronaca, in Germania corrisponderebbe a una piccola) e verificate se lì dentro c’è un addetto stampa che si occupi, oltre alle relazioni con l’esterno e agli speach dei dirigenti, anche un po’ del resto: testi per i cataloghi, l’house-organ, per il web, persino per le comunicazioni interne. Ebbene, molto difficilmente lo troverete. Così tutto ricade regolarmente sull’Ufficio Comunicazione o Marketing che dir si voglia. Il giovane o esperto grafico di turno si trova regolarmente da solo ad affrontare problemi che possono sembrare al di fuori della propria competenza. Ma, ahi lui, non lo sono. Parola e immagine stanno, da sempre, insieme. Ogni giorno, ogni minuto ogni secondo, sembrano rinnovare il voto della loro unione. Gli studenti, anche se non tutti, sono bravi e si sa che molti di loro, a tempo debito, cominciano ad “intendere bene”, ma convincerli che l’uso che faranno delle parole (e dell’importanza della loro organizzazione) sarà determinante almeno quanto quello delle immagini che sapranno produrre, non è compito facile. È, in fondo in fondo, una questione culturale. A remare “più o meno involontariamente contro” ci sono molti elementi. Azzardo un piccolo elenco che “tengo sempre in tasca” (si fa per dire, naturalmente): A. Una migliorabile espansione nel percorso triennale di materie di carattere umanistico. Se preferite, diciamo di carattere letterario. Perché a meno che non si tratti di studenti che hanno frequentato un buon liceo, la maggioranza di loro è quasi analfabeta. Non sa scrivere nemmeno una relazione tecnica. E questo, in una società moderna, se non va bene in generale, è inaccettabile per chi progetta con immagini e parole. A.1 Una migliorabile (di conseguenza) correlazione tra tutte le materie di studio, compresa quella molto trasversale appena sopracitata. Per non parlare della grafìa; semplicemente spaventosa da quando sono stati tolti i corsi di calligrafia alle elementari. Trovatemi invece un inglese, anche di modesta scolarità che scrive male o persino in modo incomprensibile. Chi ha pratica d’insegnamento sa bene che a volte è impossibile riuscire a correggere delle prove scritte. E questo accade anche con “studenti di grafica”. B. Da aggiungere ad A (ma meritava un “a capo tutto suo”): uno studio non abbastanza approfondito della storia della Comunicazione Visiva con un percorso che comprenda la contemporaneità e approfondisca le origini. Un esempio veloce? Persino sapere cos’è un linguaggio semasiografico potrebbe generare degli spunti interessantissimi in fase di progettazione. Meraviglie dell’imprevedibile. C. Un troppo breve ciclo di studio della storia e della pratica della Tipografia (T maiuscola). Ho raccolto informazioni anche “sul campo”, non solo tra le pagine di un libro: per molti colleghi e amici di formazione non italiana, lo studio e la pratica della tipografia rappresentano almeno il 70% di quanto serve per fare graphic design. E la tipografia, piaccia o no, ha a che fare con le parole. O no?
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D. Last but not least: una non abbastanza profonda definizione e organizzazione di ciò che si chiama, spesso impropriamente, Basic Design e che deve anticipare lo studio e la pratica del progetto. Comunque la si pensi serve passare da quelle parti. Che gli studenti vadano direttamente al lavoro o continuino gli studi in una pur buona magistrale, in ognuno di quei posti si darà per scontato che “le basi” siano state già acquisite. Che per una buona specializzazione si decida di andare in viaggio a Venezia, a Milano, a Urbino, a Losanna o alla Central Saint Martins, “la partitura” è sempre la stessa. Ovunque si darà per scontato che il solfeggio è stato già ben prima studiato e praticato. Dimenticavo: se un approfondito studio della psicologia della percezione (ma con tanto di applicazioni pratiche) vada considerato qui (a far parte del Basic), oppure sia interessante incontrarlo da altre parti, non lo so. Basta che ci sia e si faccia sentire. E. Vedi alla voce 4: l’uso “amichevole” della tecnologia. 1.1 Quindi chi intende iniziare a imparare a progettare qualcosa in quest’ultimo ambito, è avvisato. Per far bene le cose dovrà affrontare questioni che solo apparentemente possono apparire semplici, e sappia che in realtà, nel campo della comunicazione visiva (come in tutti gli altri), ci sono un po’ di complicazioni di quanto normalmente si presuppone. In tal senso come riferimento può valere la nota considerazione seguente: «Quando si va in un paese orientale per una settimana ci si può scrivere un libro. Se invece ci si sta un mese forse un articolo, Se poi ci si rimane un anno, non si è in grado di scrivere nulla». Per “comunicare come si deve” serve operare con idee ben congegnate e serve pure poter disporre di una notevole quantità di informazioni (la memoria deve pur fare il suo lavoro), nonché di una metodologia ben collaudata, meglio ancora se in perenne attività di perfezionamento. Non mi stanco mai di ripetere all’inizio di un semestre, una frase brevissima: «L’intuizione è la più lunga dalle incubazioni, tenetene conto», anche se continuo a non ricordarmi a chi ho sentito dire queste chiare e concentratissime parole. Probabilmente a Paolo Legrenzi. La memoria, appunto! Infatti, se i principi su cui si basa l’efficacia nell’advertising fanno leva sulla ripetitività meccanica di un messaggio recepibile anche in modo completamente passivo, la comprensione (che è ben diversa dalla semplice memorizzazione) si basa invece sull’osservazione attiva e consapevole. Nonché sullo sviluppo delle capacità di confronto. Al fine di innescare quest’ultimo processo serve qualcosa di più che “appoggiare lo sguardo” sugli elementi utilizzati. Si tratta di procedimenti diversi tra loro, molto diversi. E per un designer, attivare tutto questo significa anche poter contare anche su ciò che lui stesso ha già visto, con consapevolezza e spirito critico. 1.2 Se fare arte è stato ed è almeno due cose [A. testimonianza di insegnamenti (anticamente). B. ricerca o pura espressione (oggi)], fare graphic design, è invece un vero e proprio mestiere per il quale peraltro ci si attiva solo quando un committente ci invita a fare qualcosa per lui. Si tratti di solo “problem solving” o qualcosa di più, è pur sempre
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come tali e non siano essi a governare il processo progettuale o a generare delle forme che devono essere progettate e definite precedentemente. Per concludere con un quadro completo dei “nuovi” strumenti di progettazione, ci sono infine le penne 3D. Questo oggetto, che permette di realizzare disegni tridimensionali simili a quelli di una stampante 3D ma con un livello di dettaglio più vicina allo schizzo, è quello più interessante dal punto di vista propedeutico. Per utilizzare queste penne è infatti necessaria un’accurata conoscenza della geometria solida perché è fondamentale riuscire a passare velocemente dalle due alle tre dimensioni per realizzare dei wireframe del prodotto che si sta immaginando. Progettare la forma, dopotutto, significa definire un volume e questo strumento obbliga chi lo utilizza a pensare in modo tridimensionale. Se nel rappresentare con schizzi si illustrano delle viste preferenziali, con una penna 3D è necessario pensare l’oggetto nella sua totalità, con proporzioni e dimensioni che si sviluppano tridimensionalmente nello spazio. Questo modo di pensare è un’operazione propria del designer che, soprattutto se esperto, non necessita di utilizzare uno strumento per rappresentare il suo progetto, perché questo è chiaro nel suo immaginario, conosce com’è fatto e come si utilizza. Probabilmente se mi avessero posto la domanda “i tuoi studenti imparano ad utilizzare consapevolmente una penna 3D?” il livello della discussione successiva sarebbe stato un altro e avrei dato per scontato molto di quanto detto in questo testo.
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Maestri del Design 2005 Maestri del Design. Castiglioni, Magistretti, Mangiarotti, Mendini, Sottsass, Bruno Mondadori, Milano. Maldonado, Tomás 2003 Disegno industriale: un riesame, Feltrinelli, Milano. Maldonado, Tomás 2005, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano. Munari, Bruno 1999, Da cosa nasce cosa. Appunti per una metodologia progettuale, Laterza, Roma-Bari.
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I workshop Iuav. La libertà del progetto Chiara Pagani L’esperienza di workshop è sempre un po’ un’avventura: per una settimana l’università si anima accogliendo un viavai più variegato del solito e facendosi crocevia di incontri, scoperte, conoscenze. Gli studenti, da 20 a 25 per gruppo ammessi su base meritocratica, hanno infatti l’opportunità di confrontarsi con un designer esterno: si tratta di professionisti di riconosciuto valore, chiamati appositamente rispetto ai loro specifici background e secondo criteri di pertinenza al tema, che vengono affiancati da tutor interni selezionati tra i laureati senior o tra i collaboratori di corsi e laboratori didattici. I partecipanti collaborano quindi con compagni provenienti da anni diversi, in una felice varietà di esperienze e maturità progettuali; quest’anno inoltre, per la prima volta, i workshop sono stati aperti anche agli studenti di tutte le università di design italiane, proprio per stimolare nuove relazioni e favorire lo scambio con altre scuole di formazione. Si sperimentano così inediti linguaggi, si approcciano ambiti di progetto innovativi e da tale fermento creativo nascono spesso inaspettate alchimie. Il corso di laurea in Disegno industriale e multimedia Iuav organizza questa attività dal 2003 come appuntamento annuale, considerandola un’integrazione importante alla didattica regolare. Per molte edizioni i workshop hanno rappresentato anche una modalità privilegiata per rafforzare il sistema università - mondo imprenditoriale, attivando collaborazioni con partner individuati tra le istituzioni e le aziende prevalentemente del territorio. Nell’edizione 2016 si è invece preferito seguire un’altra linea, privilegiando quella che possiamo definire la “libertà del progetto”: non laboratori pensati per rispondere a brief reali, focalizzati partendo dalle indicazioni ricevute da partner esterni, ma contenuti più didattici, messi a punto
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anche interpretando riflessioni emerse durante l’anno accademico e istanze raccolte dagli studenti. Gli undici workshop hanno quindi offerto l’occasione per introdurre e approfondire alcune competenze fondamentali che sono parte di quella “cassetta degli attrezzi” che ogni giovane designer dovrebbe pian piano costruire nel corso della sua crescita professionale: competenze trasversali alle diverse specializzazioni (intese convenzionalmente come product/graphic design), che si identificano come metodi utili a integrare, supportare, visualizzare, comunicare i risultati del percorso creativo. Illustration, infographic design, inspiring product design, interaction design, materials, motion design, photography, sketching, sound design, typography e video making sono tra i principali strumenti contemporanei che contribuiscono a valorizzare il design come “processo” – pensiamo alla definizione design thinking –, o come “storia” – vedi alle voce, talvolta sopravvalutata, storytelling – grazie ai quali un “oggetto” (fisico, stampato, digitale, multimediale) diventa un “prodotto”, esito di un pensiero progettuale a 360°.
71 /// I WORKSHOP IUAV. LA LIBERTÀ DEL PROGETTO / CHIARA PAGANI
ILLUSTRATION
DESIGNER Fabio Visintin TUTOR Francesca Rizzato
STUDENTI Clara Accebbi Elisa Bisi Pietro Braga Simone Calegaro Giulia Candita Matlis Cenuka Alice Chinello Eleonora Dorio Valentina Ferrarese Noemi Incardona
Edoardo Massa Alessandra Neri Jlenia Piran Matteo Pirolo Giulia Serafin Mattia Toffolo Luca Trentin Cristiana Zampolini Nicola Zava
L’immagine giusta Pensare e realizzare un’immagine di copertina per un libro nel variegato campo dell’illustrazione è l’equivalente della gara dei 100 metri piani nell’atletica. Se nei 100 metri pochi decimi di secondo servono a definire la vittoria o la sconfitta, nella cover tutto si gioca in un’unica immagine la cui eleganza, potenza ed efficacia di persuasione devono conquistare l’attenzione di un potenziale lettore. Una cover efficace può aiutare molto il “prodotto” libro ma per arrivare a questo, come nell’atletica, occorre un allenamento specifico che coinvolge non solo la capacità tecnica dell’illustratore ma anche il suo approccio strumentale alla realizzazione dell’immagine. Il workshop si è quindi proposto di percorrere le varie fasi che portano alla creazione di una copertina, attraverso un’esercitazione pratica, di spiegarne i passaggi e le tecniche ma soprattutto di indagare il pensiero che sta dentro al “progetto” cover. Il lavoro si è svolto a partire dai testi di William Shakespeare, grande autore classico che si presta a innumerevoli interpretazioni, pensando a un’ipotetica collana che ne ripropone alcune delle opere più significative in edizione economica (formato 14.5 × 21 cm). Indirizzata a un pubblico eterogeneo di lettori “non abituali”, si prevede che la collana abbia una distribuzione nelle edicole nel periodo estivo, di vacanza: da qui l’ironico titolo di “Shakespeare on the beach”.
Il mercante di Venezia La bisbetica domata Pietro Braga La tempesta Elisa Bisi
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La tempesta Giulia Candita La tempesta Simone Calegaro Macbeth Matlis Cenuka La tempesta Clara Acebbi
Macbeth Romeo e Giulietta Alice Chinello
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INFOGRAPHIC DESIGN
DESIGNER Gianni Sinni TUTOR Daniele Tabellini
STUDENTI Alessandro Agosta Francesca Alaimo Irene Canovi Mattia Casarotto Simone Cavallin Leonardo Ceccon Sara Cetto Agnese Maria Chiarot Mattia De Pieri Rosa Fabozzo Jacopo Faggian Anna Germin
Samuele Kriedi Francesco Mattiussi Vittorio Moro Nicole Rahel Nalbach Filippo Papa Silvia Perissinotto Federico Santrarini Giorgia Scaramuzza Alberto Simonetto Maria Elisa Torre Francesca Vedovato Monica Zulian
Disegnare la cittadinanza digitale Oggi è possibile ripensare la comunicazione di utilità sociale all’interno dei percorsi di innovazione digitale che coinvolgono la pubblica amministrazione. Modelli open source e collaborativi che interessano sempre più ambiti di progettazione, processi come quelli definiti dal design thinking e dal service design, l’attenzione all’usabilità e alla user experience, tecniche di infografica e interaction design, sono solo alcuni degli strumenti con i quali il designer può contribuire oggi a rendere più efficace il rapporto digitale cittadino-istituzione. Ripensare il modo in cui vengono progettati i servizi significa però anche fare uno sforzo per immaginare soluzioni radicalmente innovative. Gli studenti hanno così lavorato su ipotetiche dashboard di accesso e gestione della propria cittadinanza digitale, delle pratiche e dei servizi connessi: ogni gruppo, usando metodologie di speculative design e design fiction ha scelto un anno dei prossimi venti in cui proiettarsi e progettare. Ne sono scaturiti interessanti progetti paralleli e complementari che abbracciano tutto l’excursus delle possibili metafore di navigazione già attualmente usate come best practices in giro per il mondo.
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83 //// INFOGRAPHIC DESIGN
2017 Simone Cavallin Mattia De Pieri Filippo Papa Alberto Simonetto Un piccolo device fisico costituito da un sottile schermo touch screen, che sfrutta la tecnologia dell’e-ink, permette al cittadino di visualizzare tutti i propri documenti: patente di guida, carta d’identità, tessera sanitaria, carta di credito e tessera elettorale. Al dispositivo, attivabile attraverso l’impronta dell’utente che ne determina unicità e sicurezza, si affianca un’app per smartphone e un applicativo desktop che permettono di analizzare nel dettaglio dati e statistiche.
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2019 Francesca Alaimo Irene Canovi Samuele Kriedi Maria Elisa Torre L’interfaccia si basa sulla condivisione di file simultanea e istantanea tra diversi enti e utenti, allo scopo principale di abbattere le barriere burocratiche che rallentano i tempi nella società di oggi. Il progetto è nato per semplificare le relazioni e diminuire i tempi di attesa, aumentando l’accessibilità ai documenti. La dashboard modulabile e interattiva, è progettata e ordinata in base alla frequenza delle relazioni tra utilizzatore e altri utenti: il concetto base è la possibilità di modificare, compilare e firmare documenti direttamente sul servizio di file hosting and sharing.
85 //// INFOGRAPHIC DESIGN
INTERACTION DESIGN TOOLBOX
DESIGNER Dario Buzzini TUTOR Barbara Busatta
STUDENTI Tommaso Barbiero Rosalba Bertini Francesco Bianchin Diana Bogdan Federico Cainero Gianmarco Ciucciovè Leonardo Corvaglia Marco Da Ros Eleonora Di Francesco Michela Fazio Alberto Fontana
Giulia Forza Ilaria Gava Marian González Nieto Annalisa Iacopetti Michela Larentis Luigi Francesco Leopizzi Jianyong Li Andrea Marson Nicolò Mingolini Thomas William Propedo Filippo Talami Alessandro Tonietto
Tools, methodologies, tips and tricks to start working and thinking like an interaction designer Gli interaction designers hanno oggi il ruolo di definire esperienze uniche e coinvolgenti, oltre a essere in grado di assimilare diverse tipologie di contenuti, anche complessi, nel loro processo di progettazione. Questo è particolarmente vero per i sistemi multi-canale, multi-culturale e multi-pubblico di prodotti e servizi che richiedono un insieme di soluzioni progettuali molto intelligenti e sofisticate, sia qualora si rivolgano al grande pubblico, sia nel caso di prodotti ad hoc per contesti e utenti specifici. Progettare per sistemi interattivi complessi richiede una continua valutazione delle ipotesi del designer attraverso interazioni frequenti e valutazioni di comportamenti degli utenti. Lo scopo di questo workshop è stato appunto quello di esporre agli studenti tecniche per la prototipazione rapida e “dal vivo” di prodotti/servizi interattivi. Inoltre gli studenti hanno imparato a raccogliere feedback dagli utenti reali, nel loro contesto, con l’obiettivo di acquisire una forma mentis basata su rapidi cicli Build>Measure>Learn.
91 //// INTERACTION DESIGN TOOLBOX
Hidden Doors fanzine Progetto corale del primo numero di un’ipotetica fanzine: le “porte nascoste� sono luoghi, eventi, persone di Venezia che conducono a nuove e inaspettate esperienze.
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ReJob Rosalba Bertini Marco Da Ros Michela Larentis Luigi Leopizzi Alessandro Tonietto Un servizio pensato per gli ex carcerati del territorio veneziano, allo scopo di aiutarli a reintegrarsi nella società tramite piccoli lavoretti o aiuti richiesti dai cittadini: non è previsto un compenso immediato ma corsi di formazione premio. L’app permette agli utenti di inserire il profilo personale con le proprie abilità (una sorta di curriculum) e ai cittadini di segnalare annunci riguardanti attività ed esigenze – dal trasporto della spesa per un anziano alle ripetizioni di lingua straniera per connazionali o bambini.
93 //// INTERACTION DESIGN TOOLBOX
Calle N Michela Fazio Giulia Forza Annalisa Iacopetti Jianyong Li Nicolò Mingolini Un workshop organizzato da una compagnia teatrale che coinvolge le scuole primarie. L’obiettivo è quello di far scoprire dettagli importanti della città di Venezia, partendo dalle sue porte – intese nel senso letterale del termine – ricche di rilevanza storico-artistica e di significato sociale.
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Mistery in Venice Federico Cainero Gianmarco Ciucciovè Leonardo Corvaglia Eleonora Di Francesco Ilaria Gava Un’applicazione progettata per mettere in contatto gli appassionati dei misteri celati a Venezia. L’app guida il fruitore attraverso mappe, eventi ed altre attività per far conoscere a residenti e turisti il lato oscuro della città.
95 //// INTERACTION DESIGN TOOLBOX
MOTION DESIGN
DESIGNER Francesco Meneghini TUTOR Ivo Arzenton
STUDENTI Claudia Abriani Sara Bassi Domenico Bellantuono Matteo Benetti Giacomo Bianco Luca Boccardo Giovanni Bubola Alessandro Callegaro Daniela Cenzon Giovanni Covre Andrea Floridia
Francesca Losso Francesca Luzi Francesco Memo Serena Panariti Marta Pulin Dario Scanferla Viviana Schiano Lo Moriello Chiara Venica Elena Veseli Lorenzo Vio
Tracking Venice Ovvero analizza, scomponi e remixa. Un ritratto contemporaneo e personale della città. Venezia vanta nel corso della storia innumerevoli ritratti che la vedono protagonista: attualmente città estremamente fotografata e riconoscibile, Venezia è diventata il soggetto e il campo di ricerca del workshop, inducendo gli studenti a guardarla con occhi differenti. Il paesaggio da cartolina viene trasformato in dati reinterpretati per creare nuove immagini in movimento: ogni progetto è derivato infatti da una personale sperimentazione e restituzione di un angolo della città, facendo particolare attenzione al “movimento delle cose”. Dopo una ripresa fatta con qualsiasi mezzo, dal cellulare alla videocamera, le immagini di ponti, scorci, calli e soggetti vari sono state trattate con After Effects (attraverso varie tecniche di postproduzione) esaminandone i colori, il movimento, i suoni per poi modificare, trasformare e mixare questi luoghi reali con paesaggi digitali. I nuovi scenari hanno formato una visione frammentata, innovativa e sorprendente di Venezia.
Punto, Linea, Superficie Giovanni Covre Francesca Luzi Un’analisi del rapporto tra turismo e avifauna di Venezia: partendo da una ripresa video di turisti che danno da mangiare ai piccioni in Piazza San Marco, è stata fatta un’analisi e un tracking 2D dei punti notevoli dei soggetti. Attraverso il solo l’utilizzo di elementi grafici semplici sono stati ricreati l’espressività e il contenuto della scena iniziale, dimostrando quanto la tipologia del movimento di singoli punti possa essere capace di grande forza espressiva.
Water Pixel. I pixel come mezzi di trasporto Matteo Benetti Marta Pulin Il mare è uno degli elementi più rilevanti di Venezia. Dopo aver montato una serie di inquadrature che riprendono vari mezzi in navigazione sui canali, in postproduzione il mare è stato sostituito da un’unica fila di pixel campionata dall’acqua stessa e moltiplicata infinite volte. Le onde sono così diventate dei moderni specchi digitali in movimento, che regalano la visione di una città futuristica con sonorità elettroniche.
Differenze temporali tra soggetti diversi Daniela Cenzon Francesco Memo Lorenzo Vio Sono state fatte riprese video a diversi soggetti in movimento a Venezia, mantenendo sempre lo stesso tipo di inquadratura e prospettiva. Le singole scene sono state poi tagliate e montate: la velocità del soggetto ripreso ha determinato la velocità del movimento della relativa inquadratura e quindi la lunghezza del video. I soggetti si fondono l’uno con l’altro creando una sorprendente sequenza.
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Blackout. Analisi del movimento veneziano Sara Bassi Domenico Bellantuono Quasi come in una fiaba il video racconta che, a causa della rottura del campanile dei Mori in Piazza San Marco, a Venezia qualcosa si inceppa. L’acqua e tutto ciò che naviga su di essa si congelano nel tempo. Ambizioso progetto di rotoscoping che mostra una realtà fantastica e suggestiva creando evidenti paradossi temporali.
Venice Fraction. Analisi frammentata della città galleggiante Luca Boccardo Andrea Floridia Dario Scanferla Tagliando e incollando strisce di riprese, come in un collage del futuro, vengono prodotte sequenze dinamiche che frammentano la città nello spazio e nel tempo, creando complessi pattern. La colonna sonora è generata dal suono registrato in presa diretta nei diversi luoghi, poi moltiplicato innumerevoli volte.
Venezia Ambigua. Costruzione di un paesaggio surreale tra meccanismi percettivi fittizzi e regole contraddette Giacomo Bianco Serena Panariti Viviana Schiano Lo Moriello Chiara Venica Al limite tra il possibile e l’impossibile, il video dipinge una città dove il paesaggio è stato alterato in modo sottile e inaspettato. In alcune inquadrature che ritraggono i ponti di Venezia, attraverso moltiplicazioni o sostituzioni sono stati modificati i ponti stessi o altri elementi architettonici. Ne risulta una città a tratti escheriana in grado di confondere i veneziani stessi su ciò che è o non è reale.
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Frammenti
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Chiara Pagani, originaria di Modena, si trasferisce a Treviso per studiare design all’Università Iuav di Venezia, dove si laurea nel 2003. Subito dopo inizia a collaborare con Evelina Bazzo / Umbrella, impegnandosi in attività organizzative, di comunicazione e di management attorno ai temi del design. Dal 2005 coordina le iniziative culturali del corso di laurea in Disegno industriale Iuav: si occupa di mostre, workshop, pubblicazioni editoriali, convegni, progetti speciali. Dal 2011 è responsabile degli stage e della relazione con le aziende e gli studi, supportando gli studenti dalla revisione dei portfoli fino al placement. Dal 2010 è coordinatore dell’Osservatorio ADI Design Index per la Delegazione Veneto e Trentino Alto Adige.
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Raimonda Riccini è professore ordinario all’Università Iuav di Venezia. Alla Scuola di dottorato, di cui è vicedirettore, coordina il curriculum in Scienze del design; è responsabile del forum nazionale dei dottorati di design “Fare ricerca in design - Frid” e del “Laboratorio di scrittura” della Scuola. Attiva nella ricerca teorica e storica sul design, con il gruppo di ricerca “Design e museologia” si occupa dei temi del patrimonio in relazione ai processi di mediazione e all’uso delle tecnologie digitali. È presidente dell’Associazione italiana degli storici del design - AIS/Design, di cui dirige la rivista “AIS/Design. Storia e ricerche” (www.aisdesign.org). Fra le pubblicazioni recenti ha curato Design e immaginario. Oggetti, immagini e visioni fra rappresentazione e progetto (con P. Proverbio, Padova 2016); Enzo Frateili. Un protagonista della cultura del design e dell’architettura (con A. Norsa, Torino 2016); Fare ricerca in design (Padova 2016); Angelica e Bradamante. Le donne del design (Padova 2017); ha scritto Gli oggetti della letteratura. Il design tra racconto e immagine (Brescia 2017).
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Finito di stampare nel mese di dicembre 2017 per contro della casa editrice Il Poligrafo presso le Grafiche Socˇ a di Nuova Gorica