La stella che sorge dal mare. Un’interpretazione di Carlo Michelstaedter, di L. Campana

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SAGGI 70



Luca Campana

LA STELLA CHE SORGE DAL MARE Un’interpretazione di Carlo Michelstaedter prefazione di Roberto Cresti

ILPOLIGRAFO


progetto grafico e redazione Il Poligrafo casa editrice redazione Alessandro Lise © Copyright novembre 2019 Il Poligrafo casa editrice srl 35121 Padova piazza Eremitani – via Cassan, 34 tel. 049 8360887 – fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it ISBN 978-88-9387-089-4


INDICE

9 Prefazione I discepoli di Khezr Roberto Cresti 13 Introduzione

Parte prima LA FURIA DEL MARE

19 I. UNA GIOVINEZZA GORIZIANA II. TRA MISTICISMO PRESOCRATICO ED ETICA DELLA REDENZIONE: LA PERSUASIONE E LA RETTORICA

35 La voce di Eco 41 La Grecia della sapienza 45 Genealogia della retorica: dal Gorgia platonico all’ἐν-ϑύμ-ημα aristotelico 49 La persuasione: un’etica della redenzione Parte seconda

LA STELLA

III. L’ARTE E LA PERSUASIONE 61 Il segno: riflesso dell’anima 66 La caricatura: il laboratorio della retorica 71 Il ritratto: icona della persuasione


IV. LA POESIA E LA PERSUASIONE 81 86 95 99 109

Riflessi nello specchio di Dioniso La crisalide e il deserto Le elegie piranesi La stella che sorge dal mare Eclissi di Senia: alla ricerca della patria perduta

117 Bibliografia essenziale 119 Indice dei nomi


LA STELLA CHE SORGE DAL MARE

quae nec reticere loquenti nec prior ipsa loqui didicit [colei che non sa tacersi a chi le parla né sa parlare lei per prima] Ovidio als ich mit bebenden Fäusten das Dach über uns abtrug, Schiefer um Schiefer, Silbe um Silbe [allorché con pugni tremanti smantellai tegola dopo tegola, sillaba dopo sillaba, il tetto sopra di noi] Paul Celan



Prefazione I DISCEPOLI DI KHEZR

Roberto Cresti

Ho assistito al nascere e al radicarsi dell’interesse per l’opera di Carlo Michelstaedter nell’allora studente Luca Campana, fino a culminare, come in un primo atto di raccolta, nella sua tesi di laurea, di cui sono stato relatore. Sono passati circa tre lustri da allora, e il bel saggio che qui egli propone è certamente il frutto di un approfondimento degno di essere definito tale, condotto alla luce di una maturazione intellettuale a cui non possono essere ritenuti estranei i cosiddetti “casi della vita”. Sorprende, infatti, il doppio passo presente nel pensiero di Michelstaedter, che lega la più intransigente teoresi filosofica alle vicende dell’esistenza quotidiana, secondo una relazione ove non sempre è facile distinguere fra cause ed effetti. Ed è non meno sorprendente come la stessa dinamica si inneschi spesso nel suo lettore, trasformandosi poi in una quasi identificazione per chi se ne faccia anche studioso. Michelstaedter riflette nelle sue opere qualcosa di umano congiunto a qualcosa di meta-umano, di trascendente, che chiunque si dedichi alla filosofia, con maggiore o minor chiarezza, avverte in sé come una condizione senza la quale un vero studio filosofico non è possibile. Michelstaedter, privo di maestri accademici e portato ad interessarsi a molteplici ambiti disciplinari, fra studi umanistici, artistici e scientifici, è stato quello che, nella tradizione della gnosi sciita, si direbbe un “discepolo di Khezr”, il “maestro invisibile”, che non appartiene a nessuna catena iniziatica regolare, ma che è in connessione emanativa col Principio del mondo manifesto.


prefazione

Michelstaedter ha trovato tale maestro attraverso le maschere dei filosofi greci presocratici, ma anche di Socrate stesso, secondo un dialogo interiore che lo ha portato a una identificazione progressiva col Principio, ove pare che, addirittura, gli opposti ontologici di Parmenide e di Eraclito si uniscano in una prospettiva soteriologica. Essere riassorbiti ed estinti in quel Principio è divenuta la meta di Michelstaedter: lo scopo autotelico del suo pensiero e di tutte le sue attività espressive. Prosa filosofica, filologia, poesia, disegno, pittura, matematica sono i “presocratici”: le sizigie moderne-antiche di un’opera che, seppur giunge a una inconfondibile autonomia, trova però una relazione diretta con la vita e con la sua epoca. La frase di Baudelaire «la modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte di cui l’altra metà è l’eterno, l’immutabile», le calza davvero a pennello. Fa quindi bene Campana ad affrontare in primo luogo la biografia di Michelstaedter in tutti i suoi aspetti e a porla in contrappunto anche con l’ambiente fiorentino d’inizio Novecento, dove Michelstaedter fu a lungo, nel quale si trovavano, mossi essi stessi da interessi plurimi, molti “discepoli di Khezr”, quali furono Giuseppe Prezzolini, Giovanni Papini, Ardengo Soffici e tanti altri “autodidatti geniali”, come li disse Crémieux, e laici sacerdoti della Pistis Sofia gnostica, riapparsa, attraverso le correnti teosofiche di fine Ottocento, nelle dense pagine di «Leonardo». Ma quello che conta, soprattutto, è il modo nel quale – e Campana lo rileva con precisione – Michelstaedter seppe usare la filosofia per riportare ogni attività intellettuale e le sue stesse relazioni personali, comprese le più intime, al loro centro produttivo, liberandole progressivamente della “retorica”, ossia del loro aspetto comune, accademico o convenzionale, per farne mezzi sulla via della “persuasione”: l’ineffabile condizione metapersonale che rende ogni esistente e l’esistere stesso superflui. Il “persuaso” sa, infatti, che la caricatura è la scoria che deve portare al vero volto, la mimesi alla vera natura, il suono e l’immagine alla vera arte, la filosofia a quell’universo musicale mosso dalle forme perfette dei numeri dei Pitagorici. Persino nei rapporti d’amicizia o sentimentali e fino

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prefazione

nell’amore stesso si cela, per dirla con Ernst Jünger, «una fratellanza più alta di quella possibile fra esseri umani». Questa è stata la lezione che Michelstaedter ha completato facendo a meno di sé col proprio suicidio, commesso a ventitré anni, nel pieno delle forze, ma al tempo stesso lasciandosi alle spalle il segnavia di un percorso iniziatico che, come il sandalo di Empedocle sulla bocca del cratere dell’Etna, noi possiamo seguire fino all’indicibile attraverso le pagine della sua tesi di laurea – mai discussa perché “indiscutibile” –, nota come La persuasione e la rettorica, ultimo atto della sua vita, la cui essenza Campana analizza in stretto rapporto con la produzione poetica, dando prova di una intelligenza critica profonda, basata sulla facoltà di “saper leggere”. Nessuno aveva guidato Michelstedter al suo olocausto, che è però già in ogni suo momento precedente, così che l’epilogo resta individuale quanto il percorso oggettivo. Sapersi liberare della “retorica” costituisce uno sforzo quotidiano e la “persuasione” non è quantificabile. Conta il rapporto che si innesca fra le due e che ciascuno perfeziona a suo modo, secondo la sua misura. Quando vi fu la riscoperta di Michelstaedter, nella seconda metà degli anni Settanta del secolo passato, il suo suicidio fu assimilato a un gesto che confutava a priori le “retoriche” etiche del tempo, segnatamente quella cattolica e quella marxista. In seguito, credo, siano emersi aspetti più aderenti alla vita e plasmabili a diversi ambiti di azione e di pensiero. Da quando, il 17 ottobre 1910, in un palazzo di Gorizia, risuonò uno sparo, molti atti sono divenuti metafore e quello sparo stesso ha perso il carattere un poco melodrammatico che inevitabilmente aveva. Oggi viviamo di più o forse meno, e possiamo perciò guardare nei dettagli dell’esistenza, compresa la nostra, con meno disprezzo. Questo non inficia, anzi arricchisce il processo iniziatico che si attua attraverso ogni forma di studio e riflessione e che siamo chiamati a rendere sempre più “persuasivo”. È un piacere quindi vedere quando qualcuno, come Luca Campana, mostra una passione di ricerca che lo conduce a se stesso, lasciandosi alle spalle i maestri che, se sono tali, non trattengono e

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prefazione

anzi, come Khezr, riappaiono in ogni luogo. Lo studente di allora è oggi il maestro di sé. E la scelta d’insegnare, fra i “casi” della sua vita, ha segnato una fine e un inizio. Il suicidio di Michelstaedter è simile alla resurrezione, una volta che se ne è capito il senso, se ne può fare a meno.

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INTRODUZIONE

L’idea del mondo come complesso espressivo al quale siano riconducibili tutti i fenomeni costituisce il fondamento del pensiero greco: all’origine della speculazione occidentale la sapienza greca intuisce l’apparenza sensibile come manifestazione di un’imperscrutabile profondità della vita. Sapienza è l’idea di un’unità vivente sotto la superficie dei fenomeni, la visione della profondità, della totalità dei molti e degli opposti. Nella Grecia arcaica questa conoscenza fu chiamata con il nome di Dioniso. Secondo fonti orfiche Efesto aveva fabbricato uno specchio, guardandosi nel quale Dioniso creò il mondo in tutta la sua molteplicità: un’apparenza illusoria, un riflesso dentro uno specchio è la vita, sul suo fondo, immobile, sta un dio a guardarsi. È trascorso più di un secolo dalla morte di Carlo Michelstaedter. Figlio di un Impero austro-ungarico prossimo alla fine e di un Regno d’Italia che durante l’età giolittiana si avviava ad accogliere i primi semi della rivoluzione industriale, del liberismo e del positivismo, egli si uccise con un colpo di rivoltella, giovanissimo: aveva ventitré anni, era il 1910. Tutta la sua opera e il suo vivere furono volti alla ricerca di un’autenticità che egli non trovò nel suo tempo bensì, risalendo agli albori della memoria, in quello che ritenne essere il luogo originario della sapienza, la Grecia arcaica, il punto della storia da cui sarebbe germinato il pensiero filosofico. 

G. Colli, La sapienza greca, Adelphi, Milano 1977, p. 15.




introduzione

Scomparso così prematuramente, Michelstaedter non ha assistito al Secolo breve, all’avvento planetario di quanto nella sua opera aveva così minuziosamente descritto: dalle infallibili macchine di persuasione dei totalitarismi al definitivo dominio dell’ideologia capitalistica e tecnocratica. Il suo lascito è imponente: un’opera filosofica, La persuasione e la rettorica, e una costellazione di pensieri, appunti, disegni, acquerelli, dipinti a olio, articoli giornalistici, racconti, poesie, che ha del prodigioso, se si considera la breve vita dell’autore. Michelstaedter fu essenzialmente un filosofo: per lui il pensiero rappresentò la forma privilegiata per dare compimento a una sensibilità acutissima e inquieta, che percepiva la civiltà e la vita stessa come qualcosa di insufficiente, di mancante. La sua è una discesa dal concetto fino al fondo del vivere, fin dentro la sua carne, al suo cuore che non trema: un pensiero che vuole sprofondare, incarnarsi, sanguinare, tradursi in un’etica capace di dare un senso alla proliferazione centrifuga dell’inautentico. Ora più che mai sembra giunto un tempo adatto alle sue pagine, così sottovalutate negli anni in cui visse, così prossime al nostro mondo, percorso da sempre nuove e più pervasive retoriche e persuasioni. Lo scopo di questo studio è ricostruire l’unità che permane, al di là delle diverse forme espressive, all’interno dell’opera michelstaedteriana, dalle lettere alle pagine teoretiche, dalle caricature alle poesie, dalle recensioni giornalistiche ai dipinti ad olio: egli fu un precursore dell’esistenzialismo filosofico e letterario, un caricaturista e un pittore vicino, per soluzioni estetiche, all’avanguardia espressionista europea del gruppo tedesco a lui coevo del Die Brüke e di Arnold Schönberg, avanguardia con cui Michelstaedter non ebbe mai alcun rapporto personale. Il suo percorso ci appare nel complesso come un ritorno a un passato aurorale, la Grecia arcaica, in una prospettiva che trova in quell’epoca l’acme della civiltà occidentale. Proprio da questo sguardo scaturiscono, come vedremo, le più originali posizioni estetiche e teoretiche.

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introduzione

La stella che sorge dal mare, il titolo che ho scelto, nasce da una suggestione suscitata dall’immagine con cui si chiude la lirica I figli del mare, a esprimere quell’autenticità che Michelstaedter perseguì in maniera infaticabile per tutta la vita, come la più compiuta identità di teoria e pratica, misticismo e politicità, individuo e storia: una fiamma, una luce che sorge dagli occhi, la luce di una stella interiore, ferma su un mare in tempesta. L’immagine fonde in sé il motivo dell’illuminazione, del lampo che squarcia la tenebra, riconducibile all’immaginario parmenideo, eracliteo e giovanneo, con quello protocristiano del mare quale figura dell’alterità trascendente, a indicare le due polarità entro cui si muovono la vita e l’opera del pensatore goriziano: da un lato una innata e fortissima tensione interiore, che trova uno specchio nel misticismo presocratico, dall’altro una fattiva etica della redenzione di ascendenza cristologica. L’analisi si sviluppa attraverso due sezioni: la prima, La furia del mare, è una ricostruzione della vita e del pensiero di Michelstaedter sulla base dell’opera principale, La persuasione e la rettorica, nella quale tutti i suoi temi e i suoi principali riferimenti culturali trovano la loro più compiuta espressione; la seconda, La stella, è un’interpretazione dell’opera grafica e pittorica e di quella poetica, le due vocazioni che Carlo seguì fin da giovanissimo, nell’orizzonte di quella prospettiva speculativa. Particolare attenzione è stata posta allo stretto legame con la tradizione e la Grecità, che per Michelstaedter, ebreo goriziano nato al confine fra due diverse nazioni, rappresentò la vera “patria” elettiva, una direzione e un orientamento etico ed esistenziale, prima ancora che intellettuale e artistico.

G. Colli, La natura ama nascondersi, Adelphi, Milano 1988, pp. 21-33.

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Parte prima LA FURIA DEL MARE


Abbreviazioni Per i riferimenti alle opere di Carlo Michelstaedter sono state usate le seguenti sigle nelle note a piè di pagina: BR

La biblioteca ritrovata. Saba e l’affaire dei libri di Michelstaedter, Leo S. Olschki, Firenze 2015

DS

Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1988

EP

Carlo Michelstaedter, Epistolario, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1983

II

L’immagine irraggiungibile. Dipinti e disegni di Carlo Michelstaedter, catalogo generale delle opere, a cura di Antonella Gallarotti, Edizioni della Laguna, Gorizia 1992

MGD Carlo Michelstaedter, La melodia del giovane divino. Pensieri - Racconti -

Critiche, Adelphi, Milano 2010 OGP Carlo Michelstaedter, Opera grafica e pittorica, a cura di Sergio Campail-

la, Istituto per gli incontri culturali mitteleuropei, Gorizia, 1975 PEE

Carlo Michelstaedter, Parmenide ed Eraclito, Empedocle. Appunti di filosofia, a cura di Alfonso Cariolato ed Enrico Fongaro, SE, Milano 2003

PO

Carlo Michelstaedter, Poesie, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1987

PR

Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1995

SS

Carlo Michelstaedter, Scritti scolastici, a cura di Sergio Campailla, Arti Grafiche Campestrini, Gorizia 1976


I UNA GIOVINEZZA GORIZIANA

In ogni epoca di crisi, di transizione verso un nuovo assetto economico e sociale, di dissoluzione degli ordinamenti preesistenti, l’uomo ha trovato una forma di resistenza all’instabilità dilagante nel ripiegamento individuale, in una interiorità vissuta a volte tanto intensamente da farsi estatica, estranea al tempo e alla storia, splendente di sola luce propria e per questo accecante e incomunicabile. Questo genere di ascetismo è il segno evidente di un profondo, incolmabile pessimismo, che spinge l’individuo a rinunciare a una concreta affermazione della propria forza vitale, a ritrarsi da un mondo che naufraga per cercare fuori da esso una scintilla nell’oscurità. In quest’ottica, l’Europa di inizio Novecento non è dissimile dalla Grecia arcaica o dall’India in cui si è rivelato il messaggio del Buddha. Carlo Raimondo Michelstaedter nasce il 3 giugno del 1887 a Gorizia, provincia dell’Impero austriaco, da genitori ebrei italiani. Il padre Alberto, nato anch’egli a Gorizia nel 1850 da una famiglia di origine tedesca, è il nipote del glottologo ed erudito Isacco Samuele Reggio detto il Santo (1784-1855), per dieci anni rabbino della comunità israelitica goriziana. Interrotti gli studi regolari, Alberto si era dedicato agli affari, inizialmente come agente di cambio e in seguito assumendo la direzione dell’agenzia delle Assicurazioni Generali di Trieste, attendendo da autodidatta alla propria formazione culturale; bibliomane dagli interessi eterogenei, aveva studiato l’ebraico traducendo i Salmi di Davide, collaborando inoltre al quotidiano locale «Il Corriere friulano», diretto dalla scrittrice goriziana Carolina Luzzatto. Animato da

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parte prima

un’autentica predilezione per D’Annunzio e da viva passione per De Amicis e Carducci, Alberto è autore di versi d’occasione e ricopre nel corso degli anni il ruolo di presidente del Gabinetto di lettura cittadino e di vicepresidente della Società filologica friulana. Dal suo matrimonio con Emma Luzzatto, figlia di Carolina, nascono quattro figli: Gino nel 1877, due anni dopo Elda, Paula nel 1885 e ultimo Carlo. Il recente ritrovamento a Trieste di un complesso di libri e riviste appartenute ai Michelstaedter, sfuggiti alle due guerre mondiali e alle persecuzioni antisemite e acquistati nel 1951 dal poeta Umberto Saba – che vendette a sua volta il fondo all’avvocato e storico triestino Cesare Pagnini –, ha permesso di ricostruire buona parte della biblioteca familiare, la stessa cui attinsero Alberto e in seguito anche Carlo. Dall’analisi dei volumi è stato possibile individuare quali fossero quelli più utilizzati dal figlio piuttosto che dal padre – Carlo era solito annotare i volumi che leggeva e soprattutto disegnare sulle pagine i suoi schizzi. Ne è emerso il chiaro quadro di due punti di vista fortemente divergenti: quello erudito di un padre che predilige la cultura di lingua tedesca, che legge la Divina Commedia nella traduzione di Karl Ludwig Kannegiesser, che ha spiccati interessi storici e linguistici, economici e antiquari, satirici e vernacolari, che conosce l’ebraico e si occupa di cultura ebraica; quello del figlio, che legge in italiano Dante e Foscolo, Petrarca e Leopardi, la Sacra Bibbia volgarizzata e le poesie di Ibsen tradotte in tedesco, le massime indiane degli Indische Sprüche a cura di Ludwig Fritze e i numeri de «La Voce» usciti dal maggio 1909 al settembre 1910; da un lato lo sguardo di Alberto, ampio e quanto mai centrifugo, dall’altro quello di Carlo, fisso su un unico, lucidissimo punto. Tale differenza di vedute culturali ne adombra un’altra ancora più stringente, che si dilata presto entro i confini di un conflitto: quello tra il padre, uomo d’affari e di cultura, che estende sui figli un 

S. Campailla, A ferri corti con la vita, Arti Grafiche Campestrini, Gorizia 1974,

pp. 11-15. 

BR, pp. 23-34.

S. Campailla, La persuasione e la menzogna, in Un’altra società. Carlo Michelstaedter e la cultura contemporanea, Marsilio, Venezia 2012, pp. 7-19. 

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i. una giovinezza goriziana

rigido controllo educativo, e l’ultimogenito, il quale a quel controllo in qualche modo sfugge, finendo per ribaltare completamente le prospettive paterne. È questa la natura del rapporto fra il padre e il figlio. Non a caso Carlo delinea il ritratto di Alberto attraverso due caricature: l’impenetrabile, edipica maschera genitoriale del PadreSfinge e il fervente uomo di preghiera – ma potrebbe anche essere un’allusione all’interesse di Alberto per l’ebraismo – di Assunzione. Poco si conosce dell’infanzia di Carlo: Gino, più grande di dieci anni, lascia Gorizia sedicenne per lavorare a New York presso l’azienda dello zio Giovanni Luzzatto, mentre Elda si sposa giovanissima con il medico Silvio Morpurgo; perciò sola compagna di Carlo durante l’infanzia è Paula, maggiore di soli due anni. È lei a descriverlo come un bambino vivace e sensibile, obbediente e riflessivo, amante delle letture, in particolare dei romanzi d’avventura di Salgari e Verne. Già giovanissimo, Carlo ama annotare in un taccuino le impressioni ricevute da ogni libro letto, aggiungendo talvolta l’illustrazione di un passo scelto: questi disegni costituiscono l’espressione infantile di quella che presto si rivelerà come un’autentica vocazione per l’arte. Quasi nulla si conosce degli anni che precedono l’iscrizione al Ginnasio, né sappiamo se Carlo abbia frequentato per le classi elementari una scuola pubblica o ricevuto un’istruzione privata a casa. Il primo dato certo e documentato risale al 1897, anno in cui il giovane si iscrive al Ginnasio di Stato di Gorizia, articolato in otto classi, quattro inferiori e quattro superiori; il corso di studi si struttura secondo un indirizzo linguistico che prevede, oltre al tedesco, lingua d’istruzione, lo studio dell’italiano e delle lingue classiche, il greco e il latino; le ultime due classi prevedono inoltre un insegnamento di propedeutica filosofica.

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II, p. 289. II, p. 387.

 P. Michelstaedter-Winteler, Appunti per una biografia di Carlo Michelstaedter, in appendice a S. Campailla, Pensiero e poesia di Carlo Michelstaedter, Pàtron, Bologna 1973, pp. 147-164.  S. Campailla, A ferri corti con la vita, cit., p. 17.

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[...] und schlägst frierend vom Ausgang deine Augen auf in denen schon ein neuer Stern seinen Abglanz gelassen hat – [e nell’uscire apri rabbrividendo gli occhi gli occhi dove una nuova stella ha già lasciato il suo riflesso – ] Nelly Sachs [...] l’Uno, che è al di là della forma e dell’evento, ineffabile, senza figura, di cui si può dire solo che è, immobile e senza pensiero, l’Essere che coincide col Nulla. Carlo Diano


III L’ARTE E LA PERSUASIONE

Il segno: riflesso dell’anima Fin da bambino Carlo Michelstaedter ha amato disegnare. Secondo Paula era questa la più spiccata propensione di suo fratello, un’attitudine che a partire dall’adolescenza divenne un bisogno irrinunciabile: su quaderni scolastici, libri, ritagli di carta e in mancanza di questi persino sul marmo dei tavolini dei caffè di Gorizia Carlo tracciava con la matita i suoi rapidi segni, ritraendo quanto sul momento si dava al suo sguardo. Un motivo e uno stile emergono da queste prime costellazioni di immagini: la figura umana è il tema ricorrente, lo stile è quello caricaturale. Concluso il liceo a Gorizia Carlo si iscrisse alla facoltà di Matematica di Vienna nell’estate del 1905, ma decise poi di trasferirsi a Firenze, città nella quale frequentò la facoltà di Lettere presso l’Istituto di Studi Superiori a partire dal novembre del 1905 fino al 1910. Quello fiorentino fu un periodo cruciale della vita di Carlo, il periodo durante il quale furono concepite le opere filosofiche per le quali egli è maggiormente noto: La persuasione e la rettorica e Il dialogo della salute. Tuttavia dalle lettere che Carlo scrisse alla  «Non aveva mai preso lezioni di pittura, ma dimostrava già da ragazzo un’attitudine straordinaria, specialmente per la caricatura. In ginnasio aveva ritratto tutti i professori e molti dei suoi compagni. I suoi quaderni, i suoi libri di scuola erano pieni di pupazzetti: ne faceva sui ritagli di carta, sui notes, in qualunque luogo si trovasse, in treno o a una festa, o a una conferenza; al caffè in mancanza di carta disegnava sul marmo del tavolino. Quest’abitudine del ritratto gli era diventata quasi un bisogno», in P. Michelstaedter-Winteler, Appunti per una biografia di Carlo Michelstaedter, cit., pp. 153-154.

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parte seconda

famiglia a partire dal giorno della partenza per il capoluogo toscano, il 22 ottobre 1905, emerge con chiarezza che al centro dei suoi desideri e delle sue speranze non c’era affatto la filosofia, bensì il disegno e la pittura. Nella valigia egli portò con sé i pennarelli, i colori, gli album pieni di schizzi a matita. Il 23 ottobre a Venezia Carlo visitò una dopo l’altra, come preso da un turbine, l’Accademia, Palazzo Ducale e l’Esposizione: all’Accademia fu colpito dall’espressione dei primitivi (Lorenzo Veneziano, Vivarini, Quirizio da Murano) piuttosto che dalla tecnica dei moderni (Tiziano, Tintoretto), e soprattutto ammirò la sala degli schizzi, nei quali affermava «di vedere più profondamente l’anima del pittore che nel quadro»; uscito dall’Accademia acquistò un bruno Van Dyck, con il quale completò la gamma cromatica dei suoi oli. A Padova il 25 ottobre vide la Cappella degli Scrovegni, dove l’arte di Giotto gli parve «ingenua ancora ed impacciata», ma «d’una potenza d’espressione insuperata». Il 27 arriva a Firenze; il 29 visita gli Uffizi: ammira le opere dei grandi maestri, insuperabili «per la sublime riproduzione della natura», di cui però scrive che «se tu con uno sforzo spogli il quadro di tutto ciò e vai a scandagliare nel profondo per trovarvi l’idea, l’espressione, ciò che appunto costituisce l’opera d’arte, la troverai solamente in casi rari»; resta invece affascinato dall’«ingenuità» e dal «sentimento» dei pittori «primitivi» e soprattutto dalla statuaria greca; spontaneità, essenzialità, pieCfr. S. Campailla, A ferri corti con la vita, cit., p. 24. «Sono stato all’Accademia e l’ho visitata con moltissima cura. Mi sono fermato per la prima volta nella prima sala, quella che attraversavamo di corsa per vedere l’Assunta – quadro dipinto da Tiziano tra il 1516 e il 1518 per la Chiesa di Santa Maria dei Frari a Venezia –. E ho trovato che quei pittori primitivi (Lorenzo Veneziano, Vivarini, Quirizio da Marano ecc.) (1300-1500) mancano di tecnica ma hanno più espressione dei posteriori. Dopo averli ammirati a lungo l’Assunta non mi fece più la solita impressione. Il quadro resta un capolavoro ma le figure mi sembra manchino talvolta di quell’espressione indefinibile che turba e conquide. Tintoretto poi non l’ha affatto; i suoi quadri somigliano a fotografie colorate; egli è inarrivabile per i chiaroscuri», EP, p. 15.  EP, p. 16.  EP, p. 17.  EP, p. 22.  «Oggi sono stato alla galleria degli Uffizi ed ho ancora tutti gli occhi abbarbagliati da tante meraviglie. Mi affascinò tra i quadri soprattutto l’ingenuità, il sentimento  

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iii. l’arte e la persuasione

nezza espressiva sono i valori estetici che egli afferma di ammirare in un’opera d’arte, rispetto all’artificiosità e alla ridondanza tecnica che dice di scorgere in certa pittura moderna, volta a esibire abilità nel realizzare imitazioni pedisseque, quasi fotografiche della natura, capaci di suscitare meraviglia attraverso una costante ricerca dell’effetto. Emerge già da questa sua rapida, estemporanea disamina della pittura moderna un gusto rivolto verso alcuni caratteri estetici che resteranno costanti nell’opera di Michelstaedter: la netta dicotomia fra tecnica ed espressione (o idea); l’accezione dispregiativa conferita alla parola tecnica, sinonimo di manieristico, tecnicistico, imitativo, cui si contrappongono il creativo e l’espressivo; la preferenza per l’arte primitiva, ritenuta meno tecnica, ma più espressiva di quella moderna; la predilezione per la nuda essenzialità dello schizzo e del disegno. Del resto in un lavoro scolastico dal titolo Lessing e Baretti Carlo scriverà pochi mesi più tardi: l’espressione perfetta, comunicativa del nostro sentimento artistico, l’arte che ci fa fremere e soffrire l’arte che vive negli affreschi di Giotto e nei marmi di Donatello, nell’epopea omerica e nella commedia di Dante, nelle tragedie di Shakespeare e nei drammi sanscriti, nella musica di Bellini e di Wagner è una sempre, perché uno è il sentimento che appartiene alla natura, al mondo dell’assoluto. Ma se la sensazione artistica per se stessa in noi è assoluta e se per brevi istanti essa ci dei primitivi come Lorenzo il Monaco, Filippino Lippi, il Memmi ecc ecc che sanno trasfondere nelle loro figure un’espressione d’estasi divina che non fu più superata [...]. Naturalmente ammirai i capolavori dei maestri maggiori comunemente celebrati, Raffaello, Tiziano, Dürer, Van Dyck, Rubens ecc ecc. Ma quello che mi fa impressione in questi e in cui sono e resteranno insuperabili è la sublime riproduzione della natura, la vigoria degli effetti di luce ecc ecc. Ma se tu con uno sforzo spogli il quadro di tutto ciò e vai a scandagliare nel profondo per trovarvi l’idea, l’espressione, ciò che appunto costituisce l’opera d’arte, la troverai solamente in casi rari come nel San Giovanni nel deserto di Raffaello o nel ritratto del padre di Dürer, o nell’autoritratto di Tiziano, ma nel resto vedrai che sono inferiori agli altri», EP, p. 36.  «In generale da quello che ho visto mi sembra che sia nella maggior parte dei lavori una tecnica meravigliosa, uno studio indefesso accanito intelligente, una ricerca continua dell’effetto, splendidi, impressionanti giochi di luce e di forme, in molti fedele riproduzione della natura, ma in quasi tutti manca la vera espressione ideale che eleva il quadro ad opera d’arte», EP, p. 13.




4. Autoritratto tenebroso, disegno a lapis, matite colorate e acquerello (proprietĂ privata - Eredi Cassini, Archivio Cassini OG 12)


5. Autoritratto con cravatta, disegno a lapis (FCM IV G) 6. Autoritratto del 1908, acquerello e lapis (FCM V 44) 7. Autoritratto a mezzo profilo (riproduzione da originale perduto: da ÂŤIl ConvegnoÂť, a. 3, 1922, 7, p. 398, FCM VIII 11)


13. La grande caricatura, acquerello e lapis (FCM V 34)


14. Tipi di Firenze. Retorica, disegno a lapis e matite colorate (FCM IV C) 15. Tipi d Firenze. Assenza, disegno a lapis e matite colorate (FCM IV C) 16. Tipi di Firenze. Dama, disegno a lapis e matite colorate (FCM IV C)


17. Rivelazione, olio su cartoncino con tracce di lapis (FCM V 31)


18. L’uomo nella notte accende una luce a se stesso, disegno a lapis (proprietà privata - Eredi Cassini, Archivio Cassini, OG 11) 19. Conferenziere K, disegno ad acquerello e lapis (FCM IV C) 20. Carlo da vecchio (riproduzione da originale perduto, coll. riprod. fotografica in FCM IX G 1)


23. Autoritratto su fondo fiamma, olio su tela (FCM V 47)


IV LA POESIA E LA PERSUASIONE

Riflessi nello specchio di Dioniso Come il segno grafico e pittorico, la parola poetica è indissolubilmente legata al pensiero di Michelstaedter: ne anticipa e ne condensa gli approdi, ne traspone i motivi in una diversa prospettiva. Le prime originali poesie composte da Michelstaedter, dopo quelli che si possono considerare esercizi degli anni liceali, risalgono al 1907: è in questi versi che compaiono i temi fondamentali che saranno poi ricorrenti in tutta l’opera lirica del Goriziano. Come si è visto nel primo capitolo, nei primi mesi del 1907 Carlo si infatua di Nadia Baraden, una colta signora russa di alcuni anni più grande di lui, alla quale impartisce lezioni private di italiano. Lei opporrà un netto rifiuto alle attenzioni amorose del giovane; poco tempo dopo la donna si toglierà la vita. Nella poesia Sibila il legno nel camino antico questa vicenda personale viene trasposta in termini lirici. La struttura sintattica del testo è dicotomica e avversativa, scandita dal “ma” all’inizio della terza strofe: da un lato l’antico camino, nel quale il legno sibila e sprigiona fumo senza ardere e come da una nera bocca «par che pianga di desiderio»; dall’altro, distesa sulla poltrona, con gli occhi socchiusi, chinato il capo dai biondi riccioli, Nadia che ride. Sibila il legno nel camino antico e par che tristi rimembranze chiami

Sono le poesie Se camminando vado solitario, Alba. Il canto del gallo, La notte, La scuola è finita: PO, pp. 35-42. 

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