ANFIONE
e
ZETO
collana di architettura
architettura: il duplice sguardo su vita e morte a cura di marina leoni e giorgio pigafetta
ILPOLIGRAFO
ANFIONE e ZETO collana di architettura diretta da Margherita Petranzan
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architettura: il duplice sguardo su vita e morte a cura di marina leoni e giorgio pigafetta
ilpoligrafo
La presente pubblicazione viene realizzata con il contributo di
Università degli studi di Genova, Facoltà di Architettura, Dipartimento di Scienze per l’Architettura
Goethe-Institut Genua
Genova Palazzo Ducale - Fondazione per la Cultura
progetto grafico Il Poligrafo casa editrice Laura Rigon copyright © marzo 2014 Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan, 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it ISBN 978-88-7115-823-5
indice
9 premessa margherita petranzan
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nota dei curatori marina leoni e giorgio pigafetta
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introduzione. la vita è la morte di qualcun altro giorgio pigafetta e alice pigafetta
teoria e storia dell’architettura 19
arte, morte e rappresentazione giorgio pigafetta
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la morte dell’altro e la propria morte hans-dieter bahr
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la presenza dell’assenza margherita petranzan
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questa è architettura. la morte per cui si edifica marco biraghi
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figure della morte e teoria dell’architettura cettina lenza
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frammenti narrativi sulle (per le) soglie dell’anima / declinazioni brunetto de batté
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architettura per la morte e morte dell’architettura: due riflessioni (quasi) slegate giovanni galli
progettare un cimitero. tre interviste ad architetti
81 la casa dei morti ovvero l’ultima dimora conversazione con gianni braghieri sul cimitero di modena a cura di andrea anselmo e riccardo badano 91 quel che resta del classico: la stanza e il recinto conversazione con antonio monestiroli sul cimitero di voghera a cura di marcella lagomarsino e marina leoni 99 l’atemporalità del sacro. conversazione con paolo zermani a cura di anna orlando e laura parodi 111 indice dei nomi
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premessa al dvd
la piĂš vuota delle immagini figure della morte nella cultura contemporanea. conferenze di filosofia video del ciclo di conferenze tenute al palazzo ducale di genova
figure della morte massimo cacciari
il fruscio della morte umberto curi
la morte come straniero giacomo marramao
architettura: il duplice sguardo su vita e morte
premessa margherita petranzan
“‘C’est la conscience qui donne à l’exercice de tout acte de vie sa couleur de sang, sa nuance cruelle, puisqu’il est entendu que la vie c’est toujours la mort de quelqu’un’. Da questa frase di Artaud estraggo per noi il concetto principale: io sono al limite, o meglio alla fine dell’architettura. Siamo alla decadenza dell’architettura e alla sua inevitabile morte, che è la vita di qualcun altro”. Volutamente riporto una frase contenuta nell’introduzione di Giogio Pigafetta. I termini: limite, fine, decadenza e morte sono usati per introdurre il concetto di vita altra, diversa, riferita a qualche nuovo evento in sostituzione e/o al posto dell’architettura, che secondo Pigafetta non rinasce in forme nuove ma scompare definitivamente per fare posto alla vita di altri fenomeni che con l’architettura non avranno più nulla a che vedere; chiude infatti dicendo: “dopo di ciò, di architettura non si parlerà più”. Tale affermazione contiene per me una speranza, o forse un desiderio espresso da un profondo conoscitore dell’architettura e del suo tormentato percorso: la consapevolezza della necessità di una rifondazione di una disciplina che ha perduto la strada. Ma perdere la strada è spesso una necessità per poter sostare dubitando, per poter ricominciare costruendo. Infatti Giorgio Pigafetta, nel suo libro su Valéry architetto, ricordando che per Socrate-Valéry l’architettura avvolge l’uomo in se stesso, perché “racchiudendo l’essere nella sua stessa opera” rivela quella potenza nascosta che è sorgente di ogni possibile espressione poetica, deduce che “l’architettura, [...] non rinviando ad altro che a se stessa e alla radice umana dell’atto costruttivo, esprime l’essenza creatrice dell’uomo”. La rifondazione dell’architettura non può allora che partire dalla consapevolezza di questa sua essenza consustanziale alla creatività umana e alla sua necessaria presenza. Se poi ciò che oggi si costruisce sia conseguente alla presenza di fenomeni che ingabbiano la vita in logiche e obiettivi che negano e impediscono la possibilità della creazione, pone sicuramente inquietanti interrogativi sul futuro incerto non solo dell’architettura, ma di tutte le arti. Questi fenomeni, che secondo Pigafetta non avranno più nulla a che vedere con l’architettura, sono sicuramente già in atto e si esprimono in forme difficilmente controllabili, perché appartengono all’area indistinta e indefinibile del virtuale, che con la realtà non ha rapporti, se non di ricaduta negativa e annullante. Il reale, insomma, appartiene già ad una dimensione altra, priva di interesse e relegata nel limbo delle cose inutili. In sostanza, realtà e morte coincidono e si rappresentano in tutta la loro crudezza. L’etereo, invece, il virtuale, l’immortale indistinto rende liberi da pesantezze e da fatiche legate alla dimensione creativa, mai come in questo momento totalmente deviante perché dominata dalle leggi dell’unico Dio della contemporaneità: il denaro, che trasformato da mezzo a finalità ultima regola e manipola, modificandola, 9
ogni possibile relazione. La ri-fondazione dell’architettura dovrebbe dunque partire da questa consapevolezza, che Pigafetta ha ben presente, andando però a recuperare essenzialmente l’unione, che è potenza, tra la dimensione umana e l’architettura, in vista di un sano e forse possibile recupero della realtà e della sua visione. Dopo aver chiuso brillantemente la prima parte del convegno, Giorgio Pigafetta si è visto costretto, suo malgrado, ad abbandonare il lavoro di ricomposizione dei materiali da pubblicare. Tuttavia il paziente, meticoloso e rigoroso lavoro di Marina Leoni ha permesso di mettere in relazione tutti gli interventi e le lectio magistralis con gli obiettivi che si era dato l’autore e artefice sia del libro che del convegno, cui va tutta la solidarietà mia e degli altri scrittori e relatori, unita ai ringraziamenti per averci coinvolti in un evento assolutamente interessante e unico.
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margherita petranzan
introduzione la vita è la morte di qualcun altro giorgio pigafetta e alice pigafetta
L’architettura inizia nel momento in cui nasce. Vitruvio è il primo e l’unico per tredici secoli a definire l’arte del costruire. Nel I secolo d.C. scrive il De architectura, un trattato che ne stabilisce i canoni. L’opera, in lingua latina e divisa in dieci libri, rimane per lungo tempo l’unico trattato di architettura, elevando la figura dell’autore alle più alte considerazioni dei suoi contemporanei e lasciando un vuoto temporale dal I al XIV secolo. Riportiamo la citazione con la quale Vitruvio definisce il nascere dell’architetto: È così che diventando la manualità nel costruire sempre più raffinata con il lavoro quotidiano ed essendo i più capaci e ingegnosi giunti, attraverso la ripetizione, ai livelli dell’arte, l’operosità aggiunta all’ingegno ha fatto sì che i più appassionati si trasformassero in costruttori.
Il De architectura è la sola guida che tutti gli architetti hanno, e l’unica dunque a cui affidarsi e da seguire. Venne tradotto dal latino, ma fu letto da pochi, poiché per comprenderlo bisognava avere una conoscenza terminologica tale da riservare la lettura a una piccola e filtrata élite. Per tredici secoli l’opera di Vitruvio rimase unica e incontrastata. Seppur priva di qualunque forma di illustrazione. L’opera vitruviana era nota nel Medioevo e fu commentata dai sapienti di tutta Europa: da Alberto Magno a Tommaso d’Aquino, da Vincenzo di Beauvais a Riccardo di Fournival, da Boccaccio a Petrarca. Ciò nonostante, il testo era considerato “oscuro”, motivo per cui Alberti giudicherà la scrittura vitruviana soventemente “incomprensibile”. Brunelleschi, seppure artefice di numerose architetture classiche, non scrisse, a nostra conoscenza, un trattato di architettura, lasciando unico il trattato vitruviano. L’unicità di Vitruvio finì nel momento in cui Leon Battista Alberti scrisse il De re aedificatoria presentato a papa Nicolò V nel 1452 in forma manoscritta e pubblicato poi solo nel 1485 a Firenze. Il nuovo trattato non ebbe nulla da invidiare a quello vecchio: essi, per così dire, si passarono il testimone. Solo nel 1452, dunque, all’opera vitruviana se ne affianca una nuova, mettendo per la prima volta in discussione quella precedente. Tra il De architectura e il De re aedificatoria rimane un vuoto di tredici secoli, ma nei due testi si ripropongono le medesime questioni e idealmente si annulla il salto rappresentato dall’evo medio. Alberti ricolloca e trasforma i tre livelli vitruviani in una visione più organica e unitaria del processo mimetico che ha portato alla definizione del modello classico. Egli pone al centro della sua idea di architettura l’analogia organica del corpo animale (non solo umano): “Come siamo ammoniti dai migliori autori dell’antichità l’edificio è come un animale, per disegnarlo 13
occorre imitare la natura”. L’analogia con il corpo ammaestra sulle proporzioni e sulle corrispondenze fra le parti dell’architettura. Tra il XV e il XX secolo i trattati d’architettura sono molteplici: quelli di Palladio, HardouinMansart, Borromini, Guarini, Wren, De Cotte, Chalgrin, Nash, Weinbrenner, Schinkel, Leon von Klenze, Antonelli, Labrouste, Semper, Garnier, Tournon... Diversi per lingua e per cultura, ma tutti sullo stesso filo conduttore, tracciato da Vitruvio e ripreso da Alberti. I quattro libri dell’architettura del Palladio, per esempio, iniziano così: Mi misi alla investigatione delle reliquie de gli Antichi edificij, le quali mal grado del tempo, & della crudeltà de’ Barbari ne sono rimase: e ritrovandole di molto maggiore osservatione degne, ch’io non mi haveva prima pensato; cominciai à misurare minutissimamente con somma diligenza ciascuna parte loro.
Una frase che testimonia dell’importanza decisiva che l’architettura classica e i suoi trattati ebbero per l’architettura coeva all’autore e per la sua formazione. L’arte dell’architettura è molto vasta. Se, per Alberti, il termine invenire è sinonimo di “trovare”, tale significato resta ancora valido per tutta la cultura artistica fino alle soglie della modernità: da Serlio a Lomazzo, da Scamozzi a Voltaire, da Watelet a Quatremère de Quincy. Ancora per Alessandro Manzoni, a metà dell’Ottocento, conserva questo significato: Inventare è un derivato da inventum, o un frequentativo di invenire. Ecco: se mi volete dire espressamente, che l’artista trova, sono contento; perché c’è sottinteso, e sottinteso necessariamente, che l’oggetto era, prima che lui ci facesse sopra la sua operazione.
Ciò non significa che l’arte sia semplice copia. Gli autori antichi e moderni sanno benissimo che l’imitazione di modelli già dati non pregiudica né l’autonomia né l’originalità dell’opera. L’imitazione non è copia servile ma strumento conoscitivo, monito di prudenza e fonte ideativa per l’artista dotato di buon discernimento. La facoltà imitativa è realmente caratteristica dell’uomo – scrive Quatremère – essa si diffonde in tutti i suoi atti, essa penetra in tutte le sue opere; essa gli appartiene talmente, e a lui solo fra tutti gli esseri, che lo si potrebbe definire, per questa proprietà, l’essere imitatore.
La storia dell’architettura si divide in tre periodi. Il primo è quello dei “buoni antichi”, il secondo quello del tempo dei “gotti”, il terzo quello dei “moderni”, ossia i contemporanei di Raffaello. Tra le due grandi epoche si trova cronologicamente una di mezzo: l’epoca dei “gotti”. Fu allora considerata inferiore alle altre due, ma gli archi a sesto acuto, gli impianti seriali e aperti, i pilastri a fasci, le volte con costoloni intrecciati, che caratterizzano l’architettura gotica, furono comunque il frutto di un modello mimetico dotato di “qualche ragione”: Noi abbiamo cercato di mostrare – scrive Viollet-le-Duc – come i primi bagliori dell’arte abbiano illuminato gli uomini. L’immaginazione ne è la sorgente; l’imitazione della natura è il mezzo. L’uomo non può creare, parlando in termini assoluti; egli non può che avvicinare, riunire gli elementi della creazione divina, formarne una composizione che è come una creazione di secondo ordine.
Questa storia, del pensiero dell’architettura classica e dell’idea di imitazione, si conclude idealmente con una frase di Gromort, che, ultimo trattatista, incarna nell’essenza della sua stessa persona la fine di quel processo che venne nominato architettura da Vitruvio: “Nous ne craignons pas de dire que c’est au sacrifice que l’architecture commence”. Il XX secolo sarà caratterizzato da un cambiamento preparato nei secoli precedenti e si esprimerà come una radicale rottura. Walter Gropius, Sigfried Giedion, Renato De Fusco, Kenneth Frampton, Bruno Zevi, Michel Ragon, James Maude Richards, Nikolaus Pevsner, Gillo Dorfles,
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giorgio pigafetta e alice pigafetta
Manfredo Tafuri, Francesco Dal Co, Jürgen Joedicke, William J.R. Curtis, Leonardo Benevolo, Giorgio Pigafetta, Marco Biraghi... sono architetti moderni. L’intero si frantuma: La storia che ci proponiamo di tratteggiare – scrivono Tafuri e Dal Co – necessariamente si sdoppia e si moltiplica: storia delle strutture che formano – senza architettura – l’ambiente umano; storia di tentativi di gestire quelle strutture; storia degli intellettuali che per tale gestione hanno cercato di costruire politiche e metodi; storia di nuovi linguaggi che, abbandonata la speranza di raggiungere parole assolute e definitive, cercano di delimitare l’area del proprio intervento. C’est la conscience qui donne à l’exercice de tout acte de vie sa couleur de sang, sa nuance cruelle, puisqu’il est entendu que la vie c’est toujours la mort de quelqu’un.
Da questa frase di Artaud estraggo per noi il concetto principale: io sono al limite, o meglio alla fine dell’architettura. Siamo alla decadenza dell’architettura e alla sua inevitabile morte, che è la vita di qualcun altro. Dopo di ciò, di architettura non si parlerà più. De l’amour on en aurait tellement – scrive Céline –, par la même occasion, par-dessus de la marché, que la Mort en resterait enfermée dedans avec la tendresse et si bien dans son intérieur, si chaude qu’elle en jouirait enfin la garce, qu’elle en finirait par s’amuser d’amour aussi elle, avec tout le monde. Giorgio, in conclusione di una parte di carriera, e Alice 4 dicembre 2012
introduzione. la vita è la morte di qualcun altro
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teoria e storia dell’architettura
arte, morte e rappresentazione giorgio pigafetta
La declinazione in prima persona del verbo morire – ‘io muoio’ – esprime il versante più assurdo e incomprensibile della morte. Se il verbo alla terza persona – ‘egli muore’ – può racchiudere un dolore e un disorientamento estremi, se può significare una minaccia ancor più temibile della mia stessa morte, resta pur sempre il mio sguardo sulla morte dell’altro. In prima persona, invece, la distanza del mio sguardo si annulla; non ci sono più interstizi tra me e me. La mia morte, ora, è qui; e quel qui non vuol dire ‘davanti a me’ ma vuole dire: nessuna frattura fra me e me. Nessuno scarto fra il mio essere e il mio agire. E niente può venire a interporsi. Niente può rendermi ragione di quella identità totale, neppure la mia coscienza che si annulla in quel volto che mi è identico. L’ora della mia morte, quindi, dice: io sono, finalmente, identico a me stesso. Finalmente, mi sono compiutamente raggiunto e non sono più costretto, come nella vita, a divenire quel che non sono ancora. La morte si sottrae a tutte le congetture ontologiche. [...] Nel fluire del discorso e nel processo logico che lo sostiene, il linguaggio ha bisogno di un soggetto che permanga come sostrato e che regga le attribuzioni di qualità, di quantità, di luogo e così via. Per il linguaggio, allora, è costitutivo il rapporto tra il divenire discorsivo e il permanere del soggetto che intesse di sé la struttura logica. Nessuno dei due elementi può venir negato. Nel caso della morte, invece, la negazione è duplice. [...] Proprio per la sua inattingibilità da parte del linguaggio, la morte appare come una ‘struttura vacante’, disponibile ad attribuzioni di senso e d’immagine pressoché illimitate. In quest’ottica, il tratto logico e discorsivo del linguaggio resta in secondo piano e lascia emergere la dimensione espressiva. [...] In questo senso, l’arte, la poesia, la letteratura, il mito... come la tradizione, le credenze, la superstizione... come la paura, il terrore, l’angoscia... divengono territori espressivi e sorgenti copiosissime della parola intorno alla morte. L’arte si assume il compito di catturare l’energia della vita e restituirla alla vita stessa. Dalla poetica aristotelica alle dottrine dell’empatia, dal furore platonico all’espressionismo, la vita è contenuto e forza interna dell’opera d’arte. [...] Il centro della questione è che, attraverso l’arte, la forza vitale dell’anima si riverbera sulle altre anime e ritorna come energia propulsiva per la psiche del vivente. [Estratti da Giorgio Pigafetta, La più vuota delle immagini. Arte e figure della morte, Bollati Boringhieri, Torino 2011. Si ringrazia l’editore per la gentile concessione] 19
[...] Non meraviglia, dunque, che la morte sia essenzialmente ‘apoetica’. Non solo perché essa è nulla. Non solo perché in essa svanisce il processo dialettico di essere e divenire. Ma perché è fissità, immobilità, assenza di impeto interno e di mutamento. [...] Resta, allora, l’esigenza di dare un’immagine alla ‘più vuota delle immagini’, a dispetto dell’intrinseca contraddizione. D’altronde, se la morte è avviluppata alla vita, allora sarà forse possibile rappresentarla almeno come calco in negativo della vita stessa o come stato di passaggio verso l’irrappresentabile. Klimt ha rappresentato la morte in una relazione simmetrica rispetto alla vita: ambedue agiscono nella rappresentazione. [...] Insomma, l’ha rappresentata come un essere vivente: una morte incarnata come un vivente, di fronte a viventi rappresentati come mortali. Questo, che pare il semplice gioco di una monca simmetria, è il nucleo della questione. Infatti, i modi in cui l’arte può significare la morte sono combinazioni di quella particolare simmetria. Se così non fosse, abbiamo detto, la ‘più vuota delle immagini’ resterebbe tale e sfuggirebbe alla forza rappresentativa dell’arte. [...] Da un lato, allora, l’arte sottrae alla vita i predicati che la connotano e li versa nel loro opposto. Se la vita è movimento, voce, luce, pienezza, calore, presenza, colore..., la morte sarà rappresentata come immobilità, silenzio, ombra, vuoto, gelo, assenza, pallore e così via. [...] Dall’altro lato, l’arte attribuisce alla morte i caratteri della vita e la rende ‘persona’, declinandola in diverse figure. È nella coscienza della veglia che vediamo la morte. Ed essa non si presenta come il nostro io; non ha il nostro volto, ma quello dell’altro. Anzi, propriamente parlando, da ‘svegli’, vediamo la morte solo nell’altro. [...] Nella prigione dell’io il mortale non contempla la propria morte. [...] Nelle pieghe del quotidiano affaccecendarsi, alla lunga – per analogia con quel che accade ai ‘poveri amici’, ai passeri, alle formiche – comincia a insinuarsi il dubbio che anche l’io sia mortale. [...] È questo il punto cruciale dell’esistenza. Un punto in cui le morti di trasformano nella morte. [...] Da accadimento che riguarda gli altri, che si riconduce, di volta in volta, a singole determinazioni dell’esistenza, essa diviene una presenza, assume carattere di fondo a cui nessuno sfugge. E tuttavia, il beato prigioniero – in attesa di sciogliere quel dubbio, in attesa di un evento che lo renderebbe identico all’altro, che lo ridurrebbe a cosa fra le cose – continua a vivere come se la sua vita non prevedesse la morte. Questo, secondo Heidegger, sarebbe il ‘si muore’. Un modo di vivere inautentico che suona più o meno così: ‘si muore, ma provvisoriamente, la morte non arriva ancora’. Naturalmente, qui, intendiamo il divenire come ‘quell’evidenza originaria’ che segna il pensiero dell’Occidente. Non ha rilievo, nel nostro discorso, raggelare un istante di quel ‘movimento’ in cui essere e nulla ‘spariscono l’uno nell’altro’. [...] Il punto, perciò, è un altro. [...] È il divenire della nostra vita che consideriamo, non il destino dell’essere che resta, comunque, ‘tanto poco quanto il nulla’. [...] “Ma la morte – si domanda Emmanuel Lévinas – equivale forse a questo nulla legato all’essere? Il divenire è il mondo fenomenico, la manifestazione dell’essere. Ora, la morte, è fuori da questo processo [...]”. Ciò nonostante, se la morte è legata all’uomo, se attiene alla sua storicità, allora in qualche piega della vita potrà baluginare l’immagine della morte. 20
giorgio pigafetta
Per fare questo, forse, è sufficiente, di fronte all’attimo presente, inclinare impercettibilmente lo sguardo verso quello successivo. Si vede, allora, la possibilità che quell’istante non sia e non sia mai. [...] Per questo motivo, come abbiamo ricordato, il futuro è il tempo della morte. Essa, allora, si vede nella vita poiché è mollemente adagiata sull’onda del divenire che è, paradossalmente, sostanza della vita stessa. Quegli occhi ci dicono che la comunione col Cristo è, innanzitutto, la comunione con la sua morte [...]. Cristo non si sacrifica al posto mio come farebbe, semplicemente, un padre per il proprio figlio. Non rimette la propria vita per rinviare, ad altro tempo, l’ora della mia morte. Egli non si frappone fra me e la mia morte. [...] Eppure, proprio attraverso la croce – che è vittoria del Cristo – e nel rinnovato sacrificio dell’eucaristia, la morte perde il carattere di ‘astratta negatività’ e si tinge del colore d’una promessa: la promessa del ‘passaggio dal nulla all’essere’. [...] Ciò nonostante, in quella promessa di redenzione e di salvezza, resta un nucleo di terribile realtà. La mors turpissima del Redentore, la morte infamante e servile che il corpo del Cristo ha patito, rappresenta il supplizio a cui ogni mortale è destinato. [...] Così, il soggetto del mea res agitur cambia consistenza. Da elemento della coscienza, da io che pensa alla propria morte, diviene un io corporale che vive la propria morte. Qui la certezza razionale dell’essere si spappola nel brivido che scuote il corpo mortale. [...] Nel calvario, il ‘sostrato animale’, che sorregge la coscienza, vive, sul proprio tessuto corporeo, una morte che lo riguarda solo come dolore e fine della vita. [...] Per questo motivo il suo corpo non deve essere lasciato a se stesso e alla propria morte. La sua morte sarebbe vana se esso stesso non sfuggisse alla morte eterna. La modernità ha sfilato la morte dalle mani di Dio e l’ha consegnata in quelle dell’uomo. Quest’ultimo, così, può contemplare la morte dal proprio punto di vista: la riconduce al corpo, alla scienza, alle credenze, ai miti, alla cultura, alla storia e, più in generale, alle diverse forme dell’esistenza. [...] Contestualmente, la stessa modernità ha virato la metafisica verso l’ontologia e ha spento la teologia nell’antropologia. [...] L’uomo è divenuto, così, allo stesso tempo punto di partenza e d’arrivo di una riflessione sull’essere che non può prescindere dall’esperienza vissuta. In tal senso la morte è stata ricondotta al centro del pensiero. [...] Virare la metafisica nell’ontologia ha certamente radicato la riflessione sulla morte nella storicità dell’uomo e nel suo orizzonte d’esperienza. Tuttavia, non ha gettato – e, neppure, preteso di gettare – nuova luce sulla natura inconoscibile e inenarrabile della morte stessa. Ad ascoltare Empedocle-Boccioni non dovrebbe coglierci alcun disorientamento di fronte alla morte, nessuna disperazione per un nulla incombente sulla vita. Quest’ultima, infatti, non sarebbe che un continuo mutare di elementi semplici, non generati, che si mescolano in un divenire senza requie, senza contraddizione, in cui niente permane, neppure momentaneamente. [...] Sono, dunque, gli uomini che, per ‘vedere’ la morte, per coglierne la dimensione tragica, isolano, nella mescolanza fluida della materia, una forma e ne fanno un simulacro. Sarebbero i mortali, dunque, che s’inventano la morte pur di vedere la loro vita, ‘da svegli’. Essi vogliono vedere – o, almeno, illudersi di vedere – qualcosa che permane identica a se stessa per quel lasso di tempo utile a decretarne l’apparire e lo scomparire. [...] Vedere la morte presuppone il confidare in una forma, pur cangiante e insicura, della vita e riconoscere che quella stessa forma nasce e muore. arte, morte e rappresentazione
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paolo zermani
Tempio di Cremazione a Parma. Corte del Tempio di Cremazione a Parma. Interno del Tempio di Cremazione a Parma.
l’atemporalità del sacro
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Cimitero di Sansepolcro. Corte del cimitero di Sansepolcro.
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paolo zermani
Disegni prospettici della cappella-museo di Monterchi.
l’atemporalità del sacro
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a 22,00
ISBN 978-88-7115-823-5