il Borghese - 2012 - n. 07 (luglio)

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Luglio 2012

IL BORGHESE

IL PALAZZO dei sogni infranti di SENATOR È PALAZZO Chigi, la sede del Governo italiano, il «Palazzo» per eccellenza, più del Quirinale, di Palazzo Madama e di Montecitorio, dove pure si gestiscono attribuzioni essenziali per il buon funzionamento della Repubblica, come la funzione legislativa, per quanto riguarda le sedi delle Camere, o la più alta autorità dello Stato, nella sede che fu dei Papi e poi dei Re di Casa Savoia. Palazzo Chigi, non soltanto nell’immaginario collettivo ma anche nella realtà istituzionale, è il motore della politica e quindi della gestione del potere, la stanza dei bottoni da dove prendono le mosse le iniziative per dare attuazione all’indirizzo politico amministrativo oggetto della esposizione programmatica del Presidente del Consiglio approvato dalle Camere. Quell’indirizzo politico amministrativo a sua volta ispirato dall’indirizzo politico elettorale convalidato dal voto popolare. Ebbene, non c’è dubbio che nel 1994, poi nel 2001 e nel 2008 una larga maggioranza degli Italiani abbia scelto i partiti del Centrodestra, con entusiasmo, nel momento in cui il tradizionale orientamento moderato dell’elettorato, che per decenni si era identificato essenzialmente nella Democrazia Cristiana e nei partiti alleati (Liberali, Monarchici, Missini), ha scelto Forza Italia, Alleanza Nazionale, Unione dei Democratici di Centro e Lega e poi Partito della Libertà e ancora Lega. È sembrata ai più una scelta naturale di fronte all’inconsistenza dei governi della sinistra guidati da Prodi, Amato e D’Alema che avevano, inoltre, largamente scontentato vasti settori dell’elettorato. Così gli Italiani hanno dato crescente forza al Centrodestra ed in primo luogo al partito di Silvio Berlusconi che si era presentato nel 1994 sulla base di un programma di indubbio fascino, la promessa di un milione di nuovi posti di lavoro, la riduzione delle imposte, la riforma dell’Amministrazione e la semplificazione dei procedimenti amministrativi che interessano i cittadini e le imprese. E, in prospettiva, un restyling della Costituzione per rendere più funzionale l’esercizio del potere di governo e di quello legislativo. In corrispondenza, da un lato, all’esigenza di attribuire al Presidente del Consiglio maggiori poteri nell’impulso e nel coordinamento dell’attività dei ministeri, e, dall’altro, alla razionalizzazione del bicameralismo che avrebbe dovuto prendere atto di una prospettiva federalista della Repubblica, con superamento della perfetta parità di funzioni delle Camere e creazione di un Senato delle Regioni. Tutte ipotesi largamente condivise nei partiti e nella dottrina del diritto costituzionale. È stato il sogno della maggioranza degli Italiani, orgogliosi della propria bandiera, come aveva intuito il Cavaliere, esperto di indagini di mercato, ostili al Comunismo, individualisti quel tanto che può farli sentire liberali in uno con la tradizione solidari sta cattolica. Per cui i richiami alla mozione degli affetti, patriottici e familiari, hanno consolidato nel tempo le adesioni alla leadership di Berlusconi, nonostante fosse presto evidente che i posti di lavoro non sarebbero cresciuti e

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imposte e tasse non sarebbero diminuite e le riforme costituzionali sarebbero state ancora sbandierate quale argomento di polemica politica. Mentre la «riforma» della Giustizia, che avrebbe dovuto interessare soprattutto il processo civile, è stata usata come minacciosa arma di pressione nei confronti della Magistratura accusata di «perseguitare» il Premier, al quale venivano imputate responsabilità penali in relazione ad attività svolte nel «pregresso» ruolo di imprenditore. Le delusioni non hanno tardato a farsi sentire. Ma l’incapacità di governare di Prodi, per due volte a Palazzo Chigi, Amato e D’Alema, chiamati a governare con una risicata maggioranza nel 1996 e nel 2006 (quando il centrosinistra prevalse solamente per 24 mila voti) ha convinto gli Italiani a votare ancora per il Cavaliere e per i suoi alleati dandogli sia nel 2001 che nel 2008 una maggioranza mai vista prima, nonostante la quale nessuna delle riforme promesse nel 1994 (più posti di lavoro, meno tasse) è stata realizzata. Così, mentre perdeva pezzi della maggioranza, prima l’Udc, poi i fedelissimi di Gianfranco Fini costretto a lasciare («che fai mi cacci?», è stata la reazione del Presidente della Camera alle critiche del Cavaliere alla sua condotta nel partito), infine la Lega, che non ha condiviso l’appoggio al Governo Monti, Silvio Berlusconi ha dovuto fare i conti con un disastroso appuntamento elettorale che suona come l’ennesimo campanello d’allarme in vista delle elezioni del 2013, un appuntamento importante anche perché, appena eletto, il nuovo Parlamento dovrà anche eleggere il successore di Giorgio Napolitano. Uno sfascio prevedibile e ampiamente previsto da commentatori e sondaggisti, non da Berlusconi e dai suoi, che sta provocando un diffuso maldipancia tra i parlamentari «nominati», quindi senza consenso elettorale che sentono a rischio una poltrona conquistata soltanto in virtù della scelta del Cavaliere, basata su requisiti, la giovane età, un bell’aspetto e, spesso, l’avvenenza (nelle donne), che nulla hanno a che vedere con la politica, della quale la maggior parte non aveva e non ha nessuna esperienza, come dimostra l’andamento dell’attività parlamentare che non ha prodotto nessuna delle riforme tanto sbandierate alla vigilia delle elezioni, nonostante i numeri dei gruppi parlamentari di maggioranza. Ma siccome «Dio fa impazzire coloro che vuol perdere», sulla barca che affonda Berlusconi può ancora contare su rematori che, con la forza della disperazione, continuano a vogare diretti da colonnelli ormai incapaci di vedere l’orizzonte. Ricordano tanto i generali di Hitler ai quali il dittatore nazista ordinava di spostare, a difesa di Berlino, divisioni che non c’erano più o i fedelissimi di Mussolini che evocavano la mitica «ridotta della Valtellina» dove avrebbero potuto resistere in attesa dei «liberatori». A Palazzo Grazioli, la «ridotta» di Silvio Berlusconi sotto assedio, si muovono come automi ex ministri, ex sottosegretari, capigruppo senza seguito. È l’immagine della fine di un’esperienza politica, come se ne sono viste tante nella storia. Un sogno «infranto» per milioni di italiani che si chiedono sconsolati a chi potranno dare il voto tra un anno.


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