Il destino e l'altruismo

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IL DESTINO E L’ALTRUISMO di Carlo De Cristofaro

Scrissi questi versi all’età di 49 anni compiuti. All’epoca insegnavo Letteratura italiana al Terzo Liceo artistico di Roma, era il quarto anno che mi trovavo presso la scuola e mi trovavo bene, ne feci poi un altro ancora e, successivamente, per cambiare la cattedra da Letteratura italiana a Filosofia, passai al Liceo classico “M. T. Cicerone” di Frascati, diventando volontariamente di nuovo pendolare, pur di insegnare la materia per cui avevo maggiore attitudine, cioè Filosofia. In tal modo, per un motivo o per un altro, non sono riuscito a restare più di cinque anni nella medesima scuola. La poesia ha un tessuto intellettuale piuttosto complicato, essa contrappone il “destino” all’“altruismo”, in quest’ultimo si deve ritenere compreso anche ogni valore banalmente sociale. La vita sociale, in ogni tempo, ma particolarmente nell’età moderna, epoca in cui l’organizzazione pretende ogni giorno che gli individui diventino delle “vittime sacrificali”, ha valorizzato l’“altruismo” come principio di aggregazione umana, ma esso e la società non cambiano il destino umano, che è quello di essere semplici individui destinati alla morte. Nei valori sociali e altruistici, quindi, si celano forme di delirio antropologico che solo pochi pensatori hanno osato sfidare. La conseguenza è che la vita, che già possiede le sue incertezze naturali, viene sottoposta al tormento sociale, all’umiliazione, all’illusione che gli “altri” siano la garanzia della nostra sicurezza e felicità, così che, servendoli in modo miserabile, semplicemente non viviamo la nostra vita e alla fine giungiamo lo stesso al suo termine con mille rimpianti e stando lo stesso “soli” di fronte alla morte: “quando si muore, si muore soli” (F. De André - “Il testamento”). La poesia svolge la nota poetica sulla scia di questa malinconica fine, segnata dal destino al quale non si sfugge, nonostante l’altruismo, la solidarietà e la società. Essa, però, presuppone tutto uno sviluppo basato sulla disillusione circa i valori dell’altruismo e della società, evidenti soprattutto nella seconda e terza strofa, che fanno capo a filosofie anarco-individualiste di tipo nietzscheano. Occorre, quindi, precisare il contesto di queste filosofie. Nietzsche fa una geniale affermazione, allorché scrive: “La tendenza più dannosa è quella di pensare sempre agli altri (essere attivi ‘per essi’ è quasi altrettanto sbagliato che esserlo ‘contro di essi’ ed è una invasione violenta della loro sfera). Quale brutalità è l’educazione comune, l’invasione dei genitori nella sfera dei figli!” (F. Nietzsche - “Frammenti postumi” - 1979-80 - 1 (8)). L’affermazione mette soprattutto in evidenza che “fare il bene” è altrettanto immorale che “fare il male”. Non che si debba essere “passivi” fino a morire d’inedia, ma è evidente che, almeno la morale, non condivida nulla con il “fare”. Neppure si intende che si debba rimanere fermi davanti a una violenza, ma neanche si può stabilire che esista un dovere di rischiare la vita. Tutto è rimandato all’impulso e alla generosità del singolo: per sovrabbondanza di energia, anche l’egoista, come dice Nietzsche, può compiere un’azione altruistica, ma lo fa per dare sfogo alla sua energia o per sua rabbia personale, non per l’altro. Se definiamo “aggressione” l’azione “contro gli altri” e “altruismo” o “solidarietà” l’azione fatta “a favore (per) degli altri”, dall’affermazione di Nietzsche viene fuori che si tratta in entrambi i casi di violenza che cela interesse e un egoismo che, nell’azione altruistica, è solo molto più furbo. Qui si preferisce chiamare “egocentrismo” tanto l’aggressione che l’altruismo (l’egocentrismo mette l’ego al “centro” e gli altri al servizio del “centro”, questo c’è tanto nel banale egoismo che nell’altruismo; qui si preferisce usare il termine “egoismo” come sinonimo di “amor proprio”, in tale senso esso è “policentrico”, ogni individuo è centro a se stesso e non agli altri). Se l’aggressione appare subito come una forma di prepotenza, l’altruismo è più viscido, perché “nasconde” la prepotenza. L’altruismo elegia il mettersi “a servizio degli altri”, proprio perché esso “pensa agli altri”. Questo aspetto “servile”, però, cela l’altro aspetto per cui, se un individuo “pensa agli altri”, allora “non pensa a se stesso”. Questo significa che si dà come automatico il fatto che siano gli altri a ”dover pensare a lui”. E si badi bene, è ritenuto “un dovere”. Coloro che fanno “volontariato” ben difficilmente lavorano o hanno troppe preoccupazioni personali o familiari. L’altruismo, quindi, è servile in quanto prevede il “dovere” di aiutare gli altri (perché, se non fosse un “dovere”, non esisterebbe alcuna differenza morale tra chi aiuta gli altri e chi non li aiuta


2 e non si capirebbe più dove sarebbe la valenza etica dell’altruismo), ma è anche padronale, perché prevede anche il “dovere” degli altri di aiutare. L’altruismo è tutto un “dovere”, infatti è una costruzione artificiale creata dalla società. Nietzsche evidenza bene sia l’aspetto servile dell’altruismo: “Niente altruismo! In molti esseri umani vedo sovrabbondare la forza e il desiderio di essere funzione” (F. Nietzsche - “La gaia scienza” 119), poi: “Quei grandi portenti dell’antichità, per esempio Epitteto, non sapevano un bel nulla dell’oggi tanto frequentemente esaltato pensare agli altri, vivere per gli altri; secondo la nostra moda morale, avrebbero potuto essere chiamati addirittura immorali” (F. Nietzsche - “Aurora” 131), sia l’aspetto padronale dell’altruismo: “indicare come, anche nell’altruismo, l’aspetto essenziale sia quel ‘voler possedere’” (F. Nietzsche - “Frammenti postumi” - 1981-82 - 11 (39)). L’altruismo, in sostanza, è la prepotenza, l’aggressività dei deboli o di coloro che si ritengono tali, perché essi mirano a compiere un’azione “contro” qualcuno o qualcosa con l’aiuto del prossimo, al quale hanno già in precedenza dato aiuto. L’etica è, così, ridotta, al concetto di “fare il bene”, che, però, come il concetto di “fare il male”, è sempre un “fare” e, quindi, avviene sempre “contro” qualcuno o qualcosa. Questa solidarietà altruistica, si badi bene, non coincide affatto con la “giustizia” e il “rispetto”, se non casualmente. L’altruismo è l’arroganza che passa attraverso la “dipendenza”: in quanto passa attraverso la dipendenza, l’altruista è costretto, a priori, a seguire il gruppo, sia che si comporti in modo giusto, sia che si comporti in modo ingiusto. Se rifiuta di seguire il gruppo quando quest’ultimo compie un’ingiustizia, allora viene rotto quel contratto sublimato che è l’altruismo stesso (solidarietà), per il quale “si dà per ottenere”. L’altruismo è, come dice Nietzsche, l’egocentrismo dei deboli: “costoro <gli altruisti> vogliono essere protetti dallo Stato <o Dio, ma Nietzsche, proclamando ‘la morte di Dio’, ha proclamato anche ‘la morte dello Stato’>, credono che questo ‘sia il suo supremo dovere’! Sotto la lode generale dell’‘altruismo’ si nasconde l’istinto, per cui, se tutti si soccorrono a vicenda, l’individuo si conserva nel modo migliore..è l’egoismo dei deboli ad avere creato la lode, la lode esclusiva dell’altruismo” (F. Nietzsche “Frammenti postumi” - 1888 - 14 (5)). L’altruismo, quindi, è, di per sé, una morale del “gruppo” o, come più propriamente dice Nietzsche, una “morale del gregge”, in esso, infatti, il pericolo corso da un membro del gruppo viene avvertito subito come pericolo anche per il singolo stesso: “La disgrazia di un altro ci offende, ci convincerebbe della nostra impotenza..se non gli portassimo aiuto..Ovvero, nella disgrazia e nella sofferenza di un altro, c’è un indice di pericolo per noi” (F. Nietzsche - “Aurora” 133). Ovviamente questa presunta “protezione” del gruppo, poiché comporta la sottomissione ad un potere, ad un’organizzazione, a una disciplina, ci rovina la vita e ci fa pagare un conto salatissimo (fermo rimanendo che il gruppo, dove è impotente, per salvare se stesso sacrifica il singolo, ad esempio nelle malattie infettive o negli scontri tra eserciti, ecc..), come fa notare l’anarcoindividualista Novatore nelle sue sentenze (altruismo e solidarietà qui si equivalgono): “Solidarietà - E’ il macabro altare sul quale i commedianti di ogni risma salgono a mettere in evidenza le loro qualità sacerdotali e a recitare abilmente la loro messa. E’ qualche cosa che il beneficiario non paga mai meno del cento per cento in più della vergognosa umiliazione” (R. Novatore - “Le mie sentenze” ne l’“Iconoclasta” del 15/10/1920). Umiliazione, perché tale l’anarchico-individualista considera il bisogno di aiuto, aiuto che viene pagato, come minimo, con una fatica pari al doppio. Questo significa che l’altruismo comporta, di per sé, la negazione della libertà individuale e la sottomissione olistica al gruppo (tipo “ethos” hegeliano, o “Stato nazionale” dei fascisti, o “Stato dei lavoratori” marxista-comunista, o “Stato del mercato” dei borghesi), la morale, intesa come morale altruistica (cui Nietzsche oppone, dapprima, l’“immoralismo” e successivamente la “morale aristocratica”, fondata sull’uomo libero o individuo forte, indipendente, spontaneo: che solo questo è il “superuomo”) è, quindi, la morale che genera la “schiavitù dell’individuo”: “La morale è essenzialmente il mezzo di assicurare la durata a qualcosa oltre gli individui <Dio, Legge, Nazione, Società, Stato, Mercato, ecc.>, o piuttosto mediante una schiavitù degli individui” (F. Nietzsche - “Frammenti postumi” - 1885-86 - 2 (181)). E’ chiaro, a questo punto, che al di là di qualche gesto occasionale, l’altruismo, in quanto azione disinteressata, non esiste, è una colossale menzogna che serve solo a lusingare l’egocentrico che spera, in tal modo, in una specie di servitù volontaria degli altri nei suoi confronti, una servitù ottenuta, anziché con la forza, come sarebbe più naturale (visto che la servitù contraddice gli istinti naturali), con la seduzione e l’annebbiamento degli istinti dovuto alla cultura: “si deve implacabilmente chiamare al rendiconto e portare in giudizio i sentimenti d’abnegazione e di sacrificio per il prossimo, tutta quanta la morale dell’autorinunzia..C’è anche troppo incantesimo zuccherato in quei sentimenti del ‘per gli altri’, del ‘non per me’, perché non si debba sentire la necessità di diventare, a questo proposito, doppiamente diffidenti e chiedere. ‘Non sono forse tutti questi sentimenti..delle seduzioni?’” (F. Nietzsche - “Al di là del bene e del male” 33). Visto che l’altruismo è una colossale menzogna e anche il gesto più amorevole avviene per un sostanziale egoismo (chi può negare la felicità di una madre mentre assiste il proprio figlio?), ne consegue che l’altruismo è solo una forma più sofisticata e viscida di egocentrismo, come tale, cioè come altruismo disinteressato, almeno come principio


3 morale e non come fenomeno occasionale, non esiste: ‘un essere capace unicamente di azioni affatto non egoistiche è ancor più mitico dell’araba fenice..Mai l’uomo ha fatto qualcosa solo per gli altri e senza un movente personale” (F. Nietzsche - “Umano, troppo umano” 133), ancora: “Azioni ‘disinteressate’ non ne esistono. Le azioni in cui l’individuo diviene infedele ai propri istinti e sceglie svantaggiosamente, sono segno di decadenza” (F. Nietzsche - “Frammenti postumi” - 1888 - 22 (21)). E’ a questo punto che Nietzsche, superando il concetto di “morale” come “morale dello schiavo”, elabora la “morale aristocratica”, la quale ultima è caratterizzata, non solo dal tipo “veritiero”, ma anche dal dire di “sì” a se stessi, mentre la morale dello schiavo si rivolge sempre ad un “altro”, o per negarlo (tramite il “risentimento”) o per servirlo (tramite l’“utilitarismo”): “Nella morale..degli schiavi..il ressentiment diventa esso stesso creatore e genera valori..Mentre ogni morale aristocratica germoglia da un trionfante sì pronunciato a se stessi, la morale degli schiavi dice fin dal principio no a un ‘di fuori’, a un ‘altro’..e questo no è la sua azione creatrice” (F. Nietzsche - “Genealogia della morale” - Prima dissertazione 10), poi: “Lo schiavo non vede di buon occhio le virtù dei potenti <dei forti, da qui il ‘risentimento’>..vorrebbe persuadersi che tra quelli la stessa felicità non è genuina. All’opposto vengono messe in evidenza..le qualità che servono ad alleviare l’esistenza ai sofferenti: sono in questo la pietà, la mano compiacente e soccorrevole..la pazienza, l’operosità, l’umiltà..a essere poste in onore - giacché sono queste, ora, le qualità più utili..La morale degli schiavi è essenzialmente morale utilitaria. Ecco il focolare dove è nato il famoso contrasto tra ‘buono’ <utile> e ‘cattivo’ <non-utile>” (F. Nietzsche - “Al di là del bene e del male” 260). Nel “risentimento” lo schiavo dice “no” agli altri, perché gli “altri” sono gli uomini liberi che, con la loro forza e il loro coraggio, lo fanno sentire debole e pauroso, cosa che, pur essendo vera, genera nello schiavo, anziché vergogna e ribellione, “risentimento” verso chi è libero ed è in salute. Nell’“utilitarismo”, invece, lo schiavo dice di “sì” agli altri e non a se stesso, diventa “strumento”, “funzione”, oggi si usa dire “servizio”. Oggi morire per motivi di “servizio” rende eroi, anziché uomini senza significato, perché il titolo di eroe è come una medaglia, per lo più data postuma, che il padrone, fosse anche lo Stato o Dio, attribuisce al servo che rimane fedele fino al suo stesso sacrificio: “Ora che è morto la Patria si gloria/ d’un altro eroe alla memoria” (F. De André - “La ballata dell’eroe”), poi: “‘Io servo, tu servi, noi serviamo’ - così prega ogni virtù volenterosa, rivolta verso il proprio sovrano: perché alla fine la stella al merito si appunti sul petto intisichito” (F. Nietzsche - “Così parlò Zarathustra” - Del passare oltre). In pratica la morale aristocratica è basata sull’“essere”, quella dello schiavo sul “fare” e sull’“avere”. La morale aristocratica, essendo un semplice “sì” detto a se stessi, spinge il singolo solo ritrovare se stesso, a liberarsi dagli artifici, materiali e mentali, a cui la società educa, a essere spontaneo e coltivare l’orgoglio e l’amor proprio. Essa è, quindi, una morale egoistica, ma policentrica e non egocentrica, che vuole liberarsi dalla imposizioni servili che le impone la società, giacché solo in questo senso va letta la “morale dell’egoismo” di Stirner: “La causa mia non è né il divino, né l’umano..ma soltanto ciò che è mio, e non è una causa universale, bensì unica, come unico sono io. Nessun’altra cosa m’interessa più di me stesso” (M. Stirner - “L’Unico e la sua propriaetà”). Sopra l’individuo non devono calare i fini altrui, gli scopi della società e degli altri, l’individuo non deve sacrificarsi per “cause” che non sono interamente “sue”. Questo voleva dire Stirner, perché proprio questo è quello che nega ogni società con la “morale dello schiavo”. L’egoismo di Stirner, quello di Nietzsche, come principi morali coincidono con l’“amor proprio” di cui parla Leopardi: “Vogliono che l’uomo per natura sia più sociale di tutti gli altri viventi. Io dico che lo è men di tutti, perché, avendo più vitalità, ha più amor proprio” (G. Leopardi - “Zibaldone” 3773). L’etica, ricondotta alla sua vera radice, cioè all’“amor proprio”, non ha grandi bisogni, perché l’individuo, per amor proprio e per non volere dipendenze, misura i suoi bisogni solo sulla base delle sue forze e non desidera qualunque cosa, come capita in società, specie in quella moderna e consumistica. L’uomo moderno, anche perché schiavo dell’industria, ha il “dovere” di desiderare e consumare, ma desidera ogni cosa, anche quello che non è e non può, perché non tiene più conto del rapporto tra le sue forze e il suo desiderio. Il mercato, la scienza e la tecnologia sono al servizio di questo arbitrio illimitato e allo stesso tempo lo alimentano. L’uomo sociale, quindi, è infinitamente più aggressivo dell’uomo semplicemente egoista, naturale e spontaneo, e, quindi, elabora l’idea di una vera conquista del mondo attraverso l’organizzazione sociale e i suoi derivati, come la scienza e la tecnologia. L’etica sociale, là dove non è invidia per la forza, la salute e la bellezza (il “risentimento” di cui parla Nietzsche e che dà luogo all’ascetismo cristiano, all’egualitarismo socialista, nonché ad un atteggiamento risentito di fronte a ciò che energico o bello: l’indifferenza del prete o dell’intellettuale di sinistra verso l’energia o l’erotismo è nota, il che non significa che tali cose debbano essere inquadrate all’interno della disciplina militare, come capita ancora oggi nello sport, o della vanità della nazione), diventa un “fare il bene”, mentre l’etica vera consiste nel “lasciar essere la natura e gli altri individui”. Questo prima di tutto perché il “bene” degli altri è sostanzialmente sconosciuto all’altruista, il quale, proprio per questo, invade la sfera altrui, poi perché il bene non è un “fare”,


4 tranne in quei pochi casi in cui si tratta di gettare una corda a chi sta per affogare, ma un “lasciar essere”, perché il fondamento dell’etica non è il “fare”, ma l’“essere” e l’essere viene rispettato solo “lasciandolo essere”. L’etica non consiste nel “fare il bene”, ma nel “non fare il male”, perché il “bene” ogni essere per natura sua lo conosce spontaneamente meglio di chi ha la pretesa di aiutarlo (specie se l’aiuto è forzoso), come è chiaro da questi meravigliosi passi della filosofia taoista: “se allunghi le gambe all’anatra, per quanto corte siano, quella se ne addolora; se accorci le gambe alla gru, per quanto lunghe siano, quella ne soffre. Perciò non si toglie a quel che per natura è lungo, né si aggiunge a quel che per natura è corto, altrimenti non v’è modo di evitare le sofferenze..Non hai mai inteso parlare di quell’uccello marino che una volta si fermò nel contado di Lu? Il marchese di Lu andò a riceverlo e gli offrì un festino..facendo eseguire le nove parti della musica shao per rallegrarlo e preparare gli animali..per satollarlo. L’uccello guardò con occhio deluso e, tutto afflitto e mesto, non osò mangiare una sola briciola di carne né bere una sola tazza di vino. Dopo tre giorni morì. Questo perché colui aveva nutrito l’uccello come nutriva se stesso e non come si nutriva l’uccello” (“Chuang-tzu” VIII, 56 e XVIII, 119). L’essere non deve essere “fatto”, già è, ed è diverso, quindi l’etica consiste nel riconoscere se stessi e nel lasciar essere gli altri, questo rimanendo nell’amor proprio, senza alienarsi negli altri: “Coloro che vedono altre cose e non vedono se stessi non acquistano se stessi ma acquistano altre cose” (“Chuang-tzu” VIII, 59). Riconosciuto se stesso, nel carattere e nel corpo, il saggio taoista, per l’etica, non fa altro che applicare il “wu-wei”, cioè il “nonagire”, il “non-fare”, quindi anche “il non fare il bene”, che è l’atteggiamento opposto a quello dell’“homo faber”, che è divenuto un mostro con la tecnologia (che, in pratica, è un tentativo di “rifare” il mondo e perfino se stessi sulla base di un egocentrismo tutto mentale e astratto, che “non lascia essere niente”, nemmeno se stesso): “Ho inteso dire che il mondo lo si lascia vivere..non che lo si governa” (“Chuang-tzu” XI, 67). Quando ogni cosa si sviluppa a suo modo, non c’è nulla che non sia corretto e che non sia come doveva essere. Per questo il saggio coltiva quella forma di egoismo che è la “spontaneità” e la rispetta ovunque la trovi: per “lasciar essere” se stesso e per “lasciar essere” tutte le cose naturali, non c’è bisogno di alcuno studio e di aiuto sociale, i quali ultimi frastornano la nostra mente e ci rendono artificiali, non ci fanno più riconoscere né noi stessi e né gli altri: “Chi si dedica allo studio ogni dì aggiunge, chi pratica il Tao ogni dì toglie, toglie ed ancor toglie fino ad arrivare al non agire” (Lao-tzu - “Tao-te-ching” XLVIII). Giunti al “non-agire”, si lascia che ogni cosa e persona segua la sua natura che è anche il suo destino e ciò non viene alterato da quell’artificio che è l’altruismo: “Gli antichi, se con la perdita di un solo pelo avessero avvantaggiato il mondo, non l’avrebbero dato; se tutto il mondo fosse stato offerto a loro soli, non l’avrebbero preso. Quando tutti non perdono un sol pelo e tutti non avvantaggiano il mondo, il mondo è in ordine” (“Lieh-tzu” VII (detti di Yang Chu), 99). Questo significa che la società e l’altruismo ci tormentano creando sofferenza e artificio, tutti sono falsamente gentili e disponibili come “tappeti orientali”, ma dopo tutto questo gli anni passano lo stesso e arriva la morte, non quando non riconosci più la società, che è un fuoco di paglia, ma quando non avverti più l’odore della pioggia (natura), di quel destino che sta più in alto rispetto alla società e all’altruismo. Le citazioni sono pertinenti, anche se coprono solo parti del testo poetico. La prima, di Leopardi, ribadisce la centralità dell’“amor proprio” nella vita umana. La seconda, di Nietzsche, chiarisce che, se l’uomo viene diseducato ad avere il coraggio della solitudine, allora, come mostra la morale altruistica, non può che diventare membro di una società fatta di sempre maggiore servilismo e dipendenza, il che pure è un altro dei sensi che ha la poesia. La poesia, tranne che in una strofa, non segue la rima.

“il vivente non può perdere l’amor proprio” (G. Leopardi - “Zibaldone” 2) “Poco per volta mi si è fatta chiarezza sul difetto generale del nostro tipo di formazione e di educazione: nessuno impara, nessuno prova, nessuno insegna - a sopportare la solitudine” (F. Nietzsche - “Aurora” 443)

Vaghiamo incerti per le vie del mondo, segnati comunque


5 da un destino di morte: dovremmo pur vivere, non servirci l’un l’altro, nelle nostre città, come tappeti orientali, simili a commercianti, che non s’amano e comprano gli altri vendendo se stessi. Sbalestrati, come siamo, dai nostri pensieri, vediamo invano negli altri i nostri sogni più veri: poi, passano gli anni, le cose finiscono, così, da sole, con semplicità e senza sforzarsi, nulla più è come prima e quando a stento riconosci l’odore della pioggia: allora..è tempo di morire.

(Carlo De Cristofaro - 1/11/1997)


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