Hystrio 2016 2 aprile-giugno

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DOSSIER/LIVING SHAKESPEARE

terpretato da Ethan Hawke – come tra i pionieri dello Utah alla fine dell’Ottocento – Hamlet, 2015, di Alek Sabin e Anna Lensch. Funziona anche tra gli studiati anacronismi di un tempo storico che va da metà Ottocento a quasi tutto il Novecento, scelti dalla regista Lindsey Turner per l’acclamatissimo Hamlet con Benedict Cumberbatch andato in scena al Barbican di Londra nel 2015 e distribuito nelle sale anche in Italia il prossimo aprile, nella serie National Theatre Live, che negli ultimi anni ha prodotto notevoli allestimenti, ripresi dal vivo con occhio cinematografico. Ma questa “adattabilità” di Amleto è nota da sempre; e se ai tempi del muto il principe di Danimarca divenne addirittura femmina – Asta Nielsen, nel film del 1921 di Sven Gade – a partire dai Cinquanta si prestò magnificamente a rabbie giovanili e rivoluzionarie, in teatro e al cinema – dal leggendario allestimento newyorkese del 1964 di John Gielgud con Richard Burton in dolcevita nero a quello polacco del 1956, citato da Jan Kott nel suo Shakespeare nostro contemporaneo, dalla versione cinematografica angry del 1969 di Tony Richardson con Nicol Williamson ad Amleto si mette in affari, moderno imprenditore in una Helsinki laconica e noir nel film di Aki Kaurismaki del 1987. Fino agli ultimi decenni, l’altra tragedia costantemente riproposta dal cinema era quella dell’amore contrastato, Romeo e Giulietta, anche questa spesso riambientata, aggiornata, musicata, “etnicizzata”; e tuttavia oggi la storia degli amanti di Verona, seppur comunque molto popolare e maneggevole – Gnomeo and Juliet, 2011, in animazione, tra gli gnomi, Romeo & Juliet vs. the Living Dead, 2009, tra gli zombi, Private Romeo, 2011, tra alcuni cadetti gay di un’accademia militare – fatica un po’ a trovare un respiro nuovo, dopo il radicale, spettacolare adattamento del 1996 di Baz Luhrmann, Romeo + Juliet, dove panni e versi antichi si fondono con nervosa armonia con musiche, strumenti e insofferenze contemporanee. Il magnifico caos di Verona Beach sembra per il momento averne esaurito le potenzialità innovative. Il gusto del barbarico Ecco perciò, insieme all’eclettico Amleto, i testi più atti a messe in scena “barbare” e cruente, a guerre – spesso con armi e panni moderni – fratricide tra gang ed etnie, alla perdita del sonno, dell’amore, dell’onore: Titus di Julie Taymor con Anthony Hopkins – il più fedele; Coriolanus di e con Ralph Fiennes – il più lucido, non solo perché fotografa una guerra tra parenti stretti, e non a caso girato in Serbia, ma anche per l’inquietante ritratto di soldati orgogliosi e talvolta arroganti, annientati dall’ipocrisia della politica e dall’impatto con l’amore; Macbeth di Justin Kurzel, con Michael Fassbender e Marion Cotillard – il più astuto, con inedito e inutile ammicco matriarcal-femminista, inspie-

gabile proliferare del numero delle streghe, umanizzazione di Lady Macbeth e una battaglia iniziale girata come quella del Fosso di Helm. In realtà, l’ondata di cinema shakespeariano del terzo millennio, per il momento, sta producendo molto, ma osando poco, e rischia di farsi superare dal teatro: a Londra, il National Theatre ha fatto passi da gigante, quanto ad ambientazioni e interpretazioni contemporanee – l’Otello del 2013 di Nicholas Hytner, con Adrian Lester e Rory Kinnear, chiuso in una base militare britannica a Cipro – o a violenza sanguigna – il travolgente Coriolanus del 2014 con Tom Hiddleston diretto da Josie Rourke. La barbarie, la ferocia di cui si ammanta il Macbeth di Kurzel viene da lontano, almeno dagli anni Sessanta del Macbeth macabro di Polanski e dal sanguigno e disperato Lear di Kurosawa (Ran, del 1985), quando non addirittura dalle scene di battaglia del Falstaff di Welles. E, se proprio vogliamo dare una paternità più recente al realismo fangoso e doloroso con cui è rappresentata la guerra, basta risalire al 1989, quando l’esordiente – al cinema – Kenneth Branagh mise in scena nell’Enrico V la battaglia di Agincourt come «gli inglesi giocano il loro football: alberi spogli e sgocciolanti, il fango fino agli stinchi, cieli bianchi» (Anthony Lane, The Independent). Branagh, insieme a Ian McKellen con il Riccardo III nazista diretto da Richard Loncraine e al Luhrmann di Romeo + Giulietta, è stato l’autore che ha smosso di più le acque cinematografiche shakespeariane negli ultimi decenni del secolo scorso, compresa la bella riflessione metacinematografica e teatrale Nel bel mezzo di un gelido inverno, un Pene d’amor perdute rifatto come un musical di Cole Porter e il torrenziale Amleto para-hollywoodiano del 1996, fedelissimo – fa testo la durata, più di quattro ore – certo discutibile ma anche il «Lawrence d’Arabia di Shakespeare», impastato, perché no?, con La vedova allegra, Frankenstein e Scaramouche. L’esperimento più interessante – anche cinematograficamente – del nuovo millennio finisce per essere, curiosamente, italiano: Cesare deve morire, girato nel 2012 da Paolo e Vittorio Taviani e da Fabio Cavalli, tra e con i detenuti del carcere romano di Rebibbia, che rievocano la crudeltà del potere e della ragion di stato del Giulio Cesare con accenti da guerra Statomafie e con notevole, irrispettosa fedeltà alla risonanza eterna del testo. Lotta politica, popolo banderuola, idealismi diversi corrosi dal potere, un ambiguo rispecchiamento tra i personaggi e gli interpreti: una recita molto sentita, nella quale il teatro prende il posto della terapia, mentre il cinema fruga tra le pieghe del realismo per scoprire fisionomie e storie di stringente attualità. L’ennesimo esempio di come, spesso, gli apparenti “tradimenti” si addicano a Shakespeare più degli adattamenti rispettosi. ★

Hy33


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