Hystrio 2011 4 ottobre-dicembre

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DOSSIER/americani in italia Nella pagina precedente, Anna Magnani e Burt Lancaster in La rosa tatuata, di Tennessee Williams; in questa pagina, Elizabeth Taylor e Richard Burton in Chi ha paura di Virginia Woolf?, di Edward Albee.

re sudista, quella della Scogliera dei desideri che sarebbe poi Il treno del latte non si ferma più qui ed ebbe la solita Liz star infelice al cinema e la nostra Rossella Falk in scena in Italia. Il male del Dio Dollaro Ma non si vive di solo Tennessee, anche se quel teatro e quel cinema portano la sua sigla e nelle ragioni profonde non sono invecchiati, nonostante oggi rischino di sembrare per i giovani messaggi pleonastici che vengono da un altro mondo. Tra i grandi drammaturghi a stelle e strisce del dopoguerra su cui il cinema in bianco e nero ha detto la sua, ci sono i testi di Odets, Miller, Inge, Gibson, O’Neill, Wilder, il Tè e simpatia di Robert Anderson, prima avvisaglia di inconfessabili turbamenti edipici nel film di Minnelli con Deborah e John Kerr che non sono parenti. E la Calunnia di Lillian Hellman, in scena nel ’55 con la Compagnia dei Giovani di De Lullo e amici, oggetto al cinema d’una doppia trascrizione del maestro della rotta Vienna-Berlino-Hollywood William Wyler, che diresse la storia delle due maestre troppo intime e della perfida bambina prima nel ’36 con Hopkins-Oberon e poi nel ’62 in Quelle due con Audrey Hepburn sospetta di lesbismo per Shirley Mac Laine. Si arriva così, dribblando le parentele evidenti di temi, voglie e atmosfere, a due talenti diversi, a loro volta scrittori registi in proprio, come l’ex cowboy Sam Shepard e David Mamet con cui si arriva quasi ai nostri giorni. E infine, proprio d’oggi, c’è Tony Kushner premiatissimo scrittore del capolavoro Angels in America, maxi odissea del popolo gay americano che ha avuto nel 2004

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una bella trascrizione in un film tv di 352 minuti diretto da Mike Nichols, con Al Pacino, la Streep e altri, al meglio. Certo Arthur Miller, i cui testi sono stati lodati spesso più di Williams giacché più politically correct, non ha avuto uguale fortuna al cinema. Fa eccezione, come titolo scuola, titolo mitico, titolo premiato col Pulitzer e diagramma di molti mali oggi non più solo americani, Morte di un commesso viaggiatore, realizzato anche in quei venerdì della prosa Rai con gli interpreti storici viscontiani Stoppa e Morelli oltre a Umberto Orsini, uno dei figli (anni dopo sarà il padre in scena). Il commesso Willy Loman e la vedova cui al funerale non viene da piangere, è diventato nel tempo quasi un modo di dire, essere, illudersi sui figli e soffrire. E non solo ha avuto infinite versioni in palcoscenico con sublimi mattatori e cast, ma anche al cinema ha visto all’opera il misurato Fredric March nel ’52 nel film di Laslo Benedeck mentre nell’85 è stato interpretato, cast di Broadway, da un ancor quasi giovane ex "laureato" Dustin Hoffman, giustamente premiato (come Malkovich nel ruolo del figlio) con la regia di Volker Schlondorff. Ma altri titoli dell’ex Mr Monroe (Miller scrisse Gli spostati, ultimo film della moglie) sono rimasti inevasi, per pochi, introvabili e dimenticati. Un altro bel dramma sul male del Dio Dollaro fu Erano tutti miei figli e anche questo divenne nel ’48 un buon film verboso di Irving Reis con Edward G. Robinson e il giovane Burt Lancaster; ma il pubblico disse no, aveva strada libera verso il boom, figurarsi se voleva un esame di coscienza. Il crogiuolo, gran spettacolo viscontiano de ’52

con un cast prodigioso quanto il foglio paga, sulla spinta della caccia alle streghe di McCarthy, divenne invece due volte buon cinema: nel ’57 col francese Le vergini di Salem di Raymond Rouleau, che l’aveva messo in scena a Parigi, con Yves Montand e la Signoret coppia di trascinatori di folle di sinistra, mentre l’isterica e posseduta Abigail era la deb Mylene Dèmongeot; la seconda volta della stregonesca storia ambientata nel 1692 fu nel ’96 La seduzione del male, di Nicholas Hytner, con Wynona Ryder e Daniel Day Lewis nel frattempo diventato genero di Miller. Ma il titolo di maggior successo popolare fu Uno sguardo dal ponte, drammone italo-american-broccolino del ’56. Divenne poco dopo un film di Sidney Lumet (regista americano affezionato nella sua lunga carriera al palcoscenico) con Raf Vallone che ne fu protagonista in teatro a Parigi, poi anche in Italia. Famosa la scena in cui Vallone, scaricatore macho di Brooklyn, bacia sulla bocca Jean Sorel per tacciarlo di omosessualità e umiliarlo di fronte alla troppo amata nipotina: altro che codice Hays. Il problema dell’immigrazione clandestina, che ai tempi era italiana, è oggi più vivo di prima. O'Neill e i baffetti di Gable Il più difficoltoso di questi drammaturghi, a livello di cinema e di quiz di coscienza, fu il grande Eugene O’Neill, la cui Lunga giornata verso la notte ebbe un debutto eccezionale in Italia al Piccolo Teatro con Ricci, Magni, Mauri, Sbragia e la giovane Anna Nogara. Quando, sempre con Lumet, se ne fece il film che uscì nelle accaldate sale estive del ’62, il pubblico se ne tenne alla larga, a parte qualche insegnante. Non era certo un dramma popolare anche se il gruppo dei quattro attori che soffrivano la devastata autobiografica famiglia Tyrone, era da sballo: Katharine Hepburn, Ralph Richardson, Jason Robards e Dean Stockwell. Eppure la fama di O’Neill fu tale che gli americani provarono a tradurlo al cinema anche nelle occasioni più ostiche: appartengono a ricordi antichi Il lutto di addice ad Elettra, l’Orestea del New England (poi allestita da Ronconi allo Stabile di Genova), film di Dudley Nichols con Rosalind Russell, Kirk Douglas e Katina Paxinou per dare il copyright della bio-tragedia greca. La commedia forse più originale di O’Neill, di ronconiana lunghezza (all’Odeon di Milano era reci-


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