Hystrio 2011 3 luglio-settembre

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critiCHE/puglia - sicilia

portare, cosa potrà giustificare? Si potrà assistere senza fiatare all’agghiacciante monologo del padre che confessa di aver violentato e ucciso un adolescente, poco più di un bambino, per esaudire una sua voglia, per il desiderio di una bocca? Così termina Anarchia in Baviera di Fassbinder, un testo incompiuto che lo stesso autore volle dirigere improvvisando un finale in cui la Germania, con l’aiuto degli americani, riusciva a riconquistare la regione. Un dramma spiazzante, irridente e amaramente grottesco, scritto nel ’69 per mettere alla berlina l’aria nuova che si respirava nel mondo e che Werner Waas ha scelto di mettere in scena nella sua stesura originale e monca. Ancora oggi l’opera ha moltissimo da dirci - specie riguardo alle nostre irrisolte contraddizioni - e quindi ben venga questo allestimento trascinante e intrigante che ha ben presente la lezione di Brecht ma anche il cabaret smandrappato, la farsa che non ha paura di usare colpi bassi, specie se può avvalersi di un ensemble di interpreti scatenati che sta al gioco facendo però attenzione al senso del ritmo e del limite. Canzoni e musica fanno da costante accompagnamento alle vicende di una sventurata Baviera e di una famiglia tanto simile a noi spettatori che, comodamente seduti in platea, ci godiamo lo spettacolo. Nicola Viesti

Una Medea minimalista in interno borghese MEDEA, di Euripide. Traduzione, interpretazione e regia di Annika Strøhm e Saba Salvemini. Prod. Areté Ensemble, BARI. Dopo la simpatica levità di The Problem di Gurney jr., Annika Strøhm e Saba Salvemini – continuando la loro indagine sui meccanismi e sulle contraddizioni del rapporto di coppia – approdano alla tragedia misurandosi con la Medea di Euripide. Come nel precedente spettacolo è la scelta di adattarsi alle modalità di un teatro da camera borghese portato a un minimalismo esasperato a rendere interessante – anche se molto impegnativa e ardua – l’operazione. Nessuna scenografia se non qualche tappeto e due valigie, luci

che illuminano con la stessa intensità palcoscenico e platea, spettatori possibilmente intorno agli interpreti a fiutarsi reciprocamente. Il dramma antico c’è tutto, salvo brevi tagli, e per ben due ore senza intervallo si dispiega, privo di musiche se non il suono delle parole, nella sua atroce razionalità, contando solo sul livello di intensità dei due bravi attori che si massacrano in un interno contemporaneo. L’effetto a volte è vertiginoso e spiazzante, specie quando la drammaturgia fedelmente riporta echi di divinità e responsi di oracoli che non riescono, però, a farci perdere la sensazione di assistere “qui e ora” allo sbranarsi di mondi inconciliabili e ben oltre la soglia della crisi nervosa. Una crisi che riesce sempre a essere contenuta, a raffreddarsi dopo improvvise accelerazioni o scoppi di collera. Insomma una prova attoriale impervia e la Strøhm è superba nel disegnare una maga e una donna tanto simile a una nostra vicina di casa provvista della grinta e del temperamento di una Anna Magnani. E Salvemini, con il semplice cambiare una giacca o un cappotto, provvede a interpretare tutti i personaggi maschili, segnati ognuno da una stessa ipocrisia, da una stessa illusoria supremazia su di un universo femminile che quando poi colpisce senza pietà lascia tramortiti e privi di volontà. Nicola Viesti Andromaca (foto: Maria Laura Aureli).

siracusa

Storie di eroica emarginazione e di impossibili approdi FILOTTETE, di Sofocle. Traduzione di Giovanni Cerri. Regia di Gianpiero Borgia. Scene e costumi di Maurizio Balò. Musiche di Papaceccio e Francesco Santalucia. Con Sebastiano Lo Monaco, Massimo Nicolini, Antonio Zanoletti, Giacinto Palmarini, Salvo Disca. ANDROMACA, di Euripide. Traduzione di Davide Susanetti. Regia di Luca De Fusco. Scene e costumi di Maurizio Balò. Musiche di Antonio Di Pofi. Con Laura Marinoni, Mariano Rigillo, Gaia Aprea, Roberta Caronia, Giacinto Palmarini, Paolo Serra. Prod. Istituto Nazionale del Dramma Antico, SIRACUSA. «Quando venti di tempesta investono una nave è un disastro»: così il Coro di Andromaca commenta le sventure che accompagnano impossibili nóstoi, declinando storie di eroica emarginazione e di impenetrabile isolamento, quali quelle della tragedia euripidea e di Filottete. Per questo Balò colloca entrambe le vicende davanti a una parete su cui campeggiano i titoli delle tragedie, fondale epico per una scena fortemente naturalistica, influenzata dalla superficie riflettente che ricopre il piancito e che si colora di nubi e d’azzurro seguendo le sfumature atmosferiche. La tragedia sofoclea descrive l’approdo della nave di Odisseo sull’isola di Lemno e indaga le ragioni dell’esclusione del protagonista, risoluto nell’esilio volontario da un mondo di inganni e nella denuncia della crisi della parola, ormai funzionale al raggiro e non più alla ricerca della verità. È un travaglio che emerge, in filigrana, nella fluida traduzione di Cerri, cui la regia di Borgia opportunamente affianca l’originale in greco antico, scandito dal coro guidato con sicura padronanza vocale da Disca. Efficace è il contraddittorio tra il pragmatico Odisseo di Zanoletti e il Neottolemo di un rigoroso Nicolini, espressivo e misurato nel tratteggiare i chiaroscuri di un’anima in formazione. Lo Monaco generosamente s’investe nel ruolo dell’eroe eponimo: meno interessante quando ansima vistosamente per tradurne i tormenti, poi s’impone quando anticipa una dimensione sacrificale cristiana, vittima crocifissa pronta a immolarsi alla volontà superiore, fino a un congedo («Addio, terra di Lemno») venato di malinconia manzoniana. Più patinata l’Andromaca di De Fusco, che sconta il peso della corriva traduzione di Susanetti, impostata su un registro prosaico banalmente legato all’attualità. Ma, ancora una volta, suggestivo è il segno scenico di Balò, che immagina frammenti di una nave in secca immersi tra le macerie dell’antichità, a evocare le difficoltà di una ricostruzione post-bellica. Ad animare le due parti di una tragedia frammentaria sono la nobile Andromaca di Marinoni; e l’aulico, umanissimo Peleo di Rigillo, vigile custode dei valori che la scomposta Ermione di Caronia vorrebbe far naufragare. Sicché autentico colpo d’ala dello spettacolo risulta la presenza costante della dea Teti, che Aprea modula secondo le mille inflessioni di una voce dai riflessi mobilissimi e cangianti.

Giuseppe Montemagno

Hy93


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