DOSSIER/produrre teatro In apertura, Lucio Ardenzi con Anna Proclemer; in questa pagina, Remigio Paone con la Compagnia Ruggero Ruggeri all'arrivo al St.James di Londra in occasione della tournée internazionale pirandelliana.
circuito nazionale che vedeva ogni anno, nel periodo di presidenza di Diego Fabbri, i suoi testi presenti nei cartelloni dei teatri gestiti direttamente e indirettamente dall’ente. La nascita delle “cantine” - soprattutto romane - dei Laboratori, dei gruppi teatrali autonomi - dal Gruppo Artaud di Bologna, alla post-avanguardia degli anni Ottanta (Magazzini, Falso Movimento, Gaia Scienza) - e poi dei centri e, infine, delle ditte teatrali radicate in un preciso territorio (Raffaello Sanzio, Valdoca, Marcido Marcidorjs, Le Albe, Lenz-Rifrazioni, Tèates di Perriera, Teatro dell’Elfo), ha dato il via a diversi modi di produzione teatrale, quindi, nuove figure professionali di impresariato, legate certamente al territorio di appartenenza ma anche a collaborazioni internazionali. Particolarmente significative, in questi ultimi anni, le coproduzioni internazionali degli spettacoli di Emma Dante e di Pippo Delbono. Leggine, circolari ministeriali con valore di legge, obblighi Enpals, i famigerati borderò, il Fus - che avrebbe dovuto semplificare il sostegno al teatro di prosa - norme particolari per festival ed eventi speciali: tutto concorre a creare una selva burocratica di cui i produttori e impresari teatrali diventano le prime vittime, in quanto principali referenti di teatri e compagnie, ma anche protagonisti di un potere decisionale politico e culturale enorme, direttamente proporzionale al valore dell’impresa che rappresentano. I circuiti teatrali regionali, nati nella seconda metà degli anni Sessanta con la fondazione dell’Ater (Associazione Teatri Emilia-Romagna) con obiettivi principalmente di “distribuzione”, si sono trasformati, quasi subito, in una formidabile forza produttiva e di circuitazione degli spettacoli, rimodellando la professionalità di quegli impresari italiani definiti con felice terminologia da Emilio Pozzi i «maghi dello spettacolo». I nocchieri della barca dei comici Nessuna magia ma solo grande entusiasmo, fiuto professionale, cultura, un buon senso molto petroniano e un amore per la lirica e la prosa hanno caratterizzato la vita di impresario teatrale dell’editore bolognese Carlo Alberto Cappelli (1908-1982), un cuore grande a misura del suo portafoglio. Nel 1951 egli inventa per la sua città
il Festival Internazionale della Prosa ed è decisivo per la nascita del glorioso teatro La Soffitta. Nel 1954 dà inizio al Festival shakespeariano di Verona con Romeo e Giulietta, protagonisti Annamaria Guarnieri e Giorgio Albertazzi, ed è l’impresario di Visconti per Come le foglie. Per vent’anni sarà l’impresario della Compagnia dei Giovani, con cui porta in scena spettacoli memorabili come quel Diario di Anna Frank che girò anche all’estero e fu definito da Otto Frank «la più bella edizione del mondo». Cappelli è stato probabilmente l’ultimo degli impresari “puri”, umanamente, si dice, il più grande di tutti. Della medesima indole, di appena nove anni più anziano, fu Remigio Paone (1899-1977), forse colui che per primo incarnò l’idea di “impresario teatrale”, almeno come ce lo siamo immaginato attraverso gli aneddoti e le cronache teatrali del periodo compreso tra gli inizi degli anni Trenta e la metà dei Settanta, un segmento di storia dello spettacolo italiano forse ancora tutto da raccontare. Si deve al coraggio di Paone la nascita, a Milano, del Teatro Nuovo, dove, nel dicembre 1938, egli fece debuttare Eduardo, Titina e Peppino De Filippo con Ditegli sempre di sì. E poi Govi, Ruggeri, Dina Galli - che lo definì «oculato e sapiente nocchiero della barca dei comici» - Zacconi, Cervi, Stoppa, Magnani, Totò. Fu lui a scoprire due talenti dell’impresariato teatrale come Garinei e Giovannini e a inventare il Teatro di Rivista, lanciando artisti come Walter Chiari, Rascel e la mitica Wanda Osiris. Nel suo palcoscenico ideale non c’erano distinzioni “di genere”, né il suo sguardo andava solo dritto al “botteghino”: produsse a Roma nel 1943 per la Compagnia di Renato Cialente, prima di Strehler a Milano, L’albergo dei poveri, e fece debuttare a Milano attori come Jouvet, Barrault Gérard Philipe, Maurice Chevalier e Joséphine Baker.
Da Ardenzi agli organizzatori invisibili Chi invece aveva compreso che in Italia ci sono “tanti pubblici” e che gli spettacoli hanno un «utente ben definito (…) da servire in modo diverso» fu Lucio Ardenzi (1922-2002), creatore di celebri coppie teatrali - Proclemer-Albertazzi, Tognazzi-Brachetti, l’incredibile Proclemer-Köll e per anni il più importante impresario del teatro privato in Italia. Aveva cominciato come cantante alla radio e come attor giovane nel teatro di prosa. Fu Vittorio Gassman a intuire il suo talento per l’organizzazione, affidandogli la formazione della Compagnia del Teatro d’Arte. Da allora è stato un susseguirsi di successi commerciali da un capo all’altro della penisola, con attori celebri e altri che, grazie a lui, lo sarebbero diventati nel giro di pochi anni. Grandi produzioni e lunghe tournée, tenuta spesso biennale dello spettacolo per rientrare nei costi e l’invenzione di “ditte” teatrali. Un genio del rischio economico calcolato. Riusciva a scommettere allo stesso modo su Beckett come su Modugno che mette in musical il Liolà di Pirandello. Uomo di spettacolo vincente, spesso in polemica col teatro pubblico: quando morì, nel luglio del 2002, era stato da pochi mesi nominato presidente dell’Eti. Per un gigante del teatro italiano come Paolo Grassi (a cui è dedicato l'articolo nella pagina seguente), la parola "impresario" non è tanto riduttiva, ma proprio sbagliata, con lui, la figura dell’impresario cambia, si trasforma in quella di “organizzatore”: un operatore culturale a tutto campo, soprattutto politico, che diventerà il motore vero della vita teatrale nazionale. Bruno Borghi, Mauro Carbonoli, Nuccio Messina, Sebastiano Calabrò, Carlo Molfese, Mimma Gallina, Fiorenzo Grassi, invece, interpretano al meglio delle loro specifiche qualità un ruolo che oggi tende a rimanere “invisibile”, quasi a segnare la fine di un’epoca e dei suoi celebri e potenti artefici del lavoro fuori scena. ★
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