Hystrio 2006 1 gennaio-marzo

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D A N Z A con Mario Perniola, «non c'è più una gabbana, ma soltanto un voltare e rivoltare incessante che volatilizza e dissolve la gabbana». È all'interno di questo orizzonte che Zero Degrees di Akram Khan e Sidi Larbi Cherkaoui - inglese originario del Bangladesh il primo (formatosi nell'ambito della danza Kathak), belga-marocchino il secondo (cresciuto alla corte di Alain Platel) - affronta con dolente giocosità la questione del confronto con la tradizione in stretto rapporto con la definizione della propria identità. Attraverso il racconto frammentario di un viaggio dal Bangladesh all'India emerge una condizione di sradicamento incarnata da quello che ormai a tutti gli effetti è un cittadino britannico tornato in Oriente alla ricerca delle proprie origini: il paradiso perduto risulta infatti definitivamente inaccessibile, come rivela l'estraneità dell'esule ai codici di comportamento da osservare con la polizia locale o con le guardie di confine incontrate durante il viaggio. E mentre le parole hanno l'andamento smozzicato di una confidenza domestica, i movimenti attingono dichiaratamente a un patrimonio tradizionale riletto da Khan con intima adesione e da Cherkaoui con limpido disincanto (non a caso il primo danza a piedi nudi, mentre il secondo calza scarpe da ginnastica). Nonostante l'attacco all'unisono seduti a gambe incrociate sul proscenio momento di felice sincronia inventiva che dà vita a un'immobile danza parlata - l'incontro tra i due finisce per far emergere più la diversità d'approccio che gli elementi comuni rispetto al tema condiviso. E mentre la preziosa densità di Kahn rischia di lasciare in bocca un retrogusto vagamente stucchevole, la svagata sobrietà di Cherkaoui raggiunge con crescente evidenza un'intensità sempre calibrata, fino al canto ebraico che scandisce il malinconico finale. Decantata nel vuoto di uno spazio grigio a cui i bianchi manichini dello scultore Antony Gormley, doppi muti e privi di sguardo, danno il sapore di un'installazione d'arte, l'azione è scandita dalle musiche - in bilico tra Oriente e Occidente - di Nitin Sawhney, eseguite dal vivo dietro un fondale che all'occorrenza lascia trasparire le sagome degli strumentisti.

Fra musica indiana e afroamericana Oriente e Occidente sono i poli d'attrazione a cui si rivolge anche Anne Teresa De Keersmaker, che firma, insieme all'ex allievo Salva Sanchis, Raga far the rainy season/A love supreme, dittico in cui si passa dall'orizzontalità ipnotica del tipo melodico indiano all'aspra verticalità del free jazz afroamericano. In entrambi i pezzi la coreografia si struttura a partire dalla musica, sollecitando gli interpreti a una continua dialettica tra composizione e improvvisazione. Così l'Oriente evocato dalla fondatrice di Rosas ha l'andatura informe e circolare del raga nel corale andirivieni - interrotto da file e diagonali di disarmante convenzionalità - di nove figure biancovestite (un gineceo in cui l'unica presenza maschile non introduce alcun elemento di differenza) costantemente in bilico tra lentezze languorose e improvvise accensioni ritmiche in cui suggestioni mitiche si tingono di accenti espressionistici. Nel volgere lo sguardo

all'Occidente si fa ancora più esplicita - fino alla didascalia la corrispondenza tra la partitura musicale e quella coreografica, al punto che a ciascuno dei quattro danzatori in scena - due coppie in cui la polarità maschile/femminile risulta, invece, fortemente evidenziata - sembra corrispondere una diversa linea strumentale (sax tenore, pianoforte, contrabbasso e percussioni) del capolavoro di John Coltrane. Assunto come matrice per una variazione sul tema del "desiderio di trascendenza", il quartetto del sassofonista statunitense finisce per diventare l'ordito per un

festival d' Automne di Parigi

RAIMUND BOGHE

e i suoi r gazzi i f ·ore

L/

universo artistico di Raimund Hoghe è caratterizzato da una continua, struggente ricerca del tempo perduto, un proustiano riandare con la memoria ad un passato felice, forse solo immaginario, in cui perdersi nella contemplazione della bellezza dei divi di Hollywood, come nell'assolo Chambre séparée, o in cui spietatamente confrontarsi con la giovinezza e l'oggi al suono di canzoni degli anni Cinquanta-Sessanta, come avviene in Young people, old voice accolto a Parigi al Centre Pompidou per il Festival d' Automne. Tre ore che mettono ad ardua prova, con le loro ripetizioni e la loro lentezza, l'attenzione del pubblico ma che riservano straordinarie emozioni a chi riesce a sintonizzarsi con il conturbante spazio-tempo elaborato dall'artista tedesco. Dodici ragazzi nell'età di mezzo tra adolescenza e maturità sono quasi imprigionati in una struttura spettacolare rigida, implacabilmente sorretta dallo scorrere incessante delle canzoni. Spesso a loro è proibita l'esplosione dei corpi e del movimento, compressi entrambi dalla ripetitività ossessiva dei gesti e delle azioni, mentre liberatoria e straordinaria si rivela la possibilità di scatenarsi in coreografie ironiche e affascinanti, venate di inquietudine nervosa. Ad interrompere il flusso ipnotico della rappresentazione, l'irrompere di alcuni frammenti della particolarissima versione del Lago dei cigni di Hoghe, spiazzante e lacerante nella simbiosi tra il corpo marchiato dall'handicap dell'artista e la bellezza del giovane Lorenzo De Brabandere. Young people, old voice getta pasolinianamente «il corpo nella lotta» con esasperato rigore e con una forza che non può celare fragilità, donandoci molti momenti di sublime, indimenticabile teatralità come nella battaglia con aeroplani di carta che diviene un turbine che coinvolge l'intera sala o quando spiamo i maneggi erotici tra il regista, avvolto in un abito alla Marylin, ed un ragazzo travestito da donna mentre tutti gli altri, in proscenio, si addormentano come bambini protagonisti di una favola inquietante, dolorosa e meravigliosa tanto simile alla vita. Nicola Viesti


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