Hystrio 2006 1 gennaio-marzo

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di Domenico Rigotti eatrante di razza, Giuseppe Patroni Griffi, Peppino per gli amici. Classe 1921, napoletano, barone per via di padre pugliese, di quel gruppetto di artisti e intellettuali nati all'ombra del Vesuvio e trasmigrati a Roma nell'immediato dopoguerra, o poco prima, La Capria, Girelli, Rosi, e molti altri ancora, egli fu da tutti riconosciuto subito come il più dotato artisticamente. Aveva cominciato Patroni Griffi, scomparso il 15 dicembre scorso dopo una lunga malattia, con un racconto pubblicatogli dalla rivista Nuovi Argomenti diretta da Moravia ma, mentre la strada che altri avevano seguito era stata quella della letteratura, molte e diverse furono le sue. E il suo talento a rivelarsi presto con la commedia D'amore si muore, successo teatrale strepitoso che venne a coincidere con il sodalizio con l'allora famosa Compagnia dei Giovani di Valli, De Lullo e la Falk. Era il 1958 e il lavoro andò in scena al Teatro Eliseo che in questi ultimi decenni l'autore e regista diresse con affetto e passione e che forse fu la sua vera casa. D'amore si muore si rivelava indocile nei confronti di una tradizione drammaturgica caratterizzata da un ossequio diffuso nei confronti di una lingua media e incolore. Ma che dal teatro tradizionale si slacciava, come quelle e con più forza ancora che sarebbero presto seguite, anche perché l'autore portava sulla scena un'umanità di varia estrazione di quella fino allora conosciuta, caratterizzata spesso da una marcata diversità, da un'appartenenza risentita a un ambito regionale ben definito, da una cultura che scaturiva dalla contaminazione con mondi differenti fra loro. I protagonisti disancorati da appartenenze di classe, ora intellettualmente sofisticati, ora drammaticamente diversi, emarginati, imprevedibili, inquieti e inquietanti, ma sempre di una consapevole, sofferta umanità. Del resto, proprio sulla contaminazione fra lingue, gerghi e dialetti nacque e si sviluppò l'intensa sperimentazione formale di Patroni Griffi, che mai conobbe sosta e che forse ebbe una delle più alte estrinsecazioni in Persone naturali e strafottenti (del 1974) lavoro nel quale si metteva in scena la vita di quattro reietti di Piedigrotta (Napoli fu sempre viva nel suo cuore, anche

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nei romanzi; si vedano Scendeva giù per Toledo e La morte della bellezza). Del 1967 era invece Metti una sera a cena. Un altro clamoroso colpo di teatro (ma tutti i suoi lavori erano eventi scenici) e forse la sua più rappresentata e conosciuta anche per la versione cinematografica, in realtà piuttosto maltrattata, che lo stesso Patroni Griffi ne fece due anni dopo con la Bolkan e Trintignant. Al cinema si dedicò in non poche occasioni (firma // mare con Orsini nel 1962 e una dozzina di anni dopo Identikit con Elizabeth Taylor), ricevendo giudizi freddi e scostanti. Certo meglio Patroni Griffi sapeva fare a teatro. Non in quel caso perché la commedia recitata con enorme successo per due lunghe stagioni aveva anche in quella occasione la firma di Giorgio De Lullo. Erano anni difficili, per la società italiana e per il mondo, e la commedia che denunciava l'ipocrisia degli affetti borghesi, che sostituiva al consunto triangolo borghese un pentagono più corposamente lussurioso ma che non manifestava il desiderio di veramente farsi del male, restò famosa anche per quel grido finale al pericolo dell'atomica che si innestava sui dialoghi frivoli dei commensali. Tre titoli quelli segnalati che sono per più di un verso i cardini della sua drammaturgia. E però fra i numerosi altri sarebbero da ricordare ancora Anima nera, In memoria di una signora amica (portata in scena da Lilla Brignone e Giancarlo Giannini) Prima del silenzio (scritto appositamente per Romolo Valli) e Cammuriata. E da non dimenticare è anche il suo lavoro di regista, anche in casi eccezionali, e per la Rai, con l'opera lirica: Tosca e Bohéme in diretta sui luoghi stessi della vicenda (ma ci fu anche un Trovatore all'Arena di Verona). Regie eleganti, taglienti e frizzanti che firmava in collaborazione con lo scenografo Aldo Terlizzi, suo figlio adottivo, che lo fecero incontrare con classici che si chiamavano Shakespeare (Romeo e Giulietta) , Goldoni, Cechov, Eliot, Tennessee Williams. Anche Pirandello, al quale, negli anni Ottanta, si dedicò con l'allestimento, per lo Stabile di Trieste, della trilogia consacrata "al teatro nel teatro". Una messinscena per certi aspetti memorabile e che lo portò di lì a breve a fondare una compagnia che portava il suo nome, nata dall'esigenza di approfondire la ricerca teatrale insieme a giovani attori. Un capitolo anche questo significativo della vicenda umana e artistica di questo intellettuale "irregolare", spesso, e forse non a torto, tacciato di individualismo sfrenato ed eccessiva spregiudicatezza (molte sono le volte che la censura "tallonò" i suoi lavori) e che però si merita un posto non secondario nella storia del teatro italiano dell'ultimo mezzo secolo. •

Addio a Ileana Ghione

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scomparsa a Roma il 3 dicembre scorso Ileana Ghione. Colta da improvviso malore mentre interpretava l'Ecuba di Euripide al Teatro Ghione di Roma, è stata stroncata da un'emorragia dovuta a un aneurisma dell'aorta. Settantaquattro anni, la Ghione si era formata con Orazio Costa e Sergio Tofano all'Accademia d 'Arte Drammatica Silvio D'Amico. Il suo nome era legato agli sceneggiati televisivi prodotti dalla Rai negli anni '60, di cui è stata ispiratrice e interprete, dal David Copperfield di Majano, alla Madame Curie di Morandi, dai Buddenbrook di Fenoglio all'Allodola di Anouilh, per la regia di Cottafavi. Negli ultimi anni si era dedicata esclusivamente al teatro, dirigendo con il marito, il pianista Christopher Axworthy, il Teatro Ghione, fondato nel 1982, e interpretando il ruolo della donna forte, coraggiosa e anticonformista in riduzioni da Wilde, Bemard Shaw, d'Annunzio, Pinter, Ibsen e Pirandello. R.R.


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