Hystrio 2000 3 luglio-settembre

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vetri.na di Ugo Ronfani scoltandolo fra autoanalisi e "sottotesto" (la sua specialità registica), non è difficile rendersi conto che il Teatro Stabile di Torino, chiamandolo a sostituire Gabriele Lavia, ha scelto bene. I risultati, e la durata, dipenderanno da fattori vari: i consensi sul territorio, il sostegno di un consiglio di amministrazione dove alle posizioni politiche si erano mescolate più del lecito rivalità fomentate da concorrenti interni alla sua stessa area culturale (ma ormai in gran parte rientrate) e - perché non dirlo? - il suo carattere, non certo incline ai compromessi. Buona scelta - mi dico dopo averlo sentito ragionare sul suo futuro in riva al Po - per almeno tre ragioni, tutte di peso. Perché, primo, Massimo Castri ha idee chiare sul teatro italiano e sul suo futuro. Secondo, perché è uno dei pochi uomini di teatro autenticamente "liberi", che non da oggi soltanto dice senza peli sulla lingua quello che pensa della crisi della nostra società teatrale e delle responsabilità di chi al suo interno, e nelle istituzioni, ha lasciato e lascia che le cose vadano nel modo peggiore, pur proclamando intenti riformatori. Terzo, perché una visione lucida dei problemi, che s'accompagna a una onestà intellettuale di fondo, gli consente di tenere distinti utopia e realtà, il dire e il fare, l'adesione agli ideali e il rispetto degli accordi nel gestire uno dei maggiori teatri pubblici italiani. È il pessimismo della ragione il filo rosso che tiene insieme il suo pensiero per tutto il nostro incontro: e in questa Italia dove chi assume qualche responsabilità, politica o culturale, si sente subito in dovere di promettere ai "sudditi" il Paese di Bengodi, tanta illuministica prudenza è senz'altro una garanzia. Tanto più che è un pessimismo mai disgiunto da quella tensione ideale che dicevo; e che Castri, "situazionista romantico", chiamerà a più riprese «le ragioni dell'arte».

Una casa della cultura Si dà il caso, però, che oggi il "pessimismo della ragione" sia, in Castri, corretto da un "ottimismo della volontà" più che giustificato per un felice evento. Il nostro incontro comincia negli uffici dello Stabile, in un palazzo della sabauda piazza Carlo Felice a due passi dal Carignano, teatro carico di storia e prosegue nell'hinterland industriale di Torino, a Moncalieri, fra le strutture nuove di zecca di una vera e propria "casa della cultura" che sarà, dello Stabile, la futura dependance. E che, per felice coincidenza, è entrata parzialmente in attività (lo sarà del tutto entro il 2001) proprio mentre Massimo Castri dà mano al suo programma. «A Moncalieri - dice il regista - ritrovo un pezzo della casa

che ho lasciato, il Fabbricone di Prato. Le Fonderie rispondono al mio modo di concepire un teatro pubblico. Potrò continuare il lavoro didattico che avevo avviato in Toscana, con i giovani dell'Atelier della Costa Ovest. Sarà più facile, qui, proiettare all'esterno, nel territorio, ma anche in Europa, dove siamo in ritardo, le attività di uno Stabile come questo, evitare che sia una scatola chiusa come avviene per altri teatri pubblici». HYSTRIO - Ammetterà che le Fonderie Teatrali sono state un bel "benvenuto". CASTRI- Sì, non nascondo che sono impaziente di entrare in questa nuova "stanza dei giocattoli". Mi piace chiamarla così, ma so che il teatro oggi è un gioco serio, perché ci muoviamo in un paesaggio di rovine. Vedremo, io ci provo. HY - Le accoglienze sono state buone. Quelli che avevano espresso riserve o proposto altre soluzioni tacciono. C. - Finora ho trovato attenzione e collaborazione. Del resto, per me la questione è semplice: verificare se qui esistono, come spero, le condizioni per fare quel tipo di teatro in cui credo. Il resto non mi riguarda. So che ho il dovere di favorire al massimo la partecipazione e il coinvolgimento. HY - Parliamo dunque del "cantiere Castri" in vista della sua prima stagione subalpina. C. - Faccio qualche premessa, perché tutto risulti più chiaro. Avrei preferito che questa intervista fosse stata prevista prima, o dopo. Prima perché avrei parlato dei progetti, dopo perché avremmo parlato del fare. Mentre ora siamo a metà del guado, in quella fase ancora un po' confusa in cui, davanti a scadenze strette, il tempo dei progetti si confronta con quello delle realtà. È una fase in cui lavoro giorno per giorno, cercando di non rompere un mio filo rosso per infilare le perle di una collana, quella del mio progetto per il triennio. Cercando di capire, pur nell'affanno del fare, la realtà che mi circonda. Altra premessa, che diventa una scommessa con me stesso: cercare di essere insieme il diavolo e il buon dio senza arrivare, se possibile, alla schizofrenia. Sappiamo che in Italia, anche a Torino, c'è una forte richiesta - giusta, a mio parere - di figure che si definiscano come manager della cultura. Nel teatro pubblico, in particolare, c'è l'esigenza, anzi l'urgenza, di uscire da una condizione di inerzia, di riattivarlo nei rapporti e nelle dinamiche che, al di là della produzione, riguardano i territori delle politiche culturali nel loro insieme. Ora, ecco il punto: come riuscire a essere produttore di cultura senza dimenticare l'arte, senza "bruciarla", dal momento che c'è discrasia fra palcoscenico e management, e che è molto difficile, per non dire impossibile, risolvere la questione affidando entrambe le funzioni ad una sola persona? Se dovessi pormi il problema in termini razionali dovrei concludere che è una sfida persa in partenza. L'unica soluzione possibile - qui c'entra l'ottimismo della


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