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 Ringraziamenti

Michelle Dawson rimane la persona cui questo lavoro deve di più, sia in termini di contenuto che di intento, nonostante possibili disaccordi da parte sua su come ho utilizzato le sue idee e un aperto disaccordo sull’utilità di scrivere libri. Un ringraziamento speciale va al gruppo di Montréal (A. Bertone, J. Burack, C. Caron, M. Dawson, B. Forgeot d’Arc, C. Jacques, I. Soulières, G. Soulières, G. Thermidor) e agli studenti che vi hanno collaborato, ad Alexis Beauchamp-Chatel, agli enti finanziatori (Canadian Institutes of Health Research, Fonds de recherche en santé du Québec, Fondation de l’hôpital Rivière-des-Prairies, Chaire Marcel et Rolande Gosselin en Sciences cognitives de l’autisme de l’Université de Montréal), alla direzione dell’ospedale Rivière-des-Prairies (Lynn Grégoire, Jean-Pierre Duplantie, Michel Lapointe, Carole Martin), alla direzione dell’ICSUSS North (Pierre Gfeller, Marie-France Simard), ad Emmanuel Stip, Direttore del Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Montréal, e ai revisori del manoscritto (Colette Quesnel, Helli Raptis, Christiane Belleville).

 Prefazione

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Giovanni Valeri

“Prima che si possano produrre dei dati, sono necessarie delle idee”, così scrive Laurent Mottron nell’introduzione del libro che vi apprestate a leggere. “Il libro offre questo: idee per i genitori, gli scienziati e i politici, con l’aspettativa che vengano trasformate in esperienze e, quindi, in dati”.

Mottron è un clinico e un ricercatore specializzato nelle neuroscienze cognitive dell’autismo. Nato nel 1952 in Francia, dove studia psichiatria ed ottiene un dottorato di ricerca in psicolinguistica, vive dal 1990 in Québec dove è professore nel Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Montréal. È anche direttore di un laboratorio di ricerca in neuroscienze cognitive dello spettro autistico, in cui da oltre quindici anni collaborano ricercatori autistici (Mottron, 2011). La sua duplice competenza, nel campo clinico e in quello della ricerca nelle neuroscienze cognitive, traspare da questo denso libro, che propone di “rifondare” la nostra comprensione clinica dell’autismo, a partire dalla semeiotica, passando per l’analisi critica degli studi sull’efficacia delle terapie per l’autismo, fino a giungere a proposte di politica sanitaria particolarmente interessanti.

Nell’introduzione, Mottron immagina di essere il genitore di un bambino di 2 anni che ha appena ricevuto la diagnosi di disturbo dello spettro autistico e cerca di orientarsi nella vasta e confusa quantità di informazioni disponibili, per capire quale percorso terapeutico ed educativo intraprendere. Prende così avvio la pars destruens dell’opera, in cui nei primi tre capitoli sono analizzati, criticamente e con rigore scientifico, l’attuale semeiotica clinica dell’autismo e i modelli terapeutici più adottati, evidenziando gli studi e le relative prove di efficacia che dovrebbero consentire l’individuazione di interventi terapeutici scientificamente ed eticamente fondati.

Per quanto riguarda la rifondazione della semeiotica, Mottron ci offre spunti importanti, in primo luogo riconfigurando i “comportamenti ed interessi ripetitivi e ristretti”, la seconda area dei criteri diagnostici nel DSM-5 e nell’ICD-11. Vengono innanzitutto distinti i comportamenti ripetitivi connessi alla ridotta accessibilità di informazioni o associati ad emozioni, dai comportamenti che rappresentano l’equivalente delle condotte esploratorie dei bambini a sviluppo tipico, come i “comportamenti di esplorazione visiva atipici”. L’autore fornisce quindi spunti interessanti per rifondare anche la semeiotica della prima area dei criteri diagnostici, quella relativa ai comportamenti “sociali”, distinguendo gli indici espliciti di socializzazione, utili per la diagnosi, dalle competenze sociali effettive. La rifondazione della semiotica prosegue con la revisione delle conoscenze sulle traiettorie di sviluppo nell’autismo, a partire da quella relativa al linguaggio orale, acquisito spontaneamente da una rilevante quota di bambini autistici (prototipici) dopo una fase non verbale fino ai 4-5 anni, e caratterizzata frequentemente da una sequenza d’acquisizione inversa tra linguaggio orale e scritto.

Queste osservazioni sono di grande interesse, anche per una teoria generale del linguaggio, e hanno stimolato ricerche che hanno evidenziato come l’acquisizione spontanea del linguaggio, nell’autismo prototipico, sembri non avvenire principalmente tramite l’interazione sociale, ma attraverso la possibilità di una sistematica elaborazione di informazioni complesse (Mottron, Ostrolenk e Gagnon, 2021).

A conclusione di questa parte dedicata alla rifondazione della nostra comprensione clinica dell’autismo in età prescolare, Mottron introduce una delle sue principali ipotesi teoriche, con significative ricadute su un piano clinico: la distinzione tra autismo prototipico e autismo sindromico, indispensabile a suo avviso anche per riorientare la ricerca, i cui dati spesso contraddittori sono messi in rapporto, almeno in parte, con l’eccessiva eterogeneità dei quadri clinici che designiamo con la generica diagnosi di “disturbo dello spettro autistico”. L’autismo prototipico si caratterizza per non essere associato alla disabilità intellettiva in misura maggiore di quanto si evidenzi nello sviluppo neurotipico e da un iperfunzionamento percettivo con expertise in domini specifici. La distinzione tra i due fenotipi autistici riguarda anche aspetti genetici e morfologici: nell’autismo prototipico la presenza di CNV (copy number variation) e di dismorfismi (eccetto la possibile macrocrania) è rara, mentre nell’autismo sindromico troviamo frequenti alterazioni genetiche, come le CNV, dismorfismi facciali e possibile microcefalia (Mottron, 2021).

Tale distinzione ci consente di apprezzare anche la competenza in neuroscienza dello sviluppo dell’autore e la complessità del suo pensiero, che si delineano nel confronto tra due concezioni dell’autismo: quella “deficitaria” e quella dell’autismo come “variante umana”, prospettando un auspicabile cambio di paradigma epistemologico, connesso con il concetto di “neurodiversità” (BaronCohen, 2017; Pellicano e den Houting, 2022).

La pars destruens prosegue con la critica dei modelli di intervento comportamentale intensivo precoce (ICIP), comprendenti sia i modelli che si basano sull’ABA, “strutturato o classico” (come l’Early Intensive Behavioral Intervention [EIBI], ispirato dal lavoro di Lovaas), sia i modelli di intervento comportamentale evolutivo naturalistico (ICEN), come l’Early Start Denver Model (ESDM), basati sull’integrazione di strategie terapeutiche comportamentali e di tipo evolutivo (Schreibman et al., 2015).

La prima critica è rivolta all’anacronismo dell’utilizzo di “marchi registrati”, ovvero di brand, in luogo della definizione degli interventi sulla base degli “ingredienti terapeutici attivi”, come avviene negli studi metodologicamente rigorosi sull’efficacia delle terapie, sia farmacologiche sia psicosociali. L’analogia tra “marchi registrati” di modelli terapeutici e “marchi commerciali” appare meno paradossale se si considera il costo di un intervento intensivo: il metodo Lovaas per esempio “è una marca che genera un guadagno di circa 60.000 dollari annui per bambino”.

La critica agli interventi precoci intensivi prosegue con l’analisi dei presupposti, ovvero gli assunti teorici su cui si fonda l’intervento (ad es., “l’autismo è una malattia”), degli obiettivi, definiti in base agli ambiti del comportamento e delle competenze cui l’intervento si rivolge, e dei principi tecnici, ovvero le strategie e i mezzi utilizzati. Mottron sottolinea come non siano supportati da evidenze scientificamente fondate e siano privi di un’effettiva considerazione in termine di outcome sulla qualità della vita nel lungo termine.

Una prima conseguenza di valore etico della scelta di tali presupposti (“l’autismo è una malattia”, e non una “variante umana”) è la non applicazione ai bambini autistici dei principi sanciti dalle Convenzioni sui diritti umani e in particolare dalla Convezione internazionale dei diritti dell’infanzia, che sono alla base dell’educazione dei bambini tipici, soprattutto il diritto a ricevere l’educazione in un contesto scolastico normale. Questa affermazione dell’autore va ovviamente contestualizzata, in particolare per quanto riguarda l’Italia che, come si dovrebbe ricordare più spesso, è l’unico paese al mondo in cui, da più di quarant’anni, sono state totalmente abolite le scuole speciali, affermando il principio dell’inclusione globale educativa e sociale. Un’ulteriore conseguenza di questi Presupposti sul piano clinico è che la finalità del trattamento consisterebbe nel rendere il bambino “meno autistico” e non nel favorire, rispettandone le sue peculiarità, l’accesso alla cultura e alla rete dei rapporti sociali nell’ambito della sua comunità.

La critica agli obiettivi dell’ICIP prende in esame una possibile errata sovrapposizione tra i comportamenti atipici necessari per la diagnosi e i comportamenti da modificare nel corso dell’intervento. Ad esempio un obiettivo condiviso da molti ICIP, ma anche da un modello evolutivo come il PACT (Green et al., 2010), consiste nell’“aumentare la socializzazione” tramite l’acquisizione degli indici sociocomunicativi neurotipici in assenza di chiare evidenze scientifiche che dimostrino un legame tra queste acquisizioni e significativi effetti a lungo termine nell’adattamento e nella qualità della vita.

Altri obiettivi sono relativi ai comportamenti ripetitivi e ai comportamenti problematici, troppo spesso non chiaramente differenziati. Ad esempio, un obiettivo condiviso da molti ICIP è “diminuire i comportamenti ripetitivi”, considerati in modo generico come un ostacolo all’apprendimento, mentre, come si è visto, almeno alcuni di questi comportamenti costituiscono una specifica modalità di esplorazione del bambino autistico, e ne sono quindi uno dei fondamenti.

Riguardo all’obiettivo “estinguere i comportamenti problematici”, l’autore propone di considerarli non come segni specifici di “autismo”, ma come manifestazioni disfunzionali da affrontare in base alla loro effettiva incidenza sulla compromissione delle modalità di adattamento.

Infine, la critica ai principi tecnici invita a problematizzare alcuni assunti del ragionamento clinico che oggi tendono ad essere adottati quasi come degli stereotipi, come ad esempio il principio dell’intensità, che implica la raccomandazione di almeno 25 ore a settimana di terapia (ma spesso con la richiesta di un numero maggiore di ore, sulla base del principio “di più è meglio”).

Questo principio non è sostenuto da dati scientifici che dimostrino un “effetto dose” dell’intervento (e non esiste alcuna “dose ottimale” valida per tutti i bambini). Questa affermazione di Mottron è confermata anche da recenti revisioni sistematiche e metanalisi (Sandbank, Bottema-Beutel e Woynaroski, 2021; Rodgers et al., 2020).

Il principio dell’intensità rappresenta inoltre la principale fonte dell’elevato costo di questi interventi e tende anche a far monopolizzare dalla terapia l’impiego del tempo del bambino, a discapito delle attività spontanee di esplorazione e apprendimento.

Un altro principio tecnico frequentemente adottato in modo acritico è quello relativo alla precocità dell’intervento con l’assunto “prima è meglio”. Anche in questo caso non ci sono evidenze che la associno ad un miglioramento del bambino e della sua famiglia, o a un migliore adattamento nella vita adulta o a costi minori. La precocità dell’intervento, inoltre, rischia di non tener conto della sequenza evolutiva della maturazione del bambino autistico e aumenta il rischio di una diagnosi errata.

Anche l’apprendimento frazionato in elementi distinti (come nel Discrete Trail Training [DDT]), principio tecnico alla base di molte terapie ispirate all’ABA, è criticato, perché oggi sappiamo che non è un metodo utile per l’acquisizione di competenze complesse come il linguaggio o il ragionamento. Il costo in termini di tempo e le difficoltà a generalizzare gli apprendimenti in altri contesti ne limitano la portata come metodo generale di apprendimento. Questa critica si completa con l’analisi dell’uso del rinforzo: anche tralasciando le critiche etiche all’uso di tecniche di rinforzo avversive, Mottron evidenzia come anche l’utilizzo del rinforzo positivo, combinato con l’apprendimento parcellizzato, permetta solo un apprendimento limitato nei termini della complessità e non ha effetto sull’acquisizione di competenze complesse. Inoltre, è stato evidenziato come gli autistici possano apprendere informazioni complesse senza rinforzi esterni.

In merito al principio tecnico dell’intervento strutturato, l’autore sottolinea innanzitutto il duplice significato del termine: per il terapista, l’insegnamento deve essere “strutturato”, cioè esplicito e le attività decise dall’adulto; per il bambino, indica che il suo spazio di vita sia sufficientemente organizzato perché ne possa cogliere la struttura. Mentre Mottron critica il controllo delle attività da parte del terapista, sembra giustificare l’organizzazione dell’ambiente e l’esposizione a materiale strutturato, soprattutto in bambini con assenza di linguaggio verbale.

L’analisi critica dei principi tecnici si conclude con il riesame della professionalizzazione e della manualizzazione. La critica della professionalizzazione dell’intervento terapeutico si concentra in particolare sulla conseguenza che tale specializzazione comporta: l’intervento tende ad essere effettuato in un ambiente “segregato”, non naturale e inclusivo, da professionisti specializzati. Anche il viraggio contemporaneo dell’ICIP verso gli “interventi mediati dai genitori” (che comprende modelli come il JASPER di Kasari negli USA o il PACT di Green nel Regno Unito) modifica solo parzialmente questa “professionalizzazione”: sono i genitori che agiscono, ma sono i professionisti a dire loro cosa fare. Infine viene criticata la manualizzazione. Le tecniche ABA, ma anche i modelli ICEN e alcuni modelli evolutivi (ad es., il PACT) sostengono una “manualizzazione” dell’intervento: tutto ciò che deve essere insegnato al bambino deve essere esplicito e misurato. L’autore evidenzia come il costo di questa strategia non sia correlato alla sua efficacia e sia un ostacolo alla sua applicazione.

Bisogna ovviamente distinguere tra manualizzazione a fini di ricerca, giustificata da aspetti metodologici, e manualizzazione come modo di educare il bambino autistico, che non è affatto giustificata. Mottron conclude questo capitolo sottolineando che “lo scoglio della professionalizzazione e della ‘manualizzazione’ dell’intervento può essere superato [...] con l’applicazione di una tecnica d’intervento [fondata] su principi che permettono un alto grado di libertà di attualizzazione, e con obiettivi che non vincolino strettamente l’organizzazione della vita quotidiana”. Un modo sostenibile consisterebbe nella guidance parentale, ovvero nell’insegnare alle famiglie i principi generali con esemplificazioni, con verifiche periodiche di una corretta applicazione. Sarebbe anche auspicabile esporre il bambino ad un ambiente strutturato secondo questi “principi” in modo implicito e non gerarchizzato – come può accadere in un asilo nido e in una scuola dell’infanzia –, permettendogli di adottare i comportamenti per i quali è pronto e nel momento in cui è opportuno. La “manualizzazione” con un elevato livello di dettaglio dovrebbe essere riservata, oltre che per la ricerca, a situazioni di rischio o di crisi: essa assume allora il significato di un piano preciso di cura, come avviene in un pronto soccorso di medicina d’urgenza, che può permettersi di essere intenso, dettagliato e breve.

La critica agli ICIP, a partire dai risultati sull’efficacia, completa, nel terzo capitolo, la pars destruens.

Gli studi sull’efficacia dei diversi modelli hanno evidenziato effetti minimi, iniziali e altamente variabili nei diversi individui. Gli ICIP possono migliorare la performance nei test d’intelligenza verbale in alcuni bambini autistici, ma non migliorano l’intelligenza o il linguaggio in quanto tali. Inoltre non c’è alcuna evidenza che questi effetti si traducano in un miglioramento dell’adattamento e della qualità della vita del bambino o della sua famiglia. Gli effetti degli ICIP, come abbiamo visto, non aumentano in funzione della “dose” (ore di terapia a settimana) o della “durata” degli interventi, così come gli interventi più precoci non producono necessariamente migliori effetti. Infine, non vi sono studi che permettano di affermare che un “marchio registrato” sia più efficace di un altro.

Mottron, quando scrive il libro nel 2016, sottolinea la “rivoluzione” dovuta alla pubblicazione nel 2013 della linea guida inglese del NICE, che ha utilizzato criteri molto rigorosi relativi alla qualità degli studi presi in considerazione. Questa linea guida raccomanda, come intervento per i sintomi core dell’autismo, le terapie sociocomunicative, anche mediate da genitori, insegnanti e pari, mentre non ritiene che le prove a disposizione siano sufficienti per raccomandare le terapie comportamentali (ICIP). Queste osservazioni di Mottron sono state confermate anche dalle più recenti revisioni sistematiche e metanalisi. In particolare, il lavoro di Sandbank e collaboratori, Project AIM, pubblicato nel 2020, ha evidenziato la scarsa qualità della ricerca delle terapie comportamentali ispirate all’ABA (Sandbank et al., 2020, 2021). Lo stesso gruppo di ricerca ha sviluppato un’accurata misurazione degli effect size partendo dagli stessi studi utilizzati per le review (Chow et al., 2022). Ancora, lo stesso gruppo ha esaminato in un’ulteriore revisione della letteratura la presenza di conflitti d’interesse (Bottema-Beutel, Crowley, Sandbank e Woynaroski (2020b) e l’evidenza di effetti dannosi di questi trattamenti (Bottema-Beutel, Crowley, Sandbank e Woynaroski, 2020a).

Mottron conclude la sua analisi sulla natura e la dimensione degli effetti degli ICIP affermando:

Se l’obiettivo è che il bambino sia meno autistico, nel senso di mostrare lo stesso tipo di segnali di orientamento sociale dei suoi coetanei non autistici, il tempo e lo sforzo investiti in questi interventi si infrangono sulla roccia della differenza autistica, come le onde su una roccia. Le trasformazioni ottenute saranno nei segnali di socializzazione, che possono essere modificati in piccola misura, ma senza alterare profondamente la differenza autistica, e senza un guadagno adattivo misurabile […] Ne vale la pena? Può aver contribuito a riumanizzare il bambino nella mente dei genitori, superando l’effetto sui genitori dell’apparente non risposta autistica, ma questo effetto può essere ottenuto a un costo inferiore (p. 133).

In questo modo entriamo nella pars construens del libro. Nel capitolo “Nutrire un’altra intelligenza: nuovi principi di intervento per l’autismo non verbale”, Mottron espone nove principi di intervento per l’autismo prototipico, considerato nel paradigma della “variante umana” e non del “deficit”. I presupposti educativi che regolano l’educazione di un bambino con autismo dovrebbero essere gli stessi di un bambino tipico, con la necessità di riconoscere l’intelligenza attraverso valutazioni accurate e appropriate allo stile neuropsicologico dei bambini autistici. In particolare, l’esistenza di un’intelligenza normale, in presenza di un quadro di autismo prescolare non verbale, può essere dedotta indirettamente, da osservazioni comportamentali periodicamente validate. Queste osservazioni permettono di ipotizzare livelli di intelligenza sui quali calibrare le proposte educative, anche prima che queste ipotesi siano confermate o invalidate dai risultati di test d’intelligenza non verbali e poi verbali.

L’educazione dovrebbe essere basata sui punti di forza e in particolare sulla rilevazione degli interessi del bambino autistico che costituiscono anche un’indicazione della sua intelligenza potenziale. Gli interessi e i comportamenti ripetitivi connessi alla ricerca e all’elaborazione delle informazioni dovrebbero essere incoraggiati, in modo da ridurre i comportamenti ripetitivi da carenza di informazioni.

È importante “mostrare prima di raccontare”, per un’educazione basata sulla sequenza autistica di acquisizione del linguaggio: il non verbale viene appreso prima del verbale e lo scritto prima del parlato. Gli obiettivi dell’intervento, quindi, non dovrebbero essere organizzati nello stesso ordine in cui le competenze si sviluppano nel bambino tipico. Inoltre, le spiegazioni al bambino autistico dovrebbero essere date mostrando le reali sequenze causali e temporali di ciò che deve essere insegnato, e parafrasate con il linguaggio orale. Riguardo al ruolo dell’esplorazione spontanea e dell’attività solitaria nell’apprendimento, Mottron sottolinea come il tempo che il bambino autistico trascorre da solo dovrebbe permettere l’utilizzo di materiali di suo interesse, il cui accesso e ritiro dovrebbero essere prevedibili. L’apparente ripetitività del comportamento del bambino non deve essere oggetto di repressione; l’adulto dovrebbe provare ad integrarsi nelle azioni solitarie arricchendole. Il principio del “tutoraggio laterale” chiarisce ulteriormente il ruolo dell’adulto nel promuovere gli apprendimenti del bambino autistico. È importante la ritualizzazione di periodi di attività interattive in cui l’adulto, accanto al bambino, manipola lo stesso materiale d’interesse, ma in modo più complesso; l’adulto può compiere anche azioni di fronte al bambino, ma senza usare alcun segnale d’interazione se non quello di essere in prossimità, consentendogli di osservare l’azione. L’efficacia della promozione di attività progressivamente più complesse svolte con questa modalità si dovrebbe basare sull’osservazione delle ripetizioni differite del bambino e non su acquisizioni o successi immediati. Inoltre va tenuto conto, nella riflessione sul “ciclo di ricaduta degli apprendimenti”, che le misure attualmente utilizzate per convalidare gli interventi precoci caratterizzano variabili che sono adattive solo nei neurotipici. L’efficacia o l’adeguatezza di un intervento precoce per un bambino autistico andrebbero invece misurate in funzione del futuro valore adattivo, espresso in termini ampi (crescita personale, contributo sociale).

L’obiettivo dovrebbe quindi essere di favorire la socializzazione di tipo autistico, tramite interventi basati sui punti di forza, per uno sviluppo fondato sulle peculiarità dell’autismo.

In ambito familiare, l’inclusione del bambino nelle attività quotidiane, il tutoraggio laterale, la risposta positiva alle richieste di “presa del polso” inteso come atto comunicativo, la gestione prevedibile dell’accesso e della rimozione dei materiali d’interesse e i giochi di prossimità fisica, costituiscono la base per l’ingresso nella socializzazione autistica.

In ambito scolastico (nido, scuola dell’infanzia), la socializzazione di un bambino autistico si ottiene attraverso un’effettiva coabitazione con i coetanei a sviluppo tipico e con l’impegno da parte del gruppo non autistico di assicurargli un posto e una funzione, piuttosto che attraverso l’addestramento individuale ai segnali di socializzazione neurotipici.

I comportamenti problematici pervasivi, distinti dai comportamenti ripetitivi, dovrebbero essere anticipati e limitati nel tempo e nello spazio dall’adattamento familiare. Le manifestazioni pericolose richiedono un trattamento immediato da parte di un’équipe di crisi la cui gestione dovrebbe avvenire abitualmente nell’ambiente naturale (casa, scuola); laddove fallisse potrebbe richiedere un intervento temporaneo in un contesto specializzato (come un centro diurno).

La pars costruens termina con una lettera aperta ai genitori di un bambino che riceve una diagnosi di autismo e con una serie di proposte per il legislatore.

Nella lettera Mottron si mostra consapevole dell’elemento “traumatico” della diagnosi di autismo e del senso di colpa dei genitori per non fare le scelte terapeutiche giuste, per non fare abbastanza o non abbastanza precocemente.

Il primo consiglio di Mottron è di “iniziare ad osservare il proprio bambino” per alcune settimane.

Quando le lacrime si sono asciugate – dato che la prospettiva di una vita con un bambino fuori dall’ordinario è vissuta con dolore – è importante prendersi il tempo per guardarlo. Vi troveranno una ragione di vita, la gioia di essere genitori, l’espressione del loro amore di genitori, l’ammirazione del loro figlio. Invece di chiedersi immediatamente cosa insegnargli e come insegnargli, i genitori possono osservarlo per qualche settimana con curiosità e facendosi delle domande, senza pregiudizi, in quante più situazioni possibili (pp. 179-180).

Mottron fa il paragone con chi emigra in un nuovo paese, che dopo qualche mese impara come funzionano le cose lì e un giorno smette di fare paragoni con il paese di origine.

Il secondo consiglio è “non lasciare che i programmi decidano per te”. Riprende quindi le osservazioni critiche sui programmi intensivi, sia ispirati all’ABA sia di tipo ICEN, invitando il genitore a porsi le stesse domande che si farebbe prima di sottoporsi a un intervento chirurgico o di prendere un farmaco: quali potrebbero essere risultati, costi e rischi. E come per un farmaco, bisogna esaminare non solo se questi metodi sono efficaci o meno, ma che cosa viene effettivamente cambiato.

L’ultimo consiglio è relativo a “che cosa fare con i comportamenti ripetitivi”. L’invito è nuovamente a non considerarli come qualcosa da estinguere (come negli interventi comportamentali ispirati al lavoro di Loovas), ma neanche di limitarsi ad utilizzarli come rinforzi, come nel metodo TEACCH. È importante iniziare a considerarli come l’equivalente autistico dei comportamenti di esplorazione nel bambino a sviluppo tipico: essi vanno quindi arricchiti e incoraggiati, anche se incanalati, utilizzando gli interessi del bambino come motore per nuovi apprendimenti.

Il libro si conclude con una serie di proposte per il legislatore. Mottron prende come esempio il Québec, dove lavora dopo aver lasciato il suo paese di origine, la Francia. Nel 2003 il Ministero della Salute e dei servizi sociali ha deciso che l’ICIP (erogato nei centri di riabilitazione con un’intensità di circa 15 ore a settimana) è l’intervento obbligatorio per i bambini autistici in età prescolare. Questa decisione, criticabile sulla base delle evidenze scientifiche (in particolare dopo la pubblicazione della linea guida inglese del NICE nel 2013) si è dimostrata anche “materialmente inapplicabile”. I tempi di attesa medi tra la diagnosi e l’intervento sono di oltre due anni. Questo ha spinto molti genitori a rivolgersi a professionisti privati, con costi anche economici rilevanti. La decisione ha anche contribuito a un’inflazione di diagnosi di autismo, con aumento dei falsi positivi, sostenuto anche dall’utilizzo di strumenti diagnostici standardizzati (come l’ADOS) che non consentono un’adeguata diagnosi differenziale con altri disturbi. Inoltre, gran parte del budget dei centri di riabilitazione è allocato per i trattamenti intensivi per bambini prescolari autistici, lasciando pochissime risorse a bambini con altri disturbi o ad autistici di altre fasce di età, come gli adulti. L’approccio scelto dai legislatori del Québec è considerato quindi inapplicabile, costruito su dati di scarsa qualità, con obiettivi sbagliati e a rischio di conflitti d’interesse economici (soprattutto da parte dei professionisti privati).

Vengono infine presentate alcune raccomandazioni formulate da esperti, come Mayada Elsabbagh e approvate dai responsabili medici dei principali centri diagnostici del Québec. Queste raccomandazioni sono riferibili all’approccio di Mottron fin qui presentato, riconoscendone la fondatezza. Esse articolano la rifondazione della presa in carico del bambino (e della persona) autistica, come centrata sul sostegno genitoriale (guidance parentale) subito dopo la diagnosi e sui progetti d’inclusione nei contesti educativi e di vita con bambini a sviluppo tipico, prevedendo eventualmente cicli di intervento individualizzati con obiettivi “focalizzati” in base agli specifici profili presentati. Sono previste, infine, specifiche procedure per affrontare situazioni problematiche da parte di “équipe mobili di gestione delle crisi”, per l’assistenza immediata in situazioni di stress a bambini e adulti con autismo e alle loro famiglie, in tutte le fasi della vita.

Con queste raccomandazioni si conclude l’articolato e denso libro di Mottron, con un itinerario che partendo dalla rivisitazione delle caratteristiche e della semeiotica dei bambini con autismo, passando attraverso l’analisi critica dei presupposti, degli obiettivi e delle tecniche dei modelli di intervento attualmente raccomandati e utilizzati in molti paesi, sottolineando le peculiarità percettive, cognitive e socioemozionali dei bambini autistici, giunge a proposte di politica sanitaria (e anche sociale e educativa) che potrebbero permettere di riorganizzare la presa in carico delle persone autistiche con modalità scientificamente ed eticamente fondate, in particolare in Italia, dove l’inclusione dei bambini nella scuola “normale” è una conquista acquisita da più di quarant’anni.

Roma, gennaio 2023

Giovanni Valeri

Responsabile UOS Disturbi dello Spettro Autistico UOC Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza Dipartimento di Neuroscienze e Neuroriabilitazione IRCCS Ospedale Pediatrico Bambino Gesù

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