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PATEK PHILIPPE / ABATE 1920

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CASSETTI 1926

CASSETTI 1926

PATEK PHILIPPE / ABATE 1920

DA GINEVRA A SANREMO NEL SEGNO DELL’ALTA OROLOGERIA

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IN UN MERCATO CHE SEMBRA ESSERE PREDA DEGLI “INVESTITORI” C’È ANCORA SPAZIO PER LA PASSIONE? MICHELE ABATE CI RACCONTA COME QUESTO SIA ANCORA OGGI POSSIBILE

Di Paolo Gobbi

LA STORIA DELL’OROLOGERIA Abate inizia a Torino nel 1920, quando il capostipite Michele inizia l’attività in proprio per arrivare in seguito a ricevere il titolo di Fornitore di Sua Altezza Reale il Principe di Piemonte. Già all’inizio degli anni ’30 le sue creazioni erano distribuite in molte prestigiose gioiellerie italiane. Poi sarà il caso a metterci lo zampino: mentre era in viaggio per lavoro, gli si presenta l’opportunità di acquisire un prestigioso negozio a Sanremo davanti al Casinò: da quel momento in poi il punto vendita di Corso Imperatrice 3 sarà il suo biglietto da visita.

Oggi, rivenditore ufficiale di importanti marche sia dell’orologeria che della gioielleria, è conosciuto ben oltre i suoi confini geografici per essere uno storico ed apprezzato concessionario Patek Philippe. Abbiamo incontrato Michele Abate (nipote del fondatore) in una Sanremo estiva e piena di turisti, scoprendo un vero appassionato del mondo delle lancette, ma anche del rock degli anni ’60 e ‘70.

Abate, oltre un secolo di storia: onore oppure onere?

«Tutti e due, perché non esiste un onore senza un onere: c’è il piacere e la soddisfazione di aver raggiunto questo traguardo ma anche le aspettative che i clienti hanno nei nostri confronti.»

Quanto è cambiato il mondo dell’orologeria durante questo secolo di storia? (sorridendo) «Non ero presente all’inaugurazione del primo negozio, dove peraltro veniva venduta esclusivamente della gioielleria che mio nonno disegnava e realizzava. La parte orologiera, divenuta fondamentale proprio con il mio arrivo in azienda alla fine degli anni ‘70, è decisamente cambiata in quest’ultimo mezzo secolo, passando dall’iniziale concezione di “strumento” a quella odierna di prezioso complemento della vita quotidiana.»

Quando avvenne di preciso il passaggio alle lancette? «Se vogliamo essere precisi, già negli anni ’50 mio nonno scoprì e credette nel marchio Rolex, iniziandolo a proporre nel negozio qui di Sanremo. Personalmente gli orologi mi intrigavano ben più dei gioielli.»

Che cosa la colpì del mondo dell’orologeria?

«Come già detto, arrivai in negozio all’inizio degli anni ’70. In quell’epoca l’orologeria era ancora un mondo di nicchia, non era certo così pop come viene sentita oggi. Mi incuriosivano questi “gioielli meccanici”, che venivano costruiti da aziende con una lunga storia alle spalle, capace di affascinare personaggi celebri del mondo dello spettacolo e del jet-set.»

Non era come il mercato odierno.

«Assolutamente no. Le persone “normali” acquistavano generalmente due orologi nel corso della loro intera vita, al massimo si arrivava a tre. Servivano al ruolo primario, che è quello di leggere l’ora, ed il loro acquisto generalmente si legava a qualche avvenimento importante: laurea, matrimonio, promozione nel lavoro.»

In quell’epoca l’orologio meccanico viveva un momento complesso.

«Partiamo dal principio che non c’era cognizione di cosa fosse l’orologeria meccanica, e il lavoro dietro per la costruzione di un orologio di alta qualità. Questo non soltanto per quanto riguarda il movimento, ma anche la cassa e il quadrante: in pratica i famosi Métiers d’Art che Patek Philippe ha custodito con cura e che possiamo vedere applicati sia nelle sue grandi complicazioni, che nei suoi preziosi smalti, nella marquetry e nelle incisioni.»

Prima ha detto che negli anni ’70 erano in pochi a capire e apprezzare l’orologeria. Guardando il mercato odierno, pensa che la situazione sia cambiata?

«Quantomeno oggi non c’è più la domanda “perché quell’orologio di Patek Philippe con la cassa in oro e il cinturino in pelle, costa molto

di più di quell’altra marca che ne propone uno con anche il bracciale in oro?”. Allora dovevamo partire da zero, spiegando che spesso si trattava di un modello “complicato”, magari un calendario perpetuo. Non solo. Dovevamo anche raccontare come funzionasse questa complicazione: non c’era la cultura dell’orologio meccanico. Adesso, anche se la conoscenza non è ancora così generalizzata, sono in tanti a comprendere per quale motivo il prezzo di una complicazione non sia influenzato dal materiale che ne compone la cassa.»

Oggi si ha l’impressione che, esattamente come sta accadendo nel mondo delle super-car, chi si può permettere i modelli più costosi (nel caso dell’orologeria le grandi complicazioni) non sa neanche cosa ci sia effettivamente “dentro”.

«Vero. Alcune persone sono intimorite dalla stessa funzionalità dei complicati: “Se poi si ferma, come faccio a rimetterlo a posto?”. In realtà sappiamo che bisogna seguire pochi elementari passaggi, in maniera tale da preservare il meccanismo da rotture involontarie. Rimane il fatto che molti hanno un timore reverenziale nel maneggiare le meccaniche più complesse, quando in realtà sappiamo che facendo le manovre giuste l’orologio è ben più solido di quanto possiamo immaginare.»

Cosa sta succedendo, da qualche anno a questa parte, al mercato dell’orologeria?

«Purtroppo o per fortuna, l’orologio è diventato un bene rifugio, un vero e proprio asset: in un portafoglio che contiene azioni, investimenti in arte, in oro, in diamanti, immobiliari… sempre più spesso c’è spazio anche per gli orologi.»

Quello che investe è un cliente importante?

«È il cliente che a me piace meno, perché non si può relegare l’acquisto di un oggetto solamente alla sua rivalutazione futura, al salvare il suo valore o ancora meglio ad aumentarlo. Un po’ di passione ci vuole.»

Senza dimenticare che comunque, se lo vediamo dal punto di vista del semplice investimento, un bel po’ di alea rimane.

«La moda e le tendenze cambiano in maniera talmente rapida, che è difficile se non impossibile affermare o peggio ancora garantire che un orologio possa aumentare il suo valore in futuro. Mi guarderei bene dal suggerire un acquisto, paventando nel futuro dei benefici economici. Al contrario dico che se c’è qualità costruttiva, storia, tradizione, serietà da parte di chi produce, l’acquisto è “giusto” e manterrà il suo valore nel tempo.»

Vi chiedono mai direttamente come investire una certa somma, magari importante, in orologi?

«Sì, ci è capitato. Personalmente ho sempre preferito lasciar cadere il discorso e non procedere con la vendita.»

Un comportamento, il suo, quasi da collezionista più che da venditore.

«Non sono un collezionista di orologi, mi piacciono ma non posso definirmi tale. Da sempre mi piacciono le chitarre e sono molto contento di averne acquistate nel corso degli anni alcune che mi interessavano particolarmente.»

Che non ha intenzione di vendere…

«Assolutamente no. So bene che in molti casi hanno aumentato anche sensibilmente il loro valore, ma non ho nessuna intenzione di venderle e al contrario spero di riuscire a trasmettere questa passione ai miei nipoti. Lo stesso dovrebbe valere per l’orologeria.»

Non penso che esista un “cliente ideale”, però ci può tracciare un’idea delle persone che si rivolgono a voi?

«Tutti i nostri clienti sono “ideali”. Personalmente la maggiore soddisfazione arriva quando il rapporto riesce ad andare al di là di quello acquirenteconcessionario. Quindi il cliente ideale è quello con il quale condividi una passione, che può essere sì dell’orologio, ma anche il diamante importante, il rubino, lo smeraldo, oppure l’orologio da tavolo, il modello con gli smalti, con il dispositivo tourbillon oppure la ripetizione minuti.»

Un rapporto di fiducia che avrà anche dato alle volte i suoi frutti.

«Le persone alle quali ho proposto dei complicati Patek Philippe negli anni ’80, oppure nello stesso periodo dei “semplici” Nautilus, adesso possono essere più che contenti. Aver ascoltato i nostri suggerimenti, ad esempio per quanto riguarda i calendari perpetui, ha sicuramente portato oggi a dei risultati importanti.»

Sono delle operazioni spot.

«No, generalmente da quelle prime vendite abbiamo sempre iniziato un cammino all’interno dell’alta orologeria, che è stato poi sviluppato nel corso degli anni.»

Pensa che un’ascesa vorticosa, come è stata quella di Patek Philippe dall’inizio degli anni ’80 ad oggi, sia ripetibile da altri marchi?

«Per vincere le sfide del mercato, per creare un orologio iconico, ci vuole un pugile che abbia nel guantone un pugno da knock out. Non tutti ce l’hanno. Quindi a mio avviso è impossibile fare una previsione. Se posso fare un paragone con la mia amata musica, è impossibile non constatare come alcuni mostri sacri del rock non siano mai stati sostituiti ne eguagliati. Per le lancette potrebbe accadere la stessa cosa.»

Forse non tutti hanno il coraggio o la forza di mettersi in gioco come fa la Casa ginevrina?

«Le faccio un paragone attingendo ancora dal mondo del rock che mi è così caro: alcune Case svizzere sono un pò come i Rolling Stone, che suonano benissimo lo stesso genere da mezzo secolo a questa parte, sono dei grandi showman, ma non vogliono mai cambiare musica. Patek Philippe ha il coraggio di mettersi continuamente in gioco, di sperimentare, di studiare nuovi modelli e complicazioni.»

Michele Abate

Gli arredi storici del negozio Abate in Corso Imperatrice 3 a Sanremo

Sanremo: la città dei fiori, la città della canzone, anche la città degli orologi?

«Direi proprio di sì. C’è molta attenzione rispetto al nostro mondo delle lancette, unita ad una buona qualità di persone che sanno quello che chiedono e che vogliono. I liguri per tradizione sono molto parsimoniosi, attenti, quindi prima di acquistare si informano bene.»

Nessun acquisto d’impulso?

«No. Forse a cifre molto basse, ma sono eccezioni. Il nostro cliente è consapevole di acquistare un valore che diventa parte del patrimonio della sua famiglia, e ha una grande fiducia nei nostri confronti. Qualche tempo addietro abbiamo provato ad analizzare i comportamenti dei nostri clienti e alla fine ci siamo resi conto che ci confrontiamo solamente con tre tipologie: la prima sono tutti coloro i quali comprano gli orologi perché a loro piacciono e in più sono convinti, come già detto prima, di portare nel patrimonio familiare un bell’oggetto, non un investimento, ma qualcosa di prezioso che verrà tramandato di generazione in generazione; la seconda categoria sono quelli che acquistano attratti dall’avere l’oggetto di moda del momento La terza sono, infine, gli speculatori.»

Come fate a gestire, per quanto possibile, la vendita?

«Sta a noi cercare di sostenere la prima categoria, quella delle persone che lo considerano un arricchimento personale e familiare, e bloccare al contempo la seconda. In questo lavoro spesso ci aiutiamo con i social.»

Con i social provate a comunicare e quindi a guidare le scelte dei clienti? (sorridendo) «No! I social ci aiutano a capire se chi vuole acquistare un pezzo lo fa per venderlo o per tenerselo. A questo proposito vediamo come si comporta ad esempio su Instagram, se ama mostrare i suoi oggetti, se lo fa con l’intento di alienarli.»

In questo caso, cosa fate?

«Con molta delicatezza spieghiamo che il prodotto non è disponibile….»

Un tempo nel vostro lavoro dovevate convincere le persone all’acquisto, oggi questo principio si è ribaltato!

«Sì, ci troviamo nella situazione che dobbiamo evitare di vendere, trasformandoci in piccoli Sherlock Holmes che provano a capire che cosa ricerca realmente la persona che abbiamo davanti.»

La penuria di consegne agevola questo compito?

«Sì. Non abbiamo numeri e quindi, anche volendo, non possiamo vendere tutto quello che ci viene richiesto. A questo proposito, proprio la scarsità di prodotto spesso ci aiuta a capire la buona fede del cliente: se non posso consegnare un modello per mancanza totale della

sua disponibilità, spesso accade che il cliente appassionato si lasci guidare verso un’altra scelta, sempre all’interno della marca, ma in un’altra gamma. Parlando di Patek Philippe, ho visto con piacere un aumento delle vendite dei Calatrava, dei calendari annuali, dei perpetui e degli Ellisse. Questo accade quando il cliente è appassionato alla marca e non al modello.»

Scelte di questo tipo non riguardano solamente l’orologeria.

«Non solo non riguardano solo le lancette, ma sono sempre state parte del fascino degli oggetti più importanti. Tornando alla mia amata musica, ricordo che negli anni ’70 dovetti aspettare un anno e mezzo prima che mi consegnassero una chitarra Larrivée prodotta in Canada; oppure, dopo aver ordinato una Gibson in acero bianco, bellissima, dopo otto mesi arrivò dal mio fornitore lo stesso modello ma con una colorazione diversa: la presi lo stesso. Mi piaceva quell’oggetto. Alla stessa maniera, se mi piace Patek Philippe, posso desiderare il Nautilus o l’Aquanaut, ma se ho la cultura della marca saprò apprezzare anche un Calatrava o un Ellisse.»

Fino a qualche anno fa c’era la battaglia a chi faceva lo sconto più alto.

«Finita totalmente quell’era. Adesso non solamente non facciamo più nessuno sconto, ma ci siamo trovati più di una volta con dei clienti che ci hanno regalato delle bottiglie importanti per ringraziarci dell’orologio che erano riusciti ad acquistare. È una distorsione del sistema che in una qualche maniera ci imbarazza: dovrei essere io a fare l’omaggio al cliente.»

Torniamo alla sua Sanremo: la posizione geografica, in una certa qual maniera, vi è molto d’aiuto.

«Abbiamo la fortuna di essere davvero ad un passo dalla Costa Azzurra, un volano meraviglioso non solamente per il turismo internazionale a tutti i livelli, ma anche per i tanti italiani che vivono e risiedono a Montecarlo.»

Una bella fortuna.

«Mi sono sempre ritenuto una persona molto fortunata, a partire dal mio nome Michele: era quello di mio nonno, che nella sventura di essere diventato claudicante da piccolo a causa di un incidente, ha avuto la fortuna di non andare in guerra nel 1915-18, di non fare il muratore come il padre ma di frequentare la scuola orafi creata dalla famiglia orafa Gualino. Alle volte eventi che reputiamo sfortunati, ribaltano la vita a nostro favore.»

Sanremo durante l’anno vive quindici giorni di follia?

«Stiamo parlando del Festival? In realtà dura

Le celebri vetrine davanti al Casinò di Sanremo, in Corso Imperatrice 3: sono il biglietto da visita Abate.

molto di più: la kermesse inizia a dicembre per preparare il palco, le prove dell’orchestra, poi arriva la RAI… Mettere in moto quelle cinque serate è molto complesso.»

Cosa succede in quei giorni?

«È bellissimo, si ha la stessa sensazione che si proverebbe nuotando in un acquario. Si vede veramente di tutto. Prima arrivano i tecnici, gli scenografi, i registi. È interessante scambiare delle opinioni con loro. Poi è la volta dei musicisti, dei direttori d’orchestra, dei discografici. A loro seguono gli aficionados del festival, che hanno seguito spesso decine di edizioni e sono disposti a tutto pur di partecipare alle cinque serate.»

Anche stranieri?

«Quando arrivavano i russi era una festa per l’intera città. Per loro vedere cantanti come Al Bano o Toto Cotugno era il massimo che potessero immaginare. Partecipavano alle serate prendendo gli alberghi più costosi, i posti migliori in teatro, arrivando in abito da sera con gioielli e orologi importanti. Ci raccontavano che prima della caduta del Muro di Berlino l’unica musica occidentale “permessa” era quella del Festival di Sanremo, che per loro rappresentava quindi l’Occidente, una ventata di libertà. Ancora oggi vengono e mantengono un tono decisamente superiore alla media, specie in confronto agli italiani che spesso, anche durante le serate, si lasciano un po’ andare.»

Tutto bello quindi?

«Sì, anche se da commercianti quali siamo dobbiamo comunque fare molta attenzione: arrivano dei pesciolini rossi, ma anche degli squali.»

Il Casinò è un altro elemento di interesse per Sanremo.

«È stata una grande risorsa, che ha perso charme e importanza con l’arrivo delle scommesse online. Non c’è più la magia di un tempo e l’appeal del gioco è diventato secondario rispetto a quello del Casinò stesso. Abbiamo lavorato molto con le gare di Chemin de Fer, per le quali spesso fornivamo i premi, sia in gioielli che orologi. Oggi tutto questo non esiste più.»

Torniamo a lei: com’è iniziata la sua storia nell’orologeria?

«Da giovane la mia passione era suonare la chitarra e avevo raggiunto anche un buon livello. Purtroppo mio padre è venuto a mancare quando aveva soli quarantanove anni e io mi sono trovato di fonte alla necessità di continuare il suo lavoro. Nell’entrare al lavoro nel negozio ho appreso tutte le mie nozioni da mio nonno, che a dispetto dell’età era ancora lucidissimo.

Ricordo che trovai in cassaforte tre Rolex importanti, che sono ancora in mio possesso: un Gabus (n.d.r. crono anni ’40 di forma quadrata, ref. 8206), un Dato-Compax ref. 6036 in oro giallo conosciuto come Jean Claude Killy e uno Stelline (n.d.r. calendario fasi luna in oro giallo ref. 6062). Gli ultimi due sono dei fondi di magazzino, invenduti, con ancora il sigillo in piombo e ovviamente la scatola e la garanzia. Resteranno in eredità per i miei nipoti.»

Come nasce la vostra storia con Patek Philippe?

«Nasce in tempi “non sospetti”, nell’ormai lontano 1986. Patek Philippe per me ha sempre rappresentato il top dell’orologeria e sono stato io ad aver chiesto di avere la possibilità di vendere questo marchio: la sua qualità, la storia, l’importanza durante le aste internazionali. Erano degli oggetti belli, che facevano e fanno trasparire classe ed eleganza.»

L’essere un marchio indipendente è una variabile importante?

«Essere di proprietà di una famiglia e non all’interno di un gruppo è importante e affascinante. Gli consente di poter gestire da primo della classe ogni sua realizzazione: essere padroni del proprio destino permette di affrontare con velocità i cambiamenti del mercato, saltando completamente la burocrazie gestionale.»

Com’è cambiato, se è cambiato, nel tempo il vostro rapporto?

«Quando andavo a Ginevra trovavo un’accoglienza “familiare” all’interno della Patek stessa. In questi viaggi mi accompagnava sempre mia zia e immancabilmente, prima della partenza, mi veniva chiesto con grande cordialità “la zia viene?”. Era un’accoglienza sincera e spontanea. Poi i tempi sono cambiati, le aziende sono cresciute in maniera esponenziale: il rapporto personale è rimasto, però “la forma” è diventata preponderante, anche se devo ammettere che il rapporto, nella sua essenza, non è mai mutato e rimane straordinariamente positivo.»

Rimpianti degli anni ’80?

«Ho visto in quel periodo tante grandi complicazioni della Casa ginevrina e non ebbi il coraggio di osare. Ero troppo giovane commercialmente parlando e non me la sentii di rischiare. Oggi avrebbero un valore non quantificabile.»

Un’orologeria storica come la vostra ha ancora un ruolo nella vendita di un orologio importante?

«Sì, il nostro ruolo rimane fondamentale.

Il cliente deve avere solo la pazienza di ascoltare, mentre noi dobbiamo stare attenti a non subissarlo di nozioni troppo tecniche. Ad esempio su Patek Phlippe c’è tanto da raccontare e spesso è proprio nella storia di ogni singola collezione, nella sua genesi, nel suo sviluppo, che troviamo i motivi di maggiore interesse.»

Patek Philippe cronografo rattrapante e calendario perpetuo Ref. 5204R-011: un’interpretazione contemporanea di un modello iconico, in oro rosa con quadrante grigio ardesia

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