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Alberto Morsiani

Ribelli on the Road Moto e bikers del cinema

GREMESE


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Collana Gli Album Monografie di cinema e spettacolo per la scuola e l’università Dedicato alle mie due wild angels, Bianca e Celeste, e a tutti quelli che viaggiano con i film e con le moto.

Ringrazio Serena Agusto, Cristina Benzi, Cristina Biolchini, Aldo Dugoni, Yuri Fragrori, Rosaria Gioia e la Cineteca del Comune di Bologna, Arturo Invernici e la Fondazione Alasca di Bergamo, Claudio Lusuardi, Francesco Mazza, Daria Menozzi, Enrica Pagella, Luciano Rivi, Andrea Semprebon. I disegni delle motociclette sono realizzati da Andrea Semprebon.

In copertina: Dennis Hopper, Peter Fonda e Jack Nicholson in una scena di Easy Rider (1969) Copertina: Patrizia Marrocco Motivi grafici degli interni: Ilaria Valeri Crediti fotografici: La gran parte delle fotografie pubblicate è tratta dai fotogrammi dei film visionati in DVD o videocassetta. Relativamente alle poche eccezioni, l’Editore chiede scusa per la mancata indicazione di eventuali titolari dei diritti di copyright, e si dichiara sin d’ora disposto a revisioni in sede di eventuali ristampe e al riconoscimento dei relativi diritti ai sensi dell’art. 70 della legge n. 633 del 1941. Fotocomposizione: Graphic Art 6 s.r.l. – Roma Stampa: Grafiche del Liri – Isola del Liri (FR) 2013 © GREMESE New Books s.r.l. – Roma www.gremese.com Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo volume può essere registrata, riprodotta o trasmessa, in qualunque modo e con qualunque mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-8440-727-6


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INTRODUZIONE

Live to ride, ride to live “Andammo al Fox Theatre, in Market Street, a vedere Il selvaggio. Eravamo almeno una cinquantina, con delle bocce di vino e i giubbotti neri di pelle… ci sedemmo in balconata a fumare sigari e bere vino, e a fare il tifo come degli stronzi. Eravamo proprio noi quelli che vedevamo sullo schermo, tutti eravamo Marlon Brando. Mi sa che me lo sono visto quattro o cinque volte”. Preetam Bobo, membro dei Market Street Commandos di San Francisco, poi degli Hell’s Angels

Dal triciclo al chopper

clo alla moto, nel segno comune di una lotta all’autorità, di una sottrazione alla routine banale di una vita gerarchicamente ordinata e tracciata su binari precostituiti (gli square de Il selvaggio). Anche per il cinema, come per la vita, la moto è innanzitutto simbolo di libertà e di fuga dai vincoli, da ogni vincolo. L’ultima inquadratura del film di Corman vede invece il protagonista Peter Fonda che toglie lo sporco dalla tomba dell’amico fraterno Bruce Dern, mentre le sirene della polizia risuonano sempre più vicine. Morale: forse nessuna, perché il nichilismo è un’altra delle anime di questo film seminale e di tutto un genere. O forse sì: l’esaltazione di una fratellanza virile e macho che si fa beffe delle costrizioni della società “adulta”, il peana a uno stato di eterna ribellione. Ribellione contro cosa? È la domanda forse ingenua («Contro cosa ti ribelli?») che una ragazza, mentre balla al ritmo di un vizioso bebop, rivolge, ne Il selvaggio (The Wild One, 1954), a un Marlon Brando allungato mollemente sul juke-box del drugstore di Porterville. L’insolenza tipica del personaggio rifulge naturalmente nella sua strascicata risposta: dopo una pausa e un’alzata significativa di sopracciglio, Brando se ne esce con la famosa battuta: «Contro di voi». Nella versione originale, la risposta, in realtà, risuona leggermente diversa: «Whaddya got?», qualcosa del tipo «Tu che ne dici?». In precedenza il personaggio interpretato da Brando, Johnny, aveva detto alla dolce cameriera di cui si innamora che l’importante è alzarsi un giorno e partire, andare, non importa dove. Nel film di Laszlo Benedek, che parte

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a folgorante sequenza che apre I selvaggi (The Wild Angels, 1966) di Roger Corman ci dice già tutto, o almeno parecchio: un bambino su un triciclo pedala furiosamente allontanandosi sempre più dalla madre, e cioè dall’autorità parentale, ma viene stoppato improvvisamente dalla ruota anteriore di un chopper. Un filo rosso diretto di ribellione e di fuga salda dunque tra loro i primi conati di emancipazione di un bambino e la sua futura vita selvaggia e vagabonda da biker. Dal trici-

Heavenly Blues (Peter Fonda) in sella al suo chopper nella folgorante sequenza che apre I selvaggi (1966) di Roger Corman. Contro la sua moto va a sbattere il triciclo di un bambino in fuga dalla madre: un filo rosso diretto di ribellione lega tra loro i primi conati di emancipazione di un bambino e la sua futura vita selvaggia e vagabonda da biker.

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RIBELLI ON THE ROAD certa dose di anarchismo, o almeno un principio di ignoranza delle leggi e delle regole. È quasi una tautologia, il richiamo feticista e sessuale di un oggetto (la moto) luccicante, solido e veloce che si insinua fallicamente e talvolta fallocraticamente dentro le pieghe e gli strati di una società-femmina. Bisogna poi sottolinearne una seconda, di ovvietà. L’equivalenza, sempre ribadita, tra il cavallo e la motocicletta nel senso di una “selvaggia” continuità ha a che fare e rimanda alla mitologia del western, fondante per la società americana. Esiste un film, Timerider (id., 1982) di William Dear, in cui il protagonista, un bravo campione di fuoristrada, mentre sta partecipando a una famosa gara di enduro in Messico finisce per un collasso temporale in pieno Wild West, e deve vedersela con una gang di spietati banditi il cui capo, viste le potenzialità, intende sostituire il suo cavallo con la moto da cross del nuovo arrivato. Non a caso, il biker è stato anche ribattezzato “centauro”: un essere mitologico, una creatura mostruosa, metà uomo metà cavallo – la parte inferiore, quella dei bassi istinti, di una sessualità animale. Nei racconti mitologici i centauri vivono in montagna e nelle foreste, si nutrono di carne cruda e hanno abitudini assai brutali, compresa una certa propensione allo stupro. È l’immagine ferina che accompagna da sempre il “selvaggio” in moto, e che il cinema ha lungamente accarezzato.

Marlon Brando disteso sulla sua Triumph, come se volesse farci l’amore, ne Il selvaggio (1954) di Laszlo Benedek. Corpo umano e moto sono un tutt’uno ed esprimono un senso di sfida e provocazione anche erotica verso lo spettatore. Un’icona senza tempo del feticismo sessuale: la moto aggiunge un surplus di virilità al divo.

Fusione con la natura Il biker, similmente all’eroe western, si realizza e si giustifica compiutamente come colui che, nella scia di David Thoreau e del suo seminale “Walden, ovvero la vita nei boschi”, auspica e ricerca una fusione quasi mistica con il paesaggio e la natura, sfuggendo alle “trappole della civiltà” (per usare la memorabile frase del finale di Ombre rosse). L’eroe del western aspira, nel profondo, a una completa oggettivizzazione. Essere uomini non significa solo essere monolitici, silenziosi, misteriosi, impenetrabili come una roccia del deserto: significa essere una roccia del deserto. Divenendo un oggetto minerale, non solo si è sollevati dal peso di doversi mettere in rela-

da una inchiesta giornalistica sull’invasione di una gang di motociclisti della cittadina di Hollister, in California, nel 1947, ci sono infatti due sole categorie di persone: i bikers della Black Rebels Motorcycle Gang e tutti gli altri, i “quadrati”, gli square, nel senso di tutti coloro che, appunto, non decidono mai di partire, ogni tanto, per andarsene “da qualche parte”. Un mondo diviso in due.

Anarchia e feticismo Andare in moto, sulle strade vere e su quelle di celluloide, sembra contenere in sé una

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INTRODUZIONE

Una colt puntata su di un casco da motocross, un viaggio nel tempo. Il film è Timerider (1982) di William Dear, bizzarro incrocio di western, fantascienza e biker movie. Un pilota si trova sbalzato in pieno Far West, e deve vedersela con banditi che vorrebbero cambiare i loro cavalli con la sua moto…

del cowboy col proprio cavallo, il biker anela a una fusione con il serbatoio, la carena, il telaio, il motore, le sospensioni, il manubrio del proprio mezzo a due ruote. Una oggettivizzazione che celebra il suo trionfo di feticismo sessuale negli indimenticabili 28 minuti di Scorpio Rising (1964) di Kenneth Anger. Ancora, il centauro e il suo eros abnorme. Nel feticismo della moto ritroviamo l’utilizzo del mezzo come forma di fusione mistica con l’animale, e con la Natura. In sella a una moto, il centauro e il paesaggio si muovono all’unisono: il desiderio nascosto è l’immersione completa nella wilderness.

zione con gli altri: si è sollevati, soprattutto, da ogni forma di coscienza. Allo stesso modo

Il satanismo del non serviam Un tale misticismo informa i migliori film di bikers. I selvaggi di Corman, ad esempio, è interamente organizzato attorno alla morte di Bruce Dern e ai prolungati riti funebri per la sua sepoltura, e si concentra su uno spassionato esame dei limiti di un anarchismo che non si riesce ad articolare con le parole. Nel film, gli Hell’s Angels vengono caratterizzati come “satanici” in senso letterale, allorché “cadono”

Allo stesso modo del cowboy col proprio cavallo, il biker anela, nel profondo, a una fusione completa col serbatoio, la carena, il telaio, il motore, le sospensioni, il manubrio del proprio mezzo a due ruote. Una oggettivizzazione feticista che celebra il suo trionfo con Marlon Brando, il ribelle e anticonformista Johnny de Il selvaggio.

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RIBELLI ON THE ROAD traverso Utah e Arizona, il carcere a Taos in New Mexico, meta finale a New Orleans e uccisione improvvisa a Morganza, Louisiana, appare già più “normale”: la vera sovversione del film sta, semmai, nel suo definitivo sdoganamento della cocaina come nuova droga di riferimento. Piuttosto, il fatto che i due bikers del film (Billy e Wyatt, detto Capitan America) oltrepassino sui loro spettacolari chopper autentiche pietre miliari dell’America nella direzione “sbagliata” rispetto al mito della Frontiera (e cioè da ovest a est invece che da est a ovest) suona lievemente irritante nel contesto del film, dato che quest’ultimo non sembra trarre molto giovamento artistico dall’uso del proprio spazio (grande e piccolo: l’inquadratura e la geografia dei luoghi), a differenza di quanto, ad esempio, riusciva a fare di solito John Ford coi suoi meravigliosi western ambientati nella Monument Valley – che pure compare nel film di Dennis Hopper.

Uno strano ibrido di misticismo e anarchismo, che spesso non si riesce ad articolare con le parole, domina i migliori film di bikers. Ne è un esempio la banda di motociclisti guidata da Peter Fonda sulle strade de I selvaggi. Nel film, gli Hell’s Angels vengono caratterizzati come “satanici” in senso letterale, allorché “cadono” nell’abisso della nonscelta tra la Croce e la Svastica.

nell’abisso della non-scelta tra la Croce e la Svastica. Paradiso Perduto miltoniano, in effetti, dato che questo non serviam (il “non servirò Dio” dell’angelo caduto Lucifero, citato anche in “Ritratto dell’artista da giovane” di James Joyce, divenuto un motto universale di chi non si conforma) conduce inesorabilmente, e molto acidamente, verso il “nulla da dire” e “il nessun luogo dove andare”. Davvero, per il biker come per Lucifero, «è meglio regnare all’Inferno che servire in Paradiso»? Questa frase di John Milton tratta da “Lost Paradise” viene peraltro effettivamente pronunciata – incredibile! – dal leader della gang di motociclisti in un altro dei cult movies maledetti sui bikers anni ’60, Angeli dell’inferno sulle ruote (Hell’s Angels on Wheels, 1967) di Richard Rush, cui fu “consulente” il mitico leader degli Hell’s Angels Ralph “Sonny” Barger. I giovani bikers descritti in Motorpsycho! (id., 1965) di Russ Meyer sono “satanici” nei fatti (criminali), pazzi scatenati che violentano la moglie del protagonista e, alla fine, vengono paragonati anche ai Vietcong contro i quali occorre passare alla terapia delle bombe a mano. Nel confronto con il “maledettismo” dei film di Corman, Rush e Meyer, il celeberrimo Easy Rider (Easy Rider – Libertà e paura, 1969), col suo percorso già stabilito at-

Il misticismo che informa il biker movie viene celebrato una volta per tutte dall’esemplare docufilm di Daria Menozzi Bike Baba (2000). Sulla sua Hero Honda 100, il santone indù protagonista si muove attraverso l’India seguendo gli itinerari di spiritualità per diffondere il culto di Shiva. Il viaggio in moto come forma di meditazione.

Si ispira al misticismo de I selvaggi, ad esempio, un film minore come Forza d’urto (Stone Cold, 1991) di Craig Baxley, in cui il membro di una gang di spaventosi bikers del Mississippi, morto stecchito, viene issato sulla sua Harley, cosparso di benzina e arso, tra il

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INTRODUZIONE tripudio dei compagni, non diversamente che in una pira di un ghat a Benares in India. Misticismo che viene celebrato, una volta per tutte, nell’esemplare documentario Bike Baba (2000) di Daria Menozzi, in cui un santone indù, per seguire gli itinerari di spiritualità e diffondere il culto di Shiva, ha scelto proprio di muoversi attraverso l’India su di una Hero Honda 100. Il viaggio in motocicletta come forma di meditazione.

segreto degli americani. I film li hanno aiutati a sentirsi in perenne movimento: la poltrona di un cinematografo è qualcosa di soggettivamente, infinitamente mobile. Per questo il road movie è un genere di film così tipicamente americano, odissea ossessiva di uomini e donne spinti, come i lemming, dal bisogno di continuare ad andare. Il road movie si snoda soprattutto lungo le arterie secondarie dell’America – magari la mitica Route 66 –, svolta in viottoli di campagna, fa sosta in anonimi roadside café e motel, si rifornisce in gas stations tutte uguali. Nei film di motociclette captiamo tutta l’impazienza di partire verso un destino incerto ma desiderabile – la soglia che divide casa e strada, la dialettica eterna tra stabilità e nomadismo. I bikers sembrano pensarla come il Charles Baudelaire di “Bellezza e verità”: «Studio della Grande Malattia: l’orrore del Domicilio», oppure come il John Donne della terza Elegia: «Vivere in un unico paese è prigionia/Scorrazzare in tutti i paesi, un esaltante vagabondaggio». Anche se la struttura del biker movie è quella, in sostanza, del romanzo picaresco di vagabondaggio (qualche volta di formazione: vedi I diari della motocicletta – Diarios de motocicleta, 2004, di Walter Salles, con la sua esaltazione della contagiosa energia della giovinezza come momento di “scoperta del mondo”), in realtà, a ben guardare, i film tendono più alla concentrazione (su se stessi, sulla ricerca interiore) che non sulla apertura all’esterno.

In perenne movimento La motocicletta si adatta perfettamente ai grandi spazi dell’America e a quell’apertura orizzontale del paesaggio che manca invece in Italia, dove infatti una tradizione di bikers movie non è mai davvero esistita – piuttosto, data la nostra favolosa tradizione motoristica, sono stati girati dei divertenti film sulle corse in pista, spesso interpretati da veri campioni sportivi, come Giacomo Agostini (Bolidi sull’asfalto di Bruno Corbucci, 1970). Non dimentichiamoci però, il temerario viaggio, tra buche e buche con acqua, di Ugo Tognazzi e Georges Wilson dall’Abruzzo a Roma sulla Guzzi S 1939 nel bellissimo Il Federale (1961) di Luciano Salce. Negli States, la moto fonda, assieme all’automobile, la mitologia dell’on the road. Un intero genere, il road movie, è stato edificato sulla iconografia di questi due mezzi di trasporto. Mobilità: questo è, del resto, il vero

Data la favolosa tradizione motoristica italiana, sono stati girati dei divertenti film sulle corse in pista, spesso interpretati da veri campioni sportivi. Qui Giacomo Agostini, il mitico Ago, è in sella alla sua MV Agusta in Bolidi sull’asfalto – A tutta birra! (1970) di Bruno Corbucci, dove, da semplice meccanico, diventa in breve tempo un asso delle due ruote.

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Con tutta la sua mutevolezza di luoghi e scenari, il road movie finisce per offrire alla visione un panorama chiuso in una circolarità senza fine come quella del caleidoscopio. La frequenza del deserto come paesaggio ricorrente ha molto a che vedere con questa concentrazione. Billy e Wyatt, in Easy Rider – Libertà e paura, attraversano le mesas glabre e austere della Monument Valley.

Il deserto

cela il sostanziale inscatolamento della presenza umana dentro di esso, e nella sua perfetta interscambiabilità sembra esprimere una crudele indifferenza alle sorti dei personaggi itineranti alla perpetua ricerca di “qualcosa d’altro”. Come a dire che i due bikers di Easy Rider, se fossero sopravvissuti, avrebbero potuto cercare per l’eternità la loro “libertà” sulle strade dell’America senza riuscire a trovarne neppure un granello.

La frequenza del deserto come paesaggio ricorrente – comune al western e al road movie – ha molto a che vedere con questa concentrazione: spiaggia senza mare, il deserto non è uno spazio libero; è un campo concentrico, definito, che aumenta d’intensità verso l’interno, verso un punto centrale. Nell’estensione del Nulla, lo sguardo del personaggio non trova niente su cui riflettersi, e si volge a se stesso. È lo smarrimento che rinveniamo nel Marlon Brando in giacca di cuoio nera e Triumph Thunderbird 6T ne Il selvaggio, con il suo finto cipiglio e la sua progressiva infantile indecisione. Con tutta la sua mutevolezza di luoghi e scenari, il road movie finisce per offrire alla visione un panorama chiuso in una circolarità senza fine come quella del caleidoscopio, e l’apparente inesauribilità del paesaggio (che a causa della velocità di spostamento si opacizza, si appiattisce, si comprime)

Eros e Thanatos Il desiderio di annullamento nel paesaggio percorso in moto a folle velocità cela, dunque, un oscuro desiderio di morte e di annullamento del Soggetto. Ciò è reso manifesto nello straordinario film underground di un giovane regista di San Francisco, Kenneth Anger. Anger non affermò mai che il suo Scorpio Rising avesse a che fare con gli Hell’s

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INTRODUZIONE La giacca di cuoio di Scorpio nello straordinario film underground di Kenneth Anger, Scorpio Rising (1964). Uno stravagante commento all’America dei Sixties, che fa di moto, svastiche e omosessualità aggressiva una nuova trilogia culturale. In un gioco incrociato di sguardi e seduzioni, l’oggetto-moto celebra i fasti di un feticismo sessuale mai così esplicito.

pa il trionfo di Thanatos del finale. In questo gioco incrociato di sguardi e seduzioni, l’oggetto-moto celebra i fasti di un feticismo sessuale mai così esplicito. Un ragazzo lucida la sua moto, un altro mostra il sedere, un altro ancora viene spogliato e cosparso di senape, un altro tira fuori il membro, lo struscia contro un ragazzo. Qui, la ribellione alla società da parte dei “selvaggi”, quintessenza del “genere”, si sposa, attraverso la motocicletta, con l’apparenza feticista di un mondo in cui è ancora il maschio a potersi illudere di essere in posizione dominante, in una comunione spirituale con i propri “simili” e in una mistica omosessuale su cui le immagini del film, nello stesso momento in cui le stanno celebrando, larvatamente ironizzano.

Angels, infatti venne girato prevalentemente a Brooklyn con la collaborazione di un gruppo di patiti delle moto così male organizzati che non si erano neanche preoccupati di scegliersi un nome. A differenza de Il selvaggio, l’opera di Anger non aveva alcun intento giornalistico o documentario: era un film d’autore con una colonna sonora rock, un piccolo e stravagante commento sull’America degli anni ’60, che faceva di moto, svastiche e omosessualità aggressiva una nuova trilogia culturale. La gara motociclistica del film finisce, come tante altre, con un incidente mortale. In precedenza, mentre ritorna l’immagine del Marlon Brando de Il selvaggio, questa volta su uno schermo televisivo, c’era stata un’orgia di Eros che antici-

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La Triumph Bonneville di Fonzie

Ghezzi Brian Moto Guzzi 1000 (1999)

Magni Moto Guzzi Sfida 1000 (1998)


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