Il Nero e la Rossa

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Sergio Pucciarelli

Il Nero e la Rossa Una storia d’amore negli anni di piombo

GREMESE


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Copertina: Giulia Arimattei Stampa: Grafiche del Liri – Isola del Liri (Fr) Copyright GREMESE: 2012 © New Books s.r.l. – Roma www.gremese.com Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo o con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-8440-744-3


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A Eleonora, compagna di una vita


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ÂŤOra che sono nel Vento, non ho odio per chi una sera mi ucciseÂť. A Franco, Francesco e Stefano e a tutti i ragazzi caduti in quegli anni, di qualsiasi colore o bandiera.


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CAPITOLO 0 Roma, quartiere Testaccio, febbraio 1980. Confusione, urla, sirene di un’autoambulanza che sconquassano la mente. Una pioggia dapprima leggera, poi sempre più insistente, bagna i vestiti e le ossa, ma almeno ha il pregio di ovattare i rumori. Simonetta è lì per terra, dalla sua bocca esce sangue, tutto il suo corpo è percorso da brividi di freddo, li sento anch’io mentre la abbraccio esanime in un tentativo disperato di darle ancora qualcosa di me. Reagisce a scatti, ha gli occhi persi, come quando ci amavamo, anche se adesso è diverso, hanno una luce fioca, sembrano pronti a prosciugarsi in un mare infinito, forse lo stesso che andavamo a scrutare insieme cercando risposte al nostro futuro incerto. Una volta, davanti a un mare agitato, le chiesi che senso avesse tutto quel moto ininterrotto delle onde e lei mi rispose: «Per una che arriva e muore, un’altra è già pronta a rinascere». Era la sua filosofia di vita, semplicemente. Io la ascoltavo sempre con interesse, non c’era 9


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una cosa di lei che non attirasse l’attenzione di tutti i miei sensi… Ma adesso è lontano quel giorno: quegli occhi chiari come il cielo stanno già guardando altrove, quella maledetta pallottola le si è conficcata nello stomaco e io sto cercando disperatamente di tamponare la ferita, ma non ce la faccio; esce tanto sangue, dallo stomaco ma anche dalla bocca e io ho paura, una paura folle che il mondo stia per finire lì. Ora non mi vengono le parole, non mi vengono e neanche riesco a sentirle, mi sembra tutto ovattato intorno… Simonetta se ne sta andando e io, piccolo uomo, nonostante la fierezza e la forza dell’ideale, sto qui come un cretino a fermare una tempesta con un ombrello di carta. Piango disperatamente e all’improvviso, come per liberazione, ecco la mia rabbia urlata al vento; esce dalla mia gola come un fiume in piena e inonda l’aria grigia intorno a me. Un’ambulanza bianca e rossa, due infermieri con la faccia sospesa tra la curiosità e la noia e un cordone di gente all’altro angolo della strada che assiste all’ennesimo fatto di “terrorismo”, “colpo di coda di un’ala estrema”, come scrivono in genere sui giornali, come scriveranno anche domani. Ma stavolta lì distesa a terra non c’è una terrorista, stavolta a terra c’è la mia donna, con le sue idee, i suoi sbagli, le sue passioni… Eppure incredibilmente vicina a Dio, più di ogni altro essere che io conosca. Il mio urlo ha squassato la notte, ha creato una 10


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tempesta venuta a sciogliere questo cielo cupo e gravido, a partorire forse un tempo diverso. Ma quell’urlo qualcuno non l’ha capito, se mi trovo due pistole puntate alla tempia e delle manette fredde ai polsi. Osservo gli occhi di due carabinieri che mi guardano con timore e rabbia, si aspettano una reazione, non capiscono che non accadrà mai, io mi sento svuotato dentro, un guerriero fragile, come mi chiamava spesso lei. Simonetta viene sollevata a forza, adagiata su un lettino bianco che subito si macchia di sangue. I suoi occhi adesso sembrano ancora più chiari; la sto perdendo, lo sento, forse non mi vede già più. Alza la mano destra nel tentativo di cercarmi, di toccarmi; ma non riesce a farlo, gli infermieri con fare professionale l’hanno già caricata sull’ambulanza. I due che mi tengono fermo sembrano sorpresi dalla mia mancanza di reazione; chissà se sanno perché ero lì, chissà se sapranno un giorno che la mia storia politica è diversa da quella che credono… Ma non m’importa, vedo l’ambulanza sfrecciare via con sopra la mia vita, abbasso gli occhi, mi sento stanco e mi piego sulle ginocchia, come un sacco vuoto. Poi è un flash, inizio a vedere le cose come in un film in bianco e nero mandato al contrario. Torno nel 1977, davanti a una scuola del mio quartiere, Monteverde. È lì che inizia tutto, è lì che Luca il “signorino” inizia a vivere sul serio.

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CAPITOLO 1 Il 1977 Il primo gennaio del 1977 “Caroselloâ€? sospende definitivamente le trasmissioni e tutti i bambini e gli adolescenti italiani ci rimangono male, ma pure qualche diciottenne come me non la prende benissimo. Il 18 gennaio il biondo calciatore della Lazio Luciano Re Cecconi viene ucciso dal proprietario di una gioielleria mentre per scherzo finge una rapina. Il 17 febbraio il segretario della CGIL Luciano Lama viene violentemente contestato dagli autonomi alla Sapienza di Roma. Il 12 maggio, durante una manifestazione femminista, viene uccisa una ragazza, Giorgiana Masi, dolce e innocua. Ăˆ stata colpita da un proiettile vagante. Il 26 giugno Elvis Presley tiene il suo ultimo con12


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certo, non sapendo che da lì a poco lascerà anche lui questa landa desolata (per la precisione il 16 agosto). Il 28 luglio la Spagna chiede l’ammissione alla Comunità Europea. A Ferragosto, il criminale nazista Herbert Kappler, responsabile dell’eccidio della Fosse Ardeatine, fugge in maniera rocambolesca dall’ospedale militare del Celio, a Roma. Il 20 settembre, per la prima volta in Italia, le scuole anticipano l’apertura, normalmente prevista per ottobre; mentre il 30, durante scontri tra opposti estremisti alla Balduina, muore il militante di Lotta Continua Walter Rossi. Il 28 ottobre, anniversario della marcia su Roma, i Sex Pistols pubblicano a Londra Never Mind the Bollocks. Il 28 novembre, a Bari, un operaio comunista, Benedetto Petrone, muore ucciso da neofascisti. Per quanto mi riguarda, però, quello che mi rimane più impresso è la prima console da tavolo, l’Atari 2600, che la Befana mi fa trovare sotto il camino il fatidico giorno, e la cosa mi fa tornare un po’ bambino. Non prendetemi per superficiale, lo so che le cose 13


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accadute quell’anno sono state ancora di più, soprattutto in politica e nelle strade, costellate di feriti, morti e famiglie rovinate da quei famosi “anni di piombo”; ma se la console Atari è la cosa che più mi è rimasta impressa, un motivo ci sarà, no? È che la politica proprio non mi prendeva, a pelle. La mia scuola era il glorioso Medici Del Vascello, in via Fonteiana, nel cuore di Monteverde, in quell’area delimitata dal liceo scientifico Morgagni, dal classico Manara e, appunto, dal suddetto istituto tecnico per ragionieri e geometri. Tutte e tre le scuole avevano un comune denominatore: erano nettamente, drasticamente, provocatoriamente a sinistra; anzi, nella sinistra più estrema, quell’area nebulosa e sovversiva dell’Autonomia Operaia. Come sia finito lì dentro ancora non lo so bene, o forse lo intuisco: mio padre era un dottore commercialista tra i più quotati, tra i suoi clienti annoverava la comunità ebraica di Roma con tutti i suoi negozi ed esercizi, oltre ad alcuni imprenditori nazionali di grande livello, cosa di cui andava molto fiero. Forse tra i suoi programmi c’era quello di farmi diventare come lui, e per questo credo mi avesse mandato a ragioneria. Ma la cosa che più mi meravigliava era perché avesse optato proprio per una scuola statale, lui così elitario in tutte le sue scelte (ma forse perché erano scelte fini a se stesse…), e perché fosse disposto a mandarmi in quel covo di professori di sinistra, di studenti sempre in autogestione e di aule perennemente imbrattate di scritte. Una volta glielo chiesi e lui mi rispose con candore: «Perché lì ti farai le ossa». Non immaginava che per prima cosa me le 14


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sarei fatte rompere quelle ossa, e che poi avrei ricambiato la cortesia… Fino al IV, però, non immaginavo di trovarmi invischiato in quel carosello politico che era la fine degli anni Settanta, fatto di colpi di coda della lotta armata, di pistolettate tra autonomi e fascisti dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari), oltre che di assemblee infuocate e pestaggi sotto casa. La mia storia è diversa e inizia in modo non molto diverso da un celebre racconto di Dickens: «Jacob Marley era morto».

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CAPITOLO 2 Acca Larentia 7 gennaio 1978, Roma: strage di Acca Larentia. Due militanti missini, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, vengono uccisi durante l’assalto a una sezione del partito in via Acca Larentia (quartiere Appio). Poco dopo i carabinieri uccidono, negli scontri che seguono al duplice omicidio, Stefano Recchioni, altro esponente missino. I tre avevano un’età compresa tra diciotto e vent’anni. Ecco, la mia storia inizia così ed è condensata tutta in questo comunicato Ansa con cui si liquida l’intera faccenda. Quel giorno il destino ha voluto che fossi lì, e ci ero capitato per un motivo estremamente ludico: il mio amico Giorgio, amante dei musical e del cinema in genere, mi aveva portato in una sala a vedere un film appena uscito, Grease, quello con John Travolta e Olivia Newton-John. Al centro di Roma i cinema erano tutti pieni, per cui, dopo aver consultato quelle locandine appese nelle pizzerie al 16


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taglio con l’elenco delle sale cinematografiche, decidemmo di recarci in periferia, al cinema New York in via delle Cave, quartiere Appio-Tuscolano, zona sud di Roma; e lì, con soddisfazione, trovammo finalmente posto. Il film era simpatico, divertente, scorrevole, con una musica trascinante (chi della mia età non la ricorda?), e noi ci eravamo immedesimati talmente nella storia che uscendo ballavamo come Danny Zucco e il suo fidato amico, quello biondastro che si pettinava sempre i capelli con la brillantina (appunto). Ma fu proprio all’uscita che la nostra danza buffa e scoordinata si arrestò: erano all’incirca le dieci e mezza di sera e fuori c’era l’inferno, quello vero, quello che pensi possa accadere a Beirut o a Kabul o in un cavolo di posto così… Invece eravamo al Tuscolano e davanti ai nostri occhi la gente si prendeva a bastonate, scappava inseguita dalla polizia, piangeva per i lacrimogeni sparati. «Che cazzo è successo, Giò?». «Non lo so, andiamo via però, Luca, ho paura, non c’ho neanche i gettoni pe’ telefonà a casa…». «No, voglio vedere, aspetta qui, non uscire, torno appena ho capito qualcosa». A volte, quando ripensi a certi avvenimenti, ti rifai un po’ il film di quello che sarebbe potuto accadere se avessi preso un’altra strada. Io mi sono chiesto spesso che sarebbe successo se fossi salito sul primo autobus che passava o semplicemente se mi fossi fatto i cavoli miei. Ma non era da me. Da me erano tante altre cose, fra cui quella che al 17


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momento ritenevo più ovvia: buttarmi nella mischia, cercare di capire, osservare. «Aspettami un attimo Giò, voglio vedere che è successo…». «Dai Luca, ma che sei matto, se stanno a ammazzà, ma che non lo vedi?». Il mio amico Giorgio non era un gran temerario. Il classico vicino di casa insieme a cui sei cresciuto in quegli interminabili pomeriggi passati a giocare a soldatini, a Subbuteo, a pallone dentro la mia camera (c’era uno stipite sotto la finestra che sembrava fatto apposta per essere la traversa di una porta di calcio). Lui era un tranquillo per definizione e per quieto vivere sopportava sempre la mia voglia di vincere, un vero sparring-partner per vocazione. Ma gli volevo bene, quel bene costruito negli anni da ore e ore passate insieme con un intento comune, giocare a tutto quello che ci passava per la testa. Era figlio di impiegati, Giorgio: papà al Ministero, mamma in una banca; una famiglia tranquilla che aveva sempre provveduto a lui, forse troppo, dandogli poche responsabilità e poca dimestichezza con la vita. Il suo aspetto rifletteva quella bonarietà d’animo: viso dolce, sempre a dieta (prendeva facilmente qualche chiletto), non molto alto, occhi castani e capelli ondulati. Era convinto che tutte le fortune fossero capitate a me e tutte le sfortune a lui e io, ripensandoci, non facevo nulla per fargli credere il contrario. Con le ragazze poi era un disastro: da quella pri18


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ma volta in cui s’era baciato con Cristina, una sua compagna di classe, e si era innamorato perdutamente, non ricambiato, aveva vissuto un trauma incredibile e questa cosa l’aveva come bloccato. Ma io gli volevo bene come a un fratello. «Faccio presto, aspetta…». Neanche aspettai la risposta del mio prudente amico, che ero già dall’altra parte della strada. Via Acca Larentia è una viuzza strana: non è una via vera e propria, si trova in mezzo a dei palazzi altissimi e inizia da via delle Cave, con un cortile pavimentato di simil marmo e un bar tabacchi che la domina commercialmente. Poi ti trovi davanti una scalinata di una decina di gradini, dieci metri di percorso, l’entrata di un condominio e altre scale, stavolta a scendere, che ti portano su un cortile più grande, per trovarti poi su una via laterale che puoi percorrere in auto. Nel cortile quattro grandi saracinesche: tre di una concessionaria d’auto plurimarche, la quarta di una sezione politica: una bandiera dell’Italia con una grossa croce inserita in un cerchio; un simbolo visto spesso anche per strada, la croce celtica, quella che caratterizza da sempre i cimiteri inglesi. E quel giorno uno di quei cimiteri sembrava essersi materializzato lì: una pozza di sangue nel primo cortile, un’altra più grande sulle scale vicino alla sezione e tutt’intorno polizia, carabinieri e individui con camici bianchi che rilevavano impronte. Il tempo sembrava essersi preso una pausa: adesso tutto era lieve, silenzioso, si camminava quasi in punta di piedi, come a voler rispettare l’evento che si era consumato poco prima. 19


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Faccio altri dieci metri e dall’altra parte riappare il mondo nella sua interezza e crudeltà: una schiera di carabinieri in tenuta antisommossa, un gruppo di due o trecento ragazzi, passamontagna in testa o fazzoletto nero sulla bocca. Hanno dei bastoni in mano e non credo che le loro intenzioni siano amichevoli. È un attimo: da quel gruppo parte una bottiglia incendiaria, finisce in mezzo ai carabinieri; altri ragazzi, questa volta nascosti dai caschi d’ordinanza, si guardano smarriti, aspettano un comando, hanno paura e per questo vogliono reagire. Si alza un urlo dalle retrovie, forse un ordine, non riesco a sentire bene, sta di fatto che la schiera di uomini in nero parte all’unisono, come uno sciame di cavallette. Lo scontro è forte, sembrano due tir in collisione e non riesci a capire chi ha la peggio. Io resto lì ammutolito, non avevo mai visto nulla di simile, se non in qualche film, ma stavolta la scena è davanti ai miei occhi, cruda, irreale ma troppo ravvicinata per non essere vera. Poi, nell’aria densa di tensione e di guerra, uno sparo, poi un altro e un altro ancora: ecco, io non so se esiste quella teoria in cui il tempo a volte sembra fermarsi, come se lo spazio si curvasse e il film della vita fosse messo in stand-by, ma in quel preciso momento mi sembrò di essere in quel fotogramma lì, anch’io con il tasto “pausa” schiacciato, con la bocca aperta, gli occhi sgranati e un silenzio ovattato intorno. Quei cinque secondi di sospensione non me li dimenticherò mai, anche perché i minuti successivi sarebbero diventati tra i più importanti della mia vita. 20


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