Vincent Brand Magazine

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B - Backyard, periodico mensile. Numero 0 In data 14/12/11. Brande magazine del gruppo VINCENT. PI sped. AP D.L.353/2003 CONV. L.46/2004 Art.1, C.1, DCB LONDON

Tweed run

Le bici e lo stile tornano a regnare in cittĂ

Travel

In moto fino a Capo Nord attraverso l’Europa

Style

50 anni di Dr. Martens

Arthur Ashe

Wimbledon 1975



Caro lettore Ti ringraziamo innanzitutto per aver dimostrato curiosità e interesse verso il nostro lavoro, ma soprattutto per offrirci la possibilità di vivere con te la nostra storia. Noi siamo Backyard, il “giardino sul retro”: per antonomasia uno spazio di libertà, un luogo di relax che al contempo permette di vivere le proprie passioni scegliendo coloro con i quali condividerle. Raccontiamo di cultura, arte, attualità, style, viaggi. Lo facciamo senza voler insegnare, ma mossi dal desiderio di narrare storie. Nella speranza di soddisfare sempre ogni tua curiosità e ogni tuo desiderio, ti auguriamo una buona lettura. Distinti saluti La redazione



CREDITS

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Numero

Dicembre 2011

Redazione Giacomo Betti Marco Botto Vittorio Bonfatti Federico Borghi Nicolò Calegari Cansu Cenzig Elodie Gaud

Art direction Giacomo Betti Federico Borghi Elodie Gaud

Columnist e Copywriter Marco Botto Vittorio Bonfatti Nicolò Calegari Cansu Cenzig Elodie Gaud Illustrazioni

Caratteri tipografici

Federico Borghi

Farnham Text Azkidenz-Grotesk


7 The Tale WIMBLEDON 1975. L’appassionante impresa di Arthur Ashe..

16. TWEED RUN

19. BLACKTRAIL

Le bici e lo stile tornano a regnare in città.

In bici a 100 all’ora.

17. RAGAZZE IN VOGA

20. METROPOLITANA DI LONDRA

La sfida a colpi di remi fra Oxford e Cambridge.

Energia pulita dai passi dei pendolari.

18. METTI IL RISPARMO SOTTO AL COFANO

22. ST. PAUL COMPIE 300 ANNI

Nuove normative sui risparmi al volante.

La cupola torna a brillare sulla City.

15 Power!


25 Workshop 26. TRAVEL In moto fino a Capo Nord attraverso l’Europa.

38. TUNING Vincati, l’ibrido più bello al mondo.

44. HAND MADE I mostri mutanti di Yong Ho Ji..

52. MARMO UNO Marmo italiano dal design inglese.

54. BELSTAFF La stoffa degli eroi.

58. DR. MARTEENS 50th BIRTHDAY Special Edition per l’occasione.

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Wimbledon 1975 Il capolavoro di Arthur Ashe


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l 5 luglio 1975 non può che essere un sabato. Del resto da quando mondo è mondo, nel Regno Unito si fa’ poco o nulla di domenica. Non si pratica lo sport, per esempio. Di nessun tipo. Niente football, né rugby o corse di cavalli. Nemmeno il Torneo di Wimbledon, un’istituzione sacra quasi quanto la Regina o il tè delle cinque, sfugge a una tradizione che sarà violata solo con l’avvento dei grandi network televisivi, capaci di modificare, a suon di denaro, 8

orari, feste e tradizioni che parevano immutabili. Il 5 luglio 1975 – dicevamo – è un sabato. Sull’erba del Centre Court, il campo principale del sobborgo a sudovest di Londra dove si svolge il più antico e prestigioso evento del tennis mondiale, va in scena la finale tra due autentici mostri sacri. Da una parte il ventitreenne mancino Jimmy Connors, detto Jimbo, numero uno nella classifica dei tennisti del momento e campi-


Ashe sull’erba di Wimbledon, 5 Luglio 1975. one uscente. Dall’altra l’afro-americano Arthur Ashe, di nove anni più anziano, reduce da alcune stagioni non proprio esaltanti, ma ancora in grado di giocare ad alti livelli, come dimostra il suo sesto posto nel ranking internazionale. Contro il pronostico Per gli addetti ai lavori e i bookmaker, tuttavia, l’incontro non ha storia. L’atleta di colore viene infatti dato 7-1, nonostante nei quarti di finale si sia

sbarazzato nientemeno che di Björn Borg. Troppo ampio, in effetti, è il divario di età tra i due. Troppo diverso il loro rendimento sull’erba, su cui Ashe è inferiore all’avversario. La statistica, poi, parla chiaro: le tre volte precedenti che Jimmy e Arthur hanno incrociato le racchette, una volta a Boston e due a Johannesburg (tutte finali disputate per altro sul cemento), si sono sempre risolte con la vittoria di Jimbo. Insomma, ci sono tutti gli ingredienti 9


B perché la bilancia dei pronostici penda a favore del giovane tennista bianco. Se a questo si aggiunge il fatto che l’anno prima quest’ultimo ha trascinato in tribunale il collega in qualità di presidente dell’associazione dei tennisti professionisti (ATP) per la sua esclusione dagli Internazionali di Francia, si capisce anche come Connors abbia il dente avvelenato contro un avversario verso il quale non ha feeling. Nessuno però ha fatto i conti con il sogno che Ashe coltiva da una vita: quello di aggiudicarsi quel torneo. “Darei una mano pur di farcela”, confessa alla vigilia. Per lui, nero e impegnato nella difesa dei diritti civili, certo, ma anche ricco, snob e orgogliosamente capitalista, vincere a Wimbledon, dove ogni cosa è pulita, dove tutti sono eleganti, dove ogni filo d’erba trasuda di colonialismo britannico, è come dimostrare a sé stesso di avercela fatta una volta per tutte. Wimbledon, del resto, è la capitale mondiale del pianeta tennis. Così, quando il match inizia, il pubblico – prima ancora degli addetti ai lavori e dei bookmaker – intuisce al volo la voglia di vittoria di quel tennista nero che molti danno troppo frettolosamente sul viale del tramonto. La gente comincia così a tifare per lui, prima sommessamente, poi in maniera sempre più ap10

erta. L’afro-americano, d’altra parte, sta giocando come mai gli è capitato negli ultimi anni. Al tennis aggressivo del suo avversario, Ashe per la prima volta decide di non contrattaccare, come invece ha sempre fatto nei tre precedenti e sfortunati match contro il suo avversario. L’inedita strategia di Arthur si rivela azzeccata. I primi due set, infatti, non hanno storia: un doppio 6-1 che atterrisce Jimmy, partito con la certezza di

Il 5 luglio 1975 Arthur Ashe da Richmond, Virginia, è il primo giocatore nero a vincere Wimbledon. avere già la vittoria in tasca. Ma anche Ashe è sceso in campo convinto di vincere. La sera della vigilia, infatti, aiutato da alcuni suoi colleghi, ha studiato attentamente l’incontro, elaborando una strategia che – ne è assolutamente certo – non può fallire. Cinque o sei punti chiave scritti su un foglio che,


durante la finale, Arthur ripassa attentamente a ogni cambio di campo. Quel giorno, dunque, a Jimbo basta poco per capire che non sarà una passeggiata. Al suo rovescio a due mani, alle sue potenti battute sotto rete e alle sue violente risposte da fondo campo, Ashe replica infatti con colpi taglienti e liftati che imprimono alla pallina rotazioni e traiettorie imprevedibili. Il ritmo rallentato che Ashe riesce a imporre all’incontro ottiene fin da subito il risultato sperato: quello di costringere Connors a commettere molti errori. Sul 2-0, però, Jimmy ha un sussulto di orgoglio e, seppure a fatica, riesce a riaprire la partita, aggiudicandosi il terzo set per 7-5. Dopo i primi tre giochi del quarto set, poi, il corso dell’incontro sembra essersi definitivamente ribaltato: Connors, che pare uscito dallo stato di torpore agonistico in cui era precipitato fino a poco prima, conduce infatti per 3-0. Durante il cambio di campo Ashe, preoccupato da quella inattesa débâcle, pensa – confesserà poi – che sia forse giunto il momento di abbandonare la sua tattica e cominciare a contrattaccare. L’indecisione dura però solo un attimo, perché quando il gioco riprende sceglie di andare orgogliosamente avanti con la sua strategia iniziale. La scelta si rivela saggia: il tennista afro-americano ribalta la situazione, vincendo sei dei successivi sette game e fissando il risultato sul 6-4 che gli consente di aggiudicarsi l’incontro per 3-1. Una vittoria inattesa ottenuta, come scriverà lo scrittore John Mc Phee, “per manifesta superiorità culturale”. L’intelligenza contro la forza. È fatta. Arthur Ashe da Richmond, in Virginia, è il primo giocatore nero a 11


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vincere a Wimbledon. Del resto, ad abbattere muri lui c’è abituato: è infatti il primo afro-americano a essere selezionato, nel 1963, per la squadra USA di Coppa Davis, il primo tennista di colore a conquistare, nel 1968, gli U.S. Open e, nel 1970, gli Australian Open. È, in sintesi, il primo giocatore nero della storia ad arrivare ai vertici in uno sport da sempre riservato ai bianchi. La lotta per i diritti umani Ma le vittorie di Arthur non si limitano al tennis. Sfrutta infatti la sua popolarità per portare ripetutamente all’attenzione dell’opinione pubblica temi come l’apartheid, i diritti umani, le discriminazioni. Si espone in prima persona – finendo anche in carcere – contro il regime razzista sudafricano, a favore della democrazia in Medio Oriente, per i diritti degli immigrati che scappano dalla vicina Haiti, per i sieropositivi. Lui stesso, per altro, ha contratto l’HIV in seguito a una trasfusione di sangue, resasi necessaria dopo due infarti che lo hanno colpito nel 1979 e nel 1983. È sempre in prima fila per aiutare chi ha bisogno: poco prima di morire di AIDS, nel 1993, fonda l’Arthur Ashe Institute for Urban Health per curare le persone senza assicurazione sanitaria. Una vita sempre sulle barricate, la sua. Di sicuro non moderata. D’altra parte era ricco, snob e orgogliosamente capitalista, ma anche inesorabilmente nero. E Arthur Ashe aveva sempre La vissuto con la granitica faconvinzione che essere mosa neri e moderati sareberba di be stato un conWimbledon trosenso 13



Power!

Tweed run

Ragazze in voga.

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Blacktrail

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Metropolitana di Londra.

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Metti il risparmio sotto al cofano.

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St. Paul compie 300 anni.

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Tweed run. Le bici e lo stile tornano a regnare in città.

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ostalgia per i tempi in cui erano le bicclette a dominare le strade delle nostre città? Allora non c’è niente di meglio di una bella “Tweed Run”. Non si tratta, dell’ennesimo raduno Critical Mass per una mobilità più sostenibile, ma di una rievocazione, tanto scrupolosa quanto divertente, del più tradizionale stile britannico. Come recita il manifesto della manifestazione di Londra, che ha contato più di 400 partecipanti: “A metropolitan city ride with a bit of style”. Il fenomeno è nato nel 2009 a Londra e (complice il web) sta già contagiando altri amanti della bici e del british style in giro per il mondo. Alcuni Tweed Run si sono tenuti a San Francisco, Boston, Chicago, Philadelphia, Toronto, Parigi, Sydney, Tokyo. Anche l’Italia non si è fatta mancare il suo pezzo di Gran Bretagna, con il Tweed Run di Pescara. Al Tweed Run si può partecipare con ogni tipo di bicicletta, ma l’occasione è ghiotta per togliere un po’ di ruggine alla propria bici d’epoca. Allora tutti in sella indossando tweed d’annata, jersey di lana vintage, cravatte di seta, coppole e sfoggiando bizzarri moustache da veri gentiluomini. Alla fine non importa chi taglierà prima il traguardo. Ad essere premiato alla fine sarà il divertimento e il proprio stile 16


Ragazze in voga.

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volte la nebbia avvolge le guglie dei collegi, altre nevica fitto, altre ancora l’afa riempie i polmoni. Ma qualunque sia la stagione a Cambridge, il rumore sordo delle pagaiate di Lindsey Friedman e delle compagne del Darwin College affiora già alle sei del mattino. «Non ci alleniamo all’alba tre volte alla settimana per la gloria della regata contro Oxford - spiega a BACKYARD con un sorriso Friedman, un’americana dottoranda in archeologia - facciamo canottaggio semplicemente perchè ci regala emozioni magiche». A far parte ogni anno del club ristretto e prestigioso dei vogatori sono quasi mille stu-

denti. Uno dei momenti clou per questi equipaggi di dilettanti incalliti è la prima settimana di giugno. Dopo una sequela di esami sfiancanti, invece di andare in vacanza, si sottopongono alla competizione intercollegiale chiamata May Bumps. Tra urla di incoraggiamento e cori goliardici, le barche dei collegi partono scaglionate e devono acciuffare quelle immediatamente davanti. Finita la gara dell’ultima edizione, la biochimica catalana Alicia Higueruelo, rematrice veterana della barca Darwin, ha scosso la testa: «Il ritmo delle pagaiate deve essere come il battito del cuore: regolare. Oggi sembravamo cardiopatiche, ognuna andava per conto suo. Come migliorare? È ovvio, cominciare ad allenarci presto al mattino»

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Metti il risparmio sotto al cofano.

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li Usa lanciano una rivoluzione a quattroruote per migliorare i consumi automobilistici. Obama a luglio ha annunciato i nuovi standard di efficienza. Ento il 2025 tutti i veicoli dovranno fare almeno 22 chilometri per litro. Questo regolamento taglierà i consumi di oltre 12 miliardi di barili all’anno. Questi i provvedimenti che prenderanno le case automo1

GOMME GREEN

Con il sistema Extra low rolling resistance per pneumatici a elevata aderenza sull’asfalto, si risparmia fino al 20% di carburante e si riducono le emissioni del 15%. La bassa resistenza al rotolasicura la guida.

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CONDIZIONATORI A BASSE EMISSIONI 2

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Riducono il consumo di carburante, aumentando l’efficenza e miglorando il termoisolamento dell’auto. I nuovi refrigeranti promettono di dissolversi nell’atmosfera in 10 giorni.

Spegne l’auto quando è ferma nel traffico o al semaforo. Si preme la frizione e il sistema riparte, senza consumare il motorino di avviamento. Risparmia un litro di carburante ogni dieci.

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MULTIMARCE

Fino a otto marce. In questo modo la coppia diviene più efficace e si riduce il consumo di energia, specie nei modelli automatici. I nuovi cambi introducono trasmissioni a doppia frizione. 4

SISTEMA IBRIDO LIGHT

Uso combinato di batteria e di motore a combustione. Entrambi alimentano in simultanea la trazione, ma il sistema costa meno di un vero impianto ibrido.

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START/STOP

TURBOCOMPRESSORE

Accelerazione e velocità. Le nuove versioni però non impatteranno eccessivamente sulla combustione e sui consumi. Per ora la tecnologia ha ina resa del 10% superiore e un incremento di efficienza elettrica fino al 46,5%. 7

AERODINAMICA

Il design dovrà minimizzare l’attrito. Superfici sempre più curve, scanalature e vie di fuga per le correnti di superficie. Per correre veloci a impatto zero.


In bici a 100 all’ora.

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i chiama Blacktrail ed è piuttosto cara, anzi carissima considerando gli oltre 50 mila euro richiesti per acquistarne una, ma la promessa di una bici elettrica capace di raggiungere i cento km orari con un’autonomia di quadi 200 chilometri suona comunque intrigante. Il progetto dell Blacktrail nasce da un’idea di Manu Ostner, a capo dell’azienda tedesca P G-Bikes di Ratisbona. Realizzata quasi interamente in fibra di carbonio, titanio, magnesio e leghe di alluminio, questo gioiellino pesa appena 19 chilogrammi ed è spinto da un motore ibrido da 1.2 KW che eroga una potenza di 1,6 cavalli. Alimentata da batteria al litio si ricarica in poche

Realizzata in fibra di carbonio, titanio, magnesio e leghe di alluminio. ore attaccandola a una comune presa elettrica. Per il momento ne verranno realizzati solo poco meno di 700 esemplari e con tempi di consegna di 180 giorni. Insomma se siete interessati armatevi di sana pazienza e di un bell’assegno

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La metro di Londra come sole e vento, energia pulita dai passi dei pendolari.

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ONDRA - Se in casa abbiamo bisogno di energia andiamo in cerca di una presa di corrente. La 220 dei nostri appartamenti è infatti l’unica fonte alla quale ci possiamo rivolgere, ma in realtà l’energia ci circonda e rimbalza per tutto l’ambiente in cui ci muoviamo. Mentre stiamo seduti e leggiamo produciamo energia (circa 100 watt), ogni passo che

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muoviamo produciamo energia (tra i 5 e i 7 watt), persino i fastidiosi rumori che arrivano dalla strada e fanno vibrare i vetri sono carichi di energia. Il problema, che per il momento ci obbliga a infilare la spina nella presa, è che tutta questa energia si disperde, non c’è modo di metterla insieme e sfruttarla. Non sappiamo “raccoglierla”, per usare la traduzione letterale dell’espressione inglese “energy harvesting” che indica la tecnologia che si occupa di esplorare questo campo scientifico. Presto però le cose potrebbero cambiare. Il primo pro-


totipo di una piccola centrale elettrica il primo passo lungo una strada che alimentata grazie all’energy harvesting potrebbe riservare grandi opportunità. è atteso infatti entro la fine dell’anno. Nei progetti futuri della “Facility arA realizzarlo sarà “The facility archi- chitects”, che dovrà comunque testare tects”, un grande studio di proget- a lungo il prototipo (esistono però già tazione inglese che pensa di riuscire delle intese con potenziali clienti asiata imbrigliare la corrente prodotta dal ici), c’è anche la realizzazione di micorcamminare dei passeggeri della metro- generatori in grado di usare le vibrazioni politana londnese. dei treni o delle automobili di passaggio Incaricato di sviluppare il progetto, per dare corrente all’illuminazione pubche come molte altre innovazioni tec- blica. Per il momento non si tratterebbe nologiche nasce inizialmente da una di sostituire la normale alimentazione, necessità militare, è un ingegnere, Jim ma di rendere possibile l’installazione Gilbert. “Un paio di anni fa - racconta di nuovi lampioni lì dove ora i costi per Gilbert - mi è stato chiesto di mettere trasportare la rete tradizionale lo impea punto un generatore di cordiscono. rente alimentato dai colpi dei ”Successivamente le applicazitalloni all’interno degli anfibi oni potrebbero essere infinite Allo studio dei soldati in marcia. L’energia - spiega ancora Price - sopratanche la possibilità di trasforprodotta avrebbe permesso tutto per monitorare quanto mare in corrente di risparmiare la fatica di doaccade negli edifici e renderli le vibrazioni di versi portare dietro pesanti più efficienti dal punto di vista treni e auto. batterie. Riuscire a proteggere energetico, segnalando se le il congegno dallo sporcarsi luci sono accese inutilmente o bagnarsi si è rivelato però o se qualcuno ha dimenticato molto complicato”. Un inconveniente una finestra aperta”. Un ventaglio di che nella nuova applicazione dovrebbe possibilità che conducono tutte nella scomparire, anche se le difficoltà a tra- stessa direzione: “La speranza è che un durre questo sogno in realtà non man- giorno fare un passo lungo il corridoio cano di certo. L’idea è quella di dotare di una metropolitana corrisponda a fare il pavimento di alcune stazioni della un passo verso la salvezza del Pianeta” metropolitana particolarmente affollate di generatori a pressione idraulica in grado di “catturare” i watt prodotti da ogni passo. “Alla Victoria station ad esempio - aggiunge l’architetta della “Facility” Claire Price - nelle ore di punta transitano circa 34 mila passeggeri che camminando producono un’energia che correttamente catturata potrebbe alimentare 6500 lampade a led”. Sfruttare il frenetico viavai dei pendolari, i “commuters”, sarebbe però solo 21


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St. Paul compie 300 anni. Dopo 15 anni di restauri la St. Paul’s Cathedral è ancora più splendente di quando, trecento anni fa, Christopher Wren ne concluse la costruzione. Icona cittadina, cornice di momenti storici, ha festeggiato l’anniversario con mostre e un concorso fotografico.

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i sono voluti 15 anni e 40 milioni di sterline (poco più di 46 milioni di euro), ma finalmente la St Paul’s Cathedral è risorta. La cattedrale più famosa di Londra, a 300 anni dal suo completamento ufficiale, si è infatti liberata dalle impalcature che per oltre un decennio l’hanno imprigionata, ed è ora al massimo del suo splendore. Icona del panorama cittadino e monumento tra i più visitati (circa 2 milioni di persone I’anno), St Paul’s occupa nel cuore dei londinesi un posto davvero speciale. “È un simbolo di resistenza e speranza” spiega Mark Oakley, il reverendo canonico (e tesoriere) della cattedrale che ci guida alla scoperta di questo capolavoro. “Fin dalla Seconda guerra mondiale, quando Winston Churchill, durante i bombardamenti nazisti, rimase in continuo collegamento con i vigili del fuoco affinché ne impedissero la distruzione. 11 primo 22

ministro era infatti convinto che, se fosse stata abbattuta, “tutto sarebbe stato perduto”. Ancora oggi la cupola che si erge sopra la città dominandone il panorama è vista come un emblema di protezione e rassicurazione, un simbolo di continuità. Va infatti ricordato che ad avere 300 anni è solo l’edificio: I’istituzione ne conta invece 1.400.


Un concorso per festeggiare i 300 anni.

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er celebrare il 300° anno dalla fine del cantiere di St Paul’s e festeggiare lo smantellamento delle impalcature che per 15 anni hanno avvolto gli esterni, nulla è sembrato più adatto di un concorso fotografico che ne catturasse la magia. Aperta a professionisti e amatori, la gara ha raccolto migliaia di adesioni. La giuria ha scelto 10 nomi: un vincitore assoluto, Michael Murphy, con la sua St PauI’s Giornata Mondiale contro l’Aids con la cupola illuminata di rosso per I’occasione, e 9 finalisti, le cui immagini (visibili su www.stpauls. co.uk/photocomp) fino a dicembre sono esposte nella cripta nell’ambito di Oculus: un occhio in St Paul’s. Che è una mostra, ma anche un percorso interattivo alla scoperta della cattedrale, della sua storia, della sua architettura. della sua importanza spirituale. Voluta per permettere a tutti di goderla nella sua interezza (per esempio anche chi non può salire gli oltre 500 gradini che portano alla lanterna), con filmati e suggestioni musicali e virtuali Oculus racconta in varie

sezioni 1.400 anni di storia. La vita della cattedrale invita a passare una giornata in St Paul’s; lo risorgerò ne racconta la rinascita dopo l’incendio del 1666 e le bombe del Blitz nazista del 1941; Visita virtuale: Ia cupola porta alla scoperta della cupola e delle gallerie, mentre Visita virtuale: il grande modello conduce all’interno del modellino della chiesa preparato da Christopher Wren per re Carlo II. Una visita straordinaria dato che nella realtà il modellino si vede solo dall’esterno

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Workshop THE TRAVEL

TUNING

HAND MADE

Attraverso l’Europa in moto fino a Capo Nord. Diario di viaggio.

Padre, figlio e tanta passione; nasce la Vincati, l’ibrido più bello al mondo.

Vecchi copertoni e olio di gomito. Speciale arte povera.

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In moto fino a Capo Nord


Una sola ragione per essere li.

Arrivare a Capo Nord non è un traguardo ma una conquista perché sai già, ancor prima di partire, che non sarà facile ... anzi. E quando cominci a percorrere le prime gallerie, ad attraversare i primi ponti, senti subito che qualcosa dentro di te sta cambiando, e neppure gli inevitabili incidenti di percorso mettono in dubbio la volontà di arrivarci, ma preghi... preghi che la moto non ti tradisca, che sul ponte non ci sia troppo vento, che le gallerie finiscano presto e soprattutto che non ci siano infiltrazioni. E alla fine ti rendi conto che la giornata è trascorsa con piccole angosce che solo quanto hai visto è riuscito a cancellare e ti addormenti solo perché sei sfinito dalle centinaia di chilometri percorsi, ti svegli a qualsiasi ora e c’è ancora la luce, e ti alzi la mattina con schiena, braccia e ginocchia che ti chiedono solamente di rimetterti in sella, e sei già pronto a ricominciare un’altra giornata che segnerà per sempre la tua vita, perché sognare, pensare, ridere, piangere... questo è Capo Nord, perché non hai nessun motivo per andarci, ma una sola ragione per essere lì.


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Attraverso l’Europa

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a partenza - Indubbiamente Ca Nord è la meta di ogni motociclista, clista, e per noi quest’anno è il sogno diventato realtà, anche se il viaggio è iniziato molto tempo prima della effettiva partenza, con la raccolta di informazioni e dati da internet perché non si può affrontare una simile impresa senza 28

aver studiato a tavolino luoghi da visitare e strade da percorrere. E così partiamo da Noventa di Piave, giovedì 9 luglio, con 22 gradi di temperatura, la moto super carica e noi ... emozionatissimi. Dall’Austria alla Germania - Il primo giorno abbiamo attraversato l’Austria e la Germania passando per Cortina, Lienz, i Tauri, Kitzbuhel e Traunstein. Il secondo giorno ci attende una tappa di “trasferimento” poiché l’autostrada, si sa, per noi motociclisti è molto noiosa


Partenza 9 Luglio da Noventa Arrivo 11 Luglio a Nordkapp. 11 giorni in sella!

da percorrere e dovremo fare parecchi chilometri per avvicinarci al “Nord”. Il tempo è variabile e, dopo un primo acquazzone in mattinata, nel pomeriggio inizia una pioggia insistente che ci fa decidere per una fermata anticipata rispetto alla tabella di marcia. Usciamo dall’autostrada e ci fermiamo vicino a Hannover, in una cittadina a noi sconosciuta che ci riserva una gradita sorpresa: Celle. Un centro storico stupendo, case medioevali decorate a traliccio

perfettamente Una breve pausa conservate, il tutto immersi nel nella più assoluta soliverde tudine! Sembra un paese danese fantasma non c’è nessuno, strade e locali (pochi quelli aperti) completamente deserte. Ecco la Danimarca - Il sabato successivo, dopo un’altra lunga tappa di avvicinamento, il paesaggio piatto fino al confine con la Danimarca cambia improvvisamente offrendoci infinite distese di campi di grano e orzo con dei colori fortissimi. Purtroppo fermarsi è pericolosissimo e quindi niente foto. Verso l’imbrunire, dopo svariati acquazzoni, arriviamo a Frederikshavn dove ci imbarcheremo per Gõteborg (Svezia) alle tre (notte piena) del 12 luglio. Non paghi della strada fin qui percorsa, decidiamo di andare sulla punta estrema della Danimarca, a Skagen, dove, oltre al faro imponente e alle dune giganti, c’è l’incontro dei due mari, mare del Nord e mar Baltico. 29


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Oslo. Siamo in Norvegia!

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slo - La domenica di prima mattina sbarchiamo a Gõteborg con una leggera pioggia e proseguiamo verso Oslo. L’autostrada è tranquilla, non c’è molto traffico e il paesaggio comincia a diventare più interessante. Dopo un piccolo inconveniente alla moto, guasto alla pompa della benzina, consegnata al 30

carro attrezzi, ci sistemiamo in albergo. Sono le 17 ma c’è un bel sole, prendiamo la metro e giriamo la città. Forse a causa del nostro particolare stato d’animo, preoccupati per la moto, o forse perché è proprio così, Oslo non ci entusiasma e la sera praticamente abbiamo deciso che quello che avevamo visto in poche ore era sufficiente. I primi fiordi - E’ lunedì 13 luglio, alle 10.00 ritiriamo la moto con l’assicurazione che è perfetta, lasciamo


marci a Voss, 40 km prima di Bergen. Più ci avviciniamo a Capo Nord, ed è ancora a quasi 2.000 km, più si allungano le ore di luce, ma la stanchezza ci fa capire quando è ora di fermarci! Bergen - Martedì 14 luglio, arriviamo a Bergen con il sole. E’ una cittadina incantevole, coloratissima e vivacissima, specialmente il piccolo mercato sul porto. Molto caratteristiche le costruzioni che vi si affacciano, vecchi magazzini ristrutturati e riadattati a nuove esigenze. Da Bergen, conosciuta oltre che per la sua bellezza anche per essere una città molto piovosa (su tre giorni due sicura pioggia), parte ogni giorno l’Hurtigruten, il postale che in sette giorni raggiunge Kirkeness, all’estremo nord, toccando tutti i porti e le isole che si affacciano sull’Oceano Atlantico. Qui è d’obbligo mangiare, a tutte le ore della mattinata, gamberetti freschi e salmone che vengono proposti, accompagnati dalle insalate, in molte bancarelle del mercato. Lasciamo Bergen per andare a Gerainger e, a quota 700 metri, il

Oslo e il mare e, sotto una pioggia incessante, arriviamo in montagna. Siamo ad un’altitudine di circa 1.200 metri con la temperatura scesa a 5/6 gradi e... piove. Ai bordi della strada, in alcuni tratti, c’è la neve e le cime dei monti sonometri con la temperatura scesa a 5/6 gradi e... piove. Ai bordi della strada, in alcuni tratti, c’è la neve e le cime dei monti sono tutte ancora innevate. Da Gelio inizia la discesa verso il primo fiordo, Eidfjord, dove prendiamo il primo di una lunga serie di traghetti che ci porterà dall’altro lato del fiordo. Non è tardissimo, ma dopo tanta pioggia decidiamo di fer-

paesaggio è simile alle nostre altissime montagne, con nevai e ghiacciai fin sulla strada. Percorriamo molte gallerie, alcune sembrano interminabili perché di nuda roccia, strette e con poca illuminazione; il paesaggio varia continuamente e, dopo una piacevole discesa, arriviamo a Gerainger, un paesino incantato sull’omonimo stupendo fiordo. La strada dei Troll - Ci stiamo avvicinando alla strada più conosciuta della Norvegia, la strada dei Troll. Corriamo in mezzo a infinite distese di fragole: è il periodo della raccolta e giovani ricurvi sulle piante si alzano al nostro passaggio 31


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e ci salutano. La strada comincia a salire, improvvisamente, i monti si aprono e davanti a noi appare un’ampia vallata e ci ritroviamo a scendere la mitica Trollstigen. Con svariate, fantastiche curve e tornanti, si scende di 700 metri, uno spettacolo mozzafiato, e ci assale la voglia di risalire e ridiscendere, come in una giostra! E i troll sono sempre con noi! Molde - Dopo aver preso l’ennesimo traghetto arriviamo a Molde, rinomata per le sue rose e per il festival jazz che si tiene ogni anno nel mese di luglio. Accompagnati da un caldo sole, giriamo la città fra bancarelle e artisti di strada che suonano a ogni angolo e piazza. Proseguendo, arriviamo alla famosa Atlantic road, una strada che collega ben 17 isole, costruita da prigionieri russi durante la seconda guerra mondiale e sulla quale si abbatterono ben quattro terribili tempeste.

La mitica Statale E6

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rondheim, la vecchia capitale. Si lascia nuovamente la costa e si prosegue verso Trondheim, la vecchia capitale; la pioggia ci perseguita e sostiamo per la notte in un campeggio a Buvika, sulla sponda del fiordo di Trondheim. L’alloggio è una hitte, piccola casetta di legno rigorosamente ros32

so, con all’interno il minimo indispensabile: un piccolo fornello, un frigorifero e un letto a castello, servizi all’esterno! Giovedì 16 luglio: la salita prosegue e, dopo una sosta nella vecchia capitale dove visitiamo lo splendido duomo e ammiriamo il vecchio porto con le coloratissime costruzioni su entrambi i lati del vecchio ponte, raggiungiamo la mitica E6, la statale che percorre da sud a nord tutta la Norvegia. Lungo la statale E6 - Il tempo continua


a variare molto velocemente e si passa continuamente dal sole alla pioggia, ma sono le nuvole l’elemento predominante. Uno dei tornanti La strada è costeggiata da prati e boschi di un verde intenso che della E6 in un mattino di cambia con la luce del sole, mentre incredibili fiori viola macchiano pioggia. il paesaggio.con la luce del sole, mentre incredibili fiori viola macchiano il paesaggio. Entriamo finalmente nel grande Nord; si continua a salire fino a Mo I Rana. Ci fermiamo per la notte a Rossvoll in una hitte sulla sponda di un laghetto e ci godiamo uno spettacolare tramonto. Arriviamo al Circolo Polare Artico, tutto intorno ci sono monti innevati e la temperatura è scesa a 7 gradi. Continuiamo a salire fino a Bodo, pioviggina e dobbiamo aspettare le 15 per poterci imbarcare per le Lofoten, le isole famose per il baccalà. Nell’attesa l’ennesimo panino con würstel e asciugatura delle tute da pioggia. Il traghetto è puntualissimo e la traversata è tranquilla; in quattro ore arriviamo a Sorvagen, il cielo sempre più cupo. Le Lofoten si parano davanti a noi come una nera barriera invalicabile! Sembrano grandi scogli 33


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che affiorano dall’acqua e puntano dritti al cielo, stranissimi. Affascinati dal paesaggio, incuranti della pioggia, troviamo alloggio molto più tardi, meno male che non fa mai buio! Il giorno dopo, dopo esser tornati a Sorvagen e Reine, facciamo una puntatina a Nusfjord, su consiglio del signor Daniel che ci ha dato ospitalità per la notte, non c’è il sole e tutto sembra grigio. Proseguiamo, esce il sole e d’un tratto il mare cambia improvvisamente, diventa 34

color smeraldo e incredibilmente Vista delle isole trasparente mentre, Lofoten ci fermiamo in una piccola baia con la sabbia bianchissima che sembra borotalco, tanto è fine. Si continua sempre immersi nel grigio con di tanto in tanto qualche leggero spruzzo d’acqua. Ritorniamo sulla terraferma passando su un ponte molto alto e pranziamo al primo ristorante che in-


contriamo, a base di renna. Siamo nuovamente sulla E6 e poco dopo troviamo un accampamento Sami (per i turisti). Oramai la meta non è più lontanissima, si viaggia costeggiando fiordi, la natura fa a gara per superarsi, uno spettacolo a ogni curva, la nostra andatura rallenta perché aumentano le foto e fortunatamente non piove. Una giornata sempre col mare vicino, passando piccoli paesi di pescatori, sulla strada solo noi e qualche altro raro motociclista, probabil-

mente già di ritorno. Poco prima di Alta facciamo il nostro primo incontro con le renne, fino a qui avevamo visto solo i cartelli, siamo a 250 km dalla meta! Dopo un “breve” tratto all’interno, su un altopiano, ecco la tundra, non ci sono alberi e, ogni tanto, qualche casupola. Si ridiscende, costeggiamo per un tratto un fiume, qui è famosa la pesca al salmone ed infatti ci sono parecchi pescatori armati di stivaloni nel bel mezzo del fiume.

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Capo Nord finalmente!

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apo Nord - 20 luglio 2009, lunedì. E’ il grande giorno, ci mettiamo in sella consci del fatto che oggi porteremo a termine la nostra grande impresa. Arrivati a Russenes cominciamo a correre nuovamente a livello del mare. Alle 10 entriamo nel comune di Nordkapp, ci siamo... quasi. Nordkapp si trova 36

sull’isola di Mageroya e per raggiungerla bisogna attraversare un tunnel lungo 6.870 metri, 212 metri sotto il livello del mare. E’ poco illuminato, si scende con una pendenza notevole e poi, sapere di essere a tale profondità mette addosso una strana sensazione. Poi finalmente la salita amo molto eccitati al pensiero che siamo a soli 35 km dal punto più a nord dell’Europa. Lasciato il paese, dopo poche curve, una bufera si abbatte su di noi, sembra quasi volerci impedire di


salire. Che fare? Ci fermiamo, proseguiamo, rallentiamo... è veramente una situazione pericolosa. Incuranti andiamo, moto piegata per contrapporsi al vento, stringendo i denti e, sperando di non cadere, arriviamo fino all’incrocio per Skarsvag, ultimo centro abitato: mancano all’incirca 10 chilometri, decidiamo di fermarci e cercare un rifugio per la notte. Ci sono delle hitte e, poco dopo di nuovo le renne... Non piove più, anche se la temperatura è vicina allo 0°. Dopo aver scaricato la moto, decidiamo di i passo finale. La salita non è impegnativa, solo il forte vento disturba ma

il forte vento La terrazza con disturba ma orail globo, simmai nulla può più bolo di Capo fermarci ed eccoci, fiNord. nalmente la tabella che indica “NORDKAPP”! Ecco il globo! - Lo spettacolo che si offre ai nostri occhi è incredibile, ci avviciniamo al recinto di protezione, per ammirare questa natura aspra, il vento è molto forte, ma l’emozione è più grande! Ci avviciniamo al globo” simbolo di Capo Nord e, al nostro turno, le foto di rito

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Vincati, l’ibrido piÚ bello al mondo


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Una moto da sogno.

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a Vincati è un è uno di quei semimiti di cui ti capita sporadicamente sentire parlare - e per molti fan delle motociclette, un connubio perfetto. In pratica, un motore Vincent in una Ducati. La “Big Sid’s Vincati” è forse uno dei più famosi di questi ibridi, decisi quindi di scrivere a Matthew (il figlio di Sidney Biberman) per sapere la storia completa: eccola, riportata esattamente dalle sue parole: «Nel 2000 Big Sid, mio padre, era in convalescenza da un’operazione chirurgica dovuta ad un attacco di cuore. Una sera durante una visita all’ospedale, gli portai la posta e ci trovammo a sfogliare scatti delle gare dell’Isle of Man di quell’anno. Una foto attirò la mia attenzione: la foto di una Vincati, qualcosa che non avevo mai visto. Ne fui subito rapito, e sfidai Sid: Promisi che in caso lui avesse trovato la forza di rimettersi, ne avremmo costruita una, a tutti i costi». La parola a Sid: «Quello che state osservando è il prodotto di cinque anni di lavoro. Per quanto ne sappiamo noi, il nostro esemplare è il settimo al mondo, e il primo costruito fuori dall’Australia. L’ho usata regolarmente negli ultimi cinque anni ed apprezzata immensamente. Il motore nacque come Rapide, ma venne poi costruito e migliorato con le specifiche della Black Lightning, con rapporto di compressione 10:1, testata modificata a 32mm (unita all’MK1s

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Esistono sette esemplari di Vincati nel mondo, sei delle quali si trovano in Australia. della Amal), albero a camme, e molti altri trucchetti. Un fattore chiave della sua resa è che i volani hanno il rotore smerlato, rimuovendo più di un kilo. L’energia è così trasferita attraverso una frizione multidisco creata da Aussie Neil Videan. I risultati sono rendono la moto semplice da accendere, con molte meno vibrazioni che troveresti in una Vincent modificata. Lo chassis è una Ducati GT del 1973 modificato. Il lavoro fatto per permettere l’unione del motore Vincent al frame italiano è gestibile, per la maggior parte consiste in aggiungere placche sul retro per accettare la forma del Vincent e l’aggiunta di un paio di tubi incrociati sulla parte superiore per copiare il sistema di montaggio della testata Vincent. Una tanica per olio della

Norton Commando è stata aggiunta sul lato sinistro. Sorprendentemente il motore Ducati pesa solo 4,5 chili in più del Inglese Vincati, un’altra ragione per cui l’ibrido è una macchina così piacevole.» Mio padre ha lavorato su Vincent per più di 60 anni ora e ne è soddisfatto. La Vincent è stupenda, si, ma più di ciò, è ben fatta e piacevole da guidare a qualsiasi velocità (con una velocità massima intorno ai 220Km/h). Infatti, come atleti al top, la Vincati sembra sempre essere all’altezza se il gioco si fa duro. Anche se non vado matto per i viaggi in moto, sono fiero di dire che molti amici hanno provato la Vincati, incluso il moto-giornalista Peter Egan e Aaron Frank, il presentatore Jay Leno e più recentemente Mike Seate- che la riprese in un episodio del suo show Club Café Racer su Discovery Channel. La Vincati ha anche vinto il premio Migliore Café Racer Moderna agli Annual Vintage Days meeting dell’AMA nel 2009, e fece apparizione al Barber’s Fall Classic. Era una grande emozione per George Barber presentarla al suo museo.

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Una delle sei vincati presenti in Australia.

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I mostri di Yong Ho Ji

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Pneumatici mostruosi.

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na scultura è una forma solida d’arte. La scultura è solida, e il materiale utilizzato nella scultura è un materiale solido. Il materiale, quindi, detiene un’importanza innegabile nella scultura. Il metodo di espressione è fondamentalmente diverso da quella di un dipinto. In una scultura, le forze all’interno di una figura (o l’interrelazione di queste forze) costituiscono il corpo. Questo rende la struttura del corpo uno degli elementi più critici in una scultura: una conoscenza anatomica è quindi fondamentale per uno scultore. Lo sviluppo di studi anatomici in campo artistico della scultura è strettamente legato al naturalismo: al fine di esercitare l’immaginazione libera, è essenziale che 46

sia il supporto della ricerca anatomica. Nelle animalesche sagome create con la gomma da Ji Yong Ho, le forme sono in genere realistiche e raffinate nonostante la texture ruvida del pneumatico. Certo, a ben vedere, ci si rende conto che le forme non assomigliano ad animali reali. C’è una scultura che ad un primo momento assomiglia a un cavallo, ma le zampe posteriori sono quelle di una mucca e la coda quella di un pollo. In queste figure, i pneumatici intensificano il grottesco per la creazione di fantascientifiche figure mostruose. Molti spettatori, affascinati dalle strane figure, affermano che i pneumatici neri riportano alla mente il concetto di industrializzazione, rifiuti industriali, e persino l’inquinamento ambientale. Ma l’ intenzione di Ji Yong Ho è quella di inviare un messaggio di allarme sulla distruzione ambientale, oppure si tratta di una massimizzazione della fantasia di


un artista? Ho Ji Yong inizia il proprio percorso artistico con la realizzazione di ‘I Mutanti’. Tra mutanti, o mutazioni, Yong Ho Ji è particolarmente interessato al tema della mutazione artificiale. La definizione di “mutante” si riferisce a un individuo, un’organizzazione o una cellula che possiedono geni anomali causati da una mutazione. In altre parole, c’è un cambiamento strutturale del DNA o dei cromosomi che compongono il DNA. Una mutazione può manifestarsi come un processo naturale, ma può anche essere causato da fattori esterni come le reazioni chimiche o radioattive; la mutazione non crea benefici alla creatura. Pertanto, il mutante soffre di solito ad adattarsi, a sopravvivere e a riprodursi in un ambiente. Mentre le immagini di mutanti Yong Ho Ji sono raccapriccianti e travolgenti, in realtà sono creature vulnerabili e insicure. Ciò si esprime con le sfere acriliche utilizzate negli occhi, nei quali si può percepire una tristezza, come se questi mostri fossero

consci, consapevoli del proprio tragico destino. Il lavoro di Ho Ji Yong sul tema della mutazione può essere suddiviso in due fasi. Nelle prime opere, un particolare tipo di animale veniva selezionato per la “mutazione”, che non risultava drasticamente diversa nella sua forma da quella dell’animale originale; era l’atteggiamento aggressivo e minaccioso a renderli percepibili come irreali. D’altra parte, le opere più recenti focalizzano la propria attenzione sulla combinazione delle forme di due animali diversi. Pertanto, questo tipo di creazione richiede un maggiore dettaglio di lavorazione e una maggiore fatica. In questo tipo di lavoro, Ji Yong Ho cerca di concentrarsi non tanto sul materiale del pneumatico stesso quanto sul il processo di mutazione artificiale. Il pneumatico è stato scelto come il materiale adatto ad esprimere questa mutazione il più vividamente possibile: il pneumatico utilizzato è un mezzo attraverso il quale l’artista comunica il suo messag47


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gio al mondo. Ciò che Ji Yong Ho persegue come scultore è la creazione di animali mutanti. Anche se in realtà sono animali fantastici che sono inesistenti nel mondo reale, l’immaginazione dell’artista porta questi animali irreali in vita. D’altra parte, per creare una vivida scultura con materiali come la gomma è in realtà un compito impegnativo, a prescindere dalla conoscenza anatomica dell’artista. Per esprimere la texture delicata e morbida di muscolo di un animale con duri pneumatici, il compito è assai impegnativo. Si richiede non solo una conoscenza approfondita delle car48

atteristiche del pneumatico, ma anche buone capacità di gestirlo. Dal momento che il pneumatico come materiale ha una solidità propria,sussiste il difficile compito di ridurre al minimo questa caratteristica inerente alla resistenza, in modo che diversi componenti possano essere fusi insieme nell’opera d’arte. Ho Ji Yong utilizza diversi tipi di pneumatici a seconda della forma, parte e muscolo che si vuole esprimere. Per esempio per il volto è usata una gomma più morbida e sottile (bicicletta da corsa), per le linee del naso, il mento e zigomi, viene invece usata ruvida gomma da mountain-bike. Il mento si realizza con


pneumatici di moto. Un pneumatico automobilistico più grande è utilizzata per il collo, e gomme da mountain-bike o pneumatici del trattore sono usati per enfatizzare le parti del corpo. Per esprimere la tensione del muscolo, vengono adoperati anche pneumatici fuori uso. La texture della pelle o della pelliccia è delicatamente lavorata incidendo superfici di pneumatico con oggetti incandescenti. Il risultato comunica una complessiva impressione di armonia ed equilibrio. Nonostante il fatto che gli animali di Ji Yong Ho siano esseri fantastici, egli continua a cercare metodi di lavoro innovativi per creare una maggiore vivacità nelle loro forme: l’artista afferma di aver iniziato a realizzare saldature di ferro per rendere il telaio più resistente; mentre questo metodo è stato utile per conferire all’opera resistenza e durevolezza, il telaio in ferro è stato difficile per la fase di modellazione della forma. Poichè il pneumatico è un prodotto dell’industrializzazione, è possibile trovare una connessione tra le opere di Ji Yong Ho e quelle del Dada, da un certo punto di vista: come il Dada, così l’artista

orientale ha rifiutato i tradizionali punti di vista artistici e aspira a creare un nuovo modo di percepire l’oggetto. In questo senso, Ji ha cominciato a concentrarsi su materiali che in passato erano considerati come irrilevanti per l’arte, e quindi ha aperto una nuova possibilità di oggetti d’arte. Tuttavia, mentre il Dada implicava l’uso di oggetti fortemente antirazionalmente, i pneumatici di Ji Yong Ho come oggetti non cercano di negare la società attuale o l’arte, né l’artista cerca di suggerire una soluzione. Invece, si cerca di tornare alla tradizione della scultura utilizzando un materiale originale. E’ uno sforzo sia concepire il pneumatico come un nuovo tipo di materiale dell’arte in epoca moderna che incorporare questo nuovo materiale nel contesto della scultura tradizionale. Alcuni potrebbero obiettare che l’uso di pneumatici come materiale renda le opere lontane dal seguire l’eredità della scultura tradizionale. Ma è necessario riconoscere che l’utilizzo innovativo di questo materiale ha ampliato il dominio della scultura nel suo complesso

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Style 52 Marmo dal design inglese.

54 Belstaff, la stoffa degli eroi.

58 Dr. Marteens 50th birthday.


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Marmo UNO.

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’azienda italiana Marsotto Edizioni si concentra sulla progettazione e rivalutando marmo all’interno di questo processo. Nel 2011, i proprietari, Olfi e Mario Marsotto vistando che non c’erano altre aziende sul mercato che offrevano piccoli oggetti di marmo hanno pensato che ci fosse una nicchia per creare dei mobili in edizione limitata dalla pietra naturale. Con questo, volevano anche preservare l’esperienza e le tecniche manuali antiche degli artigiani del marmo. Hanno collaborato con alcuni dei più brillanti designer internazionali che hanno partecipato a questo progetto con entusiasmo, con conseguente una collezione di prodotti senza tempo. In occasione della Settimana del Design Pubblico a Milano 2011, Marsotto e il suo direttore artistico James Irvine hanno selezionato dieci designer internazionali a lavorare su nuovi pezzi per l’azienda. Essi comprendono: Alberto Meda, Claesson Koivisto Rune, Joel Berg e Ross Lovegrove - che lavoravano con Marsotto Edizioni per la prima volta - insieme a Konstantin Grcic, James Irvine, Jasper Morrison, Maddalena Casadei,Naoto Fukasawa e Thomas Sandell. Come l’azienda continua da lavorare sulla progettazione di grandi dimen52


La Bigsioni, Sid’s l’attenzione di quest’anno è stato Vincatiil più piccolo articoli al fine di diversificare la collezione. I progettisti sono stati spinti ad utilizzare marmo in modi inaspettati, creazione di oggetti scultorei che sono ancora funzionali. Rimanendo fedele alla filosofia di creare prodotti che sono fatti interamente in marmo, i pezzi sono realizzati a mano con la maestria di artigiani. Marsotto Edizioni crea i suoi prodotti utilizzando esclusivamente il marmo bianco carrara

“Connoisseur” da “Conseur” James Irvine da James marsotto Irvine2011 marsotto edizioni edizioni 2011

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Qual’è il punto in commune fra Johnny Depp, James Dean, Marlon Brando, Elvis Presley, George Clooney, Will Smith, Harrison Ford, Steve Mc Queen, Tom Cruise, Leonardo di Caprio, Thomas Edouard Lawrence, Ernesto Che Guevara, Sammy Miller e Cate Blanchett ?

Belstaff

La stoffa degli eroi

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elstaff. La storia di come una venerabile marca inglese di giacche da motociclista minacciata dal fallimento si è trasformata in un fenomeno di moda, passando dai podi delle gare a quelli della Fashion Week milanese, dal dorso di biker anonimi a quello di Georges Clooney. La giacca Belstaff, creata nel 1924 da Harry Grosberg a Victoria PlaceLongton,Stoke on Trent nel centro dell’Inghilterra, nel meraviglioso Staffordshire, realizzata in un tessuto impermeabile Di e resistente è presto stata Caprio adottata dal mondo del indossando cinema, dai motol’Howard Blouson ciclisti di tutto il

mondo, dai campioni e anche dal Che, che ne ha fatto la sua uniforme. La Belstaff è il vestito di coloro che amano la velocità, le sensazioni forti. Nel 1924 a Londra, Belstaff diventa la prima compagnia al mondo ad utilizzare un tessuto completamente impermeabile ma che traspira, l’ormai famoso “Wax Cotton»: un finissimo cotone egiziano trattato con grassi naturali che lo rendono impermeabile pur non alterando minimamente le ottime doti di traspirazione del cotone. Con questo tessuto Belstaff si specializza nel realizzare capi tecnici per la protezione dal vento, dalle intem perie e dall’impatto. Quindi capi per aviatori,per motociclisti, per militari e 55


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per tutti coloro che vivono frequentemente esposti alle intemperie. Nel 1943 nasce la famosa “Black Prince Motorcycle Jacket”,la giacca impermeabile da moto più venduta di ogni tempo. Prodotta nella fabbrica di Silverdale, appositamente realizzata, in oltre 40.000 capi annui per circa 40 anni! Nel 1951, quando Che Guevara si prepara da percorrere l’America Latina su una Triumph Norton 500, porta la sua Tralmaster, giacca che fornisce Belstaff all’ armata inglese, la stessa che Phil Read utilizzava sempre nei gran premi in caso di pioggia. Tuttavia, Belstaff rischiò di sparire con la crescente crisi dell’industria tessile che toccò l’Inglitherra. Malgrado questi periodi di crisi attraversati dalla marca, Belstaff è sopravissutaWW grazie al cinema. La marca Belstaff è stata vista per la prima volta indossata da Steve McQueen in The Great Escape. La rinascita della fenice (l’emblema scelto dal brand) è lanciata, proprio dalla

più grande fabbrica di miti di tutti i tempi : Hollywood. Figlio di un produttore, Franco Malenotti ridà l’antico splendore alla leggenda Belstaff vestendo una nuova generazione di eroi sullo schermo. In quindici anni, va a collabora a 70 film di azione, d’avventura, di cui 10 per il solo anno 2010. Ad esempio, la giacca di Indiana Jones nell’ultimo film della saga. Brad Will Smith in I’m a legend Pitt indossando indossa il cappotto Trial Master Legend da Bella “S-ICON” in ‘Inglorious staff, così come Tom Bastards’. Cruise in Mission 56


: Impossible e Tom Hanks nel Da Vinci Code, o ancora Kevin Spacey in Superman Returns. InThe Curious Case of Benjamin Button, la marca propone una collezione di giacche indossate da Brad Pitt e Cate Blanchett : La Belstaff Panther, la Royal Air Force e la Shearling che possono ormai essere ordinate sul sito della marca o nei suoi negozi, in edizione limitata. I prezzi variarono fra 1000 e 1700 euro a seconda del modello. Manuele Malenotti diceva della sua marca «I nostri prodotti danno prova di una qualità incredibile. Diventano

più belli ogni Tom Cruise, Steve anno, sono eterMcQueen, Will ni.» Oltre al vestito e Smith e Brad Pitt indossando al suo aspetto di moda, le mitiche compriamo anche un sogno, perchè Belstaff parla di Belstaff Storia facendo riferimento alle icone del passato, come Lawrence d’Arabie o Steve McQueen

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Dr. Martens 50th anniversary.

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iù di ogni altra cosa nella testa resta il suono. Quel sordo e attutito contatto con il terreno. Che annunciava la presenza del simbolo, trasversale, di tutte le sottoculture nate in riva al Tamigi e diffuse nel resto del mondo. Tanti auguri Dr. Martens. Quei cinquant’anni tra le pieghe del cuoio e le suole di gomma si vedono poco. Lo stile è rimasto, nonostante gli anni. Quello che è cambiato, però, è quell’alone di antagonismo e ribellione che ha segnato quegli anfibi per anni. Dalla working class di ieri al glamour di Perez Hilton di oggi il salto è enorme. Dal caratteristico rosso ciliegia, alle mille tonalità, comprese quelle a fiorellini, lo stacco è da brivido. Perché quel marchio, nato dalla R. Giggs di Wollaston e reso immortale dal modello di suola “ad aria” brevettata da un medico tedesco, era nato per soldati, prima, e lavoratori, dopo. Le indossavano operai e postini. Persino i poliziotti, costretti ad annerire le cuciture gialle che le caratterizzavano. Ma il vero boom venne con l’esplosione delle sottoculture. Skinheads, anzitutto. Ma anche mods, punks e “boot boys”, ovvero i ribelli tutti pub e

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stadio. La spinta decisiva alla loro diffusione si deve agli Who di Pete Townshend. E’ lui, frontman della band di culto dei modernisti in parka verde e lambretta, a farne un simbolo. I modelli si moltiplicano. Si passa dai tre bottoni ai ben più impegnativi dieci bottoni. Il mito cresce con l’affacciarsi sulla scena degli skins. Nati dalla costola più “dura” dei mods, le teste rasate vedono in quegli anfibi la summa delle loro caratteristiche: sono resistenti, spartani, con pochi fronzoli, pratici. Comodi al lavoro e utili in caso di rissa. Da quel momento il binomio skins-dr martens diventa indissolubile e prosegue fino ai giorni nostri. Le foto dell’epoca raccontano di

centinaia di teste rasate con gli anfibi in bella mostra. Bretelle, polo Fred Perry, camicie Ben Sherman e Dr. Martens ai piedi. La working class inglese era questo. Simbolo di orgogliosa appartenenza alla classe lavoratrice. Lontana anni luce dalla “borghese tendenza alla psichedelia” e dagli hippy. Facile, adesso, vederlo ai piedi di chiunque. Dall’avvocato in libera uscita, alla velina alla ricerca del guizzo modaiolo. Ma per chi ci tiene alle tradizioni, continuerà a risuonare quel suono, attutito, di suola contro il terreno. Un suono che parlava di lavoro, controcultura e ribellione

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Due scene del film ‘This is England’, nel quale tutti i protagonisti appartengono al movimento Punk e indossano Dr. Martens.




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