Fever Pitch

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EDIZIONI FEVER PITCH TEST 0 PUBBLICAZIONE NON PERIODICA EDITA PER SCOPI LUDICI

Fever Pitch Storia e storie di calcio e cultura britannica A N N O

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N U M E R O

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D I C E M B R E

2 0 0 8

NUMERO ZERO


Fever Pitch

HIGHLIGHTS

FEVER PITCH NUMERO ZERO, ANNO 2008. DA EDIZIONI FEVER PITCH

TONY ’B O BER CO MBER’ BROW N I BAF N, UN BOMFI Prodez ze e an eddoti ber più di p del calc rolifici e lon uno dei bom ge io The Ha inglese, legge vi della storia wtorns nda ass oluta d el

PUBBLICAZIONE (NON ) PERIODICA A CARATTERE LUDICO E DIVULGATIVO HANNO COLLABORATO A REALIZZARE QUESTO NUMERO: CHRISTIAN CESARINI, LUCA FERRATO, LUCA MANES, GIACOMO MALLANO, GIANLUCA OTTONE, MAX TROIANI. *

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IN QUESTO NUMERO:

ri noRNER IR CO i conoscito ed A L C SIN ri e nd LORD dei più gra nnico, sto a o it . Da un el calcio br na notte.. u d e i n stra mille oti da d d e n a

EDITORIALE— FEVER PITCH? LA TRADIZIONE DEL MATCH PROGRAMME QUEL PAZZO DI ROBIN FRIDAY TONY BROWN, UN BOMBER CON I BAFFI

VENT I Vent UOMINI i legg D’OR e O scelt e e ra nde della c st PITCH cont ate p oria dei W er vo i da F olves, EVER

E INFINE ANCHE LE MAGLIE DIVENTARONO BUSINESS IL GIORNO IN CUI BEST DIVENNE ‘THE’ BEST ARSENAL 1989, TUTTO IN UN MINUTO VENTI UOMINI D’ORO BULL E I TRE LEONI FEVER BOOK—GLI SS WANDERERS E LA FA CUP

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FEVER MUSIC—HEY JUDE FEVER FANS FEVER MARKET LORD SINCLAIR CORNER ACCADDE IN ENGLAND—1977 QUEEN’S PARK, 141 ANNI DI STORIA… CALCIO & CALCI

QUAN DO BE ST DIV L’icon ENNE a per ’THE B ec se, rac ES conta cellenza de l calcio T’ to nel scena g ;d in io guale. opo, niente rno in cui e glentrò in .. sarebb e stato u-

FEVER PITCH 2009 FEVER PITCH PREVIEW

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EDITORIALE Subito una precisazione: il punto interrogativo in fondo al titolo di questo editoriale non è un refuso. Racchiude invece l’essenza di quanto proveremo a raccontare in queste poche righe, sintetizzabile appunto in tre domande: cos’è FEVER PITCH? Perché l’abbiamo voluto realizzare? E soprattutto, ci sarà per davvero un FEVER PITCH nei prossimi mesi? Ma andiamo con ordine. Rispondendo al primo quesito si potrebbe dire che FEVER PITCH è la realizzazione ‘su carta’ di un’idea e di una ambizione covate da tanto tempo, ovvero creare da noi la pubblicazione che avremmo sempre voluto trovare in edicola...e non abbiamo trovato mai. Questo per dire che nessuno della squadra è un professionista in senso stretto (sebbene tutti abbiamo esperienze editoriali nel campo), ci accomuna però una infinita passione per il mondo del pallone d’Oltremanica (in senso latissimo) e la irresistibile tentazione di realizzare (o almeno provarci) un comune sogno di lunga data. FEVER PITCH nasce quindi per dare voce ad una passione, mettendo al centro il calcio britannico e ciò che da oltre 150 anni esprime in termini di cultura e società. Raccontando questo universo dalla nostra ottica di appassionati, forse un po’ nostalgici e un po’ ingenui, ma intensamente attratti dalla sua unicità senza pari. Tanto per esemplificare, potremmo dire che noi siamo quelli che i replay di FA Cup devono essere illimitati, le maglie sono meglio senza sponsor, le terraces sono molto più di un seggiolino su cui mangiare popcorn mentre guardiamo uno spettacolo qualunque. In questa ‘cornice’ si inseriscono le storie, i racconti, i personaggi che animano queste pagine, scelti semplicemente perché avevamo voglia di scrivere (e leggere) pro-

prio di loro, senza limiti di spazio, di argomento, di ‘taglio’. Ovviamente chi si aspetta la perfezione tecnica, grafica o stilistica è sintonizzato sulle frequenze sbagliate, ma per la verità la perfezione non è nemmeno un obiettivo di FEVER PITCH. Dare voce e spazio ad una passione, questo è l’obiettivo vero di questa iniziativa. Anche la scelta del titolo nasce da questa ispirazione: chi ha avuto il piacere di leggere l’omonimo romanzo di Nick Hornby si porta dentro questa idea di un amore per il calcio congenito, pressoché inguaribile, a volte disperato, quasi sempre irrazionale; un amore che Oltremanica diventa anche comunità, tradizione, cultura...FEVER PITCH, appunto. Secondo quesito: perché ci siamo dannati l’anima per mettere insieme questo ‘esperimento’? In parte la risposta è già emersa: da anni andiamo in edicola con la recondita speranza di trovare un giorno una nuova rivista, magico incrocio fra il Charles Buchan, Match, Four Four Two, Shoot, Backpass...che racconti di calcio britannico, ma tutta in italiano e con quell’ispirazione di cui sopra. E invece niente, siamo cresciuti (qualcuno direbbe invecchiati), sono cambiate tante cose, è arrivato internet, ma la ‘nostra’ rivista non è arrivata. E così un bel giorno un gruppo di ‘impazienti’ ha deciso di passare dall’attesa all’azione, si è messo in testa di ’fare da soli’ e ha materializzato questo ‘prototipo’, in parole e immagini l’idea che ci portiamo dentro da tanto tempo. Infine il terzo (e di certo più inquietante) quesito: ci sarà davvero un FEVER PITCH nei prossimi mesi? Messa in termini meno criptici, la questione è la seguente: appurato che il team di FEVER PITCH si è messo in testa di dare vita a questa iniziativa, e appurato che passare dalla teoria alla pratica vuol dire investire personalmente sul progetto (tanto è vero che partiamo senza mezza pagina di pubblicità), il punto è capire quanti hanno davvero voglia di leggere le nostre storie. In fondo, per far camminare

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un’iniziativa come questa bisogna che ci siano due componenti: chi scrive (e noi ci siamo) e chi legge (e questo vogliamo capirlo). Di qui l’idea di realizzare questo NUMERO ZERO, un vero e proprio prototipo, in tutto e per tutto (a parte le sezioni riservate ai lettori) completo e fedele agli ipotetici (e auspicati) numeri uno, due e così via. Non una DEMO stile videogiochi, dunque, ma una pubblicazione completa, che presenti nei fatti, nei contenuti e nella grafica la nostra proposta editoriale. Un prototipo che metteremo a disposizione di tutti GRATUITAMENTE, con la speranza di raggiungere più amici e appassionati possibile. Che cosa ci aspettiamo? Di misurare concretamente l’interesse per l’iniziativa, di verificare chi si ritrova nell’idea di FEVER PITCH e ha voglia che vada avanti con idee, proposte, critiche e soprattutto abbonamenti alla prima annata, quella 2009. E’ il passaggio fondamentale per decidere se e come andare avanti; parlando e confrontandoci sull’idea in molti ci hanno dato dei visionari, non senza ragione. Noi però ci abbiamo voluto provare, e questo NUMERO ZERO testimonia dell’impegno, della passione e della serietà con cui ci siamo messi all’opera. FEVER PITCH adesso c’è, è nato, ed è già un motivo di soddisfazione. Per iniziare a camminare nell’anno nuovo, però, ha bisogno di un pubblico, di una comunità che abbia lo stesso nostro desiderio di leggerlo, migliorarlo, farlo crescere. Non vogliamo con ciò fare pubblicità, visto che non vendiamo un ‘prodotto’; noi mettiamo a disposizione un’idea e la disponibilità a lavorarci (non poco) per tenerla viva. Se questa idea piace anche a voi, nelle ultime pagine ci sono tutte le indicazioni sull’annata 2009 e su come contattarci per saperne di più. Intanto buona lettura, e a presto su queste colonne!!! IL TEAM DI FEVER PITCH


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ducibili alle prime sfide di association football risalgono ovviamente agli anni 70/80 dell'800 e fino ai primi anni del ‘900 erano costituiti da un solo foglio o due su cui compariva L'official matchday programme fa parte l'intestazione del club di casa, le fordella tradizione del football inglese. Ogni mazioni con i colori che avrebbero partita, anche amichevole, è corredata dal usato e il loro valore è attualmente " rito " del match programme, che è parte incalcolabile. Recentemente è stato integrante della maniera passionale di venduto per la "modica" cifra di vivere la partita per un anglosassone. IL 10.000 £ un match programme datamatch programme è un'usanza che esiste to 1889 riguardante un match dispuda sempre nel mondo dello sport britannitato ad Anfield tra Everton (che nei co e non solo, visto che anche se si va a primi anni della sua storia giocava in teatro c'è il programme della serata, se si quello che è poi divenuta la casa dei va a una mostra floreale c'è il programme rivali del Liverpool) e il Newton Heath dell'evento etc. Nasce con lo scopo di esse(l'antenato del Manchester United). re semplicemente un utile strumento per Stesso discorso per un programma di lo spettatore che poteva così conoscere chi una partita amichevole datata 5 apriscendeva in campo sia per la propria squale 1890, disputata anch'essa ad Andra che per gli ospiti, dare field tra Everton e Glainformazioni su attività del sgow Celtic e venduto per Chelsea-Bruges, club e futuri impegni oltre che 2.000£. Man mano che si ospitare pubblicità come in- Coppa delle Coppe procedeva negli anni il protroito. I primi esemplari ricon- 1970-71 gramme ha iniziato ad aumentare le pagine, inserire profili del club ospite, articoli del presidente e/o del manager, reports sull'ultima partita, le copertine iniziavano ad impreziosirsi con foto o disegni raffiguranti panoramiche dello stadio di casa o lo stemma dei clubs che scendevano in campo. La maggior cura e l'uso del colore per le copertine furono riservati fino agli anni 40 quasi esclusivamente per le finali di Fa Cup. Dagli anni 50 in poi compaiono le prime foto in bianco e nero all'interno, man mano che si andrà avanti aumenteranno le pagine, le interviste, i profili degli ospiti vengono accompagnati dalle loro foto, si vedono le immagini della partita precedente giocata fuori casa. La diffusione del programme non venne mai meno anche perchè in UK non esistevano nè esistono quotidiani solo sportivi e quindi il prog era l'unica fonte di informazione sul club. Dagli anni

FEVER PROGS

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FOTO: PROGRAMMI CHE PASSIONE...

‘90 in poi il programme si è man mano trasformato in una vera e propria rivista patinata, con sempre più colore, pagine, foto, statistiche, articoli di giornalisti, interviste dei giocatori e ...costo. Questo anche perchè con l'avvento di internet, trasmissioni sportive etc il prog come semplice strumento poteva perdere colpi visto che al giorno d'oggi chiunque 5 minuti prima di andare allo stadio può navigare su internet ed avere tutte le news che vuole. Si continua ad acquistare perchè è una tradizione, per aiutare il club, perchè non si vuole interrompere la propria collezione. Ovviamente la passione per la tradizione e il collezionismo di memorabilia fanno si che da sempre esiste un vero e proprio mercato di scambio e compravendita. Quelli che intraprendono questa "mania" tendono ad escludere, per non veder svalutato il valore futuro, programmi riportanti i risultati o i marcatori segnati a penna, pratica usata moltissimo dal tifoso che compra il programma. Alcuni collezionano programmi di uno stesso club, altri quelli delle finali dell'Fa Cup, altri ancori quelli della nazionale inglese o di una particolare annata. Sono comunque una meravigliosa testimonianza di storia del beautiful game.

Di Gianluca Ottone


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Robin Friday, nasce il 27 luglio 1952 ad Acton, un quartiere difficile della zona ovest di Londra. Figlio della working class, Robin si avvicina sin da piccolo al mondo del calcio, ed in un certo senso il suo è un percorso da predestinato essendo la madre figlia di un ex giocatore del Brentford. Dopo aver fallito vari provini per club famosi quali QPR, Chelsea e Crystal Palace abbandona a 16 anni gli studi, si mette a fare il muratore e comincia la sua pazza carriera di calciatore nel Walthamstow Avenue Football Club, club dilettante di Londra fondato nel 1900 ed estinto nel 1988 in seguito ad una fusione con altri club. Passa poi nei "missionari" dell'Hayes, ad ovest di Londra, e quindi più vicino ad Acton, come detto quartiere di nascita di Robin. Con l'Hayes ( club di non-league anch'esso estinto di recente) Friday guadagna 30 sterline a partita. Durante un match con la maglia biancorossa dell'Hayes Friday entra nella storia dei pazzi del calcio lasciando i suoi compagni a giocare con un uomo in meno per ben 10 minuti, tornando poi in campo, ubriaco, per segnare l'unico e decisivo goal della partita. Nei 10 minuti di assenza Robin era infatti nel pub adiacente il Church Road di Hillingdon, lo stadio dell'Hayes. Il 9 e il 12 dicembre 1972 la sua carriera calcistica prende una svolta: nel

nato. L'anno successivo esplode il suo enorme talento: 49 presenze totali distribuite fra campionato e coppa, a fine anno è il capocannoniere della squadra con ben 20 centri, di cui 18 in campionato ( dove il Reading si classifica settimo) con appena due penalty. Nell'annata 75/76 i royals centrano la promozione in terza divisione arrivando terzi dietro il Northampton e il Lincoln City. A trascinarli è Robin che, tra una sbronza e l'altra, segna la bellezza di 22 reti in 46 presenze, di cui 21 in campionato. I suoi goal e le sue giocate gli valgono il titolo di giocatore dell'anno per il Reading. Il celebre gol nel 5-0 al Tranmere del 31 marzo 1976 è ancora impresso nella mente e negli occhi di chi c'era quel giorno, quando Friday realizzò il suo goal più bello: stop di petto appena fuori area con le spalle alla porta e veloce girata al volo senza far toccare terra al pallone che va a morire sotto l’incrocio destro della porta, con la Tilehurst end e l’intero Elm Park a spellarsi le mani. La stagione successiva è avara per Friday, i Royals vanno male e a fine stagione tornano in quarta divisione, lui colleziona 21 presenze e 7 reti e viene ceduto, dopo 135 presenze e 53 reti al Cardiff City per la

QUEL PAZZO DI ROBIN FRIDAY secondo turno di FA Cup il Reading viene sorteggiato con l'Hayes. Il primo match in casa dei Royals termina 0 a 0, il replay, a Londra vede uscire la squadra di Friday sconfitta per 1 a 0. Charlie Hurley, manager del Reading ( all'epoca club di quarta divisione ), si innamora del genio calcistico di Friday e lo porta in biancoblu l'anno successivo versando nelle casse dell'Hayes 750 sterline. Nel febbraio del 1974 debutta contro il Barnsley. I Royals perdono 3 a 2 e lui sigla una delle due reti. Pochi giorni dopo il suo esordio casalingo contro l'Exeter City; nel 4 a 1 finale per il Reading Friday sigla una splendida doppietta. La sua prima stagione è in chiaro scuro, ma Hurley è l'unico a saper gestire i suoi eccessi dentro e soprattutto fuori dal campo, e Friday colleziona 19 presenze e 4 reti in campio-

somma di 30mila sterline. Alcuni tifosi storici del Reading raccontano che in quell'anno Friday era spesso irascibile e che una volta, durante il secondo tempo di un match casalingo contro lo Swindon Town, sotto una pioggia incessante, Robin si avvicinò alla tribuna chiedendo ai propri tifosi quale fosse il risultato della partita in corso. Un'altra volta, in un match contro il Preston NE venne espulso per una manata al difensore Mark Lawrenson. Friday rientrò ma non nel suo spogliatoio bensì in quello del Preston dove defecò nella borsa di Lawrenson. Al Cardiff, all'epoca in Second division, le cose andarono peggio: appena arrivato in Galles venne arrestato alla stazione centrale e la notte prima del suo debut-

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to contro il Fulham andò in un pub a scolarsi una dozzina di bottiglie di birra per poi tornare al suo hotel. Il giorno dopo segnò due goal, a marcarlo c'era un certo Bobby Moore, che seppur calcisticamente in declino, venne surclassato dalla potenza di Robin e poi omaggiato dallo stesso Friday con una irrispettosa strizzata ai testicoli...All'interno dello spogliatoio del Cardiff tutti sapevano dei suoi problemi con l'alcool e la sua attrazione per le belle donne e l'lsd. Di quell'anno in Galles si ricordano le sue impressionanti giocate in campo divise in appena 21 presenze e 6 reti, di cui una irriverente contro il Luton nel quale Friday, capello lungo e basetta folta, venne immortalato nel gesto ( diretto al portiere avversario ) del vaffa a v effettuato


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FOTO sinistra: La copertina del bellissimo libro dedicato alla pazza vita di Friday FOTO sotto: la copertina del libro di Lloyd Carr FOTO in bassao: il crest del Reading, una delle due squadre in cui militò Friday nella sua breve carriera

con l'indice ed il medio della mano destra, foto poi che divenne anche la copertina di un disco (foto a sinistra). Jimmy Andrews, all'epoca team manager dei Bluebirds, ad un giornalista che gli chiedeva come pensasse di gestire l'esuberanza di Robin rispose: " Non so quale è il suo problema, era già cosi quando lo acquistai dal Reading. Temo che Robin sia un caso disperato e irrecuperabile". Il Cardiff gli revocò il contratto, Friday tornò a Londra e iniziò la sua discesa all'inferno in un turbine di alcool, droghe e problemi mentali... Purtroppo, per il ribelle Robin, Andrews non sbagliò: Friday, il più grande calciatore mai visto ( titolo del libro inglese a lui dedicato ), venne trovato morto nel suo appartamento londinese il 22 dicembre del 1990. Arresto cardiaco da overdose disse il medico legale. Robin aveva appena 38 anni… Di Chris Cesarini

per sé quanto di più magico e suggestivo possa offrire il calcio mondiale, e dunque già la scelta narrativa di re-interpretarne liberamente modulo, organizzazione e rituali suona come un clamoroso autogol. Con il progredire del racconto la sensazione di disagio aumenta al punto da far temere che d’un tratto ci si possa trovare di fronte a partite giocate in quindici per squadra o a portieri volanti come nei match di cortile. E’ evidente che Carr non ha voluto scrivere un libro di calcio ma tracciare un ritratto dell’Inghilterra rurale, che però risulta in qualche misura vago nel momento in cui usa un pretesto narrativo come il calcio e decide di rileggerlo senza riguardo alla tradizione ed alla realtà. Anche dal punto di vista strettamente narrativo, peraltro, il racconto lascia un po’ d’amaro in bocca. La galleria di personaggi proposti è potenzialmente interessante e variegata, ma poi i caratteri sono lasciati lì a muoversi caoticamente verso un finale annunciato sin dal titolo, con poco approfondimento psicologico e ancor meno interazione dialogica. In sintesi una lettura deludente, difficilmente classificabile come un libro sul calcio (tipo Fever Pitch, per

FEVER BOOK—RECENSIONE COME GLI SS WANDERERS VINSERO LA COPPA D’INGHILTERRA, di JAMES LLOYD CARR, 178 pagine, FAZI EDITORE , ed. 2008, € 16,00. Il libro racconta l’epopea di una piccola squadra inglese che quasi mitologicamente ascende agli onori della cronaca pallonara (e non solo), fino all’apoteosi di Wembley, dove conquista (non sveliamo nulla dato che il titolo dice già tutto…) addirittura la Coppa d’Inghilterra. L’idea narrativa è stimolante, così come l’ambientazione rurale della vicenda, che ripropone ritmi ed atmosfere quasi perdute, nella società come nel calcio ormai ‘urbanizzato’ al seguito dei flussi finanziari. L’aspettativa dunque era alta, ma in tutta onestà la resa finale è risultata alquanto deludente. Dal punto di vista calcistico il libro è assolutamente sconclusionato, usa la FA Cup come pretesto narrativo ma la storpia ripetutamente fino a renderla un’altra cosa, indecifrabile e priva di fascino. E invece la Coppa è di

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intendersi…) e poco stimolante come romanzo-affresco di un ambiente sociale. Voto: 5. Di Giacomo Mallano


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componenti della band, che si imposero per incidere Hey Jude sul lato A del singolo a discapito di Revolution, scritta e composta da Lennon. Hey Jude fu pubblicato in UK il 28 agosto 1968 e in appena due settimane e mezzo raggiunse la vetta dei singoli della Uk Hits, vendendo poi quasi dieci milioni di copie in tutto il mondo e risultando così il singolo più venduto nella magnifica storia discografica dei Beatles. Il coro finale lungo circa quattro minuti, il celebre "…Na-na-na-na-na-nana-na-na-na-na Hey Jude…" (per il quale fu necessaria un’orchestra di ben trentasei elementi), venne poi riadattato e ripreso dai tifosi delle football terraces inglesi, ed ancora oggi è cantato a squarciagola nelle stands degli stadi di Sua Maestà.

FEVER MUSIC— HEY JUDE Hey Jude dei Beatles è una delle canzoni più famose del quartetto di Liverpool. In particolare è uno dei singoli più lunghi scritti dai Fab Four, per l’esattezza sette minuti e undici secondi. Fu composta da Paul McCartney nel giugno del 1968 mentre in auto si dirigeva a casa di Cynthia Powell e del piccolo Julian, moglie e figlio di John Lennon, il quale non viveva più con loro avendo ormai reso nota la sua relazione con Yoko Ono. Da genio melodico qual’era Paul intonò un motivetto alla guida pensando al senso di abbandono provato dal piccolo Julian, all’epoca di appena cinque anni. La canzone iniziava con “Hey Jules, don’t make it bad, take a sad song and make it better….(Hey Jules, non avertene a male, prendi una canzone triste e rendila migliore…). Il giorno seguente Paul incise l’intero motivo al pianoforte, cambiò Jules in Jude per evitare riferimenti personali e portò il nastro all’amico Lennon, scusandosi per il testo e spiegando come fosse nato sull’onda dell’emozione per il divorzio dello stesso John. A dispetto dei timori di Paul, Lennon però non si offese, si complimentò con l’amico e rispose che non aveva mai sentito un canzone migliore di quella. La registrazione ufficiale di Hey Jude, dopo alcune prove, si tenne in parte nei mitici studi di

Abbey Road (creati a Londra nel 1931 dalla Emi e situati nell’omonima via del quartiere aristocratico di St.John Wood), ed in parte negli avveniristici studi Trident, ritenuti all’epoca gli unici in grado di supportare alcune rifiniture tecniche della canzone. La registrazione fu ricca di aneddoti: il forte litigio verbale tra Mc Cartney e George Harrison dovuto a divergenze sull’arrangiamento, il rifiuto di un’orchestrale a battere le mani e ad unirsi al coro finale e soprattutto le parole volgari (fucking hell!- in italiano traducibile come fottuto inferno!) pronunciate da Lennon a circa metà (terzo minuto circa) della registrazione ufficiale, dovuto pare al forte risentimento dello stesso Lennon verso gli altri tre

Di Chris Cesarini

Foto: La cover del singolo Hey Jude

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FOTO: Tony Brown in azione nel 1972, senza i proverbiali baffi!!!

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Considerando il ventennio in cui ha calcato i campi (e segnato gol), teatro delle gesta (dentro e fuori dal campo) di personaggi memorabili, il profilo sorprendentemente basso di Tony Brown colpisce molto. Specie se misurato su quanto Brown ha dato al calcio inglese degli anni ‘60 e ‘70. Il fatto è che Tony non è mai stato un ‘maverick’ uno alla Macdonald, alla Rodney Marsh, alla George Best; niente sbornie, niente risse, niente donne o sceneggiate che si ricordino. Solo gol, tantissimi gol, nell’arco di una carriera lunghissima interamente dedicata al WBA, una bandiera di quelle vere ammainata solo quando il fisico disse basta, ma mai nei cuori dei fans del The Hawtorns, per i quali resta una icona assoluta. Non solo per i tantissimi club record che ancora detiene, ma proprio per il fatto di essere sempre stato percepito come un vero figlio della Black Country, terra di lavoro e fatica, più che di lustrini e serate stile Swinging London. Se non fosse ingeneroso verso il suo sublime talento calcistico, potremmo definire Brown un operaio del pallone, uno pronto a dare tutto per la causa, immolando anche la proprio incolumità fisica pur di fare il lavoro e farlo bene. Quale migliore proiezione per una tifoseria che fino agli anni ‘80 era fatta quasi esclusivamente di working class che per tutta la settimana si spaccava la schiena in fabbrica o in miniera, ed alle 3 pm del sabato cercava la sua ricompensa emotiva sulle terraces del The Hawtorns? Nel suo bellissimo libro dedicato agli eroi del WBA, Simon Wright scrive che ‘vedere Bomber giocare durante gli anni ‘60 e ‘70 era come vedere all’opera l’Uomo della Black Country , in tutte le sue caratteristiche, buone e meno buone: socievolezza o personalità estroversa non erano sicuramente fra queste. Uno che (come lui) decide di mettere a rischio la sua salute futura pur di non tirarsi mai indietro sarà sempre un eroe da queste parti. Nessuna meraviglia dunque che lo amiamo ancora alla follia’. Ed è un amore che non facciamo fatica a

comprendere: uno che fuori dal campo è ‘uno di noi’ (in un’epoca in cui i calciatori lo erano sempre di meno), in campo segna quasi 300 gol, calca lo stesso terreno di gioco per oltre vent’anni, fino a diventare uno di famiglia, diventerebbe un idolo per ogni appassionato. Brown fu tutto questo, anche se giocò una sola volta in nazionale e una sola volta fu capocannoniere della First Division. Eppure raccontando le sue imprese si matura la netta impressione che la sua statura di calciatore sia di molto superiore a quella di leggenda del The Hawtorns, ma lo renda uno dei grandi attaccanti inglesi di tutti i tempi. Brown era nato a Oldham nel 1945, verosimilmente senza i mitici baffi (i ‘moustaches’ inglesi che li evocano alla perfezione) che lo caratterizzeranno per tutta la carriera, ma con un serio problema di asma. Lo scricciolo non pareva tagliato per spaccare il mondo, ma i medici gli consigliarono di fare più sport possibile, assicurando che sarebbe stata la medicina migliore. Effettivamente a 14 anni l’asma svanì, e a quel punto Brown si era già distinto a livello scolastico per i suoi talenti calcistici. Giocando nelle rappresentative scolastiche di Manchester e Lancashire, Tony aveva attirato le attenzioni di entrambi i club cittadini. I primi a farsi avanti furono i Citizens, ma quando si è tifosi dello United una proposta del genere è difficile da accettare, e infatti Tony disse no. Più sorprendentemente arrivò anche un no (sofferto) alla squadra del cuore. Quando i Red Devils fecero la loro proposta, il ragazzo si rese conto che Old Trafford era troppo zeppo di stelle per trovare spazio, e quindi preferì aspettare la chiamata giusta, che arrivò dal West Bromwich Albion, dopo un provino che entusiasmò lo staff tecnico del club. Iniziò in quel lontano 1961 un matrimonio d’amore che sarebbe durato venti anni e

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avrebbe riscritto la storia dei Baggies. Il colpo di fulmine con il suo nuovo pubblico fu immediato, e passò per tre partite che misero subito in chiaro il talento del ragazzo. La prima fu l’esordio con le riserve del WBA, opposte a quelle del Manchester United. Era la primavera del 1963, Tony non aveva ancora 18 anni e chiamava Bobby Robson (già affermato nazionale inglese e suo compagno ai Baggies) ‘Mr Robson’, con deferente rispetto e distacco. Eppure trovò immediatamente il gol, e dopo quello altri, fino ad una super—prestazione contro il Newcastle (sempre riserve) che lo confermò ormai pronto per la prima squadra. Ed ecco dunque la seconda partitachiave di quegli esordi, contro l’Ipswich alla prima del campionato 1963-64. Titolare per l’infortunio di John Kaye, Brown non si fece tradire dall’emozione, firmando un gran gol di sinistro e contribuendo così al 2-1 finale del WBA. La stampa cominciò a interessarsi del ragazzo, e così quando (un paio di settimane dopo) arrivò il battesimo del fuoco del The Hawtorns, molti occhi erano puntati su di lui. L’occasione era di quelle che contano, derby casalingo contro l’Aston Villa, e Tony non sbagliò il terzo ‘esordio’, forse il più delicato perché davanti ai propri tifosi. Ne uscì una partita memorabile, vittoria 4-3 per i Baggies dopo essere stati sotto di due gol, e ancora gol di Brown, questa volta con un tap-in da distanza ravvicinata. Tre ‘esordi’, tre gol: una leggenda si cominciava a scrivere nelle brume intorno a Birmingham. Per inciso questa vena realizzativa la mise in mostra partendo dal centrocampo (inizialmente in fascia), posizione cui Tony rimase sempre affezionato, come quella che gli consentiva di giocare verso la porta, vederla e puntarla a modo suo.


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Quella di partire da lontano fu peraltro una caratteristica tattica che Bomber si portò avanti per tutta la carriera: non un classico uomo d’area, il suo ‘marchio’ di fabbrica erano gli inserimenti dalla trequarti e soprattutto un tiro esplosivo, in grado di fare molto male anche da fuori area. Un’abilità che ha indotto molti ad accostarlo a Peter Lorimer, all’epoca considerato unanimamente il tiro più forte della First Division. Dopo l’inizio fulminante però, l’ascesa di Brown fu rallentata da una serie di infortuni che lo perseguitarono per un paio di stagioni. Nel 1964-65 riuscì a giocare solo 17 partite, eppure realizzò 9 reti, confermando un feeling tutto particolare con il gol. La definitiva esplosione arrivò finalmente nella stagione successiva, in coincidenza con l’inizio di un ciclo vincente del WBA. Gli auspici furono subito buoni, sin dalla prima di campionato ad Old Trafford. Di fronte ai suoi eroi d’infanzia, al cospetto di una squadra nel pieno della maturazione che la avrebbe portata fino alla Coppa dei Campioni del 1968, Brown impose ancora la sua legge, aprendo le marcature di un 22 pieno di colpi di scena. A ruota arrivò la prima tripletta in carriera, rifilata al Sunderland, poi la doppietta al Walsall in Coppa di Lega (primi gol nella storia del WBA in questa competizione) e altri gol in campionato. La squadra perse però il filo e Tony tornò in panchina, ma ormai il suo tempo era arrivato, e la pausa stavolta fu breve. Spinta anche dai suoi gol, la squadra concluse la First Division con un ottimo 6° posto , ma soprattutto il trionfo in Coppa di Lega. Dopo aver segnato in ognuna delle vittorie contro Walsall, Leeds (un memorabile 4-2 in trasferta), Coventry (6-1 nel replay) e Aston Villa (uno dei suoi bersagli preferiti), Brown firmò la tripletta decisiva nella semifinale di ritorno contro il Peterborough (finì 4-2 per i Baggies, dopo il risicato 2-1 dell’andata). Per stabilire un nuovo record, al ragazzo di Oldham non restava che segnare anche nella doppia finale contro il West Ham. L’impresa non riuscì nella gara di andata (persa per 2-1), ma si concretizzò gloriosamente nel ritorno del The Hawtorns: Brown segnò, il WBA vinse 4-1 e la Coppa finì nella bacheca dei Baggies, che da quel momento ci presero gusto diventando uno dei migliori ‘Cup Teams’ dell’epoca. Bomber ha sempre ricordato quella partita come la migliore prestazione cui abbia mai partecipato, e all’epoca Byron Butler scrisse che ‘L’Albion ha giocato un calcio di un livello che ognuno spera di vedere, ma raramente ci si aspetta, in questi tempi di primo-nonprenderle’. D’altra parte il potenziale offensivo della squadra era davvero notevole: oltre a Bomber Brown (il soprannome gli fu affibbiato proprio in questo periodo), a

comporre una linea di valore assoluto c’erano Jeff Astle (altro monumento del club), Clive Clark e Bobby Hope. Nel 1966-67 fu ancora finale di Coppa di Lega (e ancora una volta dopo aver demolito per 6-1 i rivali dell’Aston Villa), la prima disputata in gara unica a Wembley. Nonostante i favori del pronostico (avversario era il QPR, club di Third Division) e il vantaggio di 2-0 all’intervallo, però, i Baggies andarono clamorosamente in tilt e si fecero rimontare da Rodney Marsh e compagni. Fu anche la stagione dell’esordio assoluto del WBA in Europa, e Brown non si fece pregare per segnare una bella tripletta agli olandesi del Den Haag nel primo turno. Nel 1968 fu ancora Wembley, stavolta in FA Cup e da outsiders; il gol di Astle regalò il trofeo ai Baggies e tutti i titoli a The King, ma Brown aveva fatto appieno la sua parte lungo il percorso. Già nel 3° turno, quando i Baggies avevano rischiato di uscire per mano del Colchester. Un rigore di Bomber evitò il tracollo, e nel replay gli U’s furono superati senza problemi. Stessa storia contro il Southampton al 4° turno: ancora sotto e in sofferenza, Brown trovò un vitale pareggio con un siluro dalla distanza; e ancora il replay sorrise al WBA. Poi fu la volta di Portsmouth e Liverpool, e della tesissima semifinale contro il Birmingham. Vinta ancora con un gol di Brown, vero talismano dei Baggies, decisivo nei momenti decisivi come solo i grandi campioni sanno essere. Al suo attivo (o forse dovremo dire passivo) anche un episodio infausto accaduto ad inizio stagione, nel derby contro i Wolves al Molineux. Con i padroni di casa avanti per 3-2 e pochi minuti al termine, Tony deviò con la mano un cross e spedì la palla in rete. Incredibilmente l’arbitro convalidò il 3-3, scatenando l’ira di giocatori e pubblico: il portiere Parkes fu espulso per proteste, e all’arbitro fu necessaria una scorta per uscire dal terreno di gioco, assediato da tifosi inferociti. Nel frattempo Brown stava progressivamente arretrando la sua posizione in campo, giocando ormai stabilmente da trequartista. Spesso mandato in campo con il numero 4 e una posizione di partenza arretrata, le difese avversarie paradossalmente faticavano di più a contenerlo, anche perché spesso Brown all’area non si avvicinava nemmeno, concludendo dalla distanza con il suo tiro poderoso. E infatti da ‘centrocampista’ non perse affatto il feeling con il gol, ma di certo trovò più ardua la strada verso la definitiva consacrazione a livello di nazionale; arrivò

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qualche presenza con l’Under 23 e con la rappresentativa della Football League, ma la nazionale maggiore rimase un tabù. Intanto le Coppe continuavano ad essere terreno elettivo per il WBA: semifinale di FA Cup e quarti di finale in Coppa delle Coppe nel 1969, e ancora finale di Coppa di Lega nel 1970 (persa contro il Manchester City), il tutto condito da tanti gol di Bomber Brown, come quello a Hillsborough in FA Cup, una voleè ‘impossibile’ da lontanissimo; il suo gol più bello ed uno dei più belli che si siano mai visti su un campo inglese. Brown si affermò a livello assoluto nella stagione 1970-71, quando si laureò capocannoniere della First Division con 28 gol in First Division (con due triplette) e fu il protagonista principale del famoso pomeriggio di Elland Road, quello del fuorigiocofantasma non fischiato dall’arbitro Ray TInkler e dell’invasione di campo del pubblico di casa. Il tutto mentre il WBA cominciava a perdere il filo dei recenti successi e la gloriosa stagione delle Coppe volgeva al termine. Intanto però il titolo di capocannoniere portò in dote a Brown la sospirata convocazione da parte della nazionale inglese, e la prima (e unica) presenza in un match degli Home Internationals contro il Galles. Nelle due stagioni successive Brown divenne sempre più leader di un WBA che stava voltando pagina, con Astle sul viale del tramonto e Don Howe arrivato dall’Arsenal a fare il manager. Nel 1973 i Baggies finirono ultimi e retrocessi, ma Bomber non si scompose, lasciò perdere le sirene che lo tentavano lontano dal The Hawtorns e alla sua maniera, ovvero segnando a ripetizione, si caricò la squadra sulle spalle. Segnò il 150° gol in campionato contro l’Aston Villa, e con la tripletta al Notts County in FA Cup divenne uno dei pochi ad averne realizzate in Football League, nelle due Coppe nazionali e in Europa. Furono tuttavia anni difficili: la gestione di Don Howe si rivelò disastrosa, nei risultati come nel rapporto con la squadra. I ‘senatori’ non accettarono mai i metodi considerati troppo duri e intensi di Howe, e Brown fra questi patì anche a livello di condizione individuale che non fu mai così mediocre in tutta la carriera. Infine il Board del club prese atto che era inutile insistere con Howe, ormai privo di controllo sullo spogliatoio e avversato dal pubblico, che disertava massicciamente il The Hawtorns. Alla notizia dell’esonero Brown letteralmente festeggiò, sentendosi liberato dal peso di una gestione con cui non era mai entrato in sintonia. Per la successione ci fu un ballottaggio fra l’ex centrocampista del Leeds Johnny Giles e la leggenda


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Foto: The Bomber in action, 1972

del WBA Ronnie Allen. La spuntò il primo , che arrivò senza una grande esperienza manageriale ma la determinazione di im-

porsi subito nel nuovo ruolo. Con l’arrivo di Giles le cose migliorarono,

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tornò la voglia di giocare e finalmente nel 1976 la fedeltà di Brown fu premiata con il ritorno in First Division; superfluo


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dirlo, la firma decisiva fu la sua. Ultima giornata di campionato, in programma Oldham-WBA; i Baggies costretti a vincere per conquistare la promozione, seguiti a Boundary Park da un autentico esodo di tifosi. L’invasione bianco blu fu tale che il pullmann della squadra necessitò di una scorta della polizia per fendere il traffico ed arrivare in tempo allo stadio. Brown ha più volte ricordato la tensione suprema di quella vigilia, e la spinta di quella incredibile massa di tifosi arrivati a sostenere la squadra (secondo le cronache del tempo oltre 10.000). E in un momento così, nello stadio della sua città natale, non poteva che essere lui l’uomo del giorno: controllo di destro, girata di sinistro, 1-0 WBA e promozione in First Division, celebrata dalla incontenibile invasione di campo del suo adorante popolo Baggies. Nel processo di beatificazione (sportiva) già in atto da tempo al The Hawtorns, quel gol fu senza ombra di dubbio uno dei tre miracoli calcistici necessari ad illustrare la causa. Il ritorno nella massima serie regalò a Brown una seconda giovinezza e al WBA un altro ciclo memorabile, quello di Ron Atkinson. Forte del talento dei vari Bryan Robson, Derek Statham, Laurie Cunningham e Cyrille Regis, Big Ron mise in piedi una squadra spettacolare, che per alcune stagioni incantò il pubblico dell’intera Inghilterra. In quell’orchestra, Bomber Brown era ancora un ottimo solista, come testimoniano i 19 gol della stagione 1977-78, quella della semifinale di FA Cup persa sul più bello contro l’Ipswich. La storia d’amore iniziata nel 1961 volgeva tuttavia al suo termine naturale; a 34 anni Brown iniziava a sentire il peso dell’età e delle battaglie, eppure prima di uscire di scena regalò ancora lam-

pi di classe assoluta. Come nell’ottobre del 1978 a Elland Road, dove segnò da 35 metri con una legnata incredibile che si insaccò a fil di palo; era il suo gol numero 209 con il WBA, quello che gli consentiva di superare il precedente record di Ronnie Allen. Oppure come negli ottavi della Coppa Uefa contro il Valencia di Kempes, quando segnò su rigore e poi con una splendida mezza rovesciata, qualificando i Baggies ai quarti. O ancora come nel Boxing Day del 1978, quello del celebre 5-3 sul campo del Manchester United, dove realizzò una doppietta. In quel 1978-79 il WBA finì al 3° posto della First Division, dopo aver a lungo accarezzato il sogno di vincere il campionato. Scorrevano tuttavia i titoli di coda, e nel 1980 Brown prese la via del calcio americano, dopo aver passato la stagione fra panchina e tribuna. Tornò in patria dopo un anno, e andò a chiudere definitivamente la carriera (si ritirò nel 1982) con il Torquay United.. Calò così il sipario su una delle storie più appassionanti del calcio moderno; la storia di una bandiera (oltre 800 presenze con la maglia del WBA distribuite in tre decadi diverse) ma anche di un giocatore fortissimo, capace di riscrivere tutti i record della storia di uno dei club più antichi d’Inghilterra. Uno che secondo il suo manager al WBA Alan Ashman ‘non mette la palla dentro, la spara’. Oppure per dirla con Shankly, che così lo definì al momento di includerlo nella sua cinquina di candidati al titolo di Giocatore dell’Anno 1970-71, Brown semplicemente ‘è uno che sa giocare a calcio’. Al The Hawtorns segnò 270 gol (218 solo in campionato), e l’immagine di quei baffi

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che prendono la mira prima di sparare l’ennesimo bolide, tante volte immortalata da Match of the Day, resta fra le cartoline più suggestive degli anni ’60 e ’70, come quella volta ad Hillsborough, nel 1970, quando segnò quel gol impossibile e poi sorrise ai compagni… ovviamente sotto i baffi….

Di Giacomo Mallano QUESTO ARTICOLO RIPRENDE CON CONTENUTI AGGIORNATI E NUOVO MATERIALE FOTOGRAFICO IL CAPITOLO DEDICATO A TONY BROWN IN ‘LONDON RULES 1970 -71’, PUBBLICATO DA BOOGALOO PUBLISHING. FOTO sopa: Brown realizza il 2-0 nella semifinale di FA Cup del 1968 FOTO sotto: il crest del WBA


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Tanto tempo fa, cosi potremmo iniziare questo pezzo come fosse una fiaba, i ragazzini correvano dietro ad un pallone tra l'ora del tè e l'ora di cena in campetti fangosi o nei giardini pubblici o nei playgrounds delle scuole dopo aver posato a terra il loro montgomery o parka o la giacca della divisa della scuola. Chi sceglieva di essere Bobby Moore, chi Dennis Law o Jimmy Greaves. Tutti avevano un idolo ma nessuno si sognava di scendere in campo con addosso la maglia o se volete "replica shirt" del club preferito. Erano i fantastici e vivaci sixties, periodo in cui si videro le più belle e stilose divise da gioco in UK, semplici eppure eleganti, girocollo, con accurati stemmi ricamati. Poi, ad inizio seventies, qualche colpo di ammodernamento assolutamente ancora gradevole come l'uso del traforato Aer Tex della Umbro, le iniziali del club ricamate in corsivo, l'aggiunta di colletti e l'inserto triangolare a chiudere lo scollo a V, look che andava di pari passo con la crescita dei capelli e delle basette dei giocatori. Poi un giorno del 1973, sulla maglia del Leeds apparve un simbolo, un grado da ammiraglio ed infatti sotto questo strano logo c'era proprio la dicitura Admiral. Apparentemente innocuo ma secondo gli esperti questo fu l'inizio del "great kit business". L'anno successivo, 1974, Don Revie divenne il nuovo manager della nazionale ed una delle prime azioni che fece fu di introdurre presso la FA l'Admiral con la quale l'anno precedente aveva deciso la sponsorizzazione tecnica del Leeds essendo Revie allora manager del club del Yorkshire. Il tutto, come dissero le solite malelingue ( e a ragione ) fruttò un bel pò di pounds al buon Revie e permise all'Admiral di estromettere la Umbro da fornitore ufficiale della nazionale, cosa che aveva fatto per 60 anni. Inoltre l'Admiral ottenne il permesso di ammodernare la divisa tutta bianca dei 3 Lions e qui fecero la loro comparsa le famose striscie rossoblu sulle maniche ( biancorosse sui pantaloncini blu ) ed il logo della casa. I tifosi più tradizionalisti e quasi tutta la carta stampata gridarono all'orrore ma il nuovo kit immesso sul mercato e spinto da una potente campagna pubblicitaria ven-

dette eccezionalmente tra il pubblico più giovane. Dopo che la nazionale aveva venduto la propria anima ( come sostennero alcuni giornalisti ) molti clubs cedettero alle lusinghe dell'Admiral sentendo la necessità di adeguarsi ai tempi correnti e soprattutto di vestire come la selezione del paese. Ecco quindi Norwich, Southampton, Manchester United, Coventry, West Ham indossare il grado dell'ammiraglio mentre la Umbro combatteva su altri fronti tenendosi stretti la selezione scozzese, Derby, Everton, Manchester City, Liverpool e Arsenal. Tra la metà dei seventies e l'inizio egli eighties vi fu il picco produttivo e di fama dell'Admiral che proprio ad inizio del nuovo decennio ristilizzò la maglia della nazionale proponendo la famosa striscia rossoblu orizzontale tra petto e spalle; subito altre polemiche ma anche tanta pubblicità e anche favori tanto che in un recente sondaggio tra i tifosi questa resta una delle maglie preferite della storia dei 3 Lions. Casacca indossata all'europeo dell'80 e ai mondiali dell'82. Poco dopo però il colosso Adidas iniziò a mettere il naso in UK e forte delle sue dimensioni e potenzialità cerco di prendersi una fetta di quell'interessante mercato. In breve, club come QPR, Ipswich e Forest vestirono le note tre striscie e dopo poco anche Liverpool e Arsenal entrarono nella scuderia della casa tedesca. A seguire giunsero anche Hummel dalla Danimarca che vestì Spurs, Aston Villa, Swansea, Darlington, Southampton e la nazionale gallese e Le Coq Sportif dalla Francia. A metà eighties la Umbro riuscì a riprendersi la nazionale proponendo nuovamente un design sobrio e semplice ed una proposta economica che l'Admiral non potè contrastare. Per la casa del grado della marina iniziò il declino e la crisi finanziaria degli anni 90. Negli ultimi anni l'Admiral sta cercando di rialzare la testa partendo dalle divisioni minori mentre la Umbro tiene duro con la nazionale ed alcuni club di grande potenzialità ma questa è una storia recente che anche i ragazzini possono giudicare con i propri occhi

e notare come ormai il mercato se lo contendano un paio di grandi nomi non britannici o poco più che per qualsiasi squadra propongono lo stesso modello cambiando solo i colori; per noi un pò più "maturi" invece resteranno per sempre negli occhi e nel cuore le meravigliose divise e tute degli anni d'oro che ci videro scoprire il football d'oltremanica che avevano solo due simboli sulla parte destra del petto ovvero il diamante stilizzato della Umbro e il grado dell'Admiral. Di Gianluca Ottone

...E INFINE ANCHE LE MAGLIE DIVENTARONO BUSINESS... 13


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smo durante gli 80s e fu l'ideatore dei "socks tags" ovvero quelle stilosissime "etichette" in stoffa con su riportato il numero di maglia del giocatore che il Leeds di Revie, il "dirty Leeds", portava legati al risvolto dei calzettoni. Durante le sue innumerevoli collaborazioni con le maggiori riviste calcistiche del passato, Trevillion ha immortalato con i meravigliosi tratti delle sue matite tutti i più grandi campioni da Pelè a Best al nostro indimenticato capitano e gentleman Bobby Moore. Ma tutti i giocatori, si diceva, sognavano di essere ritratti da Trevillion visto che, si diceva nei 70s, un giocatore non era arrivato se non fosse stato ritratto da lui!!! Ma probabilmente è attualmente ricordato e consociuto da tutti per la sua più lunga fatica ovvero le stupende strips di "You are the ref". Chiunque abbia avuto un po di dimestichezza con gli "Shoot" o con i supplementi domenicali di vari quotidiani dei 70s e 80s avrà sicuramente provato a rispondere alle domande collegate ai suoi disegni in cui bisognava dimostrare di conoscere il regolamento. Erano disegni fantastici, dove i giocatori che venivano illustrati assomigliavano terribilmente ai campioni del momento, gli sfondi erano accuratissime riproduzioni di stands e terraces con tanto di pubblico. Attualmente "you are the ref" esce ancora nell'edizione domenicale dell'Observer ed è giunto al suo 50esimo anno di vita…

LORD SINCLAIR CORNER ITV Penalty Competition La ITV penalty competition era una manifestazione piuttosto diffusa nei mitici Seventies. La televisione privata ITV (Independent Television), che insieme alle altre TV alternative alla BBC di quegli anni come Granada, Carlton, Thames furono protagoniste della realizzazione di tante serie tv leggendarie, organizzava questa particolare competizione. Previa una selezione a livello regionale (o meglio, di contea) si dava la possibilità a giovanissimi calciatori di sfidare portieri professionisti in una emozionante sfida ai rigori. I vincitori venivano quindi ospitati a Wembley e prima delle finali di League Cup o FA Cup sfidavano il migliore portiere del momento (che di solito era il portiere della nazionale, salvo che non fosse impegnato nella finale stessa). Colui che realizzava più reti era dichiarato vincitore assoluto e riceveva premi che forse ora farebbero sorridere come palloni o scarpe da calcio oltre all'onore e alla gioia di assistere alla finale in tribuna e, mica da poco, l'onore di avere magari "infilato" Banks o Shilton, insomma, roba da raccontare per tutta la vita. La cosa particolare era che ovviamente chi partecipava alle selezioni in zone a forte densità di grandi clubs "rischiava" di trovarsi di fronte keepers come Jennings, Wilson, Clemence mentre chi ad esempio partiva da zone dove non c'erano top clubs aveva di fronte portieri di 3a o 4a divisione (prendiamo ad esempio chi partiva dal Cheshire o dalla Cumbria). La cosa singolare è che dei vari vincitori che si susseguirono negli anni, non risulta che nessuno di quei ragazzini calciatori in erba siano mai riusciti a raggiungere livelli di fama nazionale o internazionale. Paul Trevillion, ovvero l’arte nel football No, non è stato un giocatore dei nostri anni preferiti, ma bensì una figura storica per chiunque ami e abbia amato il nostro football, soprattutto dei good ol'days. Oggi 73enne, si tratta del grande artista, disegnatore geniale, autore di un'infinità di lavori e strips legate al footie, dalle illustrazioni sul comic "Tiger" (lettura obbligatoria dei ragazzini dei 50s e 60s) fino alle leggendarie avventure di Roy of the Rovers! Non solo fumettista e grande ritrattista (Churchill lo invitò più volte da lui per l'afternoon tea e per farsi ritrarre) fu anche brillante attore di commedie leggere facendo varie comparsate a fianco del notissimo Tommy Cooper. Inoltre diede vita a campagne contro l'hooligani-

Ken Baily, chi era costui? Lo sapete che era molto tempo che volevo dedicare un pezzo ad una figura indimenticabile del nostro caro football del passato. Io lo scoprii per la prima volta (anche questo...) grazie al Subbuteo. Eh si, perchè tra gli accessori c'era una miniatura, un tifoso vestito come John Bull, la "maschera" simbolo della GB, giacca rossa con le code, un gilet con i colori della Union Flag, cilindro ed una "rattle" in mano. E sulla confezione del "5 a side" in miniatura, il "Subbuteo Football Express" compariva in un angolo il suo ritratto sorridente ed un fumetto applicato sopra la sua testa, o meglio sopra al suo cilindro, riportava una frase dove questo anziano e sorridente signore consigliava questa variante di table soccer in quanto, nuova, veloce, eccezionale! Ecco, qui scoprii per la prima volta che il suo nome era Ken Baily ed era la mascot "ufficiale" della nazionale.Più avanti, quando mi giunse per Natale quella bibbia di immagini e testi che era "La tribù del calcio" scoprii altri dettagli su questo signore che compariva ovun-

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que fossero impegnati i 3 Lions, da Wembley alle più fredde località oltre Cortina, fino in Messico per i mondiali del 70. Nato a Boscombe il sobborgo di Bournemouth che dava il nome alle Cherries fino ai primi 70s quando il club passò appunto dal chiamarsi Bournemouth & Boscombe Athletic a AFC Bournemouth.Nella vita di tutti i giorni era un normalissimo impiegato statale, con un elevato amore verso la propria Patria e verso il football, fu anche consigliere locale del Partito Conservatore. Poi il sabato eccolo trasformarsi in una figura che anticipava di quasi 50 anni le moderne mascots che imperversano in tutti i campi britannici da qualche tempo. Agghindato con i colori del suo local club intratteneva i bambini ed i più grandi all'interno del Dean Court prima e durante il match, poi intorno alla metà dei 60s decise di fare il grande passo.Inizia a presentarsi a tutte le partite casalinghe della nazionale, le prime volte accede alle gradinate di Wembley come un normalissimo tifoso se non fosse per il completo da John Bull, un'immancabile coccarda appuntata sul bavero della giacca rossa, la rattle nella mano destra ed un'insegna dei three Lions nell'altra. Inizia a divenire un personaggio, la TV gli dedica qualche servizio, i giornali ne parlano, i tifosi si fanno fotografare con Mr Baily. La F.A. incomincia a ritenerlo una sorta di portafortuna, non gli negherà mai un biglietto per Wembley e per le trasferte della nazionale, lui non chiederà mai nulla, la sua massima soddisfazione è di essere invitato negli spogliatoi o al party post partita o che Match of the day o altre trasmissioni sportive gli dedichino qualche minuto di notorietà.Se solo fosse vissuto fino ai nostri giorni (Baily è mancato alcuni anni fa) sarebbe rimasto sorpreso di quanto possa rendere al giorno d'oggi lo sfruttamento dell'immagine. Pensate un pò cosa avrebbe potuto chiedere alla Subbuteo per averlo riprodotto a livello di miniatura...Se poi pensiamo che per England Portugal del dicembre 69 la Subbuteo omaggiò tutti coloro che acquistavano il programma, con la sua miniatura (ne furono prodotte quindi 100.000...questo era infatti di norma la tiratura di official programmes per le gare interne della nazionale!!!) potremmo dire che la fama di Baily era alla pari dei giocatori, se non maggiore...Un unico neo offuscò l'immagine di Ken; fu sospettato di reati legati alla pedofilia, cosa che però non ebbe mai seguito nè sfociò in condanne, lui si difese sostenendo che le malelingue lo vedevano sempre circondato da ragazzini, ma lui voleva solo procurare loro divertimento ed intrattenimento. Di Gianluca Ottone


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Foto: Best in azione, Aprile 1968. Straordinario lo sfondo di terraces stracolme fino all’inverosimile...

IL GIORNO IN CUI BEST DIVENNE ‘THE BEST’... 15


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Gli ultimi trenta giorni del 1963, in Inghilterra, furono scossi dalla Beatlemania, che esplose delirante e prepotente per non fermarsi mai più. Il 29 novembre 1963 infatti i “quattro ragazzi che scioccarono il mondo” pubblicarono il singolo “I want to hold your hand”. La canzone, che fu composta al pianoforte da Lennon e McCartney in uno scantinato di Wimpole Street fu un successo di tali proporzioni (quindici milioni di copie vendute!) che i Beatles divennero di lì a breve la band musicale più famosa del pianeta. In quello stesso periodo, a Manchester, un ragazzino di diciassette anni, originario di Belfast, si apprestava ignaro a diventare celebre quanto i Beatles, destinato ad esser eletto il più grande giocatore di football visto sui campi anglosassoni, icona di un’epoca in cui tutto sembrava possibile, in una nazione, l’Inghilterra, che a metà degli anni Sessanta è l’ombelico del mondo, fonte ed ispirazione di nuove tendenze in moltissimi campi, tra i quali la moda, la musica, la tecnologia e ovviamente il football. George Best arrivò alla corte di Matt Busby nell'estate del 1961. Celebre il famoso telegramma che l'esperto Bob Bishop, talent scout del Manchester United in Irlanda del Nord, spedì al manager scozzese definendo Best “a genius”. Due timidi anni di apprendistato all'Old Trafford, poi il padre-padrone dei Red Devils fece esordire il Belfast Boy in prima squadra il 14 settembre 1963, in un match vinto 1 a 0 contro il West Bromwich Albion. Il giovane nordirlandese andò bene, lasciando intravedere alla gente dell'Old Trafford le sue enormi potenzialità tecniche; ma nonostante la buona prestazione il buon Busby, forse nel timore di caricare il ragazzo di troppa pressione psicologica, lo riconsegnò di fatto alla squadra riserve senza concedendogli altre apparizioni in Football League. Geordie, così come era conosciuto familiarmente tra gli amici a Belfast nel suo quartiere di Cregagh, prese la decisione di Busby con relativa filosofia, conscio del fatto che la stagione successiva ci sarebbero state altre opportunità per dimostrare il proprio valore ed entrare così in pianta stabile in prima squadra. L'imprevedibile però era dietro l'angolo e la vita di George, in quei ultimi giorni del 1963 stava cambiando per sempre... Durante il tradizionale tour de force natalizio il Manchester United ricevette due sonore ed inaspettate sconfitte: la prima, il 21 dicembre per 4 a 0, al Goodison Park contro l'Everton, la seconda nel boxing day del 26 dicembre, quando il Burnley si impose clamorosamente per 6 a 1. Appena quarantotto ore dopo la debacle del Turf Moon il calendario mise nuovamente di fronte ai red devils i claret and blue. Matt

Busby, preoccupato della condizione psico-fisica dei suoi giocatori, cercò di dare una scossa positiva all'ambiente e decise, a sorpresa, di inserire tra i titolari due ragazzini senza esperienza: Willie Anderson, 16 anni, all'esordio assoluto e George Best, 17, alla seconda apparizione. George apprese della pesante sconfitta dello United contro il Burnley nella sua casa di Belfast, dove stava passando le feste natalizie con la famiglia. Il 27 dicembre, appena quindici ore prima del match contro il Burnley, al numero 16 di Burren way (casa di Dickie e Anne Best, genitori di George) venne recapitato un telegramma urgente in cui si “richiedeva” l'immediato rientro all'Old Trafford di Geordie. Sulle prime in casa Best ci fu incredulità, poi il padre di George sentenziò che la comunicazione significava che il figlio avrebbe giocato. George invece frenò gli entusiasmi, sostenendo che non voleva lasciare la sua amata famiglia nel bel mezzo delle festività senza peraltro avere la minima certezza di giocare. Si decise così di chiamare il club: George chiese a papà Dickie di telefonare al club trainer Jack Crompton, uno dei fedelissimi assistenti di Busby ed ex glorioso portiere dello United tra il 1944 e il 1956; questi confermò le speranze di veder scendere in campo il ragazzo, aggiungendo anche che dopo la gara George avrebbe potuto tranquillamente far ritorno a casa per festeggiare l'ultimo dell'anno. Sentendo le parole di Crompton il duro Dickie sobbalzò e un po' disorientato sul da farsi rispose: <<Se lei mi dice questo io devo venire a Manchester con il mio ragazzo...Ma...>>.<<Don't worry, Mr.Best...>> lo interruppe il club trainer, <<Rimanga pure con la sua famiglia, ci saranno molte altre gare per vedere suo figlio all'opera>>. Dickie riattaccò la cornetta del telefono e gli vennero in mente in una volta sola tutte le volte che in passato aveva dovuto tranquillizzare l'ansia della moglie mentre si incamminava verso il campetto di calcio vicino casa, ogni volta che il suo ragazzo sembrava sparito nel nulla di Belfast. 28 Dicembre 1963 Manchester - Old Trafford – ore 15:00 Manchester United - Burnley Il 28 dicembre 1963, giorno del match contro il Burnley, il Manchester Evening News analizzava a margine della presentazione della gara che Boy Best era si promettente e talentuoso ma troppo giovane per una gara così delicata, avanzando non troppo velatamente i rischi di Busby nello schierare contemporaneamente due giovanissimi senza esperien-

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za. Stesso approccio al match ebbe News of the World, anche se quest'ultimo, dopo gli scontati interrogativi, si augurava un immediato e luminoso futuro per i due ragazzini. Le due squadre scesero regolarmente in campo dinanzi ad un Old Trafford stracolmo (54mila presenti) e pronto a dare il solito caloroso sostegno alla squadra di casa. Matt Busby schierò in attacco lo scozzese David Herd e il gallese Graham Moore, con a sostegno Bobby Charlton e sulle fasce le “new entry” Best (a destra) e Anderson (a sinistra). Il veterano Paddy Crerand con il solito compito di vigilare in mezzo al campo e Foulkes a guidare la difesa con David Gaskell tra i pali al posto dell'infortunato eroe di Munich 58 Harry Gregg. Il Burnley si presentò con la stessa formazione schierata due giorni prima, con il numero due Elder sulle tracce del giovane Best. Alexander Elder, quasi ventiquattrenne, era all'epoca uno dei più promettenti difensori nel panorama calcistico anglosassone, nord-irlandese proprio come Best e già nel giro della nazionale maggiore, con il quale collezionò in carriera quaranta caps, tre in più dello stesso Best. Curiosamente Elder, originario di Lisburn, era cresciuto calcisticamente nel Glentoran FC, club di famiglia per George, seguito e tifato da bambino grazie soprattutto alla passione dell'amatissimo nonno. Il match non ebbe storia sin dalle primissime battute: segnarono per lo United Herd e Moore, entrambi due volte, e poi proprio Belfast Boy, che quel giorno realizzò la sua prima rete in campionato con un destro fulmineo dal limite dell'area, applaudito a scena aperta dall'intero Old Trafford. Finì 5 a 1 per lo United, che vendicò ampiamente la pesante sconfitta del boxing day. Pat Crerand dichiarò poi in seguito ricordando il grande match di Best:<<Elder era un ottimo difensore, così come Angus, ma quel giorno George era velocissimo, imprendibile, sembrava volasse e li annientò completamente>>. Bobby Charlton aggiunse:<<Ricordo che ad un certo punto della gara John Angus fu spostato nella zona di George a dar sostegno difensivo ad Elder, che era in enorme difficoltà su Best. Neanche in due riuscirono a fermarlo...>> Quel giorno George Best divenne George Best, il predestinato. La sua fu una partita praticamente perfetta: attaccò con tutte le sue immense qualità tecniche, in maniera potente, veloce, imprevedibile; usò la testa ma anche il cuore e l'istinto tipico degli eletti dal Dio del pallone; corse concentrato senza mai fermarsi, realizzando un gran goal e


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numerosi cross che sembravano disegnati per quanto erano ben calibrati; non disdegnò neanche i contrasti duri e i rientri difensivi, sovrastando comunque in ogni occasione difensori e centrocampisti avversari. Entusiasmò l'Old Trafford, che quel pomeriggio lo elesse ad unanimità a figlio prediletto. Seduto in panchina, osservando quel ragazzo imprendibile che correva tenendo stretto il polsino della maglia Matt Busby ripensò al tele-

gramma dell'amico Bishop e si convinse di aver veramente trovato un genio. Ben presto tutta la Gran Bretagna si inchinò al talento cristallino di Best rendendolo immortale. Il giorno dopo la gara, così come gli era stato promesso, Geordie riprese il solito treno per Liverpool e poi il solito traghetto diretto a Belfast. La sua famiglia lo accolse a braccia aperte; l'eco della sua grande partita era giunto fino a Bur-

Foto: George Best con la maglia del Fulham, nel 1976

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ren way, quel giorno infatti il Belfast Telegraph raccontava con enfasi la nitida vittoria del Manchester United con sullo sfondo la foto in bianco e nero di un sorridente 17enne locale…

Di Chris Cesarini


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sione che sul piano calcistico trovo peraltro assolutamente giustificata ancora oggi…si arrivava da una stagione straordinaria in tutti i sensi…la mia Inter aveva appena vinto lo ‘scudetto dei record’, un mese prima c’era stato Hillsborough… momenti ugualmente in-dimenticabili, per ragioni opposte, che sembravano trovare la loro composizione nell’ultimo atto che si andava preparando ad Anfield Road…tardi, rispetto al calendario inglese, proprio a causa dello stop decretato per onorare le vittime dell’assurda tragedia di Sheffield e cercare di capire ancora una volta come si possa morire per una partita di calcio…nel frattempo il Liverpool aveva onorato a modo suo la memoria dei suoi tifosi, vincendo la FA Cup a spese dell’Everton e continuando l’incredibile striscia positiva di 23 partite senza sconfitta (20 vittorie e 3 pareggi) a partire da Capodanno…una forma che aveva permesso ai Reds di rimontare ben 14 punti di distacco nel giro di tre mesi e prendersi la testa della classifica.

A volte mi sono fatto (ovviamente da solo…chi vuoi che mi faccia una domanda simile fra amici e parenti?) a bruciapelo questa domanda: quali sono i tre momenti che ti hanno fatto innamorare del calcio inglese? Come per una storia d’amore, ricordare i brividi e le emozioni degli inizi è un tributo alla nostalgia che ogni tanto bisogna pagare…e ogni volta, prima di rispondere, parto per un viaggio nella memoria, fra momenti ‘vissuti’ e altri solo ‘tramandati’ da libri, video, programmi…la ‘classifica’ finale risente degli umori del momento, ma la hit che non manca mai è ‘quel’ minuto di Anfield Road, quando l’Arsenal conquistò il titolo all’ultimo respiro dell’ultima partita di campionato, strap-pandolo dal petto dei Reds che già lo celebravano cullati dalla Kop e dal suo ‘You’ll never walk alone’ da brividi… Me lo ricordo bene quel dolcissimo pomeriggio di tarda primavera, con la scuola ormai agli sgoccioli e le ore divise fra

lunghe maratone di sport in tv e interminabili partite di calcio o tennis… quel 26 maggio 1989, però, non c’erano stati svaghi…il perché lo capivo solo io, ma fra l’incredulità dei miei amici mi chiamai fuori perché ‘c’era la parti-ta’…’ma quale partita?’, chiedevano increduli…era venerdì, quindi niente serie A né coppe europee…alzata di spalle, sorriso di ‘compassione’ e poi via a riprendere il ‘calcio giocato’…più o meno la stessa sospettosa diffidenza con cui i miei mi vedevano armeggiare con l’antenna TV per essere sicuro di sintonizzare in maniera decente TMC…eppure era dal 1952 che un titolo inglese non si assegnava nello scontro diretto all’ultima giornata (allora l’Arsenal ne prese sei (a uno) dallo United, un precedente non proprio inco-raggiante per i Gunners) Ma la ‘relatività’ l’avrei metabolizzata solo anni dopo, in quel momento la loro indifferenza mi sembrava folle almeno quanto a loro la mia tensione…una ten-

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La squadra di George Graham avrebbe dovuto vincere con almeno due gol di scarto, cosa che nelle ultime quattro stagioni era successa ad Anfield solo una volta…peraltro l’Arsenal era in piena crisi, dopo aver dilapidato un vantaggio che in primavera pareva rassicurante e aver fatto solo un A sinistra: Il Program- punto nelle ma di Liverpoolultime due Arsenal, maggio 1989 gare casalinghe contro Derby e Wimbledon…la stampa non attribuiva alcun credito alle speranze dei londinesi, e per molti il Double sarebbe stato quasi un ‘risarcimento’ alla memoria delle vittime di Hills-borough…in giro c’era quasi ‘simpatia’ per il Liverpool, un po’ come nel 1953 tutti tifavano Blackpool nella finale di FA Cup, spingendo Matthews verso quella medaglia che pareva inafferrabile. Alla vigilia provano a pensarla diversamente i Gunners, e O’Leary dichiara: ‘i miracoli accadono. Una cosa è certa, daremo tutto per rendere loro la vita difficile’…già, un miracolo calcistico è proprio quello che ci vorrebbe…eppure i precedenti stagionali sarebbero anche incoraggianti…in Coppa l’Arsenal si è piegato solo al 2° replay, mentre in campionato è finita 1-1…nel frattempo però sono cambiate molte cose, e le due squadre hanno condizione e morale diametralmente opposti… Poi finalmente ci siamo, Caputi e Bulgarelli da Anfield Road (o almeno così credevo ai tempi…) leggono e commentano le formazioni, inquadrano la gara e cercano di ri-


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portare l’atmosfera a dir poco elettrica che rimbalza da Liverpool…ma proprio quando ripenso al contrasto fra l’adre-nalina che colava dal piccolo schermo e l’indifferenza del mio ambiente domestico mi avvilisco un po’…sarebbe stato bello respirare la stessa attesa anche da questa parte del video, commentare le possibilità dei Gunners e le scelte tattiche di Graham, i titoli dei giornali e l’esodo speranzoso dei tanti partiti in mattinata da Islington alla volta di Anfield…sarebbe stato bello insomma vederla con un appassionato, magari un tifoso…tipo Nick Hornby, per esempio, uno che sulla sua ossessione per l’Arsenal ha scritto addirittura un libro, Fever Pitch…un libro meraviglioso, in cui qualifica quella serata come ‘il più grande momento in assoluto’…ne fa un racconto emozionato e coinvolgente… come piacerebbe a me, che mi abbandono alla fantasia e all’improvviso mi immagino seduto di fianco a Nick in un salotto londinese, in un’atmosfera tesa ma disincantata, in concentrata attesa del fischio d’inizio…

Io: ‘insomma non ci credi proprio…però hai comprato una maglia nuova per l’occasione…’ lo martello adocchiando la replica shirt nuova di zecca.

Io: ‘allora Nick, come hai passato la giornata?’ gli chiedo fra l’ironico e il provocatorio.

Io: ‘Quest’anno solare però lo avete iniziato in testa e ci siete rimasti quasi fino a oggi, quindi un po’ ti sarai fatto coinvolgere…’.

Nick: ‘la verità? stamattina sono andato ad Highbury a comprare questa maglia nuova, così tanto per fare qualcosa… capisco che indossarla davanti al televisore non aiuterà molto i ragazzi, ma almeno mi ha fatto sentire meglio… a mezzogiorno, intorno ad Highbury c’erano già decine di pullman e macchine, e tornando a casa ne ho incrociati parecchi assurdamente ottimisti… sono stato male per loro, davvero…erano solo uomini e donne che andavano ad Anfield a perdere al massimo un campionato, ma a me sembravano soldati in partenza per una guerra senza ritorno…’

Nick: ‘Che vuoi che ti dica, dopo tanti anni ho smesso di crederci davvero…Dal 1971 non siamo mai stati davvero in corsa per il titolo, anche se un paio di anni fa restammo in testa per qualche giornata…in questi anni ho visto decine di partite, moltissime di campionato, e quasi tutte senza alcun risvolto di classifica…è chiaro che alla fine ti abitui, e anche se un tifoso dovrebbe sempre covare l’illusione della vittoria, io avevo ormai abdicato ogni speranza di lottare per il titolo…quest’anno, poi…con una squadra così giovane, l’unico innesto di Steve Bould dallo Stoke e i bookmakers che in estate ci pagavano 16-1 per la vittoria finale, non avrei mai pensato di dover tornare a soffrire così per un campionato prima sfiorato e poi regalato per così poco…’

Nick: ‘Un po’? Faccio fatica ad ammetterlo anche a me stesso, ma dentro ho un vulcano in eruzione… anche se non è così dall’inizio…ricordi la prima di campionato, in casa del Wimbledon? Fashanu in gol dopo sette minuti…non proprio l’inizio che ogni tifoso sogna…poi per fortuna il loro portiere finì dentro la porta con un pallone innocuo fra le braccia e ci regalò il pareggio…poi si scatenò Alan Smith e finì 5-1 per noi…alla fine quasi non capivo cosa fosse successo…’

Mi faccio trasportare nel ‘film’ della stagione che si conclude stasera e lo stimolo sui momenti salienti: ‘Rimontaepisodi fortunati-Alan Smith…tre costanti di tutta la stagione’ Nick: ‘Già, hai proprio ragione…Alan è stato straordinario, secondo me il migliore e spesso decisivo…di testa le ha prese tutte, ma ha inventato anche di piede alcuni gol fra il memorabile e il fortunato’. Io, che non voglio perdere l’occasione di poter finalmente parlare con qualcuno che mi capisca: ‘Tipo il pareggio a Nottingham, quando Lukic aveva regalato il pallone dell’1-0 a Clough e Smithie indovinò un lob dal limite dell’area mettendo il piede in una mischia selvaggia…’ Nick: ‘Giusto, vedo che il campionato l’hai seguito…comunque di gol così ne ha fatti tanti, dei 22 totali segnati fino a stasera molti sono stati cruciali…prendi il pareggio di testa in pieno recupero contro il Southampton, dopo essere stati sotto 2-0 a sette minuti dal termine, oppure quello di testa al Villa Park, saltando più in alto del portiere in uscita…in quella partita Smith fu gigantesco, completando l’opera con un’altra torre da cui scaturì il 2-0 finale sul Villa’. Io: ‘E pensare che proprio il Villa nella gara d’andata aveva freddato gli entusiasmi del dopo-Wimbledon…’ Nick: ‘Già, quella sconfitta alla 2° di campionato, in casa, ci fece tornare subito sulla terra…per fortuna i ragazzi risposero subito alla grandissima nel derby con gli Spurs…’

ARSENAL 1989: TUTTO IN UN MINUTO… 19


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Io: ‘Quella fu mitica, una delle migliori partite dell’anno…l’esordio assoluto di Gazza con la maglia degli Spurs, in casa, nel derby…le aspettative erano altissime, poi Winterburn inventò quel gol d’esterno dal limite dell’area e gelò White Hart Lane…’ Nick, rapito dal ricordo estatico di quel giorno: ‘…loro pareggiarono, ma era il nostro giorno…alla fine celebrammo il 3-2 cantando a squarciagola sulle nostre tribune, urlando ancor più forte quanto più le loro facce intorno erano scure…’ Io: ‘La rincorsa vera partì proprio da quel giorno…nonostante la sconfitta per 2-1 contro lo Sheffield Wednesday qualche settimana dopo, fino a febbraio fu un crescendo irresistibile…’ Nick: ‘Infatti fu allora che cominciai timidamente a crederci…vincemmo ad Upton Park, in casa del QPR rimontando da 0-1 a 2-1 nei minuti finali, a Coventry, a Goodison Park con l’Everton…’ Io: ‘Nel frattempo ci fu anche l’andata con il Liverpool, ad Highbury, altra rimonta…’ Nick: ‘Era inizio dicembre, noi inseguivamo il Norwich capolista ed avevamo da affrontare di seguito Liverpool, Norwich e Manchester United…con i Reds fu soffertissimo…ad inizio ripresa Barnes segnò per loro…lo fece dopo uno slalom fantastico, eppure a vederlo da fermo in quei giorni pareva addirittura sovrappeso…per fortuna ci pensò ancora Smith a rimettere le cose a posto, ma nel finale Barnes colpì una traversa clamorosa su punizione e poi Aldridge sbagliò un gol di testa da solo davanti a Lukic…che sospiro di sollievo, se oggi siamo ancora in corsa lo dobbiamo anche a quella partita…’ Io: ‘Però non vi è andato sempre tutto per il verso giusto…dopo l’1-1 con il Liverpool giocaste in casa della capolista Norwich e finì 0-0 dopo che l’arbitro vi fece ripetere un rigore che Marwood aveva segnato al primo tentativo…’ Nick: ‘…e che poi al secondo sbagliò… certo, qualche beffa l’abbiamo incassata anche noi…all’Old Trafford, per esempio, Adams ci portò in vantaggio, sembrava tutto fantastico, poi a una manciata di minuti dal termine sempre lui realizzò un autogol che deve aver fatto ridere tutta l’Inghilterra, noi esclusi…’ Io: ‘A quel punto eravate stati in testa per quattro mesi, ma il Liverpool vi agganciò

proprio quel giorno…’ Nick: ‘Precisamente…conquistammo la vetta a fine anno, dopo il successo al Villa Park, e la celebrammo nel derby di ritorno con gli Spurs…si giocò nel giorno in cui fu scoperto il nuovo orologio nella Clock End…altra giornata da ricordare, con un Merson sontuoso che realizzò l’1 -0 e poi giocò un contropiede fantastico prima di servire a Thomas la palla del raddoppio…in quel momento eravamo inarrestabili…il 18 febbraio avevamo 15 punti in più del Liverpool, anche se con una gara in più…15 punti, capisci?’ Io: ‘Mi ricordo bene, i Reds erano completamente fuori dai giochi, al 6° posto… e nonostante la prima mini-crisi di febbraio, dove vinceste solo 2 partite su 5 (di cui 4 in casa), i bookmakers vi davano quasi alla pari per il titolo, con il Liverpool (nel frattempo risalito a –8) pagato 16 -1’. Nick: ‘E’ lì che abbiamo cominciato a dilapidare tutto…a fine marzo andammo a vincere 3-1 a Southampton…di quel giorno mi ricordo soprattutto lo slalom fantastico di Rocastle per il 3-1 e le urla razziste dei tifosi di casa all’indirizzo dei nostri giocatori di colore…purtroppo fu una ‘sveglia’ breve, perché due settimane dopo i Reds ci affiancarono in testa… e da allora ce la giochiamo testa a testa…’ Una volta rotti gli argini, mentre giungono le prime immagini da Anfield, spostiamo l’attenzione sulle formazioni, in quel momento in sovrimpressione. Io: ‘Graham insiste anche stasera sulla difesa a tre…va bene che ha tenuto in piedi la baracca negli ultimi due mesi, ma non è un po’ troppo difensiva visto che si deve vincere con due gol di scarto?’ Nick: ‘Credo che voglia sfruttare al massimo la nostra arma numero 1, i colpi di testa…con Adams, Bould e O’Leary contemporaneamente in campo e Smith davanti, quelli del Liverpool non la prenderanno mai…almeno spero che il motivo sia questo, e non la voglia di finire ‘con onore’ magari uscendo imbattuti da Anfield…’ La formazione del Liverpool è impressionante: in campo Nicol, Hansen, McMahon, Whelan, Barnes, Aldridge, Rush…in panchina addirittura il lusso di Peter Beardsley…mentre la leggo mi lascio sfuggire un’occhiata di ‘compas-sione’

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verso Nick…ci vorrebbe davvero un miracolo…anche perché l’ambiente è assolutamente ‘aggressivo’…la Kop canta altissimo, sembra un urlo di battaglia che ti fa tremare dentro…Dalglish si guarda intorno come spesso fa, e sorride…sembra sicuro, e d’altra parte come potrebbe non esserlo, con 40.000 scatenati tifosi a sostenerne l’ultimo sforzo? Si parte, la prima palla è dell’Arsenal, in una non indimenticabile divisa giallo-nera da trasferta…il contrasto con il rosso fuoco del Liverpool è quasi presagio di quello che sembra prospettarsi sul campo…la prima vera occasione è però dell’Arsenal, con Bould che a Grobbelaar battuto si vede res-pinto sulla linea il colpo di testa… è però l’unica vera fiammata del primo tempo, i padroni di casa provano qualche tiro da fuori ma Lukic è attento…la tensione è alta, la posta altissima, ma è chiaro che il passare dei minuti giova solo al Liverpool. Nell’intervallo Nick è ancora più sconsolato di prima: ‘Dai Nick, lo ha detto anche Graham che lo 0-0 all’intervallo non sarebbe stato catastrofico…ci vuole un episodio, e tutto si riapre…anche loro sono uomini e sentono la tensione…’ Nick annuisce ma non ci crede…poi si riparte e l’adrenalina può scaricarsi sul campo…al minuto 52 Rocastle finisce a terra nei pressi del vertice sinistro dell’area del Liverpool…si accende quasi una mischia con Whelan che ha commesso il fallo, poi finalmente Winterburn può battere…è un attimo, la difesa si ferma e Smith è fulmineo nell’avventarsi sulla palla e sfiorarla quel tanto che basta a ingannare Grobbelaar…il tocco è così leggero che i Reds protestano con l’arbitro perché il calcio di punizione era di seconda e ritengono non l’abbia toccato nessuno… l’arbitro si consulta con il guardalinee mentre milioni di persone trattengono il fiato davanti alla TV, noi inclusi…poi punta il dito verso la metà campo e convalida…1-0, i fedelissimi giunti da Londra, stretti in un angolo dietro la porta del Liverpool fanno festa e cominciano a sperare. E anche Nick si scioglie un po’, in fondo ora serve solo un gol, e il Liverpool non sembra in grandissima serata…Ablett salva due attacchi dell’Arsenal, ma è al minuto 73 che il destino sembra compiersi… Richardson riesce a toccare verso lo smarcatissimo Michael Thomas in piena area… Thomas si gira, deve superare solo il portiere ma gli tira addosso, e tutto sembra finito…i minuti passano veloci, Nick sembra aver ‘esalato’ l’ultimo respiro di speranza sul tiro di Thomas, e così i giocatori


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in campo…il Liverpool cresce, quasi sollevato dall’occasione clamorosa buttata al vento dai Gunners…a un certo punto compare nell’angolo della TV perfino l’orologio, a rincarare la sofferenza di chi è davanti al video…segna 88.00, proprio mentre Beardsley si invola solo in contropiede…sembra la conclusione perfetta, la palla arriva a Aldridge che però incespica, si incarta e sciupa tutto… nell’azione è rimasto a terra a metà campo Richardson, valoroso centrocampista dell’Arsenal…i secondi scorrono mentre gli si prestano le cure…sono minuti interminabili, tutto sembra sospeso come in un fotogramma…Nick è pietrificato, mormora quasi fra se e sé ‘Buttarlo via così, incredibile…’

re e finalmente piazza il destro alle sue spalle, in fondo alla rete, per l’incredibile 2-0…a quel punto succede di tutto, le capriole ‘elettriche’ di Thomas mentre i compagni lo raggiungono le avremmo viste solo dopo, in quel momento è come essere in un’altra dimensione, senza tempo né gravità…saltiamo tutti, increduli ma come alleggeriti d’improvviso di tutto il peso di nove mesi di passione, fatica, illusione…la partita riprende, ma non c’è più tempo, l’arbitro fischia e lo spicchio di Anfield che ospita i tifosi Gunners esplode senza argini in una felicità irripetibile…dietro la porta di Lukic qualcuno dalla Kop si sente male, viene trasportato fuori a braccia.

Io: ‘Hai ragione, se finisse così sarebbe davvero una beffa…per un gol, credo non sia mai successo…’

Ma vincono anche loro, che dopo qualche istante di sbigottimento per un titolo perso all’ultimo minuto dell’ultima partita intonano il più bel ‘You’ll never walk alone’ mai sentito…il coronamento più toccante ad una giornata irripetibile, mentre le telecamere fissano per sempre la disperazione di Dalglish e dei suoi, Adams che va da Aldridge ad accarezzar-

Nick, mentre i secondi passano e Richardson non accenna a rialzarsi: ‘Non è questione di un gol…anche dopo esserci fatti riprendere ad aprile, dopo la pausa per Hillsborough, abbiamo battuto il Norwich, era di nuovo tutto in mano nostra…poi quelle due maledette partite in casa…’

gli i capelli (avremmo scoperto dopo che era solo una presa in giro per contrappasso a quanto Aldridge aveva fatto con Steve Chettle del Forest dopo il suo autogol nella semifinale di FA Cup…), Graham che chiama i suoi a raccolta, e infine il capitano che alza la Coppa ad Anfield…e Nick? Nick tutto questo non l’ha visto, al fischio finale si è fiondato fuori in strada gridando a piena voce, alla ricerca di una bottiglia di spumante con cui festeggiare…o forse sono io che mi sono svegliato dal mio ‘sogno’, ritrovandomi solo nella mia casa a metabolizzare l’emozione di una serata di sport che nessuna fantasia avrebbe potuto partorire…anche se non ero ad Anfield, infatti, né a Londra a guardare la partita con Nick Hornby, questa partita non la dimenticherò tanto facilmente, anche perché (quasi) nulla di quello che è seguito (calcisticamente) negli anni mi ha regalato brividi così forti. di Giacomo Mallano

Io: ‘Derby e Wimbledon…hai ragione, un solo punto in quelle due gare è stata la fine…soprattutto il 2-2 con il Wimbledon…’ Nick: ‘Come si fa a farsi riprendere due volte, in casa, da una squadra che all’andata avevamo demolito? Winterburn aveva inventato un altro super-gol, Merson ci aveva riportato avanti dopo il pareggio di Cork…e poi, quell’esordiente, McGee, con quel tiro assurdo che non ripeterà mai più…’ conclude quasi disperato mentre Richardson finalmente si rialza. La telecamera si sposta sui protagonisti… Dalglish è tirato ma misurato, Graham continua ad urlare suggerimenti, come se fosse ancora tutto in ballo…Barnes incita i suoi, McMahon urla che manca un minuto, uno solo…l’orologio supera i 90.45, poi scompare…ormai solo sgoccioli, la palla torna verso la porta di Lukic, è proprio un contrasto di Richardson a recuperarla…il portiere allunga a Dixon, che lancia lungo su Alan Smith…per la millesima volta in stagione il bomber dei Gunners vince il contrasto, difende la palla e poi la tocca… un tocco magico, verso il centro, dove arriva Thomas… ancora Nick, che aveva sbagliato l’occasionissima qualche minuto prima…il centrocampista dei Gunners cerca di superare Nicol, tocca male ma la palla incoccia lo stinco del difensore e gli torna davanti…ora Thomas è solo, in un attimo che sembra durare un secolo si invola verso Grobbelaar, aspetta la mossa del portie-

Foto: Alan Smith, bomber dell’Arsenal campione d’Inghilterra 1988-89. Arrivato dal Leicester nel 1987 per 800.000 sterline, a Londra si consacrò realizzando 87 gol in 242 partite di campionato.

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Wolves in testa alla Championship (mentre scriviamo), Wolves di nuovo in Premier? E’ quello che molti romantici sperano, per la storia immensa di questo club. La cui maglia Old Gold ha illuminato le gesta di alcuni grandissimi calciatori, ecco la selezione libera e personale dei nostri preferiti, i 20 grandi in OLD GOLD…

1 – Billy Wright – L’indimenticato capitano degli anni d’oro. Difensore centrale fra i più grandi della storia del calcio inglese, fu il primo calciatore a disputare 100 partite con la maglia della nazionale, della quale fu capitano per ben 90 volte. Ovviamente capitano dei Wolves, ebbe l’onore di guidare la squadra alla conquista della FA Cup del 1949 e dei tre titoli nazionali degli anni ’50. Avrebbe sicuramente meritato di diventare il primo calciatore insignito dell’onorificenza di Cavaliere, ma dovette ‘accontentarsi’ del titolo di Companion of the Order of the British Empire (CBE), del quale andò tuttavia sempre orgoglioso. Votato Calciatore dell’Anno nel 1952, resta questo probabilmente il suo riconoscimento personale più prestigioso. Presenze: 541; Gol:

16 2 - Steve Bull – In tutta la storia dei Wolves, non esiste un giocatore idolatrato come Stephen Gorge Bull, il bomber che il WBA lasciò incredibilmente andare via per una manciata di sterline. Arrivò nel momento più buio del club, in tempo per assistere alla celebre eliminazione dalla FA Cup per mano del Chorley. Ma nulla riuscì ad impedirgli di dare sfogo al suo talento naturale: segnare gol. Per due stagioni consecutive superò un totale stagionale di 50 gol, spingendo i Wolves alla conquista della Division Four, Division Three e dello Sherpa Vans Trophy. Riuscì anche a giocare 13 partite (con 4 gol) con la nazionale inglese, pur militando nelle divisioni inferiori; con l’Inghilterra partecipò anche ai Mondiali di Italia ’90. E’ ovviamente il miglior marcatore di sempre dei Wolves. Presenze: 561; Gol: 306 3 – Peter Broadbent – Quando si dice che la squadra costruita da Stan Cullis negli anni ’50 era solo ‘palla lunga’, basterebbe riguardare qualche partita di Broadbent. Il cui talento calcistico straordinario ispirava dal centrocampo tutta la manovra offensiva dei Wolves…e non

solo, se crediamo a quanto Gorge Best scrive nella sua autobiografia a proposito dei modelli giovanili di calciatore, conosciuti attraverso le prime trasmissioni TV che avevano per protagonista quasi unico proprio i Wolves di Cullis al loro massimo splendore. Acquistato dal Brentford, Broadbent segnò profondamente l’epoca più gloriosa dell’Old Gold, ma nonostante il suo talento (anche realizzativo) conquistò solo 7 presenze nazionali. Presenze: 497; Gol: 145 4 – Stan Cullis – In pochi sono riusciti a diventare grandi tanto da giocatori che da manager. Cullis è sicuramente uno di questi, anche se dovette attendere proprio gli anni in panchina per vincere qualcosa di davvero importante con i suoi amati Wolves. Già capitano della squadra a 19 anni, conquistò i gradi anche in nazionale ad appena 22. Considerato da molti fra i più grandi centrocampisti di tutti i tempi, durante la seconda guerra formò con Cliff Britton e Joe Mercer una delle linee mediane più forti che l’Inghilterra abbia mai schierato (nel 2-3-5 in voga ai tempi). Presenze: 171 5 - Dennis Westcott – Per molti anni l’immagine di Westcott campeggiò sulla

Foto: veduta aerea del vecchio Molineux

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Gatto’ dopo una memorabile prestazione con la maglia dell’Inghilterra, dove aveva contribuito in maniera decisiva alla vittoria per 2-0 sull’Italia. Amante degli interventi acrobatici e spettacolari, il portiere della FA Cup del 1949 e del primo titolo del 1954 era anche un grande interprete delle situazioni di gioco, capace di governare con autorità il reparto difensivo. Giocò ‘solo’ 24 partite con la maglia della nazionale, penalizzato dalla concorrenza con Gil Merrick, estremo difensore del Birmingham. Presenze: 420 7 - Dennis Wilshaw – Altro giocatore proveniente dal Walsall (come Hancocks), si presentò ai tifosi del Molineux segnando una tripletta all’esordio (1949). Dotato di grande tecnica, giocò indifferentemente alle spalle del centravanti o come ala sinistra. Memorabili i 4 gol segnati con la maglia dell’Inghilterra in un 7-2 alla Scozia (1955) e il golvittoria contro il Real Madrid. Fu parte attiva della squadra che vinse il titolo del 1954. Presenze: 219; Gol:112 8 - Bill Slater – Roccioso (ma tutt’altro che rozzo) difensore, ma soprattutto un grande leader, Slater fu capitano della squadra che vinse la FA Cup del 1960. Conquistò anche i tre titoli del 1954, 1958 e 1959, componendo con Billy Wright una coppia quasi insuperabile. Slater detiene il curioso record di essere stato l’ultimo dilettante a disputare una finale di FA Cup, con la maglia del Blackpool nel 1951. A metà degli anni ’50 giocò spesso in nazionale, partecipando anche alla spedizione per i Mondiali del 1958. Presenze: 339; Gol: 25

Foto: Bull in azione in un derby contro il WBA, settembre 1993

copertina del programma dei Wolves in una delle sue pose ‘da bullo’. Attaccante di grande fiuto, stabilì nel 1938-39 un record di 43 gol stagionali (poi battuto da Bull), 11 dei quali in FA Cup (persa in finale contro il Portsmouth). Di quella stagione restano memorabili i 4 gol realizzati nella semifinale contro il Grimsby all’Old Trafford. Penalizzato come tanti suoi coetanei dallo scop-

pio della guerra, Westcott riprese a segnare alla ripresa dell’attività ufficiale, stabilendo nel 1946-47 un record (tuttora imbattuto) di 38 gol in cam-

pionato. Presenze: 144; Gol: 124 6 - Bart Williams – Fu soprannominato ‘Il

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9 – Ron Flowers – Nazionale inglese a soli 21 anni, Flowers fu un prodotto del Wolves Wath Wanderers, il vivaio del club, e a centrocampo giocò un ruolo cruciale nei successi degli anni ’50. Calciatore molto versatile, poteva giocare in qualunque posizione mediana, ma in nazionale si adattò addirittura a ruoli difensivi. Anche per questa sua caratteristica giocò ben 49 partite con la maglia dell’Inghilterra (alcune da capitano), e fu nella selezione che trionfò ai Mondiali del 1966. Nonostante giocasse lontano dalla porta avversaria, realizzò un buon numero di gol, soprattutto su calcio di rigore, di cui era un vero e proprio specialista. Presenze: 512; Gol: 37 10 – Derek Parkin – Difensore di grande classe e personalità, si distinse soprattutto per la continuità di prestazioni sempre ad alto livello. Una costanze che non casualmente gli consentì di stabilire


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l’imbattuto record di presenze con la maglia dei Wolves (607), nonostante una misteriosa malattia che lo fermò per quasi 5 mesi nella stagione 1972-73. Vinse la Coppa di Lega nel 1974 e nel 1980 e fu sempre presente nel vittorioso campionato di Second Division del 1977. Presenze: 607; Gol: 10

204; Gol: 49 Foto: Mike Bailey nel 1971

11 – Mike Bailey – Quando arrivò a Wolverhampton (primi anni ’70), la squadra era scivolata in Second Division, ma Bailey si dimostrò il leader in grado di ispirare il ritorno nella massima divisione e i successi di un ciclo culminato con il trionfo in Coppa di Lega nel 1974. In nazionale giocò solo due partite, non riuscendo mai a far breccia nelle preferenze di Sir Alf Ramsey. Fu un vero e proprio idolo per tifosi e compagni; in lui trovarono un capitano che dava sempre il massimo, dentro e fuori dal campo. Presenze: 432; Gol: 25

18 - John Richards – Soprannominato ‘King John’, Richards era un attaccante di grandissima classe. Segnò quasi 200 gol e quasi tutti nella massima divisione, e i 24 realizzati in FA Cup sono tuttora un record per i Wolves. Con il veterano Derek Dougan formò una coppia di cui ancora si favoleggia al Molineux. Sorprendentemente conquistò una sola presenza in nazionale, dove peraltro Sir Alf Ramsey lo utilizzò fuori posizione. Presenze: 461; Gol: 194

12 - Tom Phillipson – Durante gli anni ’20 Phillipson diventò oggetto di culto fra i tifosi del Molineux. Proveniente dal Newcastle, si mise subito in luce nella stagione 1923-24, contribuendo a suon di gol alla promozione dalla Third Division North. E continuò ad andare a segno anche nelle categorie superiori, realizzando 36 gol nella stagione 1925-26 e trovando la porta in 13 partite consecutive, ancora oggi un record inglese. Presenze: 159; Gol: 111 13 – Jimmy Mullen – Nativo di Newcastle, Mullen fu una grandissima ala nella squadra degli anni ’40 e ’50. Elegante e dotato di grande tecnica, riusciva a lavorare innumerevoli palloni sulla fascia, confezionando perfetti cross per il suo centravanti. Capace anche di inserimenti tempestivi e letali, Mullen riuscì a mantenersi a livelli altissimi per quasi 15 anni, grazie ad un regime di allenamento che ne preservò l’integrità fisica e gli consentì di vincere la FA Cup del 1949 e i tre titoli nel decennio successivo. Presenze: 486; Gol 112 14 – Malcolm Finlayson – Al suo arrivo al Molineux, il portiere scozzese proveniente dal Millwall si ritrovò un’eredità pesantissima, ovvero non far rimpiangere Bert Williams. Finlayson si dimostrò tuttavia assolutamente all’altezza del compito, tanto da vincere i due titoli del 1958 e 1959 e la FA Cup del 1960. Nonostante le sue prestazioni non fu mai chiamato a difendere la porta della Scozia, cosa abbastanza curiosa se si guarda ai non eccezionali portieri scozzesi dell’epoca. Presenze: 203 15 – Johnny Hancocks – Ala piccola ma

17 – Billy Hartill – Successe a Phillipson nelle preferenze dei tifosi del Molineux (oltre che nel ruolo di bomber), grazie alla innata capacità di trovare il bersaglio. I tifosi lo soprannominarono non casualmente ‘Artiglieria’, anche per i suoi trascorsi nella Royal Horse Artillery. Segnò 30 gol nel 1932, quando i Wolves conquistarono la promozione dalla Second Division, ma anche nella massima categoria trovò la porta con regolarità. Per diversi anni i suoi gol furono un record per i Wolves, superato solo dall’avvento di John Richards. Presenze: 234; Gol: 170

19 - Roy Swinbourne – Sebbene non ab-

dotata di un tiro potentissimo, realizzò tantissime reti dalla distanza e molti calci di rigore. Iniziò la carriera a Walsall prima della seconda guerra mondiale, ma riuscì a mantenersi in grandi condizioni fisiche per conquistare la Coppa del 1949 e il titolo del 1954. Non ebbe particolare fortuna a livello di nazionale, chiuso da fenomeni come Stanley Matthews e Tom Finney; conquistò comunque tre presenze. Presenze: 378; Gol: 168 16 – Tom Galley – Nativo di Hednesford, Galley formò con Cullis e Gardner una linea difensiva di grande solidità, su cui I Wolves costruirono I tanti ‘quasisuccessi’ degli anni ’30. La seconda guerra mondiale gli costò i migliori anni della carriera (aveva 22 anni nel 1939), ma Galley riuscì comunque a vestire anche la maglia della nazionale inglese (due presenze con un gol all’esordio contro la Norvegia). Realizzò diverse reti soprattutto dal dischetto, a testimonianza di mezzi tecnici non trascurabili. Presenze:

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bia fatto in tempo a stabilire alcun record realizzativo, Swinbourne va ascritto a pieno titolo fra i grandi bomber della storia dei Wolves; solo un grave infortunio nel 1956 ne stroncò la carriera proprio quando si aveva intrapreso la via della gloria. Fece fatica ad impressionare nei primi tempi al Molineux, ma una volta rotti gli indugi si impose come titolare inamovibile e artefice importante del primo titolo del 1954. L’apice della sua carriera resta probabilmente la notte dell’amichevole contro la Honved, quando una sua doppietta valse la storica vittoria sugli ungheresi. Nella stagione dell’infortunio aveva iniziato alla grande, con 17 gol in 11 partite ed era avviato a vestire finalmente la maglia della nazionale. Presenze: 230; Gol: 114 20 – Bryn Jones – Misura della popolarità di Jones fra i tifosi fu la clamorosa protesta inscenata alla notizia che il Maggiore Franck Buckley, all’epoca manager, aveva deciso di cederlo all’Arsenal per la cifra record di 14,000 sterline. Si organizzarono addirittura manifestazioni di piazza per dissuadere Buckley dall’operazione, che tuttavia andò comunque in porto. Aveva iniziato la carriera con il Southend, che tuttavia lo ‘tagliò’ ritenendolo non all’altezza. Jones emigrò allora in Irlanda e poi in Galles, dove i Wolves lo riportarono ‘a casa’. Jones giocò una parte importante nel secondo posto della stagione 1937-38. Presenze: 177; Gol: 57 Di Giacomo Mallano


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BULL E I TRE LEONI La storia di Steve Bull con la nazionale inglese è davvero singolare, se solo si considera che la prima chiamata, nell’estate del 1989, arrivò quando il bomber giocava con i Wolves in Third Division. Una circostanza quasi irripetibile, che testimonia tuttavia il coraggio di Bobby Robson, all’epoca manager dei Tre Leoni. Un coraggio che ricorda in qualche modo quello di Eriksonn quando portò Walcott ai Mondiali del 2006; e infatti Sir Bobby non si accontentò di regalare a Bull un momento di gloria, ma continuò a coinvolgerlo per tutta la stagione 1989-90, fino alla clamorosa inclusione nella lista dei convocati per i Mondiali italiani del 1990. D’altra parte Steve aveva ripagato sin da subito la fiducia di Robson: gol all’esordio contro la Scozia da sostituto, ottime prestazioni contro Jugoslavia e Danimarca, addirittura doppietta nel l’amichevole pre-Mondiale contro la Cecoslovacchia, giocata a Wembley nella primavera 1990. In quella partita, terminata 4-2 per l’Inghilterra, Bull iniziò da titolare al fianco di Lineker, e sfruttò alla grande la magica serata di Gascoigne, dal quale arrivarono due assist deliziosi trasformati prontamente in gol (di piede il primo, di testa il secondo) e praticamente nel biglietto per l’Italia. Prima di partire Bull fece in tempo a segnare ancora nell’amichevole contro la Tunisia, poi fu il momento delle partite ‘vere’ e Steve dovette accontentarsi di spezzoni nelle tre partite del girone eliminatorio, senza riuscire a lasciare il suo segno sui Mondiali. Dopo i quali, con l’avvento di Graham Taylor al posto di Robson, la sua avventura con la nazionale si esaurì presto, portando il totale del suo score a 13 presenze con 4 gol. Un bottino comunque straordinario per un giocatore che non calcò mai un campo di First Division, pagando sicuramente la lealtà totale alla maglia dei Wolves. Di GM

Foto: Bull ai Mondiali del ‘90, in campo contro l’Olanda

FOTO: OLD GOLD LEGENDS. Sopra: ‘King John’ Richards ritratto nel 1975, durante un West Ham-Wolves finito 1-0 per gli Hammers. Richards vestì anche la maglia della nazionale inglese, sebbene una sola volta. Accadde nel 1973, in un match degli Home Championships contro l’Irlanda del Nord. In basso Derek ‘The Doog’ Dougan, fotografato nel 1972. L’irlandese arrivò dal Leicester nel 1967, e si presentò al Molineux con una spettacolare tripletta all’Hull City, uno dei gol un funambolico controllo di tacco e girata al volo dal limite dell’area. Quando si dice colpo di fulmine...

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La First Division venne vinta dal Liverpool di Bob Paisley, che si aggiudicò il titolo con appena un punto di vantaggio (57) sul Manchester City (56). Reds capaci di trionfare anche in Coppa dei Campioni, nella finale vinta all'Olimpico di Roma sui tedeschi del Borussia Moenchengladbach. Ultimo posto per gli Spurs, capaci di perdere 21 delle 42 gare di campionato. Grandi polemiche durante l'ultima giornata di campionato quando Coventry City e Bristol City, venute a conoscenza dello svantaggio del Sunderland al Goodison Park, accomodarono il gioco sul risultato di 2 a 2 con il pareggio utile alla salvezza di entrambi i club. Al fischio finale Coventry e Bristol rimasero in First Division, il Sunderland retrocesse insieme allo Stoke City e al Tottenham. Marcatori: Andy Gray (Aston Villa) e Malcolm MacDonald (Arsenal), entrambi con 24 reti. In Second Division vennero promossi Wolverhampton Wanderers, Chelsea e il Nottingham Forest di Brian Clough. Scesero in Third Division Carlisle United, Plymouth Argyle e Hereford United, con quest'ultimi che diventarono il primo club assoluto a giungere ultimo in Second Division dopo aver vinto la Third Division l'anno precedente. Promozione in Second Division per Mansfield Town, Brighton & Hove Albion e il Crystal Palace guidato da Terry Venables alla sua prima stagione da manager. Reading, Northampton Town, Grimsby Town e York City scesero in Fourth Division, sostituiti in Third Division da Cambridge United, Exeter City, Colchester United e Bradford City. Il 21 maggio, davanti a centomila fans, si giocò un'emozionante finale di Fa Cup; a trionfare fu il

Manchester United sul Liverpool per 2 a 1, risultato che infranse il sogno dei Reds di Paisley di realizzare uno storico e clamoroso “treble”. La League Cup venne invece sollevata dall'Aston Villa che superò l'Everton per 3 a 2 al secondo replay, mentre il British Home Championship, il tradizionale torneo delle nazionali britanniche, vide l'affermazione della Scozia con 5 punti. Riconoscimenti: Andy Gray dell'Aston Villa venne nominato miglior giovane e miglior giocatore dell'anno dalla PFA (Professional Footballer Association), mentre la FWA (Football Writers Association) elesse come best player Emlyn Hughes, capitano del Liverpool. Curiosità: la stagione 1976/77 fu la prima in cui vennero usati ufficialmente i cartellini gialli e rossi per le sanzioni disciplinari. Fu inoltre introdotta una nuova competizione: la Debenhams Cup. A disputarla, secondo il regolamento stabilito dalla Football League, i due club non appartenenti alle prime due divisioni della piramide calcistica inglese, capaci di superare il maggior numero di turni in Fa Cup. Chester e Port Vale raggiunsero entrambi il quinto turno della coppa prima di esser eliminate rispettivamente da Wolverhampton ed Aston Villa. La finale della Debenhams Cup fu giocata in doppia partita: l'andata finì 2 a 0 per il Port Vale ma nel ritorno giocato al Sealand Road il Chester s'impose con una gara memorabile per 4 a 1 aggiudicandosi il trofeo. Il manager scozzese Tommy Docherty vinse l'Fa Cup con il Manchester United, primo trofeo con-

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quistato dai red devils dopo l'era Busby. Dopo la finale (precisamente il 4 luglio) venne licenziato quando confessò in un'intervista la relazione amorosa con la moglie del fisioterapista del club. Kevin Keegan fu ceduto per 500.000£ all'Amburgo e con i soldi della cessione il Liverpool acquistò dal Celtic il promettente Kenny Dalglish pagandolo 440.000£, cifra record all'epoca che in Inghilterra fece scalpore. Molto risalto mediatico ebbe anche l'acquisto del Watford FC da parte di Elton John, famosa pop-star inglese. Durante la prima conferenza stampa il cantante dichiarò di aver realizzato un vero e proprio sogno in quanto tifoso del Watford sin da bambino. Il 20 marzo 1977 morì in un incidente stradale Peter Houseman, ala del Chelsea dal 1963 al 1975. Nel terribile schianto sulla A40 nei pressi di Oxford persero la vita anche la moglie del giocatore Sally e due loro amici, Allan e Janice Gillham. In quella stagione “Nobby” Houseman, all'epoca 31enne, giocava per l'Oxford United ma dopo l'incidente fu organizzata una gara amichevole tra giocatori del Chelsea 1970 (squadra con il quale Houseman vinse l'Fa Cup) e il Chelsea 1977. Al testimonial match parteciparono 17mila persone e l'intero incasso della gara fu devoluto ai figli delle vittime, tre dei quali erano figli dello sfortunato Houseman. Varie: Nel 1977 il primo ministro era il laburista James Callaghan. Sgt.Pepper's Lonely Hearts Club Band dei Beatles venne eletto miglior album e Bohemian Rhapsody dei Queen fu uno dei singoli di maggior successo. Il 7/07/77 fu proiettata a Londra la premiere del film 007 La spia che mi amava; il GP di Formula 1 di Silverstone venne vinto dall'inglese James Hunt su McLaren; a Wimbledon trionfò lo svedese Bjorn Borg, che sconfisse l'americano Jimmy Connors al quinto set. Il 25 dicembre si spense in Svizzera il grande attore londinese Charlie Chaplin. Di Chris Cesarini


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Momenti di FA Cup. Cup Sopra: il rocambolesco gol di Greenhoff, che beffa Clemence con una deviazione fortuita sul tiro di Macari e riporta avanti i Red Devils per il definitivo 2-1. Sotto: il manager del Manchester United, Tommy Docherty, ‘incoronato’ dai suoi ragazzi con la FA Cup. Nonostante la vittoria, sarebbe stata l’ultima partita di The Doc alla guida dei Red Devils: travolto da uno scandalo sentimentale sarà licenziato in tronco due mesi dopo.

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E N O I Z E U , I R T T N S O C CO C O N I A I S R E S I E N O R O I SEZ MO I TU TE, IMP ZIONI, A S A L E I A I R T N E H T V G C E I E E S F ’ ASP ONI, R E E, E T T I S Z O R MO PROP PE O T N , A I U N Q O T T TU H C T I P

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SEZIONE IN COSTRUZIONE, A DISPOSIZIONE DEI LETTORI PER CONDIVIDERE COLLEZIONISMI, PASSIONI, MATERIALI

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SCAMBIO

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Sopra: il crest È l’unica squadra formata da diletdel Queen’s tanti di tutte le Park. divisioni profesA destra: foto sionistiche inglesi e scozzesi. La sua aerea di Hamcasa è uno stadio pden Park, casa del club da oltre 50mila posti, dove gioca la nazionale con il leone rampante sul petto. Ha un palmares di tutto rispetto, in cui figurano ben 10 coppe di Scozia. Stiamo ovviamente parlando del Queen’s Park di Glasgow – l’impianto, nemmeno a dirlo è Hampden Park – storica compagine nata nel lontanissimo 9 luglio del 1867 su iniziativa di un gruppo di studenti e professionisti. In piena epoca vittoriana al di là del Vallo di Adriano il Queen’s Park divenne il club per eccellenza. Non solo per essere stato il primo in assoluto a vedere la luce e uno dei sette (poi tutti spariti, tranne ovviamente i bianconeri) a fondare la Scottish Football Association nel 1873, ma anche per aver influenzato enormemente il football in quei giorni di campi fangosi, scarpe chiodate e brache lunghe. Gli Spiders furono l’esempio, il modello da imitare. Si distinsero come dei veri precursori, nel loro innovativo impianto di regole introdussero la traversa, il calcio di punizione e l’intervallo tra i due tempi. Come se non bastasse, al Queen’s Park si deve

un primo tentativo di “ingentilire” un gioco fino ad allora ancora troppo rozzo, più simile al rugby che al calcio come lo intendiamo oggi. I giocatori del team glasvegiano capirono l’importanza del passaggio al compagno e della tattica, dimostrandosi subito superiori a tutte le altre formazioni amatoriali incontrate nelle amichevoli organizzate in quegli anni. Non a caso la prima nazionale scozzese che il 30 novembre 1872 affrontò l’Inghilterra era composta da 11 giocatori (compreso il capitano Robert W. Gardner) del Queen’s Park, a cui si deve anche il primo completo maglia blu, calzoncini bianchi e calzettoni rossi della rappresentativa di Scozia. Fino al 1873, infatti, quelle erano le divise di gioco degli Spiders, poi mutate nei classici hoops (cerchi) bianconeri mantenuti fino ad oggi. In assenza di un vero e proprio campionato, furono le coppe a monopolizzare l’interesse del Queen’s Park. Sia la FA Cup scozzese che quella inglese. In Inghilterra i ragazzi di Glasgow ebbero l’onore di disputare la prima edizione

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del torneo calcistico più antico del pianeta, abbracciando le regole della federazione nata nel 1863 presso la Freemasons’ Tavern di Londra. Per agevolarli e ridurre al massimo le loro spese – viaggiare non era poi così facile come ai nostri giorni – gli organizzatori li fecero partire direttamente dalle semifinali. Ma proprio per motivi logistici, non poterono ripetere la gara con i Wanderers (terminata 0-0) e dovettero far strada ai futuri vincitori del trofeo. Nel 1884 e nel 1885, guidati dall’ottimo centrocampista Charles Campbell, raggiunsero addirittura la finale e con tanto di etichetta di favoriti. Persero in entrambe le occasioni (1-2 e 0-2, sempre contro il Blackburn Rovers), lasciando per sempre ai loro tifosi il rimpianto di non aver portato la coppa in Scozia. Le cose andarono meglio sul suolo amico. Le prime tre FA Cup furono vinte alla grande, tanto per rimarcare una netta superiorità rispetto al resto delle contendenti. Nel 1886 si potevano contare già otto trionfi nella coppa nazionale e sette affermazioni nella Glasgow Merchant's Charity Cup, istituita nel 1876 con finalità benefiche da un gruppo di imprenditori della città.


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Ma per assurdo la grande popolarità del calcio, la sua enorme diffusione in ogni angolo del Regno, era destinata a giocare un brutto scherzo al Queen’s Park. Nomi nuovi si affacciavano all’orizzonte, club ambiziosi come quello fondato da un prete cattolico, Fratello Walfrid, cui venne dato il nome di Celtic. Sempre a Glasgow iniziava a farsi valere un’altra compagine, frutto della passione di un gruppo di amici protestanti: i Rangers. Ma era soprattutto il fantasma del professionismo a incombere sempre più minaccioso. L’idea romantica di una squadra formata solo di dilettanti nativi di Glasgow, che aveva convinto il board nel 1890 a declinare l’offerta di entrare a far parte della Football League (ritenuta un “covo di professionisti” destinato a stroncare tutte le piccole realtà calcistiche del Paese) e a disputare la prima edizione del campionato, non si coniugava più con i crescenti interessi economici che il football aveva attorno. Emblematica, a questo proposito, fu la finale di Coppa di Scozia del 1892 tra Queen’s Park e Celtic. I bianco-verdi vinsero nettamente in campo (un epico 5-1) e fuori, se è vero che a partire dal 1893 quello del calciatore divenne un mestiere retribuito a tutti gli effetti e il motto degli Spiders, ludere causa ludendi, giocare per il A destra: semplice piacere del gioco, apparve già supe- visuale aererato nei fatti. Da quel a di Hammomento il Celtic spiccò pden Park, il volo in maniera defini- 1910 tiva, mentre il Queen’s Sopra: foto Park iniziò un lento ma di gruppo di inesorabile declino. una formaCerto, gli Spiders trova- zione del rono ancora il tempo di 1870

aggiudicarsi un’altra coppa e una Glasgow Cup (altra competizione di marca glasvegiana), ma ormai il loro destino appariva segnato. Nel 1900 capitolarono in parte al nuovo che avanzava, scegliendo di disputare il campionato. Tre anni dopo si trasferirono al terzo Hampden Park della loro storia – il secondo fu venduto al poi defunto Third Lanark, che lo ribattezzò Cathkin Park. Il gigantesco impianto, quello del famoso “ruggito” del pubblico, nel 1933, in occasione del secondo turno di FA Cup contro i Rangers, fece registrare il record di presenze per un incontro del Queen’s Park. Ben 97 mila persone accorsero ad assistere alle giocate di Bob Gillespie e Jimmy Crawford, gli ultimi Spiders a vestire la maglia della nazionale scozzese (il record di caps è invece detenuto dal difensore Watty Arnott con 14). Intanto nel 1922 il team aveva già conosciuto l’umiliazione del tonfo, seppure solo per una stagione, in seconda serie. In realtà in precedenza i bianconeri erano giunti altre cinque volte ultimi nella

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massima divisione scozzese, ma non essendo in vigore un meccanismo di retrocessione automatica in ragione dell’illustre passato gli era stata garantita la “rielezione” automatica. Gli ultimi fuochi, una affermazione in Glasgow Cup e qualche buon piazzamento in campionato, arrivarono dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, quando il tetto salariale imposto dai club scozzesi era così basso che anche un club di dilettanti era in grado di mettere in piedi una squadra competitiva. Nel 1957-58, però, gli Hoops abbandonarono l’allora Division One (l’equivalente dell’attuale Premier), senza farvi più ritorno. Da allora il Queen’s Park ha girovagato nei bassifondi della lega scozzese non riuscendo nemmeno in parte a rinverdire i fasti del suo nobile passato. Qualche buon giocatore a inizio carriera ha vestito le maglie a strisce bianconere – “tale” Alex Ferguson e il portiere dei “Lisbon Lions” Ronnie Simpson – e di recente (nel 1998) si è deciso di garantire un salario all’allenatore e mettere sotto contratto ex professionisti, ma lo status amatoriale del club molto difficilmente regalerà troppe gioie ai tifosi. Ovvero a quelle centinaia di appassionati che occupano uno spicchio del South Stand di Hampden Park, ora del tutto ristrutturato e con una capienza ridotta a 52.500 posti. Lo stadio, non va dimenticato, è ancora di proprietà degli Spiders, anche se i lavori sono stati quasi interamente finanziati con fondi pubblici. Anche il motto è sempre quello, ludere causa ludendi, che adesso potremmo parafrasare in “andiamo, divetiamoci e non pensiamo ai milioni di sterline che hanno intossicato il gioco moderno”. Altri mille di questi anni, caro vecchio Queen’s Park. Di Luca Manes


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Vi siete mai chiesti quali sono le circostanze che, assistendo ad una partita, più vi fanno ‘accendere’ dal punto di vista emotivo e del coinvolgimento? E se poi quella partita la state vedendo da tifosi, e quindi al massimo livello di passione e partecipazione, la risposta alla prima domanda come cambia? Una rovesciata o un dribbling secco valgono tanta adrenalina e soddisfazione quanto un tackle scivolato del vostro difensore o un ripiegamento di 50 metri di un attaccante che si sfianca per dare una mano dietro? Personalmente credo di si, perché la dimensione fisica del gioco l’ho sempre apprezzata quanto quella strettamente tecnica. Ed è certo uno dei motivi per cui il calcio britannico, specie quello preglobalizzazione pallonara mi ha sempre affascinato, e mi immedesimo benissimo in quegli applausi convinti che scrosciano quando un tackle scivolato ben assestato e determinato strappa il pallone dai piedi dell’avversario e magari lo mette in out. E’ una dimensione ’gladiatoria’ del calcio che storicamente ha contraddistinto la scuola britannica da quella sudamericana (e latina in generale), e negli anni ha esaltato grinta, determinazione e aggressività come talenti fondamentali per immedesimare la tifoseria con i suoi beniamini. Anche perché è inutile negare che per il tifoso sia fonte di grande appagamento vedere uno che non è (quasi mai) ‘uno di noi’, nel senso che non indossa quella maglia per passione ma per soldi, difendere la causa fino al limite (e a volte oltre) , e trasformarsi da atleta in combattente. Ecco, per tornare alla domanda iniziale credo che questa sia una delle situazioni più eccitanti e coinvolgenti, quando una partita diventa combattimento e i calciatori in campo non si limitano più ad indossare una maglia, ma in quei 90 minuti ne fanno una questione di vita o di morte, immedesimandosi totalmente con chi li incita dalle tribune. Moderni gladiatori in moderni Colossei, appunto. Ma che succede quando il combattimento smette di essere metaforico e diventa reale? Quando si passa il limite del regolamento, la determinazione diventa ferocia e la grinta degenera in violenza? Ecco appunto l’argomento di questa serie, che inizia in questo numero zero ma avrà diverse puntate: quando il calcio è degenerato in calci, quando una

partita è diventata una rissa. Nessun intento agiografico di comportamenti violenti, sia ovvio, solo l’interesse ad indagare una dimensione storica del calcio pressoché sconosciuta e quasi offlimit. Anche perché fateci caso, la pubblicistica ad argomento calcistico è piena di ‘BEST OF’: le migliori partite, i più bei gol, i più famosi giantkillings, le migliori parate, e così via; mai sentito parlare delle partite più ‘sanguinose’ della storia, delle risse più violente, dei peggiori falli. Non che se ne debba essere fieri, ma non parlarne è un po’ come mettere la polvere sotto il tappeto, tentare di cancellare cose accadute sui campi di calcio, come ha giustamente osservato Phil Thompson nel suo interessante lavoro sull’argo-mento. Il calcio non è solo la rimonta del Liverpool a Istanbul, Bobby Moore che alza al cielo la Coppa del Mondo 1966, il Manchester United che fa il Treble nel 1999; è anche altro, ed è giusto dare un’occhiata a questo ‘altro’, per farsi un’idea più completa di cosa abbia voluto dire il calcio negli ultimi 150 anni. Anche perché questa dimensione ‘hard’ non è certo prerogativa del calcio ‘moderno’ (definiamo tale quello dal secondo dopoguerra in poi), ma ne punteggia la storia sin dagli inizi, alla metà dell’800. Si racconta per esempio di un lato oscuro del leggendario Preston versione 1880. Nel 1886 David Russell rincorse per metà campo un giocatore del Blackburn Olympic per prenderlo letteralmente a calci e metterlo fuori causa per il resto del match. Nello stesso anno uno dei fratelli Ross (sempre Preston) spaccò la gamba con un tackle assassino a Jimmy Brown del Blackburn, ma niente di paragonabile a quanto scatenato dall’altro fratello (Jimmy) durante un match di FA Cup contro il Queen’s Park. All’epoca gli scozzesi partecipavano alla competizione inglese, per confrontarsi con squadre di livello più alto. Nel Preston trovarono un avversario forte tecnicamente ma soprattutto deciso a fare sua la gara con le buone o con le cattive. E pare che queste ultime (le cattive) fossero già state usate in abbondanza per portare gli inglesi sul 3-0, quando Ross si lanciò

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in un violentissimo tackle da dietro su Harrower. Il quale dovette uscire dal campo portato a braccia, e la scena non piacque molto al pubblico di casa (si giocava ad Hampden), già infuriato per la condotta di gara del Preston. Al fischio finale partì così un’invasione di campo con relativa caccia all’uomo, con Ross ricercato numero uno. Per sfuggire all’ira dei tifosi scozzesi il Preston dovette fuggire da una finestra dello spogliatoio… E perfino le finali di FA Cup, all’epoca clou assoluto della stagione calcistica e dunque eventi di grande risonanza anche mediatica (fatte le debite proporzioni) furono teatro di violenze del tutto estranee agli standard degli ‘sportsmen’ che secondo la pubblicisitica ufficiale calcavano i campi nei primi decenni di diffusione del calcio. Nel 1907 lo Sheffield Wednesday superò l’Everton con un approccio talmente aggressivo che la stampa di Liverpool ebbe a commentare che ‘in tante partite di FA Cup i calciatori recedono ad uno stato primitivo e cos’ a volte riescono ad avere la meglio su avversari che si esibiscono invece ad un livello molto più civilizzato di calcio’. Stessa storia nel 1910, quando il Newcastle la spuntò al replay contro il Barnsley, ma solo dopo aver letteralmente mandato in ospedale (pare con una certa scientifica premeditazione) un paio di avversari nel primo match, finito 1-1. E nel 1913 Aston Villa e Sunderland se le suonarono di santa ragione, tanto che il Times tuonò ‘ciò che più va stigmatizzato è la palpabile scorrettezza che si è tradotta in innumerevoli atti indegni di uomini di sport’. Episodi lontani, senza riscontri filmati ad immortalarli e quasi dimenticati, che però confermano come le degenerazioni violente abbiano da sempre accompagnato il calcio, la cui dimensione fisica è evidentemente un innesco spesso irresistibile di certi impulsi e istinti violenti e animaleschi (in senso letterale). Non ci mancherà quindi il materiale per ripercorrere questa storia ‘parallela’ di calcio & calci… E forse mai ne volarono tanti (di calci) come quella volta in cui Lazio e Arsenal si affrontarono in Coppa delle Fiere. Correva l’anno 1971, l’Arsenal aveva appena vinto la Coppa delle Fiere (edizione 1969-


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70) e anche per questi meriti sportivi fu ‘ripescato’ in extremis per difendere il trofeo (per il quale non si era qualificato). Con orgoglio, Bertie Mee (manager dei Gunners) ebbe allora a dichiarare: ‘hanno cambiato le regole per allinearsi con le altre Coppe, ma noi abbiamo un altro punto a nostro favore. Per tutta la passata stagione di Coppa delle Fiere siamo stati esemplari e sempre fuori dai guai, dando lustro e rispetto alla Coppa. Credo che per questo abbiamo conquistato tanti simpatizzanti in tutto il continente, e il Comitato ne ha tenuto conto nel prendere la sua decisione’. Parole che, con il senno di poi, suonano intempestive e quasi ridicole, specie se confrontate con quelle dello stesso Mee il giorno dopo Lazio-Arsenal, 1° turno della Coppa: ‘Sono orgoglioso di essere manager di questi ragazzi. Hanno sopportato provocazioni terribili durante la partita. Sarebbe troppo chiedere a un qualunque gruppo di ragazzi di non difendersi quando dopo la partita queste provocazioni si sono ripetute in modo ancora più inaccettabile. Non posso approvare la rissa e le botte, ma i giocatori hanno tutta la mia simpatia’. Cosa era capitato fra le due esternazioni? Semplicemente la trasferta a Roma per l’andata del 1° turno, ‘coronata’ (da una mega rissa nelle strade della capitale. In quegli anni gli incontri anglo-italiani nelle Coppe non erano mai modelli di fairplay, di solito grazie all’inclinazione da farwest di giocatori e tifosi nostrani. Il Burnley a Napoli, il Chelsea con la Roma, i Wolves contro la stessa Lazio avevano già sperimentato questo tipo di accoglienza un pò sopra le righe, dentro e fuori il campo. Lazio-Arsenal non fece eccezione, e d’altra parte come aspettarsi qualcosa di diverso da una squadra (appunto la Lazio) allenata da Juan Carlos Lorenzo, ‘condottiero’ dell’Ar-gentina ai mondiali del 1966, quella degli ‘animali’ (definizione di Alf Ramsey) che aveva avuto bisogno dell’intervento della polizia per far uscire dal campo un proprio giocatore espulso.

no invitate ad una cena di amicizia in un ristorante nel centro di Roma. Tutt’altro che riconciliate dalla promiscuità conviviale, le squadre continuarono a beccarsi a lungo prima che la scintilla divampasse fra Kennedy, uscito per prendere una boccata d’aria, e tre persone dello staff laziale, secondo la versione inglese precipitatesi fuori apposta per provocare il bomber dei Gunners. La fiamma si propagò velocemente, tutti si precipitarono fuori e in breve i due gruppi si ritrovarono impegnati in una gigantesca rissa degna delle peggiori gang di strada. Nessuno si tirò indietro, nemmeno lo stesso Mee che secondo la ‘leggenda’ finì faccia a faccia proprio con Lorenzo; solo l’arrivo della polizia riuscì a dividere i contendenti dopo una quindicina di minuti senza esclusione di colpi, che lasciarono pochi danni ‘materiali’ ma una coda infinita di polemiche.

no addirittura in 53.000, attirati forse più dai ‘calci’ che dal ‘calcio’ (potenza dell’effetto-corrida…), anche se l’UEFA si preoccupò di mandare a Londra un arbitro bravo e severo, il tedesco Glockner, reduce dalla finale mondiale in Messico. Sul campo l’Arsenal vinse 2-0 senza troppi patemi, a mantenere l’ordine pubblico bastò il piglio dell’arbitro ed evidentemente un minimo di autocontrollo da parte dei giocatori, che archiviarono così una pagina alquanto sconcertante e ancora oggi pressoché insuperata. E tutto questo avvenne sulla via del mitico Double, che l’Arsenal avrebbe conquistato di lì a pochi mesi. Tanto per dire di come questo lato oscuro sia presente anche nelle pagine più trionfali e luminose della storia del pallone. Seguiteci sul prossimo numero, la ricerca continua... Di Giacomo Mallano

Per il ritorno ad Highbury si presentaro-

Due ‘must’ del genere, che non mancheranno nemmeno nel nostro viaggio. Sopra: Van Nistelrooy vs Arsenal, Old Trafford 2003. Sotto: Bowyer vs Dyer, St James Park 2005.

Secondo le testimonianze dei giocatori di Mee, i biancazzurri iniziarono a insultare e sputare già negli spogliatoi, proseguendo poi con un abuso di gomiti e colpi bassi ad ogni occasione possibile. Il tutto condito da un costante lancio di oggetti dalle tribune dell’Olimpico. L’Arsenal non era ovviamente squadra da preoccuparsi di simili ‘tattiche’, e riuscì a portarsi sul 2-0 grazie ad una doppietta di John Radford. A quel punto la temperatura salì ulteriormente, la Lazio si lanciò letteralmente all’assalto della porta di Bob Wilson e nel finale riuscì a pareggiare con una doppietta di Chinaglia. Al termine del match le squadre furo-

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Fever Pitch

dell’abbonamento per l’annata 2009. L’abbonamento è annuale e comprende quattro numeri di FEVER PITCH, edizione cartacea, con cadenza trimestrale. L’ abbonamento all’edizione cartacea 2009 costa € 35,00 e la pubblicazione viene inviata a mezzo posta. Il costo dell’abbonamento include la spedizione. L’abbonamento può essere pagato con una delle seguenti modalità: • Vaglia postale • Paypal • Contanti Indicando sempre la causale del pagamento (abbonamento 2009 Fever Pitch) e confermando via mail agli indirizzi mail indicati l’effettuazione del pagamento e l’indirizzo di spedizione. Fra tutti gli abbonati entro il 31 dicembre 2008 sarà sorteggiato un abbonamento gratuito per l’annata 2010. E’ possibile anche acquistare un singolo numero di FEVER PITCH, al prezzo di € 10,00 (cartaceo) oppure € 6,00 (formato pdf). In coda ai ‘numeri’, anche se

FEVER PITCH 2009 Eccoci arrivati in fondo a questo NUMERO ZERO. L’Editoriale ha già spiegato tutta l’iniziativa, speriamo che il ‘viaggio’ lungo queste pagine sia stato coinvolgente come lo è stato per noi metterle insieme. Nelle nostre intenzioni il percorso parte di qui e si proietta sulla prima annata di FEVER PITCH, quella 2009, ma sarà il riscontro del pubblico a decidere la concreta continuazione di questa avventura editoriale, ricordando ancora che questa nasce dall’impegno appassionato di un gruppo di amici, con il fine principale di promuovere il calcio e la cultura britannica in Italia e rivolgersi alla variegata comunità di appassionati. E infatti FEVER PITCH nasce (in prima battuta) senza alcuna entrata di tipo pubblicitario, ed i costi di produzione sono coperti da auto-finanziamento. Ecco perché il riscontro e il supporto del pubblico dei lettori è fondamentale per confermare la bontà dell’iniziativa e darle la spinta per decollare definitivamente. Ecco quindi le modalità e i contenuti

l’abbiamo detto più volte, un’ultima considerazione: FEVER PITCH vive del sostegno dei lettori, nella forma minima dell’abbonamento; senza questo sostegno è destinato ad ‘appassire’, e invece la volontà è di andare avanti insieme, quindi vi aspettiamo numerosi!!! Per qualunque informazione, chiarimento, suggerimento, e ovviamente per tutto quello che riguarda abbonamenti e ordini, gli indirizzi email sono: giacomomallano@studiocvm.com gmallano@yahoo.it Su internet, siamo all’indirizzo: http://feverpitch.jimdo.com/ *** AVVERTENZA IMPORTANTE Questa pubblicazione non ha fini di sfruttamento commerciale del materiale scritto o grafico. Chiunque ritenga violato un proprio copyright in relazione al materiale pubblicato può scrivere agli indirizzi email di cui sopra; da parte nostra, nell’assoluta buona fede, provvederemo immediatamente a rimuovere l’errore.

Last but not least, come si dice da quelle parti, un primo ‘menù’ del palinsesto su cui stiamo lavorando per il 2009, tanto per stuzzicare l’appetito dei lettori. Già dal numero 1 partirà la serie FOREIGN OFFICE, dedicata alla storia delle squadre britanniche nelle competizioni europee. Racconteremo di Alan Shearer, e di tutti (ma proprio tutti) i suoi gol da record per il Newcastle. E poi tantissima FA Cup, perché un magazine di calcio UK senza la Coppa sarebbe come un pub senza birra; e in quest’ambito la serie GIANTKILLERS, dedicata alle sorprese note e meno note di cui è punteggiata la storia della competizione. E ancora le storie di grandi bomber, da Macdougall a Steve Bull, da Macdonald a Charlie George, da Osgood a Greaves. E poi, per non essere accusati di eccessi di nostalgia, la storia della Premiership dal 1992 ad oggi...però dato che un po’ nostalgici lo siamo, la storia della Football League e della sua ‘emanazione’ della Coppa di Lega. Senza dimenticare ampie finestre sul calcio scozzese, e le club histories di club (per così dire) minori. Ancora: il racconto fotografico e testuale degli amatissimi Matchday Programmes, e tanti focus su imprese straordinarie, dall’Ipswich del 1962 al Porstmouth del dopoguerra, dal Burnley inizio anni ‘60 al ‘Treble’ dell’Huddersfield negli anni ‘30, dall’ascesa vertiginosa del Wimbledon a quella di Oxford e Swindon Town. Una serie sarà dedicata ai derby del calcio britannico, uno dei momenti di massima passione e intensità, e ancora recensioni e presentazioni di tutto quanto l’editoria italiana produce sull’argomento. Ampio spazio anche a riflessioni, racconti, stimoli su cultura e società britannica, e nella sezione THE FANS carta bianca ai racconti di viaggio, tifo e passione dei nostri lettori. Nella sezione FEVER COMMUNITY l’aggiornamento continuo su tutto quanto la comunità italiana degli appassionati produce in termini di siti internet, fanzines, fans club, blog, raduni, iniziative di promozione e aggregazione di ogni tipo, e nel MERCATINO uno spazio a disposizione di scambi, presentazione di collezioni, richieste e offerte di memorabilia. Il tutto corredato da tantissime fotografie, ricercate per rendere al meglio lo spirito del pallone d’Oltremanica e di tutto quanto lo rende un mondo irresistibile.

PREVIEW 2009

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Fever Pitch

FEVER PITCH PICS — IMMAGINI & RIFLESSI

Immagini dalla semifinale di FA Cup del 1971, derby fra Liverpool ed Everton, giocata ad Old Trafford. Sopra: Ray Clemence devia sulla traversa un tentativo ravvicinato di John Morrissey. Sotto: lotta senza quartiere per un pallone vagante in zona difensiva dell’Everton. Alla fine la spunterà il Liverpool, e per l’Everton sarà l’ennesima delusione di una stagione partita con grandi ambizioni, da Campioni d’Inghilterra in carica e fra i favoriti anche in Coppa dei Campioni.

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FEVER PITCH VI DA’ APPUNTAMENTO AL NUMERO 1 DEL 2009!!!

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