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Nota della traduttrice
Il Via col vento che hai in mano è un romanzo. Più precisamente: un romanzo storico.
Spesso, invece, quando si parla di Via col vento, si pensa al film tratto dal romanzo. La differenza è rilevante. Il film racconta una storia d’amore sullo sfondo della Guerra civile americana. Il romanzo racconta la Guerra civile americana e gli anni successivi sfruttando come filo conduttore una storia d’amore. La prospettiva del racconto è quella del mondo che esce sconfitto, o meglio annientato, dalla guerra, prospettiva che – sul piano della tecnica narrativa – coincide quasi sempre con l’angolo di visuale della protagonista Scarlett O’Hara.
Queste considerazioni sono alla base dell’impostazione di fondo della mia traduzione e delle scelte che ne derivano. Nel romanzo l’ambientazione, costruita attraverso una precisione quasi maniacale di dettagli significativi – fattuali e linguistici – non ha funzione pittoresca, ma è essenziale a descrivere in modo storicamente coerente il mondo dei grandi proprietari terrieri degli stati americani del Sud, in particolare della Georgia, allo scoppio della guerra, cioè a metà Ottocento, e le trasformazioni che quel mondo subisce negli anni successivi. È un mondo dove le stratificazioni sociali, non solo tra padroni e schiavi, ma anche tra gli stessi bianchi e perfino tra i neri, costituiscono l’ossatura portante della società e si manifestano in ogni aspetto della vita.
Particolarmente rilevante in questo senso è il modo di parlare dei personaggi, che nel romanzo esprime sia la loro appartenenza sociale, sia i rapporti che instaurano gli uni con gli altri.
I neri parlano una lingua propria, a prima vista incomprensibile al lettore che non ci sia avvezzo. È una lingua che attiene al creolo (un creolo fortemente influenzato dal rapporto coi padroni bianchi, come osserva la stessa Margaret Mitchell nel primo volume a proposito di Pork, il servitore di Gerald O’Hara che proviene dalle isole costiere della Georgia) e a varie forme dialettali all’epoca parlate negli stati del Sud. Lingua orale, fluida, con caratteristiche fonetiche, lessico e strutture riconoscibili, anche se non standardizzate, che l’autrice a volte riproduce anche nelle diverse varianti parlate dai singoli schiavi, a seconda del loro grado di istruzione e della maggiore o minore frequentazione e intimità con i bianchi. I bianchi parlano inglese, in varianti diverse. Tuttavia, pur parlando “lingue” diverse, neri e bianchi si capiscono perfettamente (come possono capirsi perfettamente, in un romanzo italiano, due personaggi che parlino l’uno un dialetto, l’altro l’italiano standard). Se si esclude l’opzione estrema di non tradurre le battute dei neri, ma di lasciarle in originale con una traduzione di servizio in nota, ogni altra scelta è arbitraria. E segna, comunque, una perdita che nella traduzione è inevitabile, e di cui sempre ci si rammarica. Gli autori della prima traduzione italiana del 1937 ricorsero a soluzioni interessanti, ma oggi impraticabili, perché avvertite come grottesche (i neri parlano coi verbi sempre all’infinito, per esempio). In questa traduzione ho optato per una lingua con coloriture popolaresche (dislocazioni, echi dialettali, distacchi di vario genere dalla norma), che nei limiti del possibile varia a seconda del carattere, del ruolo e
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del rapporto coi bianchi dei diversi personaggi. Nel romanzo i neri sono tutti schiavi (o ex schiavi, dopo la fine della guerra), ma non sono tutti uguali. Zio Peter, il maggiordomo, cocchiere e “despota” di casa Hamilton, e Mammy, la governante di casa O’Hara, hanno una consapevolezza di sé, e dell’importanza del proprio ruolo, ben diversa da quella di Prissy, la servetta che segue Scarlett ad Atlanta nel secondo e terzo volume: differenze che si esprimono non solo in ciò che dicono, ma anche in come lo dicono.
Neppure i bianchi parlano tutti nello stesso modo: carattere, provenienza geografica e posizione sociale incidono sulla loro lingua. Come abbiamo visto nei volumi precedenti, anche qui le differenze sono marcate, a volte anche all’interno dello stesso gruppo sociale, come nel caso dei fratelli Fontaine, la cui lingua è più vicina al parlato e meno compita di quella di Ashley, di Melanie e di Frank. Molto più evidenti sono però le differenze tra gruppi sociali diversi. Così, la parlata di Will Benteen, il reduce che si ferma a lavorare a Tara, è segnata da colloquialismi e distacchi dalla norma che lo distinguono socialmente dai figli dei piantatori, anche quando le vicende della vita lo portano a diventare uno di loro. Archie, l’ex detenuto che diventa guardia del corpo di Scarlett, e che proviene da un ambiente montanaro più povero e meno colto di quello di Will, parla una lingua nettamente più grezza e marcata da espressioni dialettali. Posto che certe caratteristiche, in particolare quelle fonetiche, in traduzione si perdono, ho cercato di sfruttare abbassamenti e innalzamenti del registro, forme più o meno colloquiali, giri di frase, a volte anche tic linguistici, per rendere almeno in parte le differenze e peculiarità del modo di parlare dei personaggi. Anche in questo caso, però, la ricchezza e vivacità dell’originale in gran parte si perde.
Quando si traduce dall’inglese un’altra scelta che ha sempre un margine di arbitrarietà è quella degli allocutivi. L’italiano ne possie- de tre: tu, lei, voi; l’inglese ne possiede uno solo: you. Compete al traduttore decidere se i personaggi si danno del tu, del voi o del lei, e se e quando passano dall’uno all’altro. Non che l’inglese non abbia modo di esprimere la maggiore o minore formalità dei rapporti: in una società come quella descritta nel romanzo chiamare una persona “Miss O’Hara” o “Miss Scarlett” o “Scarlett” fa differenza, ed è una differenza che esprime e insieme codifica relazioni sociali o familiari diverse.
Nella traduzione ho cercato di sfruttare le potenzialità offerte dagli allocutivi italiani, usandoli tutti e tre secondo modi in uso nell’italiano della seconda metà dell’Ottocento: il lei per rapporti contraddistinti da formalità, il tu per quelli marcati da informalità (per esempio, Scarlett con i suoi amici d’infanzia, quindi anche Ashley Wilkes), il voi per casi non marcati in un senso o nell’altro, o per casi particolari di “formalità familiare” o di “familiarità formale”. Per esempio, nel primo volume si danno del voi i genitori di Scarlett O’Hara (che nell’originale si chiamano Mr O’Hara e Mrs O’Hara anche in privato, e non solo in pubblico, come sarebbe la norma nel mondo in cui vivono); usa il voi Scarlett con zia Pittypat (il tu marcherebbe una familiarità eccessiva), la quale invece usa il tu con Scarlett (familiarità consentitale dalla differenza di età). All’inizio di questo volume, come già nel terzo, Scarlett usa il voi con Will, il quale invece le dà del lei: sebbene vi sia tra i due un rapporto di stima e confidenza reciproche, la differenza di posizione sociale viene marcata nella lingua – e, date le condizioni di vita del dopoguerra, quasi esclusivamente nella lingua. Tuttavia, quando torna a Tara per la morte del padre i loro rapporti di fatto sono mutati, anche se all’insaputa di Scarlett, perché Will sposerà sua sorella. E infatti Will nel testo inglese le si rivolge con un semplice “Scarlett”, anziché con l’usuale “Miss Scarlett”, cosa che lei rileva immediatamente
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e di cui, senza però dispiacersene, si stupisce. Nella traduzione, a questo punto Will passa al voi.
In generale, a parità di ambiente, i giovani danno del voi o del lei alle generazioni precedenti, i vecchi danno rispettivamente del tu o del voi ai giovani. Anche i neri danno del voi ai bianchi, mentre i bianchi danno del tu ai neri: scelta arbitraria, che mi serve a sottolineare il rapporto di asservimento degli uni agli altri. Stabilito questo schema di riferimento, l’adesione alla norma e a maggior ragione la deviazione dalla norma possono diventare strumenti per veicolare un significato espresso nell’originale attraverso gesti o parole che non hanno equivalente altrettanto pregnante in italiano.
In questo senso va inteso, per prendere un esempio da questo volume, il tu, sprezzante e offensivo, con cui Scarlett si rivolge a Emmy Slattery nella scena all’inizio del secondo capitolo, e il passaggio dal lei al voi a cui Jonas Wilkerson, l’ex sovrintendente di Tara, già dipendente degli O’Hara, ricorre all’improvviso con l’intento a sua volta di offendere Scarlett.
Un freddo pomeriggio di gennaio del 1866 Scarlett era nello studiolo a scrivere a zia Pitty, spiegando per la decima volta perché né lei, né Melanie e Ashley potevano tornare a vivere ad Atlanta. Buttava giù la lettera alla bell’e meglio, tanto sapeva che la zia non avrebbe letto altro che le prime righe e poi le avrebbe risposto subito: “Ma io ho paura a vivere da sola!”
Aveva le mani ghiacciate. Si interruppe per strofinarsele e infilare più a fondo i piedi nel pezzo di vecchia trapunta in cui li aveva avvolti. Le suole delle sue scarpette erano così consunte che aveva dovuto rinforzarle con toppe di pezza, utili sì a isolare i piedi dal pavimento, ma non a tenerli caldi. Quel mattino Will aveva portato a ferrare il cavallo a Jonesboro. Le venne da pensare che erano davvero messi male, tutti loro, se i cavalli erano calzati e agli umani toccava andar scalzi come i cani.
Aveva appena ripreso in mano la penna, che la posò di nuovo perché lo aveva sentito entrare dalla porta di servizio. Attese che il tump tump della sua gamba di legno percorresse l’atrio e si fermasse davanti alla porta dello studiolo, e dopo qualche istante, poiché lui non si decideva a entrare, lo chiamò. Will venne dentro, con le orecchie arrossate dal freddo e i capelli scompigliati, e le si fermò accanto, con un sorrisetto vagamente divertito sulle labbra.
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«Signora Scarlett, quanti soldi possiede?»
«Volete chiedermi in sposa per i miei soldi, Will?» fece lei, un po’ irritata.
«No, signora. Era giusto per sapere».
Lo guardò, senza capire. Non sembrava serio. Del resto, Will non sembrava mai serio. Perché ora le pareva che ci fosse qualcosa che non andava?
«Ho dieci dollari in oro. Quello che resta del denaro dello yankee»
«Allora non bastano»
«Non bastano per cosa?»
«Non bastano per le tasse» disse lui, e andò a scaldarsi le mani alle fiamme del camino.
«Che tasse? Santiddio, Will! Le abbiamo già pagate, le tasse»
«Sì, signora. Ma dicono che lei non ha pagato abbastanza. L’ho sentito oggi a Jonesboro»
«No, Will, non capisco. Che volete dire?»
«Signora Scarlett, mi spiace davvero doverla seccare con altre grane, con tutte quelle che ha già avuto, ma deve saperlo. Dicono che lei deve pagare molto più di quello che ha pagato. Stanno portando la valutazione di Tara alle stelle… finirà per essere la più alta della contea, mi sa»
«Ma non possono chiedermi altri soldi, se ho già pagato le tasse che dovevo pagare»
«Signora Scarlett, lei a Jonesboro non ci va quasi mai ed è bene così. Non è posto adatto a una signora, di questi tempi. Ma se lei ci andasse più spesso, saprebbe che è piena di brutta gente, scallawag, repubblicani, carpetbagger, che fanno il bello e il cattivo tempo. Capaci di tirarti scemo fino a farti saltare i nervi. E poi, negri che buttano giù i bianchi dai marciapiedi e…»
«Sì, ma questo che c’entra con le tasse?»
«Ora ci arrivo. Per qualche motivo quei farabutti hanno alzato le tasse su Tara neanche fosse un posto da mille balle di cotone. Appena l’ho saputo, sono andato un po’ in giro per i saloon, a sentire che si diceva, e così ho scoperto che c’è qualcuno che vuole mettere le mani su Tara per un pezzo di pane quando andrà all’asta, perché lei queste altre tasse non le pagherà. Lo sanno tutti che non può pagare. Non so chi ha messo gli occhi su Tara. Non sono ancora riuscito a scoprirlo. Ma secondo me quel vigliacco di Hilton, il tizio che ha sposato la signorina Cathleen, lui lo sa, perché si è messo a ridere in un modo che non mi è piaciuto quando ho cercato di farlo parlare».
Sedette sul divano e prese a massaggiarsi il moncone. Col freddo gli doleva e l’arto di legno non era ben imbottito alla giuntura, e gli dava fastidio. Scarlett lo guardava esterrefatta. Si comportava come se niente fosse, ma parlava della fine di Tara! Venduta all’asta? E loro dove andavano? Tara in mano a estranei? No, impensabile!
Era stata tanto presa con il problema di rendere di nuovo produttiva la piantagione che non aveva badato a quanto avveniva fuori di lì. Ora che Will e Ashley si occupavano di tutto ciò che c’era da fare a Jonesboro o a Fayetteville, lei di rado lasciava Tara. E come non aveva mai fatto attenzione ai discorsi di suo padre sulla guerra prima che la guerra cominciasse, così ora non ascoltava le discussioni dopo cena sull’avvio della Ricostruzione.
Oh, certo, sapeva che razza di gente erano gli scallawag – uomini del Sud che s’erano fatti repubblicani per convenienza – e i carpetbagger – yankee piombati al Sud come avvoltoi dopo la resa, per fare fortuna, con tutti i loro averi dentro una borsa di pezza. E aveva avuto qualche esperienza spiacevole con il Freedmen’s Bureau. Aveva anche sentito dire che alcuni degli schiavi liberati
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si erano fatti parecchio insolenti. Ma le riusciva difficile crederlo, perché non aveva mai visto un nero insolente in vita sua.
C’erano però molte altre cose che Will e Ashley le nascondevano di proposito. Al flagello della guerra era succeduto il ben più grave flagello della Ricostruzione ma, quando ne parlavano in casa, i due erano d’accordo di non alludere ai fatti più allarmanti. E se lei si prendeva la briga di ascoltare i loro discorsi, la maggior parte di ciò che dicevano le entrava da un orecchio e le usciva dall’altro.
Aveva sentito dire da Ashley che il Sud era trattato come terra di conquista e che l’atteggiamento diffuso tra i vincitori era quello punitivo. Ma erano commenti che per lei non significavano nulla. La politica era cosa da uomini. Will diceva anche che il Nord pareva avere tutte le intenzioni di impedire che il Sud si riprendesse. Ma si sa che gli uomini devono sempre avere qualcosa di cui preoccuparsi. Per quanto la riguardava, gli yankee non l’avevano piegata una volta e non ci sarebbero riusciti nemmeno ora. La cosa da fare era lavorare a testa bassa e smetterla di pensare a come quella gente gestiva le cose. Dopotutto, la guerra era finita.
Scarlett non si rendeva conto che erano cambiate tutte le regole e che il lavoro onesto non necessariamente veniva premiato. La Georgia era di fatto sotto la legge marziale. L’esercito yankee presidiava la regione e il Freedmen’s Bureau aveva mano libera e faceva le regole a proprio vantaggio.
Istituito dal governo federale per occuparsi degli ex schiavi in fermento e senza lavoro, il Bureau faceva affluire a migliaia dalle piantagioni i neri nelle città e nei paesi. Provvedeva al loro sostentamento, mantenendoli nell’ozio, e li aizzava contro i vecchi proprietari. La sezione locale era diretta da Jonas Wilkerson, l’ex sovrintendente di Gerald, e suo assistente era Hilton, il marito di Cathleen Calvert. I due spargevano attivamente la voce che i bianchi del Sud e i democratici aspettavano solo l’occasione propizia per tornare al sistema della schiavitù e che l’unica speranza dei neri per sfuggire a quel destino era la protezione che potevano trovare presso il Bureau e il partito repubblicano.
Dicevano ai neri che in ogni cosa erano pari ai bianchi, che dunque presto sarebbero stati consentiti i matrimoni misti e a breve le tenute dei loro vecchi padroni sarebbero state divise, in modo che ognuno di loro avesse quaranta acri di terra e un mulo. Li tenevano in agitazione con racconti delle crudeltà commesse dai bianchi, sicché in una zona a lungo nota per i buoni rapporti tra schiavi e proprietari ora cominciavano a crescere odio e sospetto.
Il Bureau era spalleggiato dai militari, che avevano emanato una gran quantità di ordini, spesso contraddittori, intesi a governare il comportamento dei vinti. Era facile venire arrestati, anche soltanto per mancanza di rispetto nei confronti dei funzionari. C’erano ordini militari relativi alle scuole e all’igiene, ai bottoni che si portavano sulle giacche, alla vendita di generi di prima necessità e in pratica a qualunque altra cosa. Wilkerson e Hilton avevano il potere di interferire in ogni transazione commerciale facesse Scarlett e di stabilire il prezzo di qualsiasi cosa lei vendesse o barattasse.
Per sua fortuna, Scarlett raramente aveva avuto a che fare con quei due, perché Will l’aveva persuasa a delegargli ogni commercio per dedicarsi interamente a mandare avanti la piantagione. Coi suoi modi pacati era spesso riuscito a risolvere tante difficoltà senza neppure parlargliene, giacché – se proprio era necessario – sapeva andare d’accordo con carpetbagger e yankee. Ora però era sorto un problema troppo grosso perché potesse farsene carico. L’aumento esorbitante delle tasse e il pericolo di perdere Tara erano questioni di cui Scarlett doveva essere messa al corrente. E senza indugio.
Lei era furibonda.
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MARGARET MITCHELL (Atlanta, 1900-1949) pubblicò il suo unico romanzo, Via col vento, nel 1936 e vinse il Premio Pulitzer l’anno dopo. Tradotto in 37 lingue, è uno dei libri più venduti (30 milioni di copie) e letti di tutti i tempi. L’omonimo kolossal cinematografico, diretto nel 1939 da Victor Fleming, ne ha moltiplicato il successo, grazie anche alla leggendaria interpretazione di Vivien Leigh e Clark Gable.





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