Raniero La Valle - Lettere in bottiglia. Ai nuovi nati questo vostro Duemila

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Raniero La Valle

Lettere in bottiglia Ai nuovi nati questo vostro Duemila

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© Il Segno dei Gabrielli editori, 2019 Via Cengia 67 37029 San Pietro in Cariano (Verona) tel. 045 7725543 – fax 045 6858595 info@gabriellieditori.it www.gabriellieditori.it Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta con sistemi elettronici, meccanici o altro senza l’autorizzazione scritta dell’Editore. ISBN 978-88-6099-391-5 Stampa

Grafica Veneta spa, Trebaseleghe (PD), giugno 2019 Progetto di copertina Gabrielli editori


A papa Francesco perchĂŠ ha molto amato



Indice

Lettere in bottiglia

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Il delitto fondatore Quando in Italia uccisero il padre

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L’alternativa al sacrificio Ragion di Stato e morte dell’innocente

23

Quarant’anni dopo Pagato il riscatto per Moro 31 Da dove venivamo L’invenzione costituente

34

Lettera su un’eredità politica Un mondo senza domani?

39

La democrazia come progetto L’umanità popolo sovrano

47

Perché l’attacco alla Costituzione La verità che sta dietro

54

Lettera dal Pronto Soccorso In nome di Moro e Dossetti 65 Dopo il referendum costituzionale Il compito della politica? Sbloccare la civiltà

68

Un papa venuto prima della fine del mondo La svolta di papa Francesco 78 Lettura su un’eredità religiosa Il domani della fede

82

Non ci sono popoli eletti e scartati Cominciamo in 72

98

Katécon: un appello a resistere Per un mondo non genocida patria di tutti patria dei poveri

100 7


L’alternativa del Dio nonviolento Critici devoti a bassa intensità

103

Ora è possibile? L’amore come problema politico

105

Il mistero Bergoglio Un papato messianico

120

Due Italie da amare Una discontinuità, verso dove?

127

Chi lava i piedi a chi Anche adesso ci vuole un libro

133

Se si crede alla resurrezione La pace oltre ogni ragione

135

Un’assemblea antipapista Non è Celestino V

142

Potere senza verità L’Occidente mendace e perduto

145

Il futuro visto nel giorno della Liberazione Dal mare di mezzo

148

Che resti la democrazia Elezioni rottamate?

157

La politica si addice ai cristiani Un Dio non di regime

158

Chi decide nella Chiesa Come a Gerusalemme

161

Umanità spezzata e condivisa Tutti stranieri nessuno straniero

164

Proprio loro, gli scacciati I soggetti della rivoluzione

167

Respinti ai loro inferni Non come nell’altro genocidio

171

Figlia di un’altra storia Non è l’Europa

173

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Oggi stesso si farebbe la pace La parola o il potere

175

Non ci riusciranno La controrivoluzione è fallita

176

Interrogare di nuovo la Scrittura Sionismo senza democrazia?

179

Armi per tutti Prima della caduta

182

Arriva il Vangelo Inammissibile la pena di morte

186

La sedizione del Nunzio Come fermare papa Francesco 189 Se la profezia diventa storia Il tempo che viene

191

Le leggi-manifesto Anche la cultura uccide

194

Perché facemmo la legge sull’aborto Terroristi e sicari

197

I beni promessi e perduti Il tagliando

201

Un padre tentatore? Gli sbagli su Dio

204

La speranza è che ritorni L’Italia non c’è

208

Non più ministri della Cultura Popolare Salvini 210 Piuttosto tornare alla politica Non abbiamo bisogno

213

“Fratelli in umanità” Adottare una guerra Con quale cuore Trapianti 218 9


Il forte vince il debole soccombe Ai nastri di partenza

222

Che fare del mondo La scelta

225

La spietatezza Il tirante che non tiene

228

“Questa gran varietà di religioni” L’alleanza è con tutti

230

Ma Dio c’era? I pesci ci sono

233

Basta una crisi di governo Lo sgabello

235

Il potere della parola Lo scisma

238

Il sacrificio dei bambini L’ira di Dio

241

Le donne, come sono pensate Ratione servitutis?

245

La parola e il grido Che cosa ci sta succedendo

249

Vegliare e assumere la sofferenza dell’altro Il messia che rimane

255

Lo scambio con Dio Il perdono, la politica

258

Verso tutta la verità Mirabile eresia

262

Indice dei nomi di persona

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Lettere in bottiglia C’è una domanda, che ha squarciato il mondo dopo le tragedie del Novecento, ossia quale potesse essere “il concetto di Dio dopo Auschwitz”: perché dopo che quelle cose erano accadute tutto doveva essere pensato di nuovo. Ma poi una voce dall’America Latina – perché lì il tormento continuava – disse che le cose dovevano essere ripensate non dopo che erano accadute, ma mentre accadevano, non dopo i genocidi, ma mentre essi accadono. Nel passaggio dal secondo al terzo millennio, in pochi decenni, molte cose sono accadute che stanno cambiando la faccia e forse più ancora l’anima del mondo. Per forza tutto deve essere ripensato di nuovo. E se non lo facciamo noi, di certo dovranno farlo quelli che restano e che verranno dopo di noi. Forse allora si chiederanno se e come quelle cose sono state ripensate mentre accadevano, se sono state tentate o intraviste delle risposte. Queste lettere portano traccia di tale travaglio. Sono “lettere in bottiglia”, lettere che hanno già viaggiato in mano a corrieri e bande di frequenza e altri vettori postali, e magari sono anche giunte a destinazione, ma poi invece di perdersi hanno preso la via del mare in fragili vetri per raggiungere, chissà, altri destinatari che un giorno potrebbero trovarle e perfino trarne giovamento, un’illuminazione, una notizia, una storia, un ricordo. È bene che delle lettere si salvino, quando oggi sono diventate una specie in estinzione, messe fuori gioco da una concorrenza imbattibile, come i tweet, che dicono tutto, presente e futuro, in 140 caratteri spazi compresi. Erano importanti le lettere quando, a coprire le distanze, diventavano il mezzo privilegiato, per molto tempo l’unico, del rapporto tra le persone. Rimanevano segrete tra i corrispondenti. Solo quelle dei carcerati venivano rapite o censurate dagli sbirri, o tutte erano violate in tempi di dittatura, ma le altre non erano “tracciate” da nessuno, né le prendevano in castagna per vendere prodotti di mercato a mittenti e destinatari. Spesso nelle lettere, non solo nelle lettere d’amore, correvano contenuti importanti, passavano parole di vita, si macinavano idee, si elaborava politica, si facevano i conti con la morte e magari si 11


sognavano resurrezioni. E ce ne sono molte che sono sopravvissute, lettere che dopo essere rimaste orfane dei loro autori, sono andate in giro ad attivare nuovi pensieri e accompagnare passaggi d’epoca. Basta pensare alle lettere dei primi discepoli di Gesù – da Paolo a Giovanni – senza le quali il cristianesimo non sarebbe stato quello; o forse sarebbe rimasto confinato in quell’incidentale evento della storia di cui Tacito si è appena accorto nelle scarne notizie che ne dà negli Annales, come di quei colpevoli condannati da Nerone che «prendevano il nome da Cristo, che era stato suppliziato ad opera di Ponzio Pilato sotto l’impero di Tiberio». Oppure basta ricordare le lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana ed europea, che sono il crinale su cui si dividono il Novecento e la stessa storia secolare del mondo, tra l’età culturale filosofica e politica giunta fino al nazismo e l’età nuova che ha cominciato a nascere dopo di esso. E come dimenticare le lettere di Aldo Moro, quel Padre della patria, che dal carcere delle Brigate Rosse ha avanzato un’altra idea della politica, e ha mostrato come per essa si possa morire, non per officiare un sacrificio, ma per consegnare un dono? Poi c’è stata anche una lettera fuori sacco, per la prima volta inviata a tutti gli abitanti del pianeta, perché si accorgessero che questo giardino che gli è stato dato in custodia, gli si sta sfaldando sotto i piedi, ed è la Laudato si’ di papa Francesco. Ma accanto a queste di rango, ci sono state tramandate innumerevoli lettere meno pregiate e sono giunte fino a noi anche le lettere più povere e umiliate di tutte, quelle che scrivevano gli internati e “ristretti” negli ospedali psichiatrici prima della riforma Basaglia, lettere drenate dai direttori e mai recapitate ai destinatari, quella «corrispondenza negata» raccolta poi con immenso amore dallo psichiatra che chiuse i manicomi di Volterra e di Firenze, Carmelo Pellicanò, quell’«epistolario della nave dei folli»,1 in cui ci sono più grani di verità che in intere biblioteche; lettere che accendono un flash su una storia da non dimenticare (i “sani” come aguzzini dei “malati”), e sul parto di una novità che sembrava impossibile, eppure c’è stato. C’è dunque una gran varietà di precedenti in mezzo a cui collocare, senza alcuna presunzione, i messaggi che sono qui messi in 1 Corrispondenza negata. Epistolario della nave dei folli (1889-1974), a cura di C. Pellicanò, R. Raimondi, G. Agrimi, V. Lusetti, M. Gallevi, Edizioni del Cerro, Tirrenia (Pisa) 2008.

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bottiglia e affidati all’onda quanto mai fragile di questo libro. La ragione di farlo è che forse c’è in essi qualcosa che potrebbe servire a tutti noi per comprendere meglio il tempo che stiamo vivendo; ma la vera speranza è che cadendo nelle mani dei nati nel terzo millennio – oggi ancora giovanissimi – li convincano che il loro compito non è solo di capire il loro tempo, ma di salvarlo. Il linguaggio della salvezza, che prima era frequentato solo dalle teologie della redenzione, entra oggi nel discorso comune, è la lingua rimossa ma impellente della politica, del diritto, dell’etica pubblica, laica e comune. Al passaggio del millennio ci siamo affacciati infatti sull’ignoto, non si sa se terra promessa o precipizio. È come se fossimo arrivati all’ultimo bivio: o verso il conseguimento dei beni sempre sperati, o il finale naufragio delle antiche promesse. E nel pieno di questo dilemma si è avuta l’irruzione sulla scena del Dio inedito raccontato da papa Francesco, che con il suo pontificato messianico ha fatto emergere con forza questa radicale alternativa investendola di una luce abbagliante. Certo i figli del nuovo secolo devono affrontare problemi e «doveri ignoti ad altre età», come Franco Rodano chiamò quelli che dovevamo affrontare noi quando nel 1945 c’era tutto da inventare di nuovo;2 e in realtà oggi si vedono cose che non erano mai accadute prima. Non era mai successo che i banchieri di tutto il mondo fossero uniti e i poveri invece divisi.. Non era mai successo che ci fossero più scartati ed esclusi, che sfruttati ed oppressi. Non era mai successo che si progettassero guerre in cui si muore da una parte sola: la tecnologia lo fa credere possibile, arma i droni che uccidono a migliaia di chilometri di distanza, rende asimmetriche tutte le guerre, ne sopprime l’ultima razionalità. Non era mai successo che il naufrago potesse erompere nel grido: «Terra! Terra!», ma la terra gli si negasse, i porti gli fossero chiusi in faccia. Non era mai successo che ai giovani fosse perfino impossibile immaginare un futuro. Non era mai successo che dire “uomini” non fosse la stessa cosa che dire “nati da donna”: non è più veramente necessario che siano due in una carne sola, al sistema non interessa che siano maschio e femmina, gli basta che siano eguali nel comprare e nel vendere; la differenza è ignota all’uomo potenziato – enhanced, 2 Marisa Rodano, Del mutare dei tempi, Vol. I, Memori, Roma 2008, pp. 319 seg.

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perché si dice in inglese – di domani; le donne l’hanno rivendicata, ma l’uomo globale è più maschilista di quello tribale, la donna neanche la distingue. Si può generare senza la donna, forse anche senza il suo utero. Allora non si potrà più dire: «Nel ventre tuo si riaccese l’amore» (Dante). Cessa la simbologia di Dio che «ha viscere di misericordia». L’intelligenza artificiale è asessuata, il robot è neutro. E non era mai successo che col caldo saltasse il chiavistello delle acque e il mare venisse su più alto delle città e della terra. Eppure fin dalla creazione, e perché essa potesse darsi, erano state separate le acque dall’asciutto. E non era mai successo che il denaro fosse messo sul trono come l’unico sovrano, che dieci ricchi ne avessero più che miliardi di poveri, e che non ci fossero al posto suo altri sovrani, né uomini, né donne, né popoli. Questi sono i problemi più gravi con cui si debbono misurare i nati in questo secolo e il loro compito è grave perché così come essi avvieranno le cose in questo inizio del millennio, esso si svilupperà nel futuro. Sono problemi che non possono essere affrontati da ciascuno da solo, ma dall’umanità tutta intera, purché essa si riconosca nell’eguaglianza come una sola famiglia umana. Le risposte che si devono dare a queste emergenze non sono infatti delle piccole risposte riformiste o populiste, oggi del tutto insufficienti, ma sono risposte che realizzino il passaggio da una fase infantile a una fase nuova, non “postmoderna” ma semplicemente adulta, della storia umana. È con l’occhio rivolto a questo futuro che le lettere qui raccolte sono state scritte e messe in bottiglia, soprattutto quelle redatte dal marzo 2017 in poi dal sito “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” che nella sua home page parte da un rovesciamento, il papa che apre la porta santa dell’anno della misericordia non a Roma, ma a Bangui, nel cuore dell’Africa predata. Sono lettere che portano i segni della transizione epocale in corso. Ma perché non manchi la coscienza della storia da cui veniamo, partono da più lontane scissure, il delitto fondatore che fu il sequestro e l’uccisione di Moro, l’abbandono dell’istanza rivoluzionaria in Italia e il suicidio del partito comunista, il lungo assedio alla Costituzione troppo affetta di democrazia. Ma conservano anche la memoria di altri eventi fondatori che annunciavano un’epoca nuova: la conversione culturale e politica a metà del Novecento, la scelta fatta per l’umano, il ripudio della guerra, le Nazioni Unite, il Concilio. 14


Non tutte, in verità, sono lettere, di quelle col francobollo, come si usava una volta. Ci sono anche dei discorsi, attraverso cui le cose si sono andate chiarendo pian piano; discorsi che poi in realtà erano lettere, perché quando c’era da dire qualcosa, che si trattasse di parlare alla Camera dei deputati o che me lo chiedessero un circolo culturale o politico, una comunità di cristiani, un gruppo di elettori, in realtà io scrivevo una lettera per loro, e poi gliela andavo a raccontare sotto forma di discorso. Ma erano lettere, perché erano pensate e argomentate proprio per loro, a misura di destinatari determinati, e per questo funzionavano. Non so se ora messe qui, a uso di destinatari indeterminati, funzionino ancora. Comunque ci sono. Come si vedrà esse non sono disposte in ordine di data – cosa che sarebbe abbastanza paradossale pretendere da lettere che viaggiano in bottiglia – ma secondo un filo della memoria che ha pure le sue ragioni. E se ha un senso leggerle, è perché io sono uno dei pochi ormai che avendo vissuto “quel nostro Novecento” (c’è anche un libro che pubblicai con questo titolo ai miei ottant’anni3) può ancora ammonire e gettare uno sguardo di trepidazione e d’amore su “questo vostro Duemila”.

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Raniero La Valle, Quel nostro Novecento, Ponte alle Grazie, Milano 2011.

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Il delitto fondatore

Quando in Italia uccisero il padre

Il 9 ottobre del 1990, dodici anni dopo il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, ci fu il sorprendente ritrovamento in via Monte Nevoso a Milano, in un covo delle BR già visitato più volte dalla polizia, delle lettere dal carcere e del memoriale manoscritto dello statista democristiano, il padre costituente alla cui liquidazione le Brigate Rosse avevano provveduto ma che l’intero sistema aveva desiderato, pur di bloccare la sua linea politica che stava allargando ai comunisti “l’area democratica”. Se ne fece un dibattito parlamentare e il presidente del Consiglio Andreotti lo introdusse con una dichiarazione di basso profilo, tutta ridotta agli elementi di fatto del ritrovamento, e senza il trasalimento della tragedia così rievocata. Eppure, come aveva predetto Moro in una lettera al suo partito, le cose stavano diventando chiare, e tutto confermava il carattere sacrificale della sua morte. Moro fu immolato alla ragion di Stato, come a me sembrò di poter dire nel dibattito parlamentare che ne seguì. Signora Presidente,4 non so se i fatti stiano tutti sotto quel basso profilo di assoluta normalità che risulta dalle dichiarazioni del Presidente del Consiglio; ma se fosse così, il sussulto da cui è stata scossa tutta la vita politica italiana non sarebbe meno grave, anzi denuncerebbe ancor più – perché senza causa – la patologia che investe oggi l’intero sistema. In effetti la «notte oscura» della Repubblica, che ha avuto il suo culmine nel sequestro e nell’uccisione dell’onorevole Moro, continua ancora oggi nonostante la sconfitta delle Brigate rosse ed anche il presente episodio del ritrovamento dei documenti in via Monte Nevoso si iscrive in questa notte e la prolunga. Ma lo scandalo di fronte al quale ci troviamo non consiste nel fatto che ora questi documenti siano stati rivelati – atto dovuto – bensì nel fatto che per dodici anni tali documenti siano rimasti occultati. E questo occultamento, oltre a trattenere ancora nel silen4

Si trattava di Nilde Iotti.

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zio la parola dell’onorevole Moro, che già gli era stata espropriata e invalidata nei 55 giorni del sequestro, oltre a perpetuarne l’esclusione come testimone credibile, che egli già aveva subito prima della sua morte, è stato di grave nocumento per la Repubblica ed una perdita per tutti noi. Neanche a me piace la dietrologia e perciò non entro ora nelle polemiche sulle manovre palesi o nascoste che sono dietro questo doppio movimento di occultamento e di svelamento. Non voglio chiedermi a chi giovi o chi danneggi questo coprire e scoprire, questo occultare e svelare. Mi sembra che questo sia il lato meno importante della questione, mentre quello più importante è che se il nostro Paese, la nostra classe politica, non avranno pienamente il coraggio di guardare in faccia il delitto Moro, non avranno il coraggio di fare fino in fondo i conti con esso, allora la tragedia italiana non sarà veramente finita, la violenza non sarà veramente vinta, la politica italiana continuerà ad essere inquinata, perturbata, insincera e refrattaria alla luce del sole. In realtà, noi non sappiamo ancora che genere di delitto sia stato quello Moro; non lo abbiamo saputo allora e, di rimozione in rimozione, di occultamento in occultamento, non lo sappiamo ancora oggi. Dicono gli antropologi che nella storia di ogni comunità umana c’è all’origine un delitto fondatore; il delitto Moro è all’origine di questa seconda fase della nostra Repubblica e non ha cessato di produrre i suoi effetti su tutto il successivo svolgimento della nostra vita politica fino ad oggi. Noi non sappiamo se fu un semplice delitto del terrorismo rosso, se fu anche il frutto di un complotto internazionale, oppure se fu anche un delitto sacrificale. Durante il sequestro un giornale italiano riportò il seguente titolo: «Sacrifichiamo Moro e salviamo la Repubblica»; formulazione incauta, icastica, contro la quale giustamente reagì a quell’epoca, in una dichiarazione, l’onorevole Craxi. Se di questo si fosse veramente trattato, allora quello sarebbe stato un evento sacrificale, l’offerta di una vittima perché la comunità fosse salva. Ed era contro questa ideologia sacrificale, vittimaria, non nuova nella cultura politica dell’Occidente e non ignota alla riflessione teorica, che l’onorevole Moro strenuamente si batteva dalla sua reclusione; e, ciò facendo, interpretava un interesse generale e non personale. La cultura sacrificale, infatti, è distruttiva di quella 18


pace sociale che vorrebbe salvare, è la madre legittima della violenza, che nello stesso tempo dissimula e nasconde. Essa è gravida della guerra, è ragione giustificata di tutte le esclusioni ed è incompatibile con uno Stato di diritto e con una democrazia laica e moderna. Io non so se l’uccisione di Moro, come unico possibile esito di quella vicenda, quali che fossero le intenzioni dei diversi protagonisti nei campi opposti, non sia da annoverare in questa tipologia vittimaria, così ricorrente nella storia delle nostre società. È anche per sapere questo che entrai a far parte della Commissione parlamentare d’inchiesta sul delitto Moro; ma neppure in quel caso si acquisirono elementi sufficienti per una risposta. Tra gli elementi che mancarono per avvicinarci ad essa c’erano anche gli scritti e le lettere di Moro di cui ora disponiamo e la cui sottrazione alla vista ci impedì allora di considerare autentico il memoriale di via Monte Nevoso. All’epoca, infatti, disponevamo solo della trascrizione a macchina fatta dalle Brigate rosse, mentre ora sappiamo che gli originali erano di pugno di Moro. Se i documenti ritrovati oggi fossero stati conosciuti allora, sarebbe almeno caduta definitivamente la tesi della non attribuibilità a Moro delle sue lettere e dei suoi scritti dal carcere. È lo stesso Moro, infatti, che nelle carte ora ritrovate risponde all’obiezione, persino con un filo di ironia. Egli scrive: «Scorrendo rapidamente qualche giornale in questi giorni ho rilevato che andava riaffiorando la tesi, la più comoda, della mia non autenticità e non credibilità. Moro, insomma, non è Moro. Per qualcuno la ragione di dubbio è nella calligrafia, incerta, tremolante, con una oscillante tenuta delle righe; il rilievo è ridicolo, se non provocatorio. Pensa qualcuno che io mi trovi in un comodo ed attrezzato ufficio ministeriale o di partito? Pretendere in queste circostanze grafie cristalline ed ordinate, e magari lo sforzo di una copiatura, significa essere fuori della realtà delle cose». Mi sembra che ora, di fronte a questa rivendicazione di autenticità, dobbiamo finalmente prendere in considerazione e in consegna gli scritti di Moro, leggerli senza superficialità, senza precomprensioni né pregiudizi, e con essi confrontarci. Anche attraverso l’assunzione di questi scritti noi possiamo e dobbiamo riprendere un severo esame critico sulla natura e sui passaggi cruciali di tutta quella vicenda e del delitto che ne conseguì. Fino a quando ciò non sarà fatto, questo trauma peserà come 19


un macigno sulla vita della società italiana, la bloccherà, ci impedirà di crescere, resterà come un nodo non risolto, come un peso sulla coscienza civile che, quanto più viene rimosso, tanto più sarà causa di turbamento e di crisi. Ma guardare in faccia questo delitto vuol dire allora che tutto deve essere portato alla luce, tutto deve essere detto sui tetti, tutto deve essere pubblicato tranne, beninteso, secondo il desiderio della famiglia, le lettere private dirette da Moro ai suoi cari. E vuol dire anche che ciascuno non deve, non può limitarsi oggi a rivendicare la giustezza delle proprie scelte di allora, per di più con gli stessi argomenti di allora. Adesso sappiamo più cose, abbiamo capito più cose e dunque bisogna essere capaci anche di una revisione dei propri giudizi di allora, di una revisione critica e, se volete, di una coraggiosa autocritica. E, per cominciare, dobbiamo restituire a Moro come pienamente e interamente attribuibili a lui, non dico i suoi scritti, ma i suoi 55 giorni, i 55 giorni del suo sequestro, che sono stati gli ultimi e i più importanti della sua vita. Sono stati i giorni del suo martirio e non della sua ribellione, perché egli accettò con grande ascesi personale la sua condizione quando scriveva: «Io sono – sia ben chiaro – un prigioniero politico e accetto senza la minima riserva, senza né un pensiero né un gesto di impazienza, la mia condizione». Ma quello che non accettava era che questa sua condizione diventasse per così dire non un patimento o una passione personale, ma la materia di un interesse pubblico, il supporto di una ragion di Stato, la contropartita di un bene collettivo. E dobbiamo allora leggere, prendere sul serio le cose che Moro diceva. La vera novità di questo ritrovamento è che esso ci restituisce un Moro in tutta la sua dignità e profondità di pensiero politico, con un grandissimo senso del rapporto tra politica ed etica, con un grandissimo sforzo di verità. Io vorrei davvero che non facessero velo le polemiche personali, i giudizi severi che riguardano questa o quella persona. Nel complesso questi scritti di Moro rappresentano – io credo – un altissimo documento di coscienza politica: non sono affatto delle ovvietà, onorevole Battistuzzi, sono carte di una grande lucidità politica, di una serena e rigorosa rivisitazione di trent’anni di storia italiana che le giovani generazioni, fuori da ogni pregiudizio, farebbero bene ad interrogare e a meditare. 20


Basti pensare alle valutazioni anticipatrici che l’onorevole Moro faceva sul rischio che corre la democrazia quando – come scriveva dal suo esilio – si chiude il mercato delle opinioni, quando tutta la stampa si concentra in poche mani e il pluralismo si riduce a cinque o sei testate e tutti i giornali dicono univocamente la stessa cosa, come avveniva allora e come ancora di più avviene oggi. Basti pensare al giudizio pacato e penetrante sul significato del referendum sul divorzio del 1974 fuori da ogni mitizzazione: un giudizio strettamente politico. Basti pensare alla denuncia della pratica americana di comprare per denaro il consenso delle forze politiche italiane. È la rivendicazione di dignità di chi non vuole certo negare l’opportunità di armonizzare le politiche dei due Paesi, ma vuole che questo avvenga – cito testualmente – «in libertà, per autentica convinzione e al di fuori di ogni condizionamento». Basti pensare alla chiarezza con cui interpretava la vicenda Lockheed5 come il segnale del mutamento degli equilibri politici in Italia e della crisi del sistema di alleanze della Democrazia Cristiana. Basti pensare all’acuta analisi sugli effetti di mutazione genetica che il progredire della società tecnologica o tecnocratica provocava sui partiti italiani a cominciare dalla DC. È del tutto chiaro, signora Presidente, dalla lettura di queste carte che esse non sono scritte per le Brigate rosse, ma sono scritte per noi. Io credo che noi tutti dobbiamo ricevere questa eredità, farcene tutori, farci depositari dei suoi valori, farci mettere in causa dai suoi profili più problematici. Soprattutto dovremmo cogliere il valore di questa alta espressione di moralità politica manifestata nelle condizioni più difficili, che ci viene da uno dei maggiori testimoni del nostro tempo. Per questo, signora Presidente, vorrei concludere avanzando due richieste, o meglio due proposte. La prima è che la Camera curi la pubblicazione di queste lettere e di questi scritti dell’onorevole Moro, membro della nostra Assemblea, perché le cose che egli ha cercato di comunicarci dal fondo di quella tragedia non siano 5 È un’impresa americana produttrice di aerei che diede il nome negli anni ’70 del secolo scorso a un grande scandalo politico di corruzione, che coinvolse numerosi esponenti politici italiani.

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state scritte invano e giungano ai loro naturali destinatari, che sono i cittadini di questo Paese che egli ha amato e per i quali gli è stata chiesta ed ha dato la vita. La seconda richiesta, o proposta, signora Presidente, è che si scriva in lettere d’oro in quest’aula, come sono scritti i risultati dei plebisciti dell’unità nazionale, alcune parole che l’onorevole Moro ci ha lasciato come monito estremo in queste sue ultime carte. Sono parole scritte nel contesto di un richiamo alla verità, di un invito a riflettere in uno spirito di verità, di un invito a non posporre all’interesse, pur legittimo, di un risultato elettorale, l’interesse della verità perché, dice Moro, «la verità è la verità». Allora, la frase, che vorrei vedere scritta in quest’aula ma che, soprattutto, vorrei fosse impressa nella mente e nel cuore di tutti noi è questa: «Datemi, da una parte, milioni di voti e toglietemi, dall’altra parte, un atomo di verità ed io sarò comunque perdente, perché la verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto».

Dal resoconto stenografico della seduta della Camera dei deputati del 24 ottobre 1990.

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