Where you been

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where you been?

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where you been? GABRIELE SALVIA

MARCO DIDONATO

GIULIA POMA MURIALDO

LEONARDO PACE

ADRIANO COLASANTI


Biennale dello spazio pubblico Acquario Romano_Casa dell’Architettura Roma, 16-19 Maggio 2013 da un’idea di Gabriele Salvia e Marco Didonato progetto grafico: Gabriele Salvia contributi: Gabriele Salvia, Marco Didonato, Adriano Colasanti, Giulia Poma Murialdo, Leonardo Pace ringraziamenti: Casa dell’Architettura, Acquario Romano srl, prof. arch. Giuseppe Pasquali, prof. arch. Stefano Catucci, prof. arch. Alfonzo Giancotti, prof. arch. Luca Montuori, Valeria Penna, Gaia d’Agostino, Lucio Lorenzo Pettine, Serena Savelli, Alberto Saccà, Enrico Ansaloni, Alessandro Zappaterreni.

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premessa : Il progetto che ci apprestiamo a illustrare raccoglie diversi contributi sul tema dello Spazio Pubblico e in particolare sulla natura e sul possibile destino dei cosiddetti vuoti urbani. Il racconto, laboratorio di teoria e progetto, include ambiti disciplinari differenti: urbanistica, fotografia, scenografia, estetica, antropologia urbana e filosofia del diritto. Parallelamente scorreranno le immagini: alcune a commento dei luoghi, altre di progetti d’invenzione.

Esse sono frutto dell’ibridazione di fotografie originali analogiche con

tecniche digitali di rappresentazione dello spazio.



indice :

pag. 7

Citta’ ideali - citta’ reali

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Appropriarsi del presente ovvero tutto e subito

pag. 21

Lo spazio urbano, bene comune: dal residuale al generale attraverso la citta’

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Pellicola e percolato

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Micro-strutture


“(....) chi vi abita non ha ripari contro i rumori continui, non ha giardini dove portare a spasso i bambini: ma non gli mancano negozi di tutti i generi, bar, cinema di ogni categoria. Vive male ma vive in città, o almeno ciò che si può chiamare città in un contesto totalmente consumistico.” ITALO INSOLERA, Roma Moderna, 1962

“(....)

sono infatti i nuovi “quartieri alti”, ma il confort che offrono è limitato al bagno di marmo, al caminetto in soggiorno a una stampa fotograficamente ingrandita nell’androne, alle numerose digradanti terrazze degli attici e dei superattici abusivi, a qualche privatissima piscina. Il comfort urbanistico, il comfort collettivo, quello che veramente fa ricco o povero un quartiere, che vi rende la vita piacevole o ostica, è completamente assente o si riduce a messinscena e rèclame.” ITALO INSOLERA, Roma Moderna, 1962 8


CITTA’ IDEALI -

CITTA’ REALI

La città ha sempre scelto categorie ideali per rappresentarsi: nelle prospettive e nei rilevi, nelle tipologie e negli oggetti che la componevano. Lo spazio pubblico è sicuramente un’invariante di quello che per secoli è stato l’immaginario del vivere e del progettare la città. Dal Rinascimento in poi erano piazze, fontane, obelischi, gradinate e monumenti a registrare la qualità dello spazio urbano. La collettività si faceva gloria di splendore tra i suoi porticati e i suoi viali. Il potere si mostrava nella sua saggezza e ricchezza. Lo spazio pubblico rappresentava il luogo dell’accordo tra i principi

benefattori e i sudditi fruitori dei giardini, dei cortili e delle terrazze e dei

marmi che solo in pochi potevano possedere. Era l’estensione naturale delle case e dei palazzi, luogo di socialità collettiva e riverenza estasiata verso il potere. Si trattava di uno spazio che ribadiva l’unicità e l’individualità di una cittadinanza attraverso le tecniche o i materiali; racconto di una storia passata o recente: come gli obelischi nella Roma imperiale o le piante tropicali nelle città andaluse narravano di conquiste, così gli stili della Toscana dei Medici parlavano di un sapere acquisito unico, prezioso e inespugnabile. Nell’epoca della riproducibilità, del consumo e dell’individualismo il disegno dello spazio pubblico ha inevitabilmente perso importanza. I motivi che ci possono guidare in questa ricerca sono diversi: politici, sociali o economici. Ma parliamo anche di una disaffezione del cittadino per gli spazi di condivisione. La questione del vivere bene in città si risolve attraverso indici puramente quantitativi: possibilità di trovare un parcheggio, accesso ai supermercati, privacy alias sicurezza. Valori ormai internazio9


nali, finalmente codificati in rigidi standard urbanistici,

che hanno atrofizzato l’idea

di qualità dello spazio urbano. Le politiche territoriali si sono adeguate di conseguenza: ecco i piani di seconda generazione

- programmi complessi - dove le amministrazioni confidano nel privato al punto

da spianargli la strada verso il giusto investimento, ripagando la cittadinanza dell’abbondanza di negozi, acquari, cinema, divertimenti a cui sembra essere assuefatta. La città reale è il lascito delle zonizzazioni o lottizzazioni; è una città sempre più compatta attorno ad alcuni fuochi e rada ai margini. Rivolta verso la dimensione interna dell’abitazione. Sovraccarica di ristoranti etnici e tabacchi. Affollata alle fermate dell’autobus senza un riparo per la pioggia e alla perenne ricerca di un parcheggio. Le strade e gli slarghi raccolgono persone

in movimento dirette verso la propria meta:

l’acquisto, il lavoro o lo svago. Lo spazio pubblico si ricicla in uno spazio quasi esclusivamente funzionale dove il fruitore si aggira a testa bassa, come all’aereoporto, concentrato sui propri adempimenti. Ma la città reale, in virtù della sua complessità, è anche silenziosa a tratti. E’ costruita di luoghi che risultano come scarti dalla paralisi di alcuni meccanismi: terreni industriali congelati nel tempo da cause di fallimento, ville pignorate, lotti tagliati fuori dalla crescita perchè ineccessibili o oscurati da qualche infrastruttura, campi abbandonati dall’agricoltura che per qualche strano caso resistono “non edificabili”, cave esaurite, slarghi asfaltati, fossi e isole spartitraffico. Sono spazi in bilico, dominio del possibile. Posseggono un’identità contraddittoria, frutto delle sedimentazioni “sporche” del passato recente. Questi terreni poggiano su strati di rifiuti che sono frammenti di piastrelle o calcinacci degli anni 60; scarichi di metalli nelle trincee scavate in guerra; da qui emergono rovine arrugginite o scheletri in muratura di tipologie impensabili. Sono luoghi carichi di un fascino archeologico perchè fatti di oggetti e contesti unici e irriproducibili. Sono a prima vista a testimonianza di una serie di

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errori e paradossi, ma sono ben più ricchi di significato di una strada commerciale. Non è un caso che la fotografia,

l’arte

o il cinema - ma anche

Leonardo Lippolis o Gilles

Clèment - li abbiano riconosciuti come i nuovi luoghi sacri.

G.S.

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CITTA’ ALLA FINESTRA

Foto originale (A.C.): La mia casa di Frascati, 2012 Leitz 50mm, pellicola Kodak 100 iso. La mia casa di frascati 2012

Modellazione e Compositing (M.D. e G.S:)

Ricostruzione virtuale della scena, illuminazione, mappe con Vray e 3dS Max. Compositing in Adobe Photoshop

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TERRAZZE ROMANE

Foto originale (A.C.): Terrazza condominiale, Roma Rolleiflex 80mm, pellicola kodak 100 iso.

Modellazione

e Compositing (M.D., G.P.M e G.S:)

Ricostruzione virtuale della scena, illuminazione, mappe con Vray e 3dS Max. Compositing

in Adobe Photoshop 14


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“Il punto è reagire ad uno stato di privacy sempre meno sostenibile, alla proprietà privata e all’isolamento.” GORDON MATTA-CLARK,

ca. 1970

“Gli scontri sociali esplodono oggi non più per prefigurare o costruire il futuro, ma per appropriarsi del presente e per l’accesso alla ricchezza.” MASSIMO ILARDI, Outlet N.2, 2013

“Quelle strisce di terra tra due posti di controllo sembrano sempre zone piene di promesse: la possibilità di nuove vite, nuovi profumi, nuovi affetti. Ma al tempo stesso scatenano in me un disagio che non riesco a reprimere.” JAMES BALLARD, Cocaine Nights, 1998 16


APPROPRIARSI DEL PRESENTE OVVERO TUTTO E SUBITO Viviamo in un condominio lungo via dell’Acqua Bullicante a Roma. Il fronte principale insiste sulla via rumorosa e popolata mentre quello secondario affaccia su un ampio campo incolto che arriva almeno fino a Centocelle. Una pausa sofferta in un settore urbanizzato in maniera intensiva che va avanti per chilometri dalla Stazione Termini in derezione est. Il terrazzo condominiale offre una panoramica a 360° sull’area: l’affaccio sul centro città - ovviamente non si vede il Cupolone - è un panorama frastagliato di sopraelevazioni, attici, vani ascensori. Da ogni giacitura possibile si ramificano antenne e parabole che con un pò d’immaginazione sembrano centinaia di sculture di Fausto Melotti. Abbassando lo sguardo sulla destra il nostro edificio è separato da quello a lato da una strada senza uscita che si ramifica dalla via principale e muore contro una rete malandata circa venti metri dopo aver lambito i fronti ciechi dei due condomini. Questa via, priva di attività commerciali e garages al piano terra, per anni una speranza in più per chi cercava parcheggio nelle ore tarde, un giorno è stata privatizzata. Una mattina sono stati colati nel cemento due paletti e posta una catena con lucchetto; è inoltre apparso un cartello con la scritta STRADA PRIVATA. Si è scoperto in seguito che era diventata una via di pertinenza dell’edificio a fianco al nostro.

Ovviamente non è cambiato nulla

nell’aspetto della strada che è rimasta un caotico parcheggio; ma le uniche vetture che potevano sostarvi erano quelle dei condomini dell’edificio in questione. Ma l’appropriazione non è passata con indifferenza, ha invece suscitato un certo scontento nel vicinato, che si è subito riunito in una causa collettiva che ha portato alla rimozione dei paletti di lì a un mese.

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Sul lato opposto c’è più spazio. Il lotto adiacente, sempre sulla via principale è un quadrato asfaltato da cui emergono tre oggetti: un gabbiotto rettangolare che fa pensare a quello di un benzinaio, due rulli scoloriti di un autolavaggio sorretti da una struttura metallica e un albero. A terra vi sono le tracce in gesso dei posti auto, forse un tempo era un parcheggio; oggi è vuoto anche se ogni tanto compare qualche auto stazionata. Per impedire l’accesso alle macchine dalla via principale c’è un’esile catena e un cartello scritto a mano appoggiato a terra: PROPRIETA’ DI X.X. Il campo alle spalle del palazzo rappresenta però la realtà più complessa e incerta dell’area. Nonostante la sua notevole estensione e sebbene la costeggi per quasi trecento metri è praticamente invisibile da via dell’Acqua Bullicante. Vi si accede da buchi sporadici tra la quinta edificata; ad esempio c’è un buco abbastanza grande nella rete dietro il gabbiotto dell’ex parcheggio. Non ci sono molti alberi ma una vegetazione spontanea e rigogliosa lo avvolge interamente. C’è anche un sentiero che parte dal buco nella rete e si avventura verso l’unico casale al centro del campo. Ogni tanto qualcuno ci porta a spasso il cane data l’assenza di parchi pubblici nel raggio di almeno tre chilometri. Altri frequentatori abituali del campo sono i tossici a cui è propizia la mancanza di illuminazione e la scarsa visibilità. L’unica parte curata è un rettangolo adiacente a uno degli edifici che vi si affacciano. I condomini hanno recintato una parte di questo terreno incolto e l’hanno attrezzato con delle altalene, dei cestini per l’immondizia e delle innocue panche da picnic in legno; lo utilizzano per mangiare all’area aperta con il beltempo. Quest’area è aperta a tutti durante il giorno ma data la scarsa accessibilità e il carattere domestico del cancelletto è poco frequentata. Ma non si tratta dell’unica occupazione in atto nel campo: una famiglia anziana residente in un

altro palazzo che fronteggia l’area ha ricavato un orto recintato che man-

tiene attivo durante l’anno e un pollaio improvvisato. Inoltre attorno al casale alcuni

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appezzamenti sono coltivati e arati dai contadini metropolitani che vi risiedono che hanno anche “decorato” il manufatto con superfetazioni in plexiglass e lamiera. Loro hanno piantato l’unico albero degno di nota: un enorme pino marittimo. Continuando lungo il sentiero ci si rende conto che il campo ha altri abitanti: dentro un canneto difatti ci sono tre o quattro baracche di nomadi. Si capisce che sono abitate dai panni appesi fuori. Questo racconto, così radicato nel contesto romano eppure così vicino a molte altre realtà italiane, apre ad alcune riflessioni sulle conseguenze spaziali e ambientali di queste occupazioni, reali o potenziali che siano. Innanzi tutto notiamo che al di là della normativa nazionale, dei regolamenti edilizi e dei piani regolatori, gran parte del territorio urbanizzato non soddisfa requisiti minimi di vivibilità (affollamento, mancanza di un adeguato sistema di trasporto pubblico, carenza di servizi, degrado delle infrastrutture ...). Parlo di contesti periferici dove l’investimento economico per un risanamento o un progetto urbano non è motivato da attrattori turistici o consumistici. Questo è un dato sensibile per la cittadinanza e che in un certo senso legittima moralmente le occupazioni di suolo pubblico o privato. Lo Stato omette di fare qualcosa non provvedendo ai servizi e soprattutto non esercitando un adeguato controllo sulla proprietà privata. Oggi è possibile che una palazzina che ospita 12 famiglie abbia sul tetto 12 antenne per la televisione e 12 parabole, con altrettanti buchi in facciata per installare i condizionatori. Slarghi e piazze, terreno di nessuno, sono selvaggiamente invasi dalle automobili al punto da diventare negli anni dei veri e propri parcheggi. Soprattutto è possibile che un ampio campo agricolo tra le maglie della città consolidata giaccia abbandonato a discarica abusiva e ricovorero d’emergenza per i senzatetto.

Lo

spazio pubblico si è trasformato in uno spazio che appartiene al predatore più forte, a chi prima se ne appropria e questa nuova prospettiva di accesso al presente nasce e si rafforza in contraddizione con l’urbanistica intesa come pianificazione sostenibile del futuro.

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Tornando brevemente al racconto possiamo classificare le appropriazioni in atto in tre tipi.La maggior parte sono di tipo parassitario: parliamo delle antenne, delle baracche e dei pollai abusivi, dei rifiuti lasciati dai drogati; tutte occupazioni che consumano e infestano l’ambiente circostante in quanto di iniziativa individuale. Ce ne sono alcune in cui il passaggio pubblico-privato non lascia segni evidenti di cambiamento, come nel caso della strada privata che è rimasta un caotico parcheggio. Ci sono poi delle appropriazioni che al di là della qualità architettonica potremmo definire virtuose in quanto prevedono, anche se minimo, un miglioramento e un’apertura al pubblico: gli orti ben tenuti nelle vicinanza del casale come il giardino

attrezzato dai condomini.

Ma la città è ad uso e fruizione collettiva... Si sprecano gli slogan: RIPRENDIAMOCI LA PIAZZA, IL PARCO NON SI TOCCA in bella grafica affissi ai muri delle vie più trafficate; nelle università di architettura riappare lo spettro dell’urbanistica partecipata. Ma il problema nella sua complessità viene spesso solo sfiorato e si disperde tra tesi di laurea e associazioni di quartiere. Per uscire allora dal circolo vizioso dell’individualismo - ovvero faccio ciò che voglio all’interno e nell’intorno della mia proprietà - c’è bisogno di uno strumento di controllo che permetta un riscontro immediato del miglioramento delle condizioni di vita e che quindi promuovendo un atteggiamento virtuoso incoraggi la gente a rispettarlo. Ma aspettando il cambiamento dall’alto forse è auspicabile una riappropriazione strategica dal basso... Gran parte del lavoro consisterebbe allora nel riconoscere questi spazi altri; rispettare la loro identità forte anche se diversa da quella di una canonica piazza medievale o di un parco ottocentesco. Potrebbero bastare interventi minimi e non definitivi, strutture in nuce che defilandosi dal processo edilizio convenzionale indirizzino questi spazi verso una riappropiazione autentica da parte della cittadinanza.

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Allora l’ex parcheggio, in attesa di una sentenza, potrebbe rivivere diventando il punto di accesso al campo. Magari un luogo di sosta. A quest’ultimo basterebbero dei cestini per l’immondizia e un paio di punti luce per scoraggiare i malintenzionati e invitare gli avventurieri.

G.S. “C’è un tipo di complessità che deriva dal prendere una situazione altrimenti del tutto normale, convenzionale, anche anonima, e ridefinirla, ritradurla in letture molteplici e sovrapposte di condizioni passate e presenti”. GORDON MATTA-CLARK, 1970 c.a

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“Voleva entrare in comunità e non ha più altra speranza che adunare ad uno ad uno lungo gli anni i solitari in cammino verso l’unità.” ALBERT CAMUS, L’uomo in rivolta, 1957

“... la città è il progresso della ragione umana (in quanto cosa umana per eccellenza) e questa frase ha un senso solo allorquando illuminiamo la questione fondamentale e cioè che la città e ogni fatto urbano sono per loro natura collettivi.” ALDO ROSSI, L’architettura della città, 1966

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LO SPAZIO URBANO, BENE COMUNE

dal residuale al generale attraversando la citta’

Nelle città di oggi le persone sono monadi che conducono la propria esistenza cercando di preservare se stessi dalla contaminazione con “l’altro”. La paura verso l’altro è il motore che alimenta le ossessioni per la privacy e per la sicurezza. Questo genera una spirale perversa: la fuga dall’altro fa nascere l’esigenza di sicurezza, i sistemi di difesa così generati accrescono le distanze fra gli individui. Il potere politico a tutti i suoi livelli ne è ben consapevole e utilizza le politiche securitarie per canalizzare consenso elettorale. In questa dinamica appena esposta, un ruolo fondamentale è ricoperto dal modo in cui lo spazio pubblico è concepito e vissuto. Chiariamo questo punto. Il processo di straniamento non solo è congenito alle grandi città, in quanto esse sono un agglomerato di persone che, per storia, condizioni economiche, sociali, culturali diverse, hanno difficoltà a stabilire un contatto umano. Esso è anche indotto, provocato. E’ il frutto di scelte culturali prima e politico-amministrative poi, che impediscono e nei migliori dei casi non favoriscono questo incontro. Per tali ragioni, nella nostra epoca, lo spazio pubblico, inteso come luogo di socialità, è pressoché assente. Si è imposta nell’immaginario collettivo il modello dell’abitazione privata, dello spazio privato. Ciò ha portato all’affermarsi nello spazio pubblico di esigenze quali: l’ordine, il decoro, la tranquillità, che appartengono alla seconda. Lo straniamento provocato dalle realtà metropolitane fa venir meno il nesso fra singolo e la comunità e di conseguenza indebolisce fino a sopprimere l’idea stessa di comunità.

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L’aggressione da parte delle pubbliche amministrazioni di spazi vuoti da edificare e riempire ha snaturano la funzione sociale che quei vuoti hanno nel tessuto sociale che con con essi si relaziona. La sempre maggiore aggressione dello spazio pubblico da parte del privato, compiuto con l’accondiscendenza delle pubbliche amministrazioni comporta una riduzione delle funzioni da questo svolte. Ciò ha due conseguenze. La prima diretta e fattuale: privare materialmente il cittadino delle possibilità, soprattutto in termini di socialità, insite nello spazio pubblico. La seconda indiretta e culturale: la convinzione sempre crescente da parte degli individui che la soddisfazione dei propri interessi debba passare necessariamente attraverso la dimensione privata. Il tessuto sociale di un certo quartiere è attaccato a volte anche su un altro fronte. La retorica della riqualificazione che induce ad affermare l’esigenza di quartieri più decorosi fa entrare nuove e agiate classi sociali in quartieri oggetto di tali interventi. La conseguenza è un vero e proprio smottamento sociale. Non solo si ha un’alterazione degli equilibri umani di quel quartiere. Molte volte la presenza di classi agiate crea un aumento dei canoni locatizi tale da rendere difficoltoso per gli abitanti originari continuare ad abitare in quei luoghi. Questo fenomeno, che qui abbiamo solo accennato, mette bene in luce che il diritto ad abitare non si traduce nel solo diritto ad avere una casa, ma anche e soprattutto nel diritto ad avere legami affettivi e sociali. Per queste ragioni sinteticamente esposte sorge la necessità di ripensare lo spazio urbano e più in generale contestare la legittimità di ogni atto di governo del territorio che sottragga (attraverso delle azioni o delle omissioni) utilità alla collettività, in termini di salute, libertà, socialità, dignità di vivere e felicità. E allo stesso tempo cominciare a pensare lo spazio urbano come un bene comune. Questa è una sfida importante e non priva di ostacoli difficili da superare dal punto di vista teorico, ma una necessità non più rinviabile nella prassi. Posto che il modo in cui lo

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spazio urbano viene pensato e strutturato determina le condizioni di vita e le relazioni sociali che in esso si sperimentano. Affermare che lo spazio urbano deve essere considerato un bene comune, significa che bisogna cominciare a sviluppare e diffondere l’idea della riappropriazione degli spazi urbani. Ciò passa attraverso la rivendicazione, non solo proclamata ma vissuta, della legittimità dell’uso da parte di tutti quegli spazi che siano comuni per vocazione. Ragionare in termini di riappropriazione significa accettare una logica conflittuale rispetto all’esistente. I beni comuni infatti sono tali soltanto se accompagnati da una prassi del conflitto. La quale deve portare al riconoscimento di quelle relazioni qualitative (perchè soltanto in queste il bene comune esiste) che coinvolgono tali beni. Questa è una sfida, è bene tenerlo presente, che non si gioca sulla dicotomia bene pubblico-bene privato o su strategie di contestazione della proprietà. Per condurre questa battaglia, che è una battaglia culturale, avente come obbiettivo il riconoscimento dell’intero spazio urbano come bene comune, bisogna strategicamente partire da quei luoghi che sono fuori dalla logica e dalle leggi delle metropoli. Dagli interstizi, dagli spazi residuali di quest’ultima. Da qui bisogna partire e ripensare in tal modo una nuova politica “dell’incontro”. La quale si sostituisca al modello di incontro predominante nelle città: quello conflittuale e distruttivo. Questo cambio di paradigma non deve essere calato dall’alto, ma deve avvenire dal basso. Affinché ciò avvenga, è innanzitutto necessario aumentare le possibilità di contatto fra le persone in modo da far nascere un sentimento di apertura verso “l’altro”. Il che significa, far rinascere la disponibilità e la capacità di creare le possibilità per far avvenire buoni incontri e quindi stringere buoni rapporti con gli altri. Il fine è quello di aumentare la coesione sociale e quindi la vivibilità, dal punto di vista umano, delle città. Sostituire la spirale perversa di cui abbiamo parlato all’inizio con una virtuosa. La creazione di corpi sociali coesi, avrà una ulteriore e importante conseguenza. Solo

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un corpo sociale coeso, che ha coscienza di sé, può percepire lo spazio in cui vive come proprio. Solo in questo modo si relazionerà, collettivamente, con esso e si spenderà per preservarlo e migliorarlo. E difenderlo, se del caso, da attacchi che prevengono dall’esterno, ad opera dello

Stato - il pubblico- o dei privati.

Partendo dall’affermazione, dalla rivendicazione e dalla preservazione dei luoghi della quotidianità come beni comuni, si comincia a porre il primo tassello per inculcare nell’immaginario culturale collettivo il nuovo paradigma dei beni comuni. Questo si pone come elemento ontologico che fonda e preserva la comunità; come grimaldello che finalmente scardini la separazione tra soggetto e oggetto di derivazione cartesiana per andare oltre la logica occidentale che separa l’umano dal naturale. I beni comuni, insomma, in cui il soggetto sia parte dell’oggetto e viceversa. Partire dagli spazi residuali e interstiziali per arrivare a considerare anche l’intero spazio urbano come bene comune. Ciò sarà il primo passo verso una meta ancora più alta, ricreare una intelligenza del “comune” a livello generale. Ma soltanto partendo dalle pratiche locali di governo ecologico dei beni comuni, ciò sarà possibile.

L.P.

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PELLICOLA E PERCOLATO

Ripeto l’immagine iconica di Città come un mantra. Cerco di stendere questa stampa bagnata sul filo che collega le mie tempie. E’ quasi impossibile tirare fuori dall’icona, le forme topiche che caratterizzano la Roma in cui vivo e mi muovo. L’operazione che ritengo più dura è proprio la forma, intesa come manifestazione dell’essenza visibile. Mi rimprovero. Studi di carte e di piante tentano di atrofizzare la mia reale percezione, banalmente piantata a centosettantacinque centimetri dal pavimento. Ho la certezza che da bambini si possa essere estremamente dinamici in quanto a cambiamenti di visuale. La grande curiosità che tutti ha tormentato, di come ci si sentisse a camminare con gli occhi così in alto. In piedi sul mobile della Singer ero disorientato. Perdevo la coscienza dell’equilibrio. Lo stesso senso di nausea lo provo oggi a scorrere una pianta in scala, e muovendomi nei corridoi, mi tengo saldato al foglio di carta con l’indice per non soffrire le vertigini. In fondo l’architettura si manifesta principalmente per scale di rappresentazione. Quell’uno davanti ai due punti sta a significare in qualche modo quei centosettantacinque centimetri che mi inchiodano a terra di colpo. Per sentirmi più tranquillo occorrerebbe inserire in stampatello e

sotto i valori di scala, il “Je me souviens“ delle targhe del

Québec, incentivo al riflettere fino alla nausea sulla lettura degli spazi. La rappresentazione non è un luogo fisico perché tende ad escludersi per natura dal resto del mondo. La lettura di una rappresentazione quindi è il momento in cui si traslano i sensi nello spazio e la sensualità chiarisce ogni dubbio.

La sensualità dunque è l’unica vera 27


chiave di lettura per ogni genere di immagine e consiste nell’accordo dei sensi. Rothko dice che l’immagine è perfetta quando l’osservatore la percepisce in modo sensuale. Anche un prospetto può essere letto in modo sensuale a chi ne vuol leggere la finitezza fisica di come si manifesta, di certo l’architetto dovrebbe obbligarsi ad una lettura fredda cioè da un punto di vista totalmente disilluso. Quel che ritengo fondamentale quindi è riuscire a percepire gli spazi in funzione della mia misura ( e grossomodo l’altezza degli occhi è per tutti uguale) per poterli leggere,interpretare e proiettare sulla mia interazione fisica. L’unica modalità di rappresentazione che ritengo funzionale per questo scopo è quella forma di fotografia genuina ed impostata secondo la reale direzionalità dello sguardo, rispettandone il più possibile i margini visivi e gli angoli di presa, in modo tale da simularne uno sguardo verosimile. Ho cercato di interpretare i luoghi fotografati con questi postulati, cercando di non alterare le cacofonie di forma e la casualità degli elementi e tentando il più possibile di rimarcare lo scenario da cui sono stati osservati. Per questo motivo le viste dall’alto sono prese da finestre che ne manifestano la visione ordinaria ed umanamente distorta. L’attenzione si è resa forte nelle immagini più impregnate di quella violenza visiva che invade gli scenari di disagio urbano consenziente. Questa forma di disagio è tenuta distante dalla città ma al tempo stesso accettata in quanto non privo di interazione sensuale. L’idea di degrado è da abolire.

Più consono forse il concetto di Residuo,

cioè l’incolto che nasce a margine di ogni organizzazione umana e che diviene rifugio per la diversità. Questi spazi in un certo senso inquadrano una forma di paesaggio di funzione da sempre legata alla spontaneità. Le zone di cui parlo sono antropizzate in modo tale da non modificarne la forma. La storiografia si sedimenta per l’usura, lasciandone traccia visibile nei cumuli di de-

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triti, organici, inorganici, naturali e artificiali, che si riuniscono in tessuti sovrapposti. Il prato è incolto, ma sono ben visibili le trincee improvvisate dalla resistenza dell’ultima guerra. Qua e la, a terra, schegge di ceramica contadina spennellata di verde. Arrugginito e sformato, il coltello che usava la mia nonna per la cicoria. Qualche filare di vigna putrefatto rimarca l’antico calvario degli orti di guerra. Brillantina Gillette. Filo spinato e tutti i suoi pali. Sempre i partigiani. Fiaschi verdi da vino. Siringhe e corrugati mescolati in un emulsione eterogenea

e permeabile che si manifesta

senza pudore. Così obiettiva da stillarne ogni manifestazione dell’uomo e da cui allo stesso tempo ne ricava energia. Unico modo per nobilitare questi tessuti nel paesaggio, che senza rimorsi muterà, ritengo sia

incastonarli nell’argento vivo della pellicola.

A.C.

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MICROSTRUTTURE

progetti di invenzione

Le microstrutture citano ironicamente le megastrutture. Quest’ultime,

qui intese come

“vaste intelaiature dove sono ospitate tutte le funzioni di una città o parte di essa”, rappresentano un approccio alla progettazione urbana in tempi di ottimismo economico basato sulla trasformazione della città per grandi parti. Al contrario le microstrutture si collocano in un contesto in decrescita ed hanno un atteggiamento prevalentemente conservativo. Inoltre riguardano ambiti periferici non economicamente vantaggiosi per un investimento. Il valore aggiunto di questi progetti è il luogo stesso, riconosciuto nella sua identità sporca e contraddittoria. Le caratteristiche principali delle ipotesi che abbiamo considerato possono essere schematizzate così: - Trattandosi di progetti di riattivazione dello spazio pubblico sono finalizzati principalmente all’accessibilità e alla conservazione dei luoghi. Nel nostro caso rendere accessibile un luogo significa anche dotarlo di quel minimo di attrezzatura - chiamiamola architettura - destinata a far sì che il luogo sia accogliente (sistemi di ombreggiatura, sedute, raccolta rifiuti, ...) oltre che sicuro (illuminazione, visibilità). - Si tratta di interventi minimi e provvisori in aree contese e non consolidate. Il commento progettuale è puntuale e mirato a innesscare un meccanismo che diffonda sempre più qualità, accesibilità e differenza all’interno si un settore urbano più vasto. - Le strutture realizzano con mezzi e tecnologie semplici gli archetipi “ideali” dei luoghi pubblici di socialità e condivisione: piazze, cortili, portici, parchi e giardini. 30


- Esse mirano alla riattivazione delle spazio integrando semplici attività produttive - orti, alberi da frutto, serre, laboratori artigiani - con aree per il tempo libero sport, cultura, ... - . “Io poi non riesco a gustare neppure un filo d’erba se non so che lì vicino c’è la metropolitana o un negozio di dischi o qualche altro segno che la gente non rimpiange del tutto d’esser viva. E’ più importante riaffermare quel che è meno autentico; delle nuvole ci si occupa abbastanza per come sono e perfino loro continuano a passare.” FRANK O’HARA, Poesie, 1976

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PIAZZA CON PERGOLATO E LAMPIONE

Foto originale (A.C.): Angolo tra due setti preso da una finestra, Parigi 2012 Rolleiflex 80mm, pellicola Ilford 125 iso

Progetto, Modellazione

e Compositing (M.D. e G.S:)

Ricostruzione virtuale della scena, illuminazione, mappe con Vray e 3dS Max. Compositing in Adobe Photoshop

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UN CORTILE

Foto originale (A.C.): Spazio demolito compreso tra due setti portanti. Montreal, Canada 2010. Nikkor 24mm, pellicola Ilford 125 iso.

Progetto, Modellazione

e Compositing (M.D. e G.S:)

Ricostruzione virtuale della scena, illuminazione, mappe con Vray e 3dS Max. Compositing in Adobe Photoshop

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LA STRADA E’ UN TEATRO

Foto originale (A.C.): Pavimento nel prato, forse una sala da ballo. Roma, 2013 Rolleiflex 80mm focale 2.8, pellicola kodak 100 iso

Progetto, Modellazione

e Compositing (M.D., G.P.M. e G.S:)

Ricostruzione virtuale della scena, illuminazione, mappe con Vray e 3dS Max. Compositing in Adobe Photoshop

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UNA PIAZZA DI ACCESSO AL PARCO

Foto originale (A.C.): Parcheggio o autolavaggio, Roma 2013 Rolleiflex 80mm focale 2.8, pellicola kodak 100 iso

Modellazione

e Compositing (M.D., G.P.M. e G.S:)

Ricostruzione virtuale della scena, illuminazione, mappe con Vray e 3dS Max. Compositing in Adobe Photoshop

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ORTI E BORDURE

Foto originale (A.C.): Lago al cemento, Roma 2013 Rolleiflex 80mm focale 2.8, pellicola kodak 100 iso

Modellazione

e Compositing (M.D.,G.P.M. e G.S:)

Ricostruzione virtuale della scena, illuminazione, mappe con Vray e 3dS Max. Compositing in Adobe Photoshop

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NEI CAMPI

Foto originale (A.C.): Campi dietro l’Acqua Bullicante, Roma, 2013 Rolleiflex 80mm, pellicola kodak 100 iso.

Modellazione

e Compositing (M.D. e G.S:)

Ricostruzione virtuale della scena, illuminazione, mappe con Vray e 3dS Max. Compositing in Adobe Photoshop

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hanno partecipato al laboratorio :

Gabriele Salvia _ architetto, laureato a Roma nel 2012 con Franco Purini. Ex membro di Reworkshow, collettivo romano che ha realizzato alcuni progetti di riattivazione dello spazio pubblico. Ha collaborato alla progettazione e alla rappresentazione digitale delle immagini. Ha scritto l’articolo: Appropriarsi del presente ovvero tutto e subito.

Marco Didonato _ studente di architettura a Roma e appassionato di grafica multimediale. Ex membro di Reworkshow, collettivo romano che ha realizzato alcuni progetti di riattivazione dello spazio pubblico. Ha collaborato alla progettazione , curato la rappresentazione digitale e il compositing delle immagini. Giulia Poma Murialdo _ studentessa di architettura a Roma. Ex membro di Reworkshow, collettivo romano che ha realizzato alcuni progetti di riattivazione dello spazio pubblico. Ha progettato l’allestimento all’acquario romano ed ha collaborato alla progettazione e alla rappresentazione delle immagini.

Leonardo Pace _ laureato in giurisprudenza, ora dottorando in diritto costituzionale all’università degli studi di “Roma Tre”. Ha scritto l’articolo che tratta di filosofia del diritto: Lo spazio urbano, bene comune, dal residuale al generale attraversando la città.

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Adriano Colasanti _ studente di architettura, fotografo, esteta e collezionista. Ha realizzato gli scatti e stampato le fotografie qui esposte. Ha inoltre scritto l’articolo che tratta di estetica e fotografia: Pellicola e percolato.

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