Pensieri in libertà. La lunga nottedella Calabria

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La lunga notte della Calabria

FRANCO

LARATTA

PENSIERI IN LIBERTĂ€ prefazione di Francesco

Rutelli



Quando fu il giorno della Calabria

Leonida Repaci in questo brano, giustamente famoso, affresca, con toni michelangioleschi, come su una volta della Cappella Sistina, i vari angoli della Calabria, la “creatura prediletta” da Dio al momento della Creazione. Come tasselli, appunto, di un vasto quadro d’insieme, lo scrittore, con vigore espressivo e amore filiale, ancora rileva e illumina, ognuno in primo piano e con la giusta attenzione che merita, i paesaggi della Calabria: in questo svolgersi confluiscono, come parte integrante, notazioni varie di carattere storico, artistico, culturale, antropico e tutta una miscellanea di colori e sapori della regione. Una regione contro la quale il Diavolo - invidioso della predilezione divina - ha voluto scaricare tutta la sua rabbia concretizzata in umiliazioni, privazioni, calamità ad ogni piè sospinto. Il riscatto, però, più sudato, certamente, ma per questo più godibile e bello - proprio per lo sforzo di conquista - è alle porte. È insistendo sulle note della speranza che Repaci chiude questo suo piccolo capolavoro.

Quando fu il giorno della Calabria, Dio si trovò in pugno 15.000 Km2 di argilla. Pensò che con quella creta si potesse modellare un paese per due milioni di abitanti al massimo. Era teso in un vigore creativo, il Signore, e promise a se stesso di fare un capolavoro. Si mise all’opera, e la Calabria uscì dalle sue mani più bella della California e delle Hawaii, più della Costa Azzurra e degli arcipelaghi giapponesi. Diede alla Sila il pino, all’Aspromonte l’ulivo, a Reggio il bergamotto, allo stretto il pesce-spada, a Scilla le sirene, a Chianalea le palafitte, a Bagnara i pergolati, a Palmi il fico, alla Pietrosa la rondine marina, a Gioia l’olio, a Cirò il vino, a Rosarno l’arancio, a Nicotera il fico d’India, a Pizzo il tonno, a Vibo il fiore, a Tiriolo le belle donne, al Mesima la quercia, al Busento la tomba del re barbaro, all’Amendolea il lichene, alla roccia l’oleastro, alle montagne il canto del pastore errante da uno stazzo all’altro, al greppo la ginestra, alle piane la vigna, alle spiagge la solitudine, all’onda il riflesso del sole. 3


Diede a Cosenza l’Accademia, a Tropea il Vescovo, a San Giovanni in Fiore il telaio a mano, a Catanzaro il damasco, ad Antonimina il fango, ad Agnana il lignite, a Bivongi le Acque Sante, a Pazzano la pirite, a Galatro il solfato, a Villa San Giovanni la seta greggia, a Belmonte il marmo verde. Assegnò Pitagora a Crotone, Orfeo pure a Crotone, Democéde pure a Crotone, Alcmeone pure a Crotone, Aristeo pure a Crotone, Filolao pure a Crotone, Zaleuco a Locri, Ibico a Reggio, Clearco pure a Reggio, Glauco a Reggio, Cassiodoro a Squillace, San Nilo a Rossano, Gioacchino da Fiore a Celico, Fra Barlaam a Seminara, San Francesco a Paola, Telesio a Cosenza, il Parrasio pure a Cosenza, il Gravina a Roggiano, Campanella a Stilo, Padula ad Acri, Mattia Preti a Taverna, Galluppi a Tropea, Gemelli Careri a Taurianova, Manfroce a Palmi, Cilea pure a Palmi, Alvaro a San Luca, Calogero a Melicuccà. Donò a Stilo la Cattolica, a Rossano il Patirion, ancora a Rossano l’Evangelario Purpureo, a San Marco Argentano la Torre Normanna, a Locri i Pinakes, ancora a Locri il Santuario di Persefone, a Santa Severina il Battistero a Rotonda, a Squillace il Tempio della Roccelletta, a Cosenza la Cattedrale, a Gerace pure la Cattedrale, a Crotone il Tempio di Hera Lacinia, a Mileto la Basilica della Trinità, a Santa Eufemia Lamezia l’Abbaziale, a Tropea il Duomo, a San Giovanni in Fiore la Badia Florense, a Vibo la Chiesa di San Michele, a Mileto la Zecca, a Nicotera il Castello, a Reggio il Tempio di Artemide Facellide, a Spezzano Albanese la necropoli della prima età del ferro. Poi distribuì i mesi e le stagioni alla Calabria. Per l’inverno concesse il sole, per la primavera il sole, per l’estate il sole, per l’autunno il sole. A gennaio diede la castagna, a febbraio la pignolata, a marzo la ricotta, ad aprile la focaccia, a maggio il pescespada, a giugno la ciliegia, a luglio il fico melanzano, ad agosto lo zibibbo, a settembre il fico d’India, a ottobre la mostarda, a novembre la noce, e a dicembre l’arancia. Volle che le madri fossero tenere, le mogli coraggiose, le figlie contegnose, i figli immaginosi, gli uomini autorevoli, i vecchi rispettati, i mendicanti protetti, gli infelici aiutati, le 4


persone fiere, leali, socievoli e ospitali, le bestie amate. Volle il mare sempre viola, la rosa sbocciante a dicembre, il cielo terso, le campagne fertili, le messi pingui, l’acqua abbondante, il clima mite, il profumo delle erbe inebriante. Operate tutte queste cose nel presente e nel futuro il Signore fu preso da una dolce sonnolenza in cui entrava la compiacenza del Creatore verso il capolavoro raggiunto. Del breve sonno divino approfittò il Diavolo per assegnare alla Calabria le calamità, le dominazioni, il terremoto, la malaria, il latifondo, il feudalesimo, le fiumare, le alluvioni, la peronospera, la siccità, la mosca olearia, l’analfabetismo, il punto d’onore, la gelosia, l’Onorata Società, la vendetta, l’omertà, la falsa testimonianza, la miseria, l’emigrazione. Dopo le calamità, le necessità: la casa, la scuola, la strada, l’acqua, la luce, l’ospedale, il cimitero. Ad esse aggiunse il bisogno di giustizia, il bisogno della libertà, il bisogno della grandezza, il bisogno del nuovo, il bisogno del meglio. E, a questo punto, il diavolo si ritenne soddisfatto del suo lavoro, toccò a lui prender sonno, mentre si svegliava il Signore. Quando aperti gli occhi, potè abbracciare in tutta la sua vastità la rovina recata alla creatura prediletta, Dio scaraventò con un gesto di collera il Maligno nei profondi abissi del cielo. Poi lentamente rasserenandosi disse: «Questi mali e questi bisogni sono ormai scatenati e debbono seguire la loro parabola. Ma essi non impediranno alla Calabria di essere come io l’ho voluta. La sua felicità sarà raggiunta con più sudore, ecco tutto. “Utta a fa juornu c’a notti è fatta”». Una notte che già contiene l’albòre del giorno. Tratto da “Il giorno della Calabria” Barbaro Editore, a cura di Agostino Formica.

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I contributi di Francesco Rutelli, Marco Minniti, Gianni Vattimo, Giovanni Latorre, Mons. Giancarlo Maria Bregantini sono stati consegnati nel marzo 2006. I testi di Franco Laratta sono apparsi su “il Quotidiano della Calabria” nel periodo 2005-2006, ad eccezione di “Piccoli tesori della Calabria” e “La Calabria prossima al baratro” pubblicati da “il Crotonese”.

Edizioni Librare ISBN 88-88637-14-1 Librare è un marchio Plane srl San Giovanni in Fiore (CS) Tel. 0984 971002 - Fax 0984 976037 www.librare.it - www.planeonline.it Impaginazione: Massimo Barberio Illustrazioni: Gabriele Morelli Supervisione grafica: Luigi Oliverio Servizi di prestampa: Plane Stampa: Grafiche Zaccara © 2006 Librare


La lunga notte della Calabria

FRANCO

LARATTA

PENSIERI IN LIBERTÀ



“Pensieri in libertà” raccoglie riflessioni e analisi che in questi ultimi tre anni (20042006) sono scaturite dalla drammatica situazione in cui si trova la Calabria, in particolar modo dopo l’omicidio Fortugno. Un buio di dolore, certamente. Ma anche un sorriso alla speranza. La Calabria, nonostante tutto, può farcela. “Pensieri in libertà” raccoglie anche una riflessione politica sulla situazione del nostro Paese ancora in piena fase di transizione; e si conclude con la cronaca fantastica degli “ultimi cento giorni” del regno di Silvio II! Franco Laratta


Sommario Pensieri in libertà di Franco Laratta

La Calabria ce la può fare

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Questione morale e questione criminale in Calabria

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Il futuro di una regione a rischio

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La lezione di Mons. Agostino

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Il potere nell’epoca del centro-sinistra

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Prefazione di Francesco Rutelli

Chi ha ordinato l’omicidio di Franco Fortugno ha commesso un grave errore 33 Una risposta rapida e coerente

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di Marco Minniti

La Calabria è governabile? 39 Una luce in fondo alla notte

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Conversazione di Michele Domenico Napolitano con Mons. Giancarlo Maria Bregantini

Innovazione e sviluppo. La sfida della Calabria

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La Calabria prossima al baratro

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Calabria e Mediterraneo

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di Giovanni Latorre, Rettore Università della Calabria

Il potere. La politica. Il delirio di onnipotenza

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Una Calabria più autonoma e migliore

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di Gianni Vattimo

Piccoli tesori della Calabria

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L’Italia dopo Berlusconi di Franco Laratta

Serve davvero un nuovo partito dei moderati? 77 Il grande imbroglio delle elezioni politiche 2006

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Un’infinita campagna elettorale

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Ingravescentem aetatem

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Ma cosa non abbiamo capito dell’Italia e degli italiani?

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La voce del silenzio

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Due mandati in tutte le istituzioni

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La tragedia di un uomo piccolo piccolo Cronaca fantastica degli ultimi cento giorni di Silvio II di Franco Laratta

Notte insonne per il Primo Ministro

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Arrivano i caschi blu!

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Silvio al Festival di Sanremo!

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Fantacronaca dal Parlamento

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L’Italia sarà un Paese senza tasse

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Laratta, Maria De Filippi e il frutto proibito di Harrison Ford

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di Antonella Grippo



La Calabria ce la può fare di Francesco Rutelli

L’allarme lanciato da Franco Laratta è chiaro: “Sta passando in tutta Italia l’idea che la Calabria sia tutta da buttare, che i calabresi siano tutti delinquenti e mafiosi, che non c’è speranza di riportare alla democrazia e alla civiltà questa nostra regione. È un modo per ammazzare le speranze e la fiducia dei tantissimi calabresi onesti (...). Noi sappiamo che non è così. Che non può essere così. Noi sappiamo che c’è una Calabria che vive, lavora e produce con onestà”. Proprio la reazione dei calabresi dopo l’omicidio di Francesco Fortugno dimostra la volontà di riscatto di tanti uomini e donne che vogliono riconquistare la propria terra e darle la speranza di un futuro diverso. Gli slogan coniati dai giovani che a centinaia hanno manifestato in quei giorni non sono stati l’emozione di un giorno. Restano scolpiti nelle nostre coscienze. “E adesso ammazzateci tutti”, “La mafia uccide, il silenzio pure”, e ancora “Non basta sopravvivere, vogliamo vivere”. Quella dei giovani di Locri è stata chiamata la marcia 13


della speranza. Noi a quella speranza dobbiamo dare il sostegno di un impegno costante e senza cedimenti contro la mafia e la concretezza di politiche in grado di far ripartire lo sviluppo del Mezzogiorno che ha in sé le potenzialità e le risorse umane per rinascere. Il Mezzogiorno è questione nazionale e noi vogliamo esserne portavoce attivi e propositivi. Lotta alla mafia significa prima di tutto lavorare per lo sviluppo del Sud d’Italia. Una priorità che deve essere vissuta da tutti come una “missione”, cui tutti gli attori della politica e delle istituzioni devono orientare i rispettivi programmi. Lo Stato prima di tutto, che deve ridare centralità alle politiche per il Mezzogiorno. E poi le amministrazioni regionali e locali meridionali, che devono saper essere più efficaci ed efficienti, devono bandire i metodi clientelari ed operare con maggiore trasparenza, devono concentrare le loro iniziative su obiettivi strategici capaci di accrescere la competitività dei microsistemi regionali. Anche le imprese devono sentire come essenziale per l’economia generale del paese accrescere la produttività nel Mezzogiorno. Infine, tutte le forze sociali, economiche e culturali che vivono quotidianamente la realtà del Meridione, che credono e sono pronte a scommettere sul futuro del Mezzogiorno, e sono pronte ad investire insieme a noi nella rinascita di un Sud protagonista. Un Sud da cui non si debba fuggire, né emigrare, di nuovo, con un diploma in tasca. Risposte vere ai nostri giovani: ecco il modo per onorare il sacrificio di Francesco Fortugno. Il programma di governo del centrosinistra indica con chiarezza la strada da imboccare. L’impegno strategico della Margherita assicura un di più di determinazione politica. Ed ha ragione Laratta: “la Calabria è una terra fondamentalmente sana; i calabresi hanno sofferto per generazioni e hanno pagato con la loro vita e con sacrifici immani la

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possibilità di crescita e di sviluppo dopo secoli di arretratezza e miseria. Ma oggi la Calabria ce la può fare. C’è una maggiore sensibilità politica e sociale, una forte voglia di riscatto, un’ansia di cambiamento e di rinnovamento come non era accaduto mai prima d’ora.” Gli italiani non devono lasciare sola questa parte del corpo vivo del nostro paese. E la Calabria non volterà le spalle ad una nuova occasione di ricostruire la fiducia, la legalità, la crescita economica, la dignità di un cammino comune.

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Questione morale e questione criminale in Calabria

La Calabria è seduta su una montagna di ille-

galità, corruzione e criminalità come mai prima d’ora! Non scopriamo niente di nuovo dicendo questo; e non offendiamo nessuno, anche perché buona parte della popolazione calabrese vive con onestà e si muove nel rispetto delle leggi, agisce in base a sani principi e con grande dignità lavora e produce. Mentre, però, della “questione criminale” (intesa come sopraffazione mafiosa, affari illeciti gestiti da bande organizzate che non esitano a compiere crimini e omicidi) parlano un po’ tutti, se ne occupano grandi organi di informazione nazionale, della corruzione e del malaffare se ne parla ancora poco, decisamente poco. Sottovalutandone l’impatto devastante che ha sullo sviluppo di una regione a rischio qual è la Calabria. In effetti nella nostra regione è molto diffusa l’attività illecita, la corruzione ed il malaffare, esercitati su diversi livelli, nel disinteresse della pubblica opinione e della società civile che appaiono disorientate e impotenti.

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Mentre la politica tace, qualche volta è corresponsabile e complice, in altri casi ne è vittima! Il sistema corruttivo, dunque, agisce in silenzio e sempre in penombra, su vastissima scala, coinvolgendo la politica, gli apparati burocratici, i centri decisionali, gli apparati economico-produttivi. Avvolgendo di fatto ogni attività, condizionandola fortemente, favorendo lo sviluppo di un sistema corrotto e corruttibile, che si alimenta solo con gli affari illeciti, impedendo così la crescita di un sistema pulito e trasparente al quale viene tolta ogni possibilità di svilupparsi nella legalità, secondo le regole del mercato e i principi della correttezza. Il sistema illegale è cresciuto e si è sviluppato in maniera straordinaria nel corso degli ultimi 20 anni, penetrando all’interno di ogni apparato di potere, dal più piccolo e scarsamente significativo, al più grosso e decisamente più importante. Diventanto esso stesso un “potere”, con proprie regole, con collegamenti capillari, con apparati ben funzionanti. Una sorta di mafia della corruzione che controlla apparati sempre più vasti e che sta condizionando in maniera determinante il futuro della Calabria. Il sistema della corruzione in Calabria agisce in maniera scientifica. Nato in un determinato contesto politicosociale-culturale, ha finito per diffondersi in ogni ambito, condizione e contesto. Ed ora punta a controllare dal di dentro l’intero sistema politico ed economico della Calabria, grazie ad una diffusa rete di collegamenti che si muove con determinazione e rapidità, eliminando gli ostacoli e le resistenze che ancora si incontrano lungo la strada dell’illegalità diffusa. Già da qualche anno, nella nostra regione molte attività economiche sono condizionate dal sistema della corruzione. Gli apparati vengono costruiti sulla base di precise indicazioni. Le nomine sono per lo più appannaggio del sistema. Gli affari rispettano i modi e le condizioni stabilite. Molti enti locali sono sotto controllo, nelle istituzioni più importanti si sono insediati uomini che rispondono a questa logica e agiscono per conto del potere malavitoso. Tutto questo accade nel più totale disprezzo di ogni


norma di legge, quindi nell’illegalità più profonda. Ed è per questo che la corruzione e il malaffare stanno minando la Calabria dal di dentro, la stanno fortemente condizionando ed umiliando più di quanto non abbiano fatto finora il crimine organizzato, la mafia e la ‘ndragheta! Che sono pur sempre i nemici giurati di ogni società civile. Davanti ad uno scenario così devastante, ci si aspetta ora una risposta “forte” e decisa da parte della politica e delle istituzioni. La conquista da parte del centro-sinistra della regione Calabria, avrebbe dovuto immediatamente segnare una svolta rispetto ai metodi e ai sistemi del passato. Ci sarebbe stato bisogno, all’indomani dell’omicidio Fortugno, di una svolta vera a favore della ricostruzione morale e civile della Calabria, con il coinvolgimento decisivo di tutte le istituzioni sane con atti severi e scelte coraggiose, lontane mille miglia dal clientelismo più becero che si è largamente imposto in ampi settori della nostra regione. Ma, al di là delle solite promesse, delle marce e di tante tribune televisive, la svolta annunciata in Calabria non c’è stata, mentre il clientelismo più becero continua più forte di prima. La rivoluzione che la Calabria meritava, per averci creduto e per il sangue versato da tanta gente onesta e perbene, non c’è e non ci sarà più se rimane questo contesto politico. Troppa gente onesta e perbene, dai giovani di Locri a tanti ragazzi che hanno urlato in favore del ripristino della legalità, si aspettava di più, pretendeva di più, avrebbe preferito più coraggio e maggiore pulizia. Si sta invece assistendo ad una lenta agonia di questa straordinaria regione, bella come solo Leonida Repaci ha saputo descrivere, grande e generosa come il cuore di tanta gente onesta che ogni giorno continua a fare il proprio dovere con onestà e in silenzio. Quanto bisognerà aspettare ancora perché passi la notte che avvolge la Calabria?

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Il futuro di una regione a rischio

è

È notte in Calabria. Una notte lunga, iniziata tanti

anni fa. Una notte sprofondata nel buio pesto di una domenica d’autunno a Locri. Sapevamo quanto non fosse facile governare la Calabria. Oggi scopriamo che potrebbe essere assai difficile uscire dal buio che ci avvolge e che sembra spingerci verso una direzione ignota. Governare la Calabria: basta un passo falso ed è subito un proiettile o una bomba a ricordare che “Chi tocca muore”. Anche chi parla muore; così come chi non sceglie o chi decide nel verso sbagliato. Muore chi non ricorda. “Pacta sunt servanda” dicevano i latini, qualcuno sa cosa vuol dire! Ma si muore anche senza sapere il perché, in questa infinita notte della Calabria. Così è morto Franco Fortugno: senza avere il tempo di pensarci! Si muore se si fa il proprio dovere; se si fa finta di non capire o di non sapere. O forse perché si è spezzato un legame antico, o interrotto un percorso consolidato. Si

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muore per gli interessi non garantiti e per gli affari negati. La lunga notte della Politica comincia tanti anni fa con le troppe promesse fatte. E continua oggi con la ricerca spietata del consenso: a qualsiasi costo. Per una manciata di voti si promette molto. Per un accordo elettorale si concede troppo. Chi conosce ogni angolo di questa terra sa bene qual è il punto in cui fermarsi. Ma se con l’inganno ci si è procurati favori e consensi, non rimane che sperare che qualcuno dimentichi in fretta. Anche se gli uomini senza onore non hanno la mente corta! La primavera della Calabria non riesce a cominciare. L’inverno rigido persiste. Chissà quanto bisognerà aspettare ancora. Gli sguardi dei calabresi sono fermi a quel tragico funerale di metà ottobre del 2005. Il viso perso di un presidente che aveva in mente una rivoluzione in Calabria diventa il simbolo dell’orrore di tanta gente onesta davanti alla spietata ferocia della mafia. Così i giovani scoprono la voglia di reagire e scendono in piazza senza più paura. Eppure nessuno immaginava che si potesse continuare anche oltre quel maledetto giorno di Locri. Oltre lo spiegamento delle forze dello Stato, oltre i tentativi di giungere alla verità per fare giustizia. Oggi il messaggio è sempre lo stesso: da qui non si passa. Né senza di noi, né contro di noi. E da Locri a Crotone il passo è breve. Cosa dovremo ancora aspettarci prima che un bagliore o un raggio di sole squarci il buio profondo che avvolge la Calabria? Quanti proiettili ancora, quante bombe, quanti ricatti? La rivoluzione promessa dal presidente Loiero deve comunque rimanere un obiettivo per questa terra che sprofonda nel buio e che ha invece bisogno di verità e di luce. Coraggio. I calabresi devono trovare il coraggio di chi sa di trovarsi sul fronte, di chi capisce che sta combattendo una guerra vera. E anche se nessuna guerra potrà mai essere davvero giusta, noi sappiamo che dobbiamo collocarci dalla parte giusta. Dalla parte di chi pensa che la


Calabria si possa salvare solo se lo vogliamo tutti insieme. Se tutti i calabresi decidono di fare il proprio dovere sin dalle piccole cose. Sin dalla quotidianità. Cominciando a rispettare le regole più banali, perché nessuna regola è davvero inutile. E se l’uomo di strada ha solo la forza di trovare dentro di sé un coraggio piccolo piccolo, l’uomo che conta e decide deve trovare un coraggio assai più grande per sconfiggere la paura. Quel coraggio che o ce l’hai oppure è meglio se ti fai da parte. Il coraggio di costruire una Calabria senza mafia, senza corruzione, senza inganni né prepotenze, una Calabria che non veda mai più i propri figli, i parenti, i “clienti” assunti nei posti chiave (e quanti ce ne sono in Calabria!) alla faccia di tanti giovani preparati costretti a scappare; che non veda mai più il pubblico denaro sprecato o inutilizzato; che affronti con determinazione la lotta alla corruzione e al persistente intreccio tra malavita organizzata e pezzi dei partiti e delle istituzioni. Una Calabria che non deve più temere che qualche magistrato metta pesantemente le mani nei palazzi del potere, per fare finalmente giustizia e ridare dignità alla Politica. E alla nostra terra che aspetta da sempre. Una Calabria che ritrovi il gusto di fare politica affrontando la questione morale che deturpa le Istituzioni e corrode la vita democratica. In Calabria è ancora notte. Una notte che si annuncia ancora lunga. E quando finirà ci troveremo finalmente davanti alla luce. Una luce accecante che potrebbe nascondere, ai nostri occhi abituati al buio, la strada che porta dritta alla salvezza.

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La lezione di Mons. Agostino

h

Ho assistito alla “lezione” di Mons. Giuseppe Ago-

stino alla convention sulla Devolution di Reggio Calabria, con un sentimento misto di ammirazione e rabbia. Quella dell’Arcivescovo emerito di Cosenza è stata una lezione che l’intera classe politica calabrese, di destra e di sinistra, dovrebbe ascoltare, imparare a memoria e porre ad obiettivo della propria azione politica e istituzionale. Mi ha colpito la lucidità e la profondità dell’intervento di Agostino, ed anche la forza con cui ha incitato il sistema politico calabrese a cambiare radicalmente, a guardare alla forza della storia, ad estirpare con determinazione il male che ha colpito la Calabria. Un male che si chiama indolenza, insofferenza, incapacità di reagire. E l’analisi del vescovo si fa dura quando parla di mafia e mafiosità, quando parla di rischi per la democrazia, quando parla di povertà, emarginazione, sofferenza. E quando indica la via d’uscita: “La Calabria la possono salvare solo i calabresi”. E ti viene la voglia di reagire, di uscire da quella sala, di ricominciare daccapo con più forza, di dire alla classe politica che è ora di cambiare veramente. E ti vie-

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ne un moto di rabbia quando ti rendi conto che questa sfida può fare paura, perché i problemi sono davvero enormi, perché devi combattere con la povertà che si trova dentro ognuno di noi, l’incompetenza che avanza, l’arroganza di certa politica che sembra vincente. E la calabresità indicataci da Agostino come forza che invece sembra spegnersi, quasi come se affogasse in un mare di preoccupazione per il futuro, di incertezza per il lavoro, di timore per la propria famiglia e per il domani che non si vede ancora. E quando Mons. Giuseppe Agostino cita un grande Papa, Paolo VI, ci si rende conto quanto l’Italia abbia davvero bisogno dell’amore, della passione e dello spirito di sacrificio di noi calabresi: “Il sud può salvare l’Italia - disse Papa Montini al neo vescovo Agostino - perché il sud è portatore di valori. Al nord c’è lo sviluppo senza un’anima; al sud c’è l’anima senza sviluppo”. Forse, dopo tanti anni, un po’ di quei valori si stanno perdendo; la fiamma della speranza sembra spegnersi lentamente. Ma la Calabria deve ritrovare la voglia di reagire, deve raccogliere la sfida per costruire un futuro migliore. Un futuro fatto da una classe politica finalmente rinnovata e competente, che combatta la mafia e il malaffare, che non accetti i compromessi, che non vinca ingannando, che non si imponga con la forza e la prepotenza. Solo i calabresi, quindi, possono salvare la Calabria. I calabresi tutti. Quelli che operano nelle istituzioni, gli imprenditori, i giovani, le donne, le associazioni, la Chiesa. Tutti insieme per cambiare la Calabria. Perché la Calabria non potrà salvarla da solo un presidente, né una giunta o un consiglio regionale. La Calabria si salva se per una volta remiamo tutti insieme dalla stessa parte, se tutte le categorie sociali, le forze produttive, il sindacato, le istituzioni, la chiesa, le associazioni ritrovano la forza e l’energia per cancellare un passato fatto di scandali, corruzione, indifferenza e incapacità, sperpero di danari pubblici, programmazione dimenticata, clientelismo sfacciato. Tutti insieme per fermare una devolution che sarebbe devastante, per uscire da una crisi economica e sociale insopportabile, per cambiare mentalità nell’azione, nelle scelte, nelle decisioni. Il messaggio di Mons. Agostino, in fondo, è forte quanto semplice: cambiare insieme, dal profondo, per cambiare per sempre, migliorandoci ogni giorno. E mi sono ritrovato nelle parole dette a caldo da Marco


Minniti, subito dopo l’intervento di Mons. Agostino, il quale pur affermando di condividere completamente l’intervento del Vescovo ha ammesso, con coraggio, che noi del centro-sinistra non rispondiamo ancora appieno alle sue parole, al suo messaggio. Ed è, quindi, proprio da noi che dovrà iniziare il riscatto della Calabria.

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Il potere nell’epoca del centro-sinistra

o

Ora che il centro-sinistra torna a governare gran par-

te del Paese (quasi tutte le Regioni e le Province, buona parte dei Comuni e, ora, anche le istituzioni centrali), è tornata in primissimo piano la questione morale. Che prima di tutto è una “questione politica” che riguarda specialmente il rapporto tra l’Ulivo (meglio ancora L’Unione) e il Potere. Come governare le istituzioni, con quale metodo e quale stile dopo il gran danno fatto dalla Casa delle Libertà nella gestione irresponsabile del Potere negli ultimi cinque anni! E per 10 anni in Calabria. Mi torna in mente un interessantissimo seminario che La Margherita ha promosso un paio di anni fa in Toscana, nel complesso della splendida abbazia di Vallombrosa, su un tema assai suggestivo: “Il Potere nell’epoca dell’incertezza”, relatori Francesco Rutelli, Dario Franceschini, Enrico Letta, Paolo Gentiloni. Partecipai a quel seminario e rimasi particolarmente colpito dai temi e dagli argomenti trattati. Partendo da un nuovo

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concetto di potere elaborato, e non deve essere un caso, negli Stati Uniti: il soft power. Ovvero l’esercizio dolce del potere. Un potere che non è mai arrogante, prepotente, invadente. Un potere che è prima confronto e ascolto, poi decisione. Pensando a quel riservato e interessantissimo seminario di Vallombrosa, vorrei immaginare l’epoca in cui viviamo come l’avvio di una stagione politica nuova dopo il pressoché totale fallimento del centro-destra. Una stagione fatta di scelte coraggiose, di decisioni rapide e giuste, di un esercizio del potere sempre moderato e condiviso. Ecco, il centro-sinistra al Governo del Paese e degli Enti regionali e locali non può non distinguersi per il modo in cui esercita il potere. Per lo stile dei suoi uomini. Per l’umiltà che deve caratterizzare quanti sono chiamati ad occupare ruoli delicatissimi e di primissimo piano. Un potere che non è corruzione: fare affari per chi governa è relativamente facile, così come favorire i propri clienti (anche quando sono del tutto modesti e inesperti), elargire benefici e contributi agli amici e alle società da loro gestite a discapito di quanti meriterebbero per capacità e competenza. Un potere che non può avere privilegi sfacciatamente esibiti: i mega stipendi creano scandalo ai cittadini e alle famiglie in difficoltà; l’alto numero dei parlamentari nazionali e regionali, degli addetti e dei consulenti fa discutere; così come l’utilizzo delle auto blu (perfino per andare a feste private e cerimonie nuziali) e delle risorse finanziarie messe generosamente a disposizione dai contribuenti. Un potere che si allontana dai cittadini, li guarda con distacco e insofferenza, li prende in giro con false promesse e li tiene a bada con qualche elargizione è un potere arrogante che i cittadini rifiutano con sdegno. E che non può appartenere a quel centro-sinistra che vuole essere alternativa, anche nei modi, al centro-destra. Il rapporto tra i politici e il Potere è un punto assai delicato che la gente guarda con sommo interesse. E ancor di più guarda il centro-sinistra che si esercita nella gestione del potere. E la gente si attende comportamenti


adeguati, necessariamente più sobri e contenuti, moderazione nei modi e nei comportamenti. Ha fatto bene chi ha annunciato una riforma dello statuto regionale calabrese che diminuisca il numero dei consiglieri regionali (i 50 che la Calabria si è autoassegnata sono decisamente troppi), ma forse è bene immaginare che anche il numero degli assessorati è eccessivo, così come quello delle strutture e del personale assegnato a Comuni e Province. Andando avanti sarebbe più che opportuno dimezzare gli stipendi dei parlamentari e dei consiglieri regionali: troppo denaro ruota attorno alla politica, occorre dare un segnale di severità ai cittadini che a stento arrivano alla fine del mese e a quelli che un lavoro non lo trovano da anni. Credo però, per tornare al soft power, che prima di ogni altra cosa, quello che colpisce gli elettori è il modo in cui si esercita il potere. Vi sono uomini pubblici, amministratori, presidenti e sindaci, che troppo spesso perdono il contatto con la realtà, diventano arroganti e prepotenti, si esaltano perché insigniti di un potere che esercitano con la superbia che è pari alla loro ignoranza. Oltre allo stipendio eccessivo o ai troppi benefici legati alla carica, il cittadino guarda al modo in cui una funzione viene esercitata. Alla capacità di ascolto che chi governa rapidamente perde nei confronti degli altri (e questa è un’altra cosa che viene notata con particolare evidenza) e alla disponibilità ad accettare proposte e suggerimenti. Il potere che non aggredisce, che è severo soprattutto con se stesso, che non ammette corruzione e sfacciato clientelismo, che pone in primo piano gli interessi generali rispetto a quelli particolari. Il potere che è attento e disponibile, che si fa raggiungere sempre e convincere quando è opportuno. Il potere che rispetta gli altri poteri e le funzioni proprie di uno stato di diritto. Se il centro-sinistra saprà confrontarsi con questo modello di potere senza farsi travolgere, se saprà distinguersi e mai confondersi rispetto agli eccessi e agli abusi di potere, non si parlerà più di questione morale, di trasparenza, di questione politica. Tutto sarà più facile e

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si tornerà al concetto dello Stato e al rispetto delle Istituzioni che avevano uomini quali Einaudi, La Malfa, Berlinguer, Zaccagnini. Ho fatto per cinque anni l’assessore provinciale a Cosenza nella scorsa legislatura. Presidente era il prof. Antonio Acri, ds. Una cosa su tutte ho imparato in quella esperienza: l’assoluto rispetto per le istituzioni; quindi la capacità di ascolto nei confronti di tutti e la disponibilità al confronto con le idee degli altri; per poi essere squadra di governo unita e compatta, pronta a decidere con determinazione. Ma quello che più di tutto mi ha particolarmente colpito è stata la severità del presidente Acri. Severo con tutti, severo con se stesso. Senza mai un eccesso o una sbavatura. Perché onesto e corretto bisogna non solo esserlo, ma anche dimostrare di esserlo. Come dovrebbe fare sempre chi usa il potere. Senza mai farsi usare.

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Chi ha ordinato l’omicidio di Franco Fortugno ha commesso un grave errore

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Mi ha fatto pensare molto l’omicidio di Franco

Fortugno. Uomo onesto, buono e sempre disponibile. Lo conoscevo molto bene, lo frequentavo, ci sentivamo spesso al telefono. Eravamo amici e ci stimavamo. Un politico “anomalo” in una regione dove spesso la politica è gioco e strategia senza ritegno. Dove molte volte prevale l’inganno. Ma, allora, se Fortugno era del tutto “innocente” e pulito, perché colpirlo? Perché in quel modo, in quel posto e con tanta efferratezza? Ce lo stiamo chiedendo tutti, ci stiamo lacerando interiormente per tentare di capire, per darci una sia pur minima risposta. Perché ammazzare un uomo che non aveva, e non ne poteva avere, nemici. Direi nemmeno avversari. Dietro l’omicidio di Fortugno c’è probabilmente chi conosce bene il potere. Il terrore che abbiamo tutti noi che facciamo politica nel senso più pulito e onesto del termine, cioè come “servizio”, è quello che forse in mezzo a noi, dentro le

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istituzioni, dentro la politica si sono inseriti e radicati uomini della Mafia che puntano al controllo pieno delle istituzioni, della Regione e dei partiti! Uomini che puntano al “governo” pieno della Calabria. Ma se tutto questo è vero questo, chi ha ucciso l’innocente Fortugno ha commesso un grave errore: ha scelto l’uomo sbagliato, nel momento sbagliato, nel posto sbagliato. Ed ha sottovalutato la reazione della gente, la rabbia dei politici veri e puliti, il coraggio che hanno tirato fuori i partiti, i sindaci, i presidenti delle province, il presidente della Regione con la sua giunta e l’intero consiglio regionale. E tutti insieme, anche con lo Stato che forse ora si sveglia, con le Forze di Polizia, la Magistratura, la società sana e civile, tutti insieme a gridare adesso basta, la Calabria non può più accettare di essere accerchiata, umiliata, vinta e dominata. Chi ha ordinato l’omicidio di Franco Fortugno ha ammazzato un innocente, ma ha svegliato le coscienze di due milioni di calabresi e di tutta la Nazione. La Calabria lotterà e vincerà nel nome e nel ricordo di un uomo buono e onesto come Franco Fortugno.

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Una risposta rapida e coerente di Marco Minniti

La morte di Franco Fortugno, modo, tempo, circo-

stanza, ha svelato alla Calabria la condizione reale in cui si trova. Nessun nostro discorso può più prescindere da quella tragedia senza essere vacuo. Si può dire che con la sua morte - vero e proprio spartiacque nella storia recente della regione, che i suoi assassini hanno voluto caricare di simboli e messaggi politici - Franco ha reso il suo ultimo servizio alla sua terra e alla sua gente, rendendo evidente ed esplicito il pericolo in cui è immersa la nostra comunità. La criminalità organizzata non si limita più a parlare alla politica o a interferire nei suoi procedimenti, diventa essa stessa strategia politica, strumentazione capace di intervenire perseguendo l’obiettivo di assecondare o bloccare processi economici, sociali, culturali. Questo ha raccontato e dimostrato l’omicidio di Franco. Per questo, dopo quel terribile pomeriggio d’ottobre non saranno mai più possibili le sottovalutazioni che hanno accompagnato la crescita e il progressivo radi-

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carsi della ‘ndrangheta che, proprio grazie a quella colpevole disattenzione più o meno interessata, è riuscita a diventare la criminalità più potente dell’intero paese e un universo criminale di prima grandezza che ha un ruolo da protagonista nei più inquietanti e ignobili traffici mondiali. Dimensione internazionale, quella della ‘ndrangheta, che non solo non è in contraddizione col suo radicamento territoriale, ma che trova proprio in esso la forza e l’energia necessarie a rafforzarsi. La risposta dello Stato deve essere rapida, rigorosa, coerente. Dobbiamo riconoscere che viene fatto ora uno sforzo maggiore rispetto al passato e che alcuni segnali, per esempio la presenza in Calabria del prefetto De Sena, si muovono nella giusta direzione. Ma il problema che si pone non è quello di una serie di atti, quanto quello di un processo consapevole e di una strategia complessiva capaci di liberare la Calabria dalla mafia. È intanto necessario che la convinzione di poterci riuscire sia reale e di tutti: perché è veramente così e perché è questa la condizione per un attacco determinato, convinto, capace di modificare profondamente i rapporti di forza tra Stato e criminalità. Il problema che poniamo ha una ricaduta immediata sulla Calabria, ci riguarda da vicino e direttamente, ma è una questione che va decisamente oltre noi e la nostra regione. Se si sostiene, come ormai tutti gli esperti e gli addetti ai lavori sostengono, che la ‘ndrangheta è l’organizzazione criminale più forte in Italia, se è vero che i suoi tentacoli rappresentano un rischio per l’intero paese, è del tutto evidente che il fenomeno va combattuto guardando agli interessi nazionali e con un dispiegamento di forza e intelligenza adeguato a questo nemico. Colpire le mafie, farlo subito con risultati, è anche la precondizione per uno sviluppo vero della Calabria, del Mezzogiorno e, per questo aspetto, del Paese. Nessuno può teorizzare una strategia del prima e dopo rispetto allo sviluppo e alla lotta alla mafia che devono essere concepiti come facce di un unico problema. Ma sarebbe un’illusione drammatica immaginare che sia possibile sviluppo senza insieme e nello stesso tempo dare


segnali certi, diffusi, prolungati di colpi contro la mafia: capitali, imprenditori, forze sociali, creatività e spirito di iniziativa dei meridionali e di quanti al Sud vogliano investire devono essere garantiti con pienezza e senza incertezze. Anche questo è possibile e di questo abbiamo bisogno. In questo quadro i cittadini calabresi, le istituzioni della Calabria, gli uomini investiti di potere di rappresentanza democratica devono fare fino in fondo la propria parte assumendosi la responsabilità di un governo calabrese trasparente, efficiente, efficace attraverso tutte le scelte necessarie, anche le più apparentemente dolorose. Ci toccano ruolo e carico decisivi. Il centro sinistra e la sua politica sono già impegnati in questa direzione e in questo sforzo. Ma nessuno deve farsi illusioni. Da soli non possiamo farcela. Dobbiamo avere le carte in regola ma la Calabria deve diventare l’articolazione democratica di una strategia del governo nazionale che assuma il problema calabrese come grande questione nazionale. Per questo il collegamento con il resto del paese e i suoi gruppi dirigenti nazionali, nella salvaguardia della nostra autonomia, deve essere l’asse centrale della politica calabrese, dei suoi governi, dei suoi partiti. Invece di assecondare questo sforzo il centro destra della Casa delle Libertà ha risposto con la devolution innescando conseguenze devastanti che nella prospettiva minano l’unità del paese trasformando l’Italia in una serie di territori separati. La devolution va cancellata e lo faremo col referendum. Di certo sarebbe un errore storico reagire alla sciagurata linea della devolution proponendo un nuovo localismo che altro non sarebbe che l’altra faccia di una condizione che il Mezzogiorno ha interesse a spezzare sul nascere. La Calabria deve essere una regione protagonista della storia che vogliamo per l’intero nostro paese: una storia di crescita democratica, di pari dignità dei territori e delle popolazioni, di uno sforzo collettivo per migliorare progressivamente e per tutti la qualità della vita.

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La Calabria è governabile?

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Chi può governare la Calabria, questa Cala-

bria? Con quale progetto, con quale classe dirigente, per andare dove? Il governo di una regione così ingovernabile e ‘‘anarchica’’, qual è la Calabria, vittima di un passato che l’ha vista debole e sottomessa, è cosa assai ardua. Prima di dire chi possa governare la Calabria è necessario dire “come” la si possa governare. Credo sia prima di tutto necessaria una mediazione tra le attese dei calabresi e le possibilità che ha la classe dirigente di soddisfarle. La mediazione tra i mille interessi e gli eterni conflitti che resistono nelle “Calabrie” di oggi. Difficile immaginare che la Calabria si possa governare senza una intesa tra i tanti attori dell’attuale società: la politica, il sindacato, le imprese, le Università, le associazioni di categoria, il mondo degli interessi e degli affari, le associazioni, i precari, i disoccupati, gli enti locali e così via. Ben sapendo che alla maggioranza che ha vinto le elezioni spetta il compito di governare. A tutti gli altri quello di proporre, controllare, verificare.

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Chi può governare la Calabria? Prima di rispondere occorre dire quale Calabria vogliamo costruire. Se non lo decidiamo subito non ci sarà nessuno in grado di dare risposte concrete. Quale Calabria vogliamo costruire se la sua agricoltura è in ginocchio, se il turismo crolla, se l’industria non esiste, se le imprese sono ancora troppo piccole? Quale Calabria se i suoi centri storici cadono a pezzi, il suo artigianato è semisconosciuto, le sue antiche tradizioni stanno scomparendo, se manca il lavoro, se tutto è precario e instabile? Quale Calabria se la Calabria è una, nessuna e centomila? Quale Calabria se la ‘ndrangheta si diffonde ovunque e controlla larghi pezzi di territorio? Quale Calabria se i partiti sono ancora troppo vecchi e la classe dirigente appare per lo più inadeguata e pressocché superata? Chi può governare la Calabria? Prima di tutto occorre mettere in piedi una classe dirigente. Che sia moderna, adeguata ai tempi, preparata e competente. Capace di impostare un progetto ed in grado di realizzarlo. La classe dirigente che si forma nelle scuole, nelle associazioni, nel mondo della cultura e nelle imprese, che sfila per le strade di Locri o di Rende, che fa sindacato e impresa, che vive nelle istituzioni. Soprattutto una classe dirigente che non ha paura del suo passato, che non teme per il suo futuro, che trova la forza di decidere in fretta e con determinazione.

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Quale Calabria. Nell’aprile 2005 la Calabria tornò alle urne. Insieme a quasi tutte le regioni d’Italia è stata consegnata al centro-sinistra per essere meglio governata. L’ampiezza del consenso dato dai calabresi al e ai partiti del centro-sinistra dà l’idea della grande voglia di cambiare. Che non si può deludere o ignorare. Il centro-sinistra, che sta toccando con mano la gravità della situazione calabrese, ha bisogno di lavorare giorno e notte, chiudendo le porte e le finestre alle polemiche, avviando una stagione di confronto e di ascolto, per poi dare vita a quella “rivoluzione” annunciata in campagna


elettorale. Una rivoluzione che sarà dura, costerà sacrifici, ma che è sempre più urgente e necessaria vista la drammaticità delle condizioni in cui versa la nostra regione. Una rivoluzione necessaria, che deve essere condivisa da partiti, imprese e sindacati, che dovrà essere sostenuta da un ampio consenso. Perché sarà dura. Perché sarà impopolare. Perché toccherà interessi forti, che porterà sacrifici nelle case dei calabresi. Una rivoluzione che se non parte subito e non si realizza nei primi anni della legislatura in corso, sarà destinata al fallimento. Il Presidente Loiero sa, meglio di chiunque altro, che questa è la Calabria. Una regione difficile come poche altre. Le Calabrie: le tante facce di una regione che da troppo tempo non ha più un volto. Allora: chi potrà governare la Calabria? Il Presidente e la sua Giunta? I sindacati e gli imprenditori? In realtà o lo facciamo tutti insieme, lavorando intensamente con energia e vigore, ognuno nel proprio ruolo, oppure non potrà farlo nessuno. Questo vale ovunque. Soprattutto in Calabria! Quando Dio, nel racconto di Leonida Repaci, si accorse che il diavolo aveva distrutto la splendida Calabria da lui creata come un gioiello unico nella Terra, “scaraventò con un gesto di collera il Maligno nei profondi abissi del cielo. Poi lentamente rasserenandosi disse: «Questi mali e questi bisogni sono ormai scatenati e debbono seguire la loro parabola. Ma essi non impediranno alla Calabria di essere come io l’ho voluta. La sua felicità sarà raggiunta con più sudore, ecco tutto. Utta a fa iuornu c’a notti è fatta”».

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Una luce in fondo alla notte

Conversazione di Michele Domenico Napolitano con Mons. Giancarlo Maria Bregantini

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Padre Bregantini ama questa terra più di quan-

to non facciano i calabresi, e la ama con le azioni, i fatti, non con le parole che costano poco ed impegnano ancor meno. La maggior parte della sua vita ormai l’ha trascorsa in Calabria, prima come diacono e presbitero e poi come vescovo, e non è affatto pentito di averlo fatto, di essere ritornato quasi dodici anni fa, dopo un’assenza di poco più di sei anni. Ama questa terra della quale conosce i difetti e riconosce i pregi, ma soprattutto per la quale è disposto ad agire, a lottare per guarirne i mali ed esaltarne le virtù. Monsignor Giancarlo Bregantini, vescovo di Locri-Gerace dal 1994, ha affrontato il suo ruolo da missionario, da evangelizzatore, per evangelizzare le coscienze ed anche il lavoro, merce assai rara che da queste parti si ottiene non tanto facilmente, e sovente in cambio di qualcos’altro che, alla fin fine, è un pezzo di libertà, un pezzo di dignità. Padre Giancarlo, così ama essere chiamato, è diventato

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il punto di riferimento di un movimento eterogeneo e indefinito che intende contribuire al cambiamento delle condizioni sociali, ancor prima che economiche, della Calabria; nella gerarchia ecclesiastica è il responsabile della pastorale sociale e del lavoro della Conferenza episcopale italiana (Cei), frutto dell’esperienza maturata nella diocesi di Crotone, accedendo a quelle fabbriche che un tempo erano inibite a chiunque non fosse marcatamente di un colore e, perciò, diverso, come diverso poteva essere considerato, trent’anni fa, un prete, o anche un semplice diacono. E chi meglio di lui avrebbe potuto e dovuto conoscere il mondo del lavoro, se ancora studente aveva maturato l’esperienza delle fonderie di Verona e del petrolchimico di Porto Marghera? In lui, nel vescovo di Locri-Gerace, rimasto, a parte qualche sfumatura di bianco nei capelli e nella barba, il giovane prete ma anche pastore, che si sposta in bicicletta si sono concentrate le più diverse esperienze di lavoro duro in fabbrica e durissimo nella cura delle anime. Attività che lo hanno portato a consolidare un vissuto che va ben oltre l’età anagrafica e ben più in avanti del ruolo ricoperto nella gerarchia ecclesiastica, che sta svolgendo nella quotidianità di una terra che si lascia condizionare dal pessimismo, dalla rassegnazione. “Sentinella, quanto resta della notte?” Alla domanda se è ancora lunga la notte della Calabria risponde con la metafora dei Magi “che hanno visto la stella e l’hanno seguita, la notte è spesso lunga, se però c’è una stella che ti guida la notte nel racconto dei Magi, svanisce anche la stella, però riescono a trovare un’altra luce e la risposta è che Gesù non appare nella grande città, ma nella piccola città. Oggi possiamo dire che la risposta viene dalle piccole realtà, dai piccoli centri, dai luoghi più fragili, dalle persone non di grande valore. L’Italia si salva per la provincia non per le grandi città. Io non guardo con disperazione i fenomeni esterni, ma cerco di aggredirli dall’interno, di scavarli dentro e scopro che anche le lacrime, le fatiche di una terra mi dicono delle verità, mi parlano e mi danno la possibilità di partire da queste situazioni, di non sognare un mondo perfetto, poi lo con-


fronto e il confronto è scadente, ergo tiro le conclusioni che la nostra terra è tutta una decadenza. Ma faccio il discorso inverso, parto da queste situazioni difficili, dalla notte che cerca la stella, dalla fragilità che diventa il criterio di riconoscimento per il luogo dove nasce Gesù, ed allora il cammino dei Magi, che è il cammino nostro, dei calabresi ritrova la stella, ritrova speranza. Valorizzo anche la fragilità, perché altrimenti se tu in Calabria ti avvicini con dei criteri precostituiti non vai più avanti, perché t’inceppi ogni momento, perché continuamente paragoni ciò che dovrebbe essere e ciò che trovi, se invece fai il contrario e dici, questa è la situazione, la valorizzo, i frammenti di verità sono ancora frammenti, però ci sono, allora parti da questa intuizione, che per esempio ci ha sostenuto in questi anni ed è i piccolissimi semi fanno i grandi alberi, quindi i pezzetti di verità, messi insieme, viene fuori l’esperienza del bene. Questo metodo ti permette di non vivere di confronti. Molto spesso le analisi sono fatte da persone che hanno in mente lo schema di perfezione e siccome è impossibile raggiungere la perfezione, finisce con l’adeguarti. Ed è questo il male di tanti”. Restando nella metafora della stella, quante ne ha viste finora? “Ho visto stelle con più luci, più stelle, certamente la prima che io ho cercato di inseguire e di scrutare è la stella della spiritualità, che mi aiuta molto a rimuginare le mie scelte, ad esempio, sento molto la tradizione spirituale bizantina nel cuore della gente, basiliana del tipo monastico, il recupero dei luoghi di preghiera, dei monasteri sotto forma di eremi, nella locride ne stanno sorgendo 4/5. Mi dicono che c’è una spiritualità da recuperare, fatta di grandi tradizioni millenarie di questa terra. Seconda cosa, il segno su cui ho puntato è la coscientizzazione etica, ad esempio si nota sempre più che nessuno giustifica più teoricamente il male, dicendo non c’è la mafia. Oggi nessuno nega l’evidenza, oggi nessuno fa finta di non vedere. C’è una coscientizzazione lucida delle problematiche, l’etica cioè diventa esplicitazione del programma e delle cose attese, però il

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problema è che a questa coscientizzazione bisogna dare delle risposte, però è già molto che ciò che è male è male e lo si dice. E poi la valorizzazione critica, ma positiva della religiosità popolare, vedendo in questa una risorsa antichissima per andare avanti su un cammino erto e difficile qual è la Calabria. Un altro punto bello è il recupero culturale della propria identità, questo è uno dei punti su cui io insisto tantissimo”. Dopo trent’anni, da che conosce la Calabria, cosa vede di cambiato? “È cambiata questa coscientizzazione, non sono però cambiate le risposte a queste attese. Sono cresciute le attese, non attese omologate, nate dentro la storia di questa terra, la fatica è che le risposte date non sono spesso adeguate alle attese che si notano; per cui c’è meno fatalismo, si comincia a capire il danno culturale provocato dall’assistenzialismo, talvolta lo si subisce perché non ci sono scappatoie, però si sente che stride, forestali, Lsu, Lpu, ci si accorge che non sono le soluzioni, e il problema è che non c’è una risposta tale da far maturare un’alternativa vera su queste dimensioni. Però la coscienza che l’assistenzialismo (io lo chiamo forestalismo) ha devastato, questa logica che non giova ai forestali in sé, ce l’ho con la logica che hanno prodotto in tutta la società, per cui in una strada di paese per le forti piogge è caduto qualche sasso, ma non lo raccoglie nessuno. L’ideale sarebbe che i forestali passassero da una logica di difesa del sottobosco ad una logica di custodia del territorio intero, con gli strumenti legislativi”. Che cosa ha fatto scattare nei giovani della Locride la molla che li ha portati ad essere protagonisti di una forte protesta civile? “Credo sia stata la coscientizzazione su tutte queste cose, che in questi anni attraverso messaggi, interventi, dibattiti nelle scuole, confronto con internet che permette a tutti i ragazzi da ogni parte di farsi sentire e di essere vicini, sono diventati protagonisti di una stagione diversa, perché il giorno dopo del barbaro omicidio del vice presidente Franco Fortugno, loro hanno deciso di scendere in piazza, mentre gli adulti, gli insegnanti,


volevano che aspettassero un poco, loro sono scesi lo stesso e sono scesi con quello striscione bianchissimo, senza una scritta che ha fatto pensare perché è diventato così esplicito nella sua muta eloquenza, da essere notato anche dal Presidente Ciampi e di conseguenza questo ha innescato tutta una serie di attenzioni, questa risposta loro l’hanno intuita, e Ciampi è stata la grande risposta provvidenziale alla loro profezia”. Diverso però è il discorso di una “conversione” dei mafiosi, destinatari della stessa protesta. “Su questi fatti i mafiosi non sono rimasti estranei. Si narra di genitori avvicinati da alcuni uomini mafiosi che hanno detto loro: Ma tuo figlio che fa in piazza? Non è neutrale scendere in piazza. E lo scendere in piazza non è una manifestazione neutrale, né goliardica. Inaspettatamente provocati si sono sentiti toccati. Abbiamo visto come sia decisivo gestire le esequie di chi è colpito da una morte violenta. Ci deve essere una capacità di coinvolgere le persone per poter dire no al male, senza giudizi precostituiti. Questo non è facile, però se non c’è la spinta delle istituzioni ed esige una grande maturità di giudizio, vuol dire scendere in piazza e guardare le cose in profondità. L’altra faccia della mafiosità è il perbenismo di chi non vuole essere coinvolto; il perbenista difende se stesso ma non aiuta a cambiare le realtà esterne”. Anche l’esperienza delle cooperative s’inquadra, come dice lei, nel problema più vasto che è quello culturale? “Le cooperative sono nate perché qualcuno ci ha creduto, abbiamo trovato dei contadini veri, e poi hanno capito che questo metodo di lavorare insieme li rende più forti, più liberi più produttivi? Non è stato un principio astratto: cooperare è meglio, ma è stata l’esperienza del Trentino, nella valle dei Mocheni, vicino a Pergine, che li ha convinti a ripetere l’esperienza che lì avevano fatto anni prima con tre elementi essenziali: la individuazione del terreno, delle colture e la cooperazione che garantiva anche la commercializzazione. Dall’agricoltura poi si è passati alla creazione di cooperative sociali, ed è nato il consorzio Goel che oggi è la più folta realtà che abbiamo creato”.

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Buio e stelle. Quali gli elementi di buio? “Destino, indifferenza, carenza di bene comune, mancanza del senso di appartenenza, disgregazione sociale, giudizi anziché analisi. Ed ancora: moralismo, la classe media che non si lascia coinvolgere. La mafia su tutto questo ci specula, sfrutta questi problemi” ... e le stelle? “Parlar chiaro, esplicito. Affrontare questi temi con scioltezza. Una chiesa che si è messa dalla parte dei più fragili, che dà voce a loro. Esempi coerenti di laici che nel loro lavoro silenzioso, ma tenacemente impostano la loro vita professionale. I problemi affrontati come sfide aumentano la qualità delle risposte. La realtà calabrese non permette di vivere neutrale, impedisce quel grigiore, o quello sfumare i colori che talvolta avverti al Nord”. Quale ruolo deve avere la politica per “alfine uscire a riveder le stelle”? “La società cammina bene quando c’è un intreccio di cinque elementi, come quelli di una pila: spiritualità, etica, cultura, politica, economia. Uno sopra l’altro intrecciati, legati. La politica non va perché non s’innerva sulla cultura, sull’etica, sulla spiritualità; al contrario spesso la spiritualità non produce etica e diventa spiritualismo; l’etica senza spiritualità, moralismo o perbenismo. Spiritualità ed etica devono produrre cultura. Solo allora la politica può reggere, perché se si innestano la forza della base e le attese della gente la politica le deve raccogliere, impostare e realizzare. Questo chiede una politica umile, che si confronti con la base, non con la televisione; il recupero delle sedi di partito per il confronto con gli elettori, l’ascolto, non per raccomandazioni, ma per comprendere le attese della gente”.

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Innovazione e sviluppo. La sfida della Calabria

La Calabria, una terra carica di cultura, storia e

tradizione, soffre più di ogni altra regione italiana. La crisi economica e sociale della regione produce arretratezza e provoca un nuovo e massiccio esodo dei giovani talenti verso il Nord. Il Pil è bassissimo, il costo del denaro il più alto d’Italia (il doppio della Lombardia), la disoccupazione galoppa ben oltre il 20%, il lavoro nero è ai livelli da record. Tutto questo dopo 10 anni di governi regionali di centro-destra che hanno spento la voglia degli imprenditori calabresi di mettersi sul mercato con successo, hanno perso tutte le sfide di cambiamento, non hanno avuto la capacità di programmare uno sviluppo compatibile per la Calabria. Le piccole imprese calabresi negli anni degli incentivi pubblici, a ridosso del 1999-2000, avevano fatto registrare livelli record di nascita e di qualità delle stesse. Oggi sono ad un angolo, non trovano la giusta strada per la crescita, soffocate da una burocrazia vecchia e sempre più soffocante. Anche la media impresa è ferma,

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mentre l’industria tradizionale è oramai fuori mercato. La Calabria, dopo la svolta politica delle ultime regionali, si pone finalmente l’obiettivo di riprendere la crescita economica e produttiva (magari superando il tradizionale sistema degli incentivi, ormai non più utile per come è stato concepito), puntando molto alla valorizzazione della propria cultura, della propria storia e delle importanti tradizioni che caratterizzano tutt’oggi la vita dei calabresi. Ma prima di tutto, la Calabria vuole e deve puntare sull’uso delle nuove tecnologie e sulla conoscenza, sulla modernità, sull’innovazione. “L’innovazione per puntare sulla tradizione”, può sembrare uno slogan ma è senza dubbio un progetto, un programma per il futuro della Calabria. L’innovazione tecnologica per essere competitivi, per far conoscere e valorizzare i “valori” calabresi, l’artigianato, il turismo, le risorse ambientali, i prodotti della terra, la cultura. L’innovazione nella Pubblica Amministrazione, nei trasporti, nelle infrastrutture, nella sanità, nell’agricoltura e nell’impresa: massicce dosi delle nuove tecnologie dell’informazione - in Calabria ancora molto distanti - garantiranno al mondo che produce, promuove e cresce, la possibilità di emergere, di svilupparsi, di produrre lavoro, economia, ricchezza. Tutto questo garantirà alla Calabria una nuova immagine, fatta di recupero della propria storia e di investimenti nel proprio futuro. Non basta, ovviamente, finanziare l’acquisto di un computer, anche perché quasi tutte le imprese ne sono dotate da tempo ma molte lo utilizzano tutt’al più al posto di una macchina da scrivere! È necessario costruire un sistema, una rete, che metta tutte insieme le imprese, la pubblica amministrazione, le università, i centri economici. Insieme in Italia e nel mondo per riprendere a crescere in un mercato sempre più nuovo e sconvolgente. Ma non si tratta nemmeno di costruire nuovi portali perché ce ne sono tanti e spesso inutili per come concepiti, quanto di fornire servizi agli utenti che siano semplici, immediati ed efficienti. Pensiamo un po’ alla Pubblica Amministrazione. A parte qualche esempio interessante (la Provincia di Cosenza


e qualche grande comune) i servizi che offrono gli Enti locali, la stessa Regione, sono tutt’oggi assolutamente inadeguati. E una regione non può crescere se non offre servizi immediati alle imprese e a tutti gli attori dello sviluppo. Prendiamo il capitolo degli incentivi pubblici - soprattutto europei - alle imprese. La regione Calabria si è dimostrata del tutto incapace di utilizzare le ingentissime risorse del P.O.R. Calabria, una valanga di milioni di euro rimasta ferma nelle casse regionali. Molti milioni si sono già persi, tornati indietro e destinati ad altre regioni europee. Ma per l’ultima stagione di finanziamenti europei, fino al 2013, la Calabria non potrà che perdere nuovamente la sfida degli investimenti per lo sviluppo, se non saprà attrezzarsi dal punto di vista tecnologico. L’elefantiaca e arretrata macchina burocratica pubblica dovrà essere smantellata per mettere in piedi una classe dirigente moderna, efficiente, capace di dare risposte immediate alle imprese che non possono attendere 3-4 anni prima di sapere se un progetto è stato valutato e se è finanziabile. I tempi biblici sulla strada dello sviluppo, sono la vera sconfitta per la voglia che c’è in Calabria di crescere e sviluppare una nuova mentalità e nuovo progetto di crescita. Una sfida che è presente nel mondo dell’impresa, nelle Università (L’Unical di Arcavacata è sempre più una grande università), nelle nuove generazioni. Ma sempre meno nella politica e nella classe di governo. Tocca ora al centro-sinistra, al governo della Calabria, invertire la rotta e cancellare un passato che negli ultimi 10 anni ha prodotto tanti guasti. Per concludere, siamo convinti che nel Sud oltre ai denari, che pure ci sono e non vengono utilizzati, c’è bisogno di idee e di progetti. Occorre puntare quindi sull’innovazione che apre la strade allo sviluppo, sulla fiscalità, che consenta alle imprese di investire in ricerca e tecnologia, sulle infrastrutture, su un nuovo sistema del credito (può essere utile una Banca per il Sud?), sulla Formazione (quella vera e non quella che finora è stata fatta in Calabria).

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La Calabria prossima al baratro

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Immediatamente

dopo il terribile omicidio Fortugno (ma è stata fatta piena luce su esecutori, mandanti e soprattutto movente?) la Calabria guadagnò una fortissima simpatia in tutto il Paese. La personalità discreta, da uomo onesto e per bene, di Franco Fortugno, ci aiutò molto, così pure la sincera emozione dei calabresi, i grandi e sentiti cortei popolari, le denunce spontanee di gruppi e associazioni, l’impegno vero dei partiti e delle istituzioni, le grida di rabbia e di dolore di Pippo Callipo. Tutti a gridare “Adesso basta”; tutti ad impegnarsi per una Calabria diversa, migliore, finalmente riscattata da secoli di arretratezza. Dopo alcuni mesi da quel tragico 16 ottobre di Palazzo Nieddu, in Calabria tutto è come prima, forse anche peggio. La ‘ndrangheta è tornata ad uccidere indisturbata; vaste parti del territorio sono sempre più nelle mani della criminalità; la voce delle associazioni antimafia si è fatta più debole; nessuna giustizia per le decine di persone uccise nella locride negli ultimi anni (il caso Congiusta ne è l’esem-

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pio più eclatante) e così per tutti gli altri uccisi nelle varie zone della Calabria; nessun investimento previsto nell’immediato “dopo-Fortugno” si è realizzato a favore della crescita e dello sviluppo della nostra terra; la Giunta regionale è diventata ancora più debole e sempre più lontana dalla società, mentre è fallimentare la gestione dei settori strategici come agricoltura, turismo, sanità. Il tutto è aggravato dal fatto che i fondi comunitari che saranno disimpegnati a fine anno (speriamo che ciò non avvenga, ma i segnali vanno tutti in questo senso) ammonterebbero a centinaia di milioni di euro (forse 1000 miliardi di vecchie lire!). Tutto questo mentre i giovani hanno ripreso ad emigrare in cerca di lavoro, le imprese vivono in un mare di difficoltà, i sindaci sono sempre più soli nella gestione delle mille emergenze dei comuni piccoli e grandi. Se tutto questo è vero, com’è vero, la Calabria è destinata a rimanere sola, ancora più sola di prima. A livello romano si fa più forte la sensazione che questa regione è veramente ingovernabile, che i calabresi non sono in grado di darsi un governo forte, autorevole e coraggioso, che le antiche divisioni sono destinate a diventare insanabili lacerazioni. Cosa fare per fermare questa devastante situazione? Non saprei dirlo in due righe. Dico soltanto che non c’è più tempo a disposizione, che occorre decidere subito, che è necessario governare veramente questa regione utilizzando le risorse e le energie disponibili. Vogliamo parlare tutti insieme? Loiero, la Giunta regionale, i sindaci, gli imprenditori, i sindacati: vogliamo decidere tutti insieme per una volta cosa fare della nostra Calabria? Fermiamoci, quindi, un momento a riflettere. Fermiamo questa brutta cosa all’autodistruzione.

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Calabria e Mediterraneo di Giovanni Latorre Rettore Università della Calabria

è

È opinione diffusa che una delle cause del ritar-

do della Calabria rispetto alle questioni, peraltro tutte collegate, dell’economia, della cultura, della legalità etc., sia rappresentata dalla sua perifericità rispetto al resto d’Europa, elemento cui si unisce l’aspetto non secondario relativo all’orografia della regione medesima. Il massiccio del Pollino, che la divide a nord dal resto della penisola, ed i rilievi montuosi, che al suo stesso interno separano le tre sue uniche aree pianeggianti (Sibari, Lametia e Gioia Tauro), hanno reso nei secoli passati la regione impenetrabile dall’esterno ma, non di meno, difficilmente percorribile il suo stesso territorio. Se pensiamo, poi, che per circa 10 secoli l’altra via, il Mediterraneo del Sud, usata nell’antichità per accedere a questa terra, ha rappresentato un’area molto pericolosa per le ricorrenti scorrerie della pirateria arabo-turca, pericolosità ampiamente dimostrata, del resto, dall’urbanizzazione delle coste calabresi realizzatasi soltanto in tempi relativamente recenti, si comprende come e

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quanto l’isolamento geografico abbia pesato ed ancora influenzi la storia dei calabresi. Oggi, anche se siamo ancora in presenza di un forte deficit infrastrutturale, non si può dire che la regione sia inaccessibile. Rimane però, come dicevo, il retaggio di secoli di isolamento e delle sue conseguenze sia a livello materiale che, soprattutto, culturale. I calabresi, infatti, non hanno una tradizione culturale di comunicazione ed una capacità di tessere rapporti con l’esterno della regione; né, purtroppo, a causa dell’isolamento interno, riescono a realizzare relazioni proficue tra di loro. Questo stato di cose, come è comprensibile, ha rappresentato in passato un grosso limite alla capacità della Calabria di realizzare uno sviluppo auto propulsivo. È evidente che, nell’epoca della globalizzazione dell’economia, ma non solo, tale limite rappresenta una nuova barriera, questa volta culturale, verso l’esterno. A rendere la situazione ancora più particolare, nel senso della “criticità” di tipo orografico della regione, è il fatto che questo limite oggi funziona solo per i calabresi e non per il resto del mondo. La regione, infatti, è fortemente permeabile rispetto all’economia che proviene dall’esterno, ma non riesce a riequilibrare questo stato di cose con quantità equivalenti di prodotto locale, compensando il deficit che ne deriva con le risorse che, sotto forma di trasferimenti, provengono, anche questa volta, dall’esterno. In tempi recenti, solo due nuove realtà hanno fatto compiere alla Calabria qualche passo in avanti nella direzione giusta, rendendo possibile iniziare a costruire i primi fili di un collegamento stabile con l’esterno: le Università ed il Porto di Gioia Tauro. Naturalmente si è ancora lontani dal prefigurare una rete di rapporti solida, quale il mondo globalizzato oggi richiede. Non solo, ma il Porto rappresenta ancora soltanto una grande potenzialità, in termini di relazioni con l’esterno, essendo il suo impatto economico e sociale sulla regione nel suo complesso abbastanza limitato. Per le Università il discorso è diverso. Con i quasi 60.000 studenti iscritti, infatti, esse rappresentano una


realtà sociale ed economica certamente significativa che ha fatto assurgere la Calabria al quinto posto tra le regioni italiane, dopo Valle d’Aosta, Molise, Abruzzo e Lazio, nel tasso di passaggio dalla scuola all’Università, percentuale pari all’80,2% in Calabria contro il 72,3% in Italia. L’accesso alla cultura per strati di popolazione finora esclusi dalla scolarizzazione universitaria è di per sé un fattore di rottura dell’isolamento della Calabria. A ciò si è inevitabilmente aggiunto il benefico effetto della mobilità dei nostri studenti in Italia ed all’estero e quella dei tanti studenti stranieri che oggi fanno un’esperienza di studio nei nostri Atenei. Non è da trascurare, infine, l’apporto sul piano sociale, oltre che intellettuale, dei tanti docenti (circa 1300), calabresi e non, formatisi in prevalenza in altre Università italiane e provenienti da altre parti del Paese, che hanno deciso di stabilirsi nella nostra regione. Tutto questo, però, benché indiscutibilmente importante, rappresenta solo una prima traccia, se così può dirsi, della rete, prima, e del tessuto, poi, di relazioni culturali, economiche ed istituzionali che la regione deve costruire aprendosi all’esterno: alle altre regioni italiane, al resto dell’Europa, alle Americhe, all’Asia (Giappone, Cina, India) ma anche al Sud Mediterraneo e dell’Africa. Ognuno dei contesti geografici citati rappresenta un settore d’intervento specifico che richiede l’adozione di politiche ad hoc. Per un insieme di ragioni, alcune fin troppo evidenti, altre che più avanti analizzeremo, un posto particolare è da riservare alle politiche della regione verso l’area del Nord-Africa. Va detto, in via preliminare, che l’Unione Europea, per ragioni politiche e strategiche, ha riconosciuto, in tempi recenti, a questa area un’importanza seconda soltanto a quella dell’Europa dell’Est. Ma, grazie al processo di allargamento dell’Unione, ormai in atto, certamente oggi l’area del Nord-Africa rappresenta e sempre di più rappresenterà la sfida strategica più rilevante dell’Unione. Ovviamente la sicurezza rappresenta l’obiettivo prioritario e la molla decisiva per la costruzione della politica

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euro-mediterranea. Non solo il conflitto arabo-israeliano, infatti, ma anche la rilevanza ai fini dell’approvvigionamento energetico nonché i forti squilibri demografici ed economici tra Europa, da una parte, e Nord-Africa e Medio-Oriente, dall’altra, rendono oggi il Mediterraneo e le relazioni tra i popoli che vi si affacciano particolarmente esposti a crisi di instabilità politica. L’Unione Europea, con la stessa lungimiranza ed acume politico grazie ai quali si è assicurata pace e stabilità ad Est, insieme ad Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Marocco, Siria, Tunisia, Turchia ed Autorità Palestinese, nel Novembre 1995 ha sottoscritto la Dichiarazione di Barcellona, che recita: “I partecipanti esprimono la convinzione che pace, stabilità e sicurezza della regione mediterranea sono un valore comune che essi si impegnano a promuovere e rafforzare con ogni mezzo a loro disposizione. A questo fine essi concordano di realizzare un rafforzato dialogo politico da tenere ad intervalli regolari, basato sull’osservanza dei principi essenziali del Diritto Internazionale e riaffermando un insieme di obiettivi comuni nelle questioni riguardanti la stabilità interna ed esterna.” La Dichiarazione di Barcellona ha, tra l’altro, dato vita ad un partenariato tra l’Unione Europea ed i cosiddetti Paesi Terzi Mediterranei (PTM), che sono quelli sopra citati, ai quali si è aggiunta la Libia, che ha sottoscritto la Dichiarazione successivamente. Il partenariato Euro-Mediterraneo si realizza su tre assi portanti. Il primo che riguarda la Politica e Sicurezza, il secondo l’Economia e la Finanza ed il terzo che è inteso a costruire la cooperazione Culturale, Sociale ed Umana. Trasversale rispetto agli assi di azione è il Programma MEDA che finanzia, nel settennio 2000-2006, con 5,35 Milioni di Euro, progetti sui vari assi. A queste risorse si devono aggiungere 7,40 Milioni di Euro di finanziamenti della Banca Europea degli Investimenti. Obiettivo strategico dell’asse relativo all’Economia e Finanza è la realizzazione, per il 2010, di una Zona di Libero Scambio (ZLS) allargata a tutti i paesi del partenariato Euro-Mediterraneo, nella quale beni e


servizi possano circolare liberamente senza limitazioni legali o dazi e tariffe doganali. Per avere un’idea del cambiamento di scenario politico, economico e sociale introdotto dalla Dichiarazione di Barcellona, basti pensare che esso riguarda una comunità di circa 700 milioni di persone mentre, in prospettiva, cioè per il 2010, la ZLS rappresenterà il più vasto e dinamico Mercato Comune del mondo. La Calabria, rispetto al profondo mutamento di contesto appena delineato, non ha fatto nulla di apprezzabile per essere pronta a questo importante appuntamento e, a fronte di vantaggi solo potenziali dalla futura istituzione della ZLS, avrà lo svantaggio certo di dover competere con le economie del nord-Africa sugli stessi prodotti agricoli senza godere dell’ombrello protettivo dei dazi doganali. È stato e rimane un immobilismo grave e controproducente e avremmo avuto più interesse degli altri a rendere più percepibile la nostra presenza anche al fine di valorizzare tutte le potenzialità del Porto Containers di Gioia Tauro, che ha le caratteristiche per proporsi come l’“emporio” principale per tutto il bacino del Mediterraneo. Perché questo potesse avvenire e il porto avere questo peso baricentrico, in alternativa ad altri porti simili, come Malta o Algeciras, esso avrebbe avuto bisogno di intessere una rete di relazioni con gli altri paesi rivieraschi ed i relativi porti, consolidandosi in tal modo nella funzione di Porto di attracco delle Super Containers-Carriers, le cosiddette navi giramondo, dal quale si dipartono poi le navi più piccole, dette feedeers, che alimentano i porti minori nel Mediterraneo. Le altre regioni del nostro Paese, soprattutto quelle più avanzate del nord Italia, hanno da tempo intuito le grandi potenzialità ed opportunità che già si offrono in questa parte del mondo. Lo testimoniano la nascita di strutture di supporto a livello regionale, l’intensa convegnistica eu-med ed alcuni risultati significativi nelle esportazioni verso i PTM. Infatti, tenendo conto che nel nostro Paese le esportazioni totali nel 2004 sono cresciute solo del 6,1% rispetto al 2003, le esportazioni

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verso i PTM sono cresciute, nello stesso periodo, del 12,1% e, di tale export, ben il 67,3% è da imputare alle regioni dell’Italia del Nord. A seguito di un trend altrettanto sostenuto delle importazioni dai PTM, molti analisti concordano nel ritenere che l’area mediterranea sarà nei prossimi anni uno dei mercati più caratterizzati da una crescita elevata e rapida (fonte Camera di Commercio di Milano 2004). Per quanto riguarda la Calabria, la situazione delle esportazioni è a dir poco drammatica. Nel 2004 i suoi 345 Milioni di Euro di esportazioni rappresentavano l’11,4% delle esportazioni totali del Mezzogiorno e solo lo 0,1% delle esportazioni totali italiane. Di questi volumi solo 9 Milioni di Euro hanno riguardato le esportazioni verso i PTM. Alla luce di questi dati, è evidente che c’è molto da fare. È urgente recuperare terreno e opportunità. Occorre dare avvio ad una fitta tessitura di relazioni e sul fronte della cooperazione, proprio partendo dalla rete universitaria calabrese, che ha già delle partnership consolidate con Università consorelle del nord Africa ed ha, inoltre, grande facilità di infittire e rafforzare questa rete. Le partnership universitarie, come d’altra parte spesso accade, dovranno preparare il terreno per intese istituzionali ed imprenditoriali. Il Programma MEDA, di cui si è già detto, ed il Programma ECIP (European Community Investment Partners), che finanzia le “joint venture” tra piccole e medie imprese delle regioni mediterranee, sono da considerare gli strumenti per tessere reti di relazioni imprenditoriali finalizzate all’aumento dell’interscambio tra il nostro sistema produttivo e quello dei PTM. Parallelamente si dovrà porre mano all’integrazione del settore agricolo, oggi in totale sovrapposizione competitiva nei mercati internazionali. Cosa abbiamo da offrire ai nostri dirimpettai nord africani? Essenzialmente servizi educativi e di alta formazione nelle nostre Università, know how tecnologico e scientifico nel campo produttivo, delle costruzioni, della protezione ambientale e della gestione delle risorse idriche, prodotti dell’industria agro-ali-


mentare. Cosa abbiamo, invece, da acquistare dai PTM? Energia, minerali, prodotti agricoli, abbigliamento. Si tratta di potenzialità enormi e gli aiuti comunitari sono anche adeguati per facilitare la loro traduzione in iniziative concrete. Naturalmente si tratta di una sfida impegnativa. Ma è essenziale per il futuro della Calabria. Dunque, non si può più perdere altro tempo. Si tratta di mettere in campo un programma di esplorazione e di contatti che veda la regione rappresentare il punto focale di un “sistema” (istituzioni, università, imprese) in grado di proporre progetti operativi convincenti. Una sfida che consenta di limitare gli svantaggi della politica europea di apertura a Sud ma anche di coglierne tutti i vantaggi, e fare, finalmente, della centralità mediterranea il vero punto di forza della regione.

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Il potere. La politica. Il delirio di onnipotenza

t

“Tutta la storia dimostra che il grande potere

avvelena” (Bertrand Russel), ma quello che più conta è che il potere condiziona chi lo esercita, ne accentua i difetti, lo acceca fino a farlo sentire invincibile. Gestire il potere in politica non è semplice. Soprattutto non è una cosa che può fare chiunque, perché provoca pericolose ubriacature e fa perdere il rapporto con la realtà. La più grave delle controindicazioni è che ti fa sentire onnipotente. Ci sono uomini che governano le istituzioni, le imprese o l’economia pur essendo profondamente ignoranti, per cui la loro arroganza cresce insieme alla loro prepotenza. Le moderne democrazie soffrono per la mancata selezione dei gruppi dirigenti. Per cui al potere giungono spesso persone modeste e senza cultura, perfino uomini spregiudicati che diventato potenti perché sanno come controllare il consenso. Il limite della moderna democrazia, alla fine, è proprio questo: non avere previsto al suo interno strumenti di selezione della classe dirigente

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e non riuscire quindi a garantire il ricambio e il rinnovamento degli apparati. Un po’ anche per questo è finita la Dc in Italia. Controllare pacchetti di voti (acquisiti con il denaro o ottenuti con l’inganno e la facile promessa) non è più sufficiente (e non lo è mai stato) per essere un buon legislatore, un presidente competente, un sindaco capace. L’Italia, da nord a sud (ma molto più al sud e in Calabria in particolare) è ricca di esponenti politici, anche di primissimo piano, che non hanno la capacità di governare i processi politici, non possiedono alcuna competenza, né hanno l’umiltà necessaria per governare le istituzioni con distacco e obiettività. Siamo, in buona sostanza, pieni di assessori inutili (per non dire dannosi) che provocano danni a regioni, province e comuni per la loro perfetta inutilità. La cosa diventa ancora più grave quando anche ai vertici del potere giungono persone del tutto impreparate e inadeguate. La crisi dei partiti storici, dagli anni ’80 in poi, ha fortemente limitato l’accesso alla vita pubblica dei migliori rappresentanti delle professioni, della cultura, della società civile. I partiti stessi sono finiti in mano a mediocri professionisti della politica, uomini che hanno scalato il potere utilizzando i partiti, controllando consistenti pacchetti di voti, occupando le istituzioni con l’obiettivo di soddisfare esigenze ed interessi personali. “Ogni politica dovrà piegare le ginocchia davanti alla morale” diceva Kant, ma questo ai giorni nostri non vale più niente! La gestione del potere senza limiti di tempo e senza alcun condizionamento esterno esalta i soggetti fino al punto di provocare in loro quel “delirio di onnipotenza” che cancella ogni capacità di agire nel rispetto degli altri, tipico delle più pericolose forme di tirannide. Chi vive con questo delirio ha una grandissima considerazione di se stesso, condivide soltanto le proprie idee, negli altri vede solo nemici che lo minacciano. Giunti all’inizio del Terzo Millennio, mentre l’Italia sbanda per colpa di una lunghissima crisi politica che sta minando dall’interno la base della democrazia stessa,


occorre immaginare una nuova forma di partecipazione del cittadino alla politica. Rifondare i partiti è necessario per ridare più forza alla democrazia, mentre è indispensabile controllare meglio l’accesso al sistema per impedire che uomini senza scrupoli e senza alcuna qualità controllino i partiti stessi ed occupino le istituzioni. Così come è necessario porre un limite ai mandati elettorali (dopo due legislature in una istituzione dello Stato è opportuno cambiare); se un sindaco non può andare oltre i 10 anni di mandato, è opportuno che un presidente di Regione, un Primo Ministro, un Capo di Stato non mantengano l’incarico oltre cinque anni (in America, del resto, da sempre il presidente dura in carica quattro anni che possono diventare al massimo otto, ma questo è successo in alcuni casi). È necessario limitare al minimo i privilegi della politica, ridare più forza alle istituzioni democratiche, ma occorre anche rivedere i poteri dei sindaci eletti direttamente dal popolo (a metà legislatura và prevista una verifica del loro operato), mentre per i presidenti delle Regioni non è affatto necessaria l’elezione diretta per tante di quelle ragioni che sarebbe lungo spiegare in questa sede. E poi, soprattutto la qualità della politica: occorre grande competenza, ma anche qualità morali, tanto spirito di sacrificio e una grande disponibilità all’ascolto per potere gestire un Ente o una Istituzione pubblica. Non è affatto vero - cominciamo a dirlo apertamente - che chiunque (nemmeno in piena democrazia) possa governare un comune o una regione: occorrono qualità e competenze fuori dall’ordinario per poter decidere il destino di tante persone e il futuro delle comunità. Non bastano il buon senso e l’onestà, come abbiamo a lungo immaginato nel secolo scorso. Oggi occorrono cultura, competenza, conoscenza. La persona mediocre, quasi sempre ignorante e arrogante, non ha capacità di gestione e di decisione, non sa e non può guidare processi complessi, disegnare il futuro, occuparsi delle emergenze. E allora una democrazia moderna, in una società assai difficile e complessa come la nostra, deve immaginare e prevedere strumenti severi

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per l’accesso al potere. Nella società dell’informatica e degli straordinari progressi tecnologici, ma anche nella società così vicina ad un pericolosissimo scontro fra civiltà, chi governa deve avere non solo piena confidenza con strumenti nuovi e dalle infinite potenzialità, quanto deve avere prima di tutto una consistente base culturale, per poi possedere doti e qualità umane, morali e professionali immediatamente riconoscibili. Qualche giorno fa, ero al telefono con un importante uomo politico calabrese che guida un settore importante di una istituzione pubblica di primaria importanza. Quando gli ho detto che gli avrei mandato una mail con allegato quel progetto del quale parlavamo, mi sono sentito rispondere con uno sconfortante: “Non uso il computer e non ho posta elettronica, queste cose non fanno per me. Mandami un fax”! Un fax? Prima emergenza in Calabria: la necessità di mettere in piedi una nuova e moderna classe dirigente. Per la cui cosa il presidente Loiero può aiutare veramente la Calabria, investendo su una classe politica giovane e su un moderno e preparato gruppo dirigente, in decisa discontinuità con un passato che per troppi aspetti è ingombrante. Ma di questo parleremo la prossima volta.

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Una Calabria più autonoma e migliore

di Gianni Vattimo

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Che cosa si può fare per la Calabria? La forma della

domanda indica con chiarezza una particolare visione della politica, molto diffusa al Sud, secondo cui lo Stato deve provvedere per necessità a un’area tradizionalmente depressa e segnata dal violento conflitto tra i poteri legittimati e le forze mafiose nel territorio, salvi i loro frequenti matrimoni. Sarebbe più giusto chiedersi che cosa si può fare in Calabria, dal momento che non è possibile, oggi, intendere le sorti della cosa pubblica come se fossero di sola pertinenza politico-istituzionale. Le ultime vicende di Locri, a partire dall’omicidio di Francesco Fortugno, ci hanno mostrato, per l’ennesima volta, l’impotenza degli apparati istituzionali e della politica in Calabria e, assieme, una corale richiesta di giustizia e cambiamento proveniente dai giovani e dalla società civile. Negli anni Sessanta, ma anche dopo, la situazione non era troppo diversa: le battaglie per i diritti, la sicurezza e lo sviluppo, finite nella rapida caduta dei loro «eroici furori», avevano come protagonisti molti ragazzi

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impegnati nel sociale, poi emigrati perfino all’estero. Gli economisti che si sono interrogati sugli effetti concreti di speciali misure d’assistenza statale sistematicamente riservate alla Calabria ne hanno rilevato, quasi unanimi, la sostanziale inutilità e le aberrazioni prodotte nella coscienza politica degli individui. In altri termini, molti provvedimenti a sostegno del reddito si sono di fatto rilevati dannosi, a giudizio di chi li ha indagati, e hanno giovato all’idea dell’onnipotenza della politica, peraltro già abbastanza radicata. Specie in Calabra, i fondi per la disoccupazione, i redditi minimi d’inserimento, le assunzioni di massa negli uffici pubblici e l’abuso della discrezionalità amministrativa, ancora vigente, hanno corroborato quella mentalità d’assoluta dipendenza dal potere, contro il quale «mai conviene andare», di troppi calabresi. Ora, i dati sul benessere in Europa, anche se letti in controluce, documentano uno stato più che allarmante di degrado e arretratezza della nostra regione, dove, oltretutto, non esistono servizi adeguati né sufficienti garanzie in ambito sanitario, nei trasporti, nella sicurezza pubblica, nella tutela dei diritti. Se, poi, si considerano le istituzioni formative, occorre osservare quanto è ancora problematico il loro collegamento col mondo del lavoro, come denunciato a più riprese e livelli dal rettore dell’Università della Calabria, Giovanni Latorre. In Calabra, il problema fondamentale è il lavoro. La politica è chiamata, anzitutto, a favorire delle condizioni per cui si possa avviare e mantenere un’impresa produttiva, senza subire il ricatto della mafia o del potere esecutivo. Fra cultura e turismo, agricoltura ed enogastronomia tipica, con tutti gli annessi e connessi, ci sarebbe davvero l’imbarazzo della scelta. Non aggiungiamo qualcosa, quindi, rispetto alle retoriche elettoralistiche di molti professionisti della politica. E il rischio, a questo punto, è giusto quello di sprofondare nel già visto, con qualche banale scusante di rito. Giovani, legalità e investimenti nella produzione culturale in senso lato potrebbe essere lo slogan o il principio di un’altra politica in Calabria, in cui non serve inventare novità, dato che le risorse della regione non sono state mai


pienamente impiegate. Nella mia recente esperienza di candidato sindaco a San Giovanni in Fiore, ho potuto osservare il grave isolamento dell’area interna calabrese. I tentativi di sollevare gli animi fornendo, almeno, delle alternative ad una certa consuetudine nel sociale e a una drammatica passività individuale nel politico sono destinati, pare, al fallimento inevitabile. Le resistenze nascono, il più delle volte, dal sospetto che si possa turbare, comunque, uno stato di relativa stabilità e certezza, al di là del quale, è opinione diffusa, potrebbe spuntare l’impegno personale e l’onere d’una scelta di tipo politico. È una sorta di circolo vizioso: meglio delegare a chi ha creato un presente schiacciante ma, tutto sommato, indispensabile. Certamente, e realisticamente, fornire ai giovani degli stimoli per superare la barriera dell’indifferenza politica può rappresentare un buon inizio per costruire una Calabria più autonoma e migliore. In primo luogo, perciò, bisogna intervenire a un livello che potremmo definire minimo. In questa prospettiva, la scuola, attore politico in disparte, ha un ruolo essenziale. Deve crederlo e non cedere.

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Piccoli tesori della Calabria

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Un’estate difficile. Fredda, breve, banale. Nes-

suna cosa che meriti di essere ricordata. Molte, invece, da dimenticare: il cattivo tempo, l’arresto di Pacenza, la cabina di regia di Loiero, il mare ancora sporco, il calo delle presenze turistiche, il Bur Calabria. Al culmine di un’estate così brutta, mi viene in mente di cercare un angolo riservato e piacevole per poter trascorrere qualche giorno di riposto. Si, ma… che non sia troppo lontano, che sia al mare ma anche… fresco, che non sia molto affollato, che mantenga il rapporto diretto con la natura ma nel contempo sia ben tenuto, elegante e discreto. Quante pretese, quante richieste. Poi, un flash: mi viene in mente che un posto così, un agriturismo vicino al mare, l’ho incontrato durante le feste di fine anno del 2003. Eravamo in pieno inverno, è vero, tutto era così diverso, dalla stagione estiva, ma quel posto era così piacevole, così accogliente, elegante ed immerso nella natura da non farsi dimenticare facilmente. La zona di Isola Capo Rizzuto è tra le più belle

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e “selvagge” della Calabria. Mare spettacolare e natura incontaminata sono le due caratteristiche principali di questa zona. I villaggi turistici sono moderni e ben fatti, alcuni di livello europeo, altri più modesti ma comunque accettabili. Quello che però colpisce di negativo è … tutto il resto. I centri abitati, il deserto circostante, certe sgradevoli abitudini della gente del posto: tutto da dimenticare immediatamente. Detto questo, rimane comunque una zona turistica di eccellenza. All’interno della quale c’è qualcosa che supera l’eccellente: il mare prima di tutto. E proprio sul mare di Isola, circondato da aree immense e visibilmente degradate, ritrovo il mio “rifugio” invernale di qualche anno fa. L’estate lo rende straordinariamente irriconoscibile. Il verde che lo circonda è dolce e mai invadente, gli uliveti hanno un’eleganza solenne ed austera, il bosco adiacente è piccolo ma piuttosto fresco, la macchia mediterranea lo accompagna dolcemente fin sulla spiaggia privata. I casali che formano l’agriturismo in questione ti raccontano la storia che hanno vissuto: sono tre residenze grandi, eleganti ed accoglienti; la più bella, la quarta, si affaccia sul mare, nel cuore della macchia mediterranea, e molto probabilmente deve averla notata dal suo yacht qualche principe di passaggio, e per averla ha offerto cifre sbalorditive. Ma, per fortuna, la “casa più bella dello Jonio”, è ancora lì, piccola, superba e incantevole a guardare quel mare di fronte che pare la voglia continuamente accarezzare. Poche persone possono gustare tanta bellezza, tanto silenzio, tanto piacere. È un contesto così semplice, ma anche così naturale, che sembra di vivere in una fiaba. Quasi quasi ti aspetti che spunti Cappuccetto rosso (ma senza lupo cattivo), o Biancaneve (un po’ più furba del solito) ad allietare il tranquillo soggiorno dei pochi ospiti: una decina di giovani coppie con figli piccoli, piccolissimi, qualche coppia un poco più adulta, i proprietari sempre attenti e gentili, il personale straniero così disponibile. E nessuno più, per fortuna! Il tempo qui, ai Casali di Cavallaro, scorre lento: c’è poco da fare, ma quel poco è così prezioso che sembra inventato: i tavolini per il pranzo nel cuore degli uliveti, le passeggiate nel verde circostante, le amache nel


boschetto laterale, la spiaggia piccola e accogliente che sembra appena disegnata, il mare pulitissimo e i tanti scogli che lo impreziosiscono come pietre preziose. Grazie a Dio, ai Casali non ci sono televisori, nemmeno nelle camere. E, cosa ancora più miracolosa, i miei giovani figli non notano nemmeno l’ingombrante assenza del più diffuso e invadente degli elettrodomestici. A fianco dei Casali c’è un grande e affollato complesso turistico; dall’altra parte si vede a poca distanza Isola Capo Rizzuto. Attorno tanta desolazione. Per cui è meglio, molto meglio, rimanere all’interno dei Casali, lasciandosi accarezzare dal vento leggero che non manca mai, dal fresco naturale sempre presente, dal verde che spunta da ogni angolo, dal mare azzurro e verde sempre pulito. Una vacanza così, sebbene di pochissimi giorni, ha dato ossigeno a questa estate da dimenticare. Rientrando lungo la famigerata SS 106, mi convinco che la Calabria potrà divenire veramente una meta turistica di primissimo ordine, se punta a valorizzare le sue splendide risorse naturali, rispettandole. Basterebbero 10, 100, Casali di Cavallaro (piccoli, eleganti, perfettamente integrati nell’ambiente naturale) per rispondere in termini di qualità alla domanda crescente del turismo alternativo. Una domanda che chiede contatto diretto con la natura, un soggiorno tranquillo, accoglienza discreta e raffinata, la semplicità e la genuinità su ogni cosa. Ed per questo che mi viene in mente Leonida Repaci: “Quando fu il giorno della Calabria, Dio si trovò in pugno 15 mila Kmq di argilla. Pensò che con quella creta si potesse modellare un paese per due milioni di abitanti al massimo. Era teso in un vigore creativo, il Signore, e promise a se stesso di fare un capolavoro. Si mise all’opera, e la Calabria uscì dalle sue mani più bella della California e delle Hawaii, più delle Costa Azzurra e degli arcipelaghi giapponesi”. Quella Calabria, nonostante i calabresi, è tutt’ora un capolavoro. Passando dai Casali di Cavallaro, il Signore di Leonida Repaci, decise di riposare, consapevole di aver creato qualcosa di veramente bello.

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L’Italia dopo Berlusconi di Franco Laratta



Serve davvero un nuovo partito dei moderati?

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A fasi alterne ritorna l’idea di un nuovo partito:

il partito dei centristi, dei moderati e dei cattolici dei due poli. A livello nazionale c’hanno provato in tanti negli ultimi 10 anni, fallendo sempre l’obiettivo. A livello locale il tema è tornato di attualità dopo le recenti proposte. Se posso essere sincero non ritengo che, in questo contesto storico e politico, abbia senso parlare di un nuovo partito di centro, fatto da ex ex ex: si tratterebbe di una risposta ormai vecchia e superata rispetto alla montante richiesta di una nuova stagione politica. Con gli strumenti dell’800 non si può far politica nel Terzo Millennio! Mi par di capire che la gente, i nostri elettori, prima ancora di un nuovo contenitore politico di centro, ci chiedano un impegno chiaro e deciso in favore del cambiamento. Una sorta di movimento “invisibile” fatto da uomini “liberi e forti”. Qualcosa che non abbia un simbolo né un nome, né nuove strutture o sedi, né gruppi dirigenti ad hoc. Un “partito nei partiti” che abbia quale bandiera la lotta alla corruzione e al

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malaffare, che punti a valorizzare le migliori energie del Paese, che agisca nella massima trasparenza, che non sia fatto di carrieristi e tangentisti, che si ponga quale primo punto del suo progetto ideale: la libertà, la pace, la democrazia, la lotta a tutte le forme di corruzione e ad ogni forma di connivenza con la criminalità organizzata. Un partito che non c’è, quindi, ma che potrebbe raccogliere gli uomini onesti, liberi e forti della sinistra, del centro e della destra; un movimento trasversale destrasinistra, partiti-società, che si ritrovi insieme per le grandi battaglie politiche, ideali, morali, culturali; che punti a cambiare il Paese, a riformare le sue Istituzioni, puntando alla modernizzazione degli apparati, alle riforme condivise; soprattutto, e prima di tutto, un partito che divida nettamente la politica dalla gestione, cioè dagli affari! Un partito che parta dal basso, che difenda i territori, promuova un Paese che sia sempre più unito, che valorizzi le professioni e le migliori imprese, dia voce alle fasce deboli, abbia quale riferimento condiviso le radici cristiane dell’Europa, ma protegga lo Stato e le sue istituzioni dalle ingerenze di qualsiasi confessione religiosa o “laica”! Certo, un partito così sembra un’utopia, ma in effetti c’è già: il fatto è che non sempre si vede. In ogni partito ci sono uomini onesti, così anche nelle istituzioni, nel mondo dell’impresa, della cultura, dell’associazionismo, della società civile. Si tratta troppo spesso di presenze isolate e marginali, relegate ad un angolo, fastidiose, ininfluenti. Ecco, questi uomini “liberi e forti”, possono ritrovarsi per iniziare la lunga e difficile battaglia politica che punti a cambiare i partiti e le istituzioni. C’è veramente questa necessità? Credo di sì. Perché una società come la nostra, così corrotta, gestita da apparati che vivono distanti dai cittadini, che non ha più idee né progetti, è destinata a fallire. Il partito degli “uomini liberi e forti”, dovrà guardare al futuro, attingendo dagli insegnamenti dei grandi uomini che hanno fatto la storia del nostro Paese. Uomini straordinari che posero le basi di quell’Italia che ha saputo vincere il fascismo e poi costruire la Democrazia: da don Luigi Sturzo a De Gasperi ed Einaudi (passando per il calabrese don Luigi Nicoletti), da La Pira a Nenni,


La Malfa, Zaccagnini, Berlinguer, Moro. Uomini grandi, onesti, liberi, forti, incorruttibili, con un forte senso dello Stato e delle sue istituzioni. Poi, con l’avvento del craxismo e con l’imperante berlusconismo di destra e di sinistra, tutto è terribilmente cambiato in peggio. Questo, secondo me, è il partito di cui avrebbe bisogno l’Italia in questo momento. Perché è solo cominciando da quelle persone per bene che abbiamo nei diversi schieramenti e nella società che si può pensare di aprire la politica alla società, ai cittadini, alle persone oneste che oggi non si riconoscono più in nessuno. Per un obiettivo del genere dovrebbe impegnarsi realmente il centro-sinistra. Forse queste sono solo riflessioni estive che non porteranno a nulla di particolare. Ma rimane il fatto che si avverte forte il bisogno di dare una scossa alla vita politica nel nostro Paese. Così pure nella nostra regione. Forse in particolar modo in questa regione, così debole, così maltrattata, così lontana da quel partito degli “uomini liberi e forti” di cui si sente tanto il bisogno. La regione di Gioacchino da Fiore, Tommaso Campanella, Corrado Alvaro, don Luigi Nicoletti, Leonida Repaci, Antonio Guarasci, Riccardo Misasi, Giacomo Mancini, Antonino Scopelliti e tanti tanti altri personaggi onesti e competenti, che ci hanno indicato una strada per la rinascita della Calabria e del Mezzogiorno. Rimasti senza eredi. Tutto, oggi, ruota attorno a personaggi assai modesti. Qualche luce che splende nella Calabria dei giorni nostri c’è senz’altro, ma viene tenuta in disparte, sistemata sotto il tavolo per impedire che quella luce risplenda. Qua e là c’è tanta gente onesta e capace, soprattutto una generazione moderna di giovani professionisti completamente ignorata e sottovalutata. Qualche settimana fa scrissi un commento per Il Quotidiano della Calabria sulla situazione politica calabrese e su “quel vecchiume degli anni ’70” che ancora imperversa. Un fine ed elegante uomo politico, che da un trentennio occupa il massimo degli spazi politici a destra e a sinistra, mi ha risposto che non avevo titolo a parlare perché sarei uno sconfitto. Non sono abituato al suo stile, quindi ho preferito il silenzio; diversamente avrei potuto ricordare che qualche mese fa egli ha subito una cocente sconfitta alle comunali del suo paese (nonostante una for-

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midabile macchina da guerra che sulla carta contava sul 90% dei consensi!) che ha eletto un sindaco onesto e perbene; che in quello stesso collegio camerale era stato già sconfitto alle politiche del 2001 da una quasi sconosciuta. Come avrei potuto ricordare che gli 8.000 voti da me conquistati alle regionali del 2005 nella Margherita (fui tra i più votati in Calabria) non furono una sconfitta ma una grande vittoria della gente per bene, onesta e pulita che mi ha votato, nonostante io non disponessi dei mezzi, delle risorse, delle strutture e degli apparati della Regione, né tantomeno di 30 anni di inossidabile e formidabile potere in tutte le salse. Non mi interessa la polemica fine a se stessa. Credo anzi che le critiche debbano e possano aiutare la politica calabrese e lo stesso Consiglio regionale a ritrovare quel bel clima dell’aprile 2005. Per ridare una speranza ai calabresi. Quello che mi interessa è lottare, dal Parlamento, per dare un contributo al cambiamento per la nostra terra, da quel Parlamento dove ora mi trovo in quanto eletto nella lista dell’Ulivo in Calabria insieme a Prodi, Minniti e altri colleghi seri e impegnati; così pure voglio lottare dai giornali, nella vita politica locale, nell’impegno sociale e culturale in favore di una Calabria migliore. Per questo mi riconosco nei ragazzi di Locri, sostengo i progetti di legge anti-mafia del Centro Lazzati e del giudice De Grazia, mi fa rabbia il dramma del povero Congiusta e di tutti i calabresi onesti uccisi dalla mafia, così come mi impegnano le denunce del Movimento dei Diritti civili, le battaglie per il lavoro, per la giustizia e il progresso della Calabria. Soprattutto per il rinnovamento della classe politica locale che è troppo chiusa e per molti versi è distante dalla gente. Se però vince la “vecchia Calabria” vuol dire che ci siamo sbagliati un po’ tutti. Io, i miei amici di sempre, quelli dei movimenti cattolici che mi hanno visto crescere, gli 8000 che mi hanno dato fiducia lo scorso anno, quelli che quando avevo 20 anni mi elessero consigliere comunale dc nella “rossa” San Giovanni in Fiore; ma anche i tanti uomini per bene che sono impegnati da sempre per cambiare questa terra. E se ci siamo sbagliati tutti… vorrà dire che in Calabria “il cielo è sempre più blu” di Rino Gaetano sarà soltanto una bella canzone!


Il grande imbroglio delle elezioni politiche 2006

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Ora che anche Berlusconi

ha smesso di chiedere di ricontare le schede elettorali, riconoscendo così la vittoria del centro-sinistra alle ultime politiche del 2 e 3 aprile 2006, si può tentare un ragionamento pacato sul risultato delle elezioni. Com’è noto, dal voto è venuto fuori un sostanziale pareggio tra i poli, che la legge elettorale voluta in fretta e furia dal centro-destra ha tradotto in una forte maggioranza in seggi alla Camera a favore del centro-sinistra, mentre al Senato la risicatissima vittoria è avvenuta solo grazie al risultato del voto degli italiani all’estero. Ma facciamo un rapido passo indietro. Nel corso di tutto il 2005 i sondaggi, gli studi e le analisi fatti da diverse società specializzate avevano annunciato una schiacciante vittoria elettorale per il centro-sinistra. In alcuni casi il vantaggio arrivava al 6%. Un mese prima del voto, gli esperti del settore hanno tenuto a Roma un forum nel quale hanno confermato che “la vittoria del centro-sinistra è prevista tra il 4 e il 6%. Tale dato non

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può più essere modificato. Salvo eventi sconvolgenti per il Paese”. La campagna elettorale del marzo 2005 è filata via liscia, i dibattiti nel Paese hanno sempre confermato il vantaggio del centro-sinistra, i duelli tv tra Prodi e Berlusconi hanno evidenziato le difficoltà e il palese nervosismo di quest’ultimo che pure aveva inondato il Paese di spot, grandi eventi, continui passaggi in radio e televisioni private. Durante le operazioni di voto si sono tenuti come sempre gli exit-poll, che non sono sondaggi ma qualcosa di più. I risultati di questi hanno confermato le previsioni dei sondaggi: vittoria al centro-sinistra per un dato che va tra il 4 e il 6%. Anche i primi dati ufficiali del lunedì pomeriggio del Ministero degli Interni, schede vere e non sondaggi o exit-poll, hanno confermato la vittoria del centro-sinistra per oltre 4 punti percentuali in più. A quel punto Prodi ha informato che alle 18 avrebbe tenuto una manifestazione pubblica in una piazza di Roma già gremita da migliaia di sostenitori. Ora, nel primo pomeriggio del lunedì 3 aprile nel nostro Paese sono accadute alcune cose del tutto incredibili. Gli uomini di spicco del centro-destra cominciano a gridare ai quattro venti che quei primi dati sono falsi, che si sta consumando un clamoroso imbroglio elettorale! Lo fanno tutti nel centro-destra, e su tutti i canali radio-televisivi, come per copione, affermando che i dati “veri” sarebbero arrivati in serata, che quei dati avrebbero dato la vittoria certa al centro-destra. Quando gli uomini di Berlusconi, e Berlusconi stesso, gridano ad nauseam all’imbroglio, i primi dati del Viminale annunciano una vittoria netta di oltre il 4% per Prodi. Così come gli exit-poll e gli altri strumenti di indagine! Com’è possibile tutto ciò? Di quali dati disponevano il presidente del consiglio, i suoi ministri e i leader del centro-destra? Le urla di Berlusconi cozzavano con straordinaria eloquenza contro il silenzio del Ministro degli Interni che soprintendeva alle operazioni elettorali. Ma hanno sortito un effetto straordinario, certamente previsto e calcolato: hanno spaventato a morte il centro-sinistra, che infatti non ha saputo replicare con energia e vigore alle


accuse del Primo Ministro. Replica necessaria e altrettanto forte, perché in nessuno Paese al mondo l’opposizione è in grado di manomettere i dati elettorali visto che tutte le leve di controllo sono saldamente nelle mani del Governo! Attorno alle 17 di quell’incredibile lunedì 3 aprile, accadono altre cose stupefacenti, non denunciate con la necessaria forza. Da quel momento il flusso dei dati elettorali del Viminale si interrompe! Nessuno ha spiegato bene la causa di quel black-out. Fatto sta che dalle Tv i commentatori e gli analisti registrano, imbarazzatissimi, quello che sta accadendo, cioè l’assenza di nuovi dati relativi agli scrutini. Intanto i risultati definitivi degli exit poll e anche quelli di nuovi metodi di indagine post-voto sperimentato per l’occasione, confermano la vittoria netta del centro-sinistra. Mentre accade tutto ciò (è un caso? una coincidenza?) il Ministro degli Interni compie un atto imprevisto e imprevedibile. Mai accaduto prima in 60 anni di democrazia in Italia! Il Ministro lascia il Viminale e si reca presso la residenza romana del Capo del Governo per partecipare ad un incontro con i leader del centro-destra convocati dallo stesso Primo Ministro. Che cosa era accaduto di tanto grave da giustificare quel summit ad urne ancora bollenti? Probabilmente non lo sapremo mai. Dopo circa un’ora, forse un’ora e mezzo, quel vertice si conclude. Il Ministro degli Interni rientra al Viminale, poco dopo riprende l’afflusso dei dati elettorali dal ministero. Dati che vengono diffusi con una lentezza ingiustificata, considerando la semplicità del voto e l’assenza di preferenze. La storia va avanti per ore, mentre il capo del governo annuncia nuovamente prove di brogli elettorali. Lancia accuse gravissime senza che il “suo” Ministro degli Interni, responsabile delle operazioni elettorali, senta la necessità di chiarire. Una pagina molta brutta per la democrazia. La cosa più sconvolgente accade nella tardissima serata di lunedì. È quasi notte quando i dati del Viminale cominciano ad invertire il senso di marcia. Quel 4-6% in più per il centro-sinistra scende lentamente, ma in modo inarrestabile, fino a divenire 3%, 2,5%, 2%,

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1,5%, 1 punto percentuale di vantaggio in piena notte... Il centro-sinistra va nel panico. Le segreterie dei Ds e della Margherita chiedono in piena notte ai coordinatori provinciali di andare a verificare cosa succede nelle prefetture. I risultati del Viminale sono di una lentezza esasperante. Pur tuttavia seguono la strada della parità fra i due poli. Alle prime ore del nuovo giorno il dato è tratto. Il centro-sinistra vince per lo 0,... cioè 24 mila voti in più alla Camera. Poi di fatto pareggia anche al Senato, ma grazie ai voti degli italiani all’estero che si ritenevano un sicuro bottino per il centro-destra e per il ministro degli italiani nel mondo, vecchio esponente di AN. Berlusconi urla come un forsennato e chiede di ricontare le schede. Andrà avanti così per molte settimane. Ma in realtà il suo obiettivo lo ha ottenuto immediatamente! Ancora una volta si è rivelato un uomo terribilmente abile. Finalmente, dopo un inspiegabile silenzio, attorno alle 3 del mattino il leader del centro-sinistra, che pure aveva annunciato già lunedì pomeriggio una sua dichiarazione pubblica per la vittoria, scende in piazza e annuncia che il centro-sinistra è maggioranza. L’unico atto di grande coraggio di una giornata vissuta nel terrore, senza che nessuno del centro-sinistra trovasse il coraggio di reagire alle violente accuse del capo del governo. Tutto questo è quanto accaduto prima, durante e dopo il voto per le politiche dello scorso mese di aprile. Ma per capire meglio, è necessario un breve riepilogo. Per poi ricordare due dati sconvolgenti, ma alquanto ignorati, che possono dare una ulteriore conferma ai sospetti. 1) Negli ultimi 3 anni della scorsa legislatura il centrosinistra ha vinto tutte le tornate elettorali. L’anno prima del voto politico ha vinto con un vantaggio incredibile le elezioni regionali. 2) I sondaggi che si sono svolti nell’ultimo anno, e fino a 30 giorni prima del voto di aprile 2006 (dopo tale data erano proibiti per legge), davano sempre in vantaggio il centro-sinistra contro il centro-destra. 3) Gli exit poll e le altre indagini del dopo-voto hanno previsto il vantaggio del centro-sinistra di 4-6 punti percentuali.


4) Nel corso delle prime ore pomeridiane di quel lunedì 3 aprile, il Ministero degli Interni ha confermato, con lo scrutinio delle prime migliaia di schede giunte al Viminale, la netta vittoria del centro-sinistra. I dati sorprendenti. Il primo: le schede bianche sono sempre state per 50 anni in Italia attorno all’1% o poco più. Invece, nelle ultime elezioni politiche dell’aprile 2006 sono state circa il 5%! Esattamente quello stesso 5% che in media veniva dato quale vantaggio per il centro-sinistra. Un dato clamoroso e inspiegabile, quello delle schede bianche, non giustificato nemmeno dall’aumento considerevole degli elettori. Dato che diventa ancora più inspiegabile se si pensa che nelle successive elezioni amministrative di maggio-giugno 2006 (e anche delle ultime regionali di quel mese), quel dato del 5% di schede bianche ritorna all’originario e consolidato 1-2%. Il secondo dato sconvolgente: a fornire a Berlusconi una consulenza sulla campagna elettorale per le elezioni politiche è stata la stessa società americana che ha curato e gestito le elezioni presidenziali relativamente allo stato della Florida. Lo Stato che, governato dal fratello di George W. Bush, ha regalato a questi la Casa Bianca per una manciata - una vera manciata e non un modo di dire - di voti su Al Gore! Un vero miracolo americano! In Italia il miracolo non si è ripetuto per… una manciata di voti. E per quegli imprevedibili italiani nel mondo. Ai lettori tutte le considerazioni del caso.

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Un’infinita campagna elettorale

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A diversi mesi dal voto il clima da campagna elet-

torale è ancora vivo nelle Aule parlamentari. In qualsiasi Paese democratico al mondo la battaglia elettorale finisce la sera stessa dello scrutinio. In base al quale chi ha vinto governa, chi ha perso riconosce la legittimità del vincitore a governare e si prepara a svolgere un ruolo di controllo e di verifica. Le Aule del Parlamento italiano vivono, invece, in un clima aggressivo e violento, voluto da chi non ha mai accettato la sconfitta elettorale (che tale è, e tale è stata confermata nelle successive elezioni amministrative e, molto chiaramente, con il referendum costituzionale di fine giugno) e tenta in tutti i modi di impedire al Governo di governare e al Parlamento di discutere e approvare le leggi. Ecco, quindi, il ricorso all’ostruzionismo per costringere il Governo a porre la “questione di fiducia”, che soffoca inevitabilmente il dibattito, per poi poter gridare alla scandalo per il ricorso ai continui voti di fiducia (il Governo Berlusconi ha posto la fiducia

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per approvare tutte le leggi finanziarie nonostante avesse a disposizione una maggioranza straripante!). Facciamo un esempio per capirci meglio. Se il Governo Prodi non avesse posto alla Camera la fiducia sul Decreto Bersani, ci sarebbero voluti 43 giorni per discutere i circa 600 emendamenti presentati dalla Casa delle Libertà. Un chiaro atto di ostruzionismo per impedire al Governo di governare e al Parlamento di lavorare. In questo clima da stadio, il Ministero Prodi ha portato all’approvazione alcune fondamentali leggi e provvedimenti. Ne citiamo alcuni. Il Decreto Bersani che avvia finalmente la stagione delle liberalizzazioni e soprattutto quella del recupero dell’imponente e insopportabile evasione fiscale che frena qualsiasi ipotesi di sviluppo. Il decreto finanzia i cantieri, si trovano i fondi per Anas e Ferrovie (lasciate senza un centesimo in cassa!), per il Fondo politiche sociali e per la ricerca. Grazie a questo decreto avremo più taxi nelle città (già ci sono i primi 2500 in più nella sola città di Roma), non costerà più niente chiudere il conto in banca, si liberalizzano le promozioni commerciali, i farmaci da banco si venderanno anche nei centri commerciali (in America questo avviene da sempre) ma con la presenza di un farmacista, cambia il rapporto con i professionisti a tutela dei clienti, si andrà di meno dal notaio, cambia anche il rapporto con le assicurazioni e più chiari saranno quelli con le compagnie. Insomma: più concorrenza, più liberalizzazioni, maggiori tutele per il cittadino-consumatore, importanti saranno per tutto questo i risparmi per le famiglie italiane. Un secondo decreto, quello sulla politica estera, è stato approvato e le missioni italiane all’estero possono proseguire, soprattutto quella in Afghanistan che aveva suscitato diversi rilievi nella sinistra radicale. La legge sull’indulto. Pur trattandosi di un provvedimento parlamentare, quindi non di competenza del Governo, non c’è dubbio che il centro-sinistra (con i voti di Forza Italia-Udc e altri parlamentari di centrodestra, necessari per giungere ai 2/3 necessari per approvare tale provvedimento) ha dato una risposta all’ormai storico appello di Papa Giovanni Paolo II in visita alla


Camera, ed ha consentito ai carcerati di usufruire, dopo 17 anni, di un atto di clemenza. Che come tale va letto, nonostante l’impopolarità di un simile provvedimento e i timori che esso ha suscitato per alcune scarcerazioni. Ma si tratta solo di un atto di clemenza verso tanti disperati. Il Dpef. Il documento di programmazione economica e finanziaria voluto dall’apprezzato ministro Tommaso Padoa-Schioppa ha tracciato le linee di sviluppo e di crescita per i prossimi anni in Italia. Un documento che ha impegnato a lungo le diverse commissioni parlamentari e che è destinato a lasciare un traccia profonda nelle prossime leggi finanziarie. Ma non si può dimenticare che con le sole forze parlamentari della maggioranza di centro-sinistra sono stati eletti le massime cariche istituzionali: il presidente della Repubblica, i presidenti di Camera e Senato; poi si è proceduto alla nomina di alcuni giudici costituzionali e dei membri del Consiglio superiore della magistratura. Tutto questo in soli 75 giorni di vita parlamentare, nel corso dei quali si sono svolte decine di sedute delle due Camere, decine di sedute delle Commissioni parlamentari, decine di riunioni formali e informali dei gruppi parlamentari. Questo è servito a dare il via ad una legislatura che gli elettori hanno voluto di cambiamento netto rispetto al recente passato. Dicevamo all’inizio che in tutti i Paesi democratici del mondo l’opposizione ha un ruolo chiaro di controllo e di stimolo. Ma non ha, né potrebbe mai avere, il ruolo di impedire al Governo legittimo di governare, quindi al Paese di continuare a crescere e progredire. Ma questo vale se chi fa opposizione ha una sensibilità istituzionale ed ha a cuore il destino del Paese. Al “deputato Berlusconi” - che solo ora ha elaborato il lutto della sconfitta, dopo aver gridato ai quattro venti di aver perso le elezioni per colpa dei brogli della sinistra ai seggi - di tutto ciò non interessa assolutamente nulla, come non gli è mai interessato nulla dell’Italia nel corso dei suoi lunghi 5 anni di governo, al termine dei quali il Paese ne è uscito indebolito, impoverito, emarginato.

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Ingravescentem aetatem

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Un grande papa, Paolo VI, nel 1968 stabilì con

un Decreto che i Vescovi sarebbero andati in pensione una volta raggiunti i 75 anni di età, mentre i cardinali al compiere degli 80 anni non avrebbero più potuto entrare in Conclave per eleggere il nuovo pontefice. Il decreto “Ingravescentem aetatem” avviò così una grande opera di rinnovamento della Chiesa cattolica, consentendo alle energie più giovani di esprimersi al meglio e a quelle più stanche di contribuire al governo della Chiesa con compiti meno impegnativi e diretti. Nel nostro Paese l’ingravescentem aetatem di un grande papa quale Paolo VI non devono averla letta in molti. Soprattutto in politica. Tant’è che da noi se non raggiungi l’età dei 70 anni non potrai mai diventare primo ministro, o presidente della Camera, o perfino presidente di Regione. Per sperare di essere eletti al Quirinale non bastano gli 80 anni, mentre alla presidenza del Senato occorre un vegliardo di circa 90 anni che ha attraversato tutta la storia della Repubblica dal 1946 ai giorni nostri.

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Immaginare in questo momento che un uomo politico dalla storia tanto controversa e così carica di “omissis” qual è il Divo Giulio (che Craxi chiamava Belzebù e la Lega lo avrebbe tranquillamente appeso ad un cappio fino a qualche anno fa!) possa raggiungere la seconda carica dello Stato è decisamente imbarazzante per tante persone che sperano in un Paese diverso, finalmente libero dal proprio passato e da una transizione che non finisce mai. Ma il nostro Paese potrà mai sperare di vedere un giovane sindaco a capo di un grande municipio, o alla presidenza di una regione? Quando potremo vedere ministri, capi di governo o leader di grandi partiti a 40 anni di età? Eppure sono convinto che sarebbe molto bello vedere all’opera un ministro di 30 anni, così pieno di energie, carico di studi e di potenzialità, capace di vedere i problemi del mondo con gli occhi di un ragazzo che non ha vissuto direttamente tutti i drammi del 900. Un giovane che parla il linguaggio dei giovani di oggi, che veste come loro, che sa affrontare i temi più scottanti senza pregiudizi o precondizioni. Ma perché in Italia se non hai 70 anni non sei abbastanza “maturo” per occupare posti di primissimo piano nell’economia, nell’impresa, nella cultura, nella società e ai vertici dello Stato? Ingravescentem aetatem: in Italia non c’è, e non si vede nemmeno all’orizzonte, un grande riformatore come Paolo VI, capace di firmare un decreto che oltre a stabilire le quote rosa, stabilisca anche… le quote blu. E cioè la garanzia che anche i 30 enni possano, e debbano, guidare il Paese.

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Ma cosa non abbiamo capito dell’Italia e degli italiani?

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Sembravano elezioni dall’esito scontato: tutti

gli analisti e tutte le indagini davano netta la vittoria del centro-sinistra alle elezioni politiche nazionali del 9 e 10 di aprile. Anche il clima che si respirava lungo le mille piazze d’Italia, così come il vento che soffiava tutto da una parte, anche il malessere diffuso fra gli italiani, così come il forte senso di insoddisfazione e di timore per la crisi economica e per il futuro delle famiglie e dei giovani, lasciavano capire che una svolta era nell’aria. Tutto, davvero tutto, sembrava indicare nettamente la vittoria dell’opposizione. Ci avevano scommesso ovunque; e nessuno alla vigilia del voto sembrava pensarla diversamente, in Italia come all’estero. Qualcosa di imprevisto, invece, è successo. E non possiamo non tenere conto del fatto che l’Italia è uscita spaccata in due dal voto del 9 e 10 di aprile. Come è accaduto per la Germania qualche mese fa; come accadde per l’America di Bush e Gore. Solo che il nostro Paese non può permettersi una spaccatura così lacerante e così profonda, visto anche lo scarso senso dello

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Stato che hanno in Italia Berlusconi, Bossi e C. In Germania e negli Stati Uniti la divisione è stata superata in pochissimi giorni e i Paesi hanno ricominciato a crescere grazie a governi stabili e ad uomini politici che hanno saputo guardare prima di tutto ai bisogni della collettività. Il voto alle ultime elezioni politiche nel nostro Paese ci ha restituito un’Italia difficile da capire. Probabilmente distante, troppo distante, dalla classe politica che non ha saputo leggere fra le righe del Paese. Non ha saputo comprendere per tempo quello che gli italiani volevano. Il centro-sinistra, e l’Ulivo in particolare, non può sottovalutare l’esito del voto; non può far finta di non aver capito che qualcosa è mutato radicalmente nella coscienza degli italiani. Con ogni probabilità, il berlusconismo ha provocato danni gravissimi al Paese: ha distrutto la sensibilità degli italiani, ha cancellato la coscienza civile, ha avviato una fase di pericolosa deriva populista e qualunquista che sarà difficile contenere. Ma non basta solo questo. Anzi, sarebbe tragico se il centro-sinistra non cercasse anche le proprie responsabilità in merito ai risultati del 9 e 10 aprile. Dobbiamo chiederci, e tentare di darci una risposta al più presto, il perché l’opposizione a Berlusconi non abbia convinto fino in fondo il Paese; perché non abbia saputo parlare agli italiani; perché non ha saputo ascoltare la voce silenziosa che saliva dal Paese e che chiedeva altri discorsi, altri impegni, altre certezze. Che noi non abbiamo saputo dare all’Italia e agli italiani. Con gli probabilità, un’epoca - quella dei partiti e dalla politica del ‘900 - è finita per sempre. Molto probabilmente, e nonostante i voti raccolti, il berlusconismo si avvia verso il viale del tramonto. Ma detto questo, la domanda da porci è la seguente: qual è la proposta vera, nuova, da “terzo millennio” che il centro-sinistra può dare al Paese per ottenere una fiducia forte e più convincente per il governo dell’Italia? Quali nuovi strumenti dobbiamo darci per consentire alla Politica di essere meglio accettata dal Paese? Con quale classe dirigente intendiamo avviare una nuova fase politica? Dove intende andare, come e in quanto tempo, l’Ulivo e il motore riformista del centrosinistra? L’unica cosa certa, a mio avviso, è che abbiamo la responsabilità di dare al Paese, al più presto, un Progetto nuovo per costruire un nuovo Paese.


La voce del silenzio

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“Deus caritas est”. L’enciclica di papa Benedet-

to XVI ci riporta ai concetti più alti della definizione di Dio. Dio è Amore. Dio è Carità. Nella società odierna, fatta di una frenetica corsa contro il tempo, Dio può essere anche altro. Si può cercare, e forse trovare, in quello che la società moderna non possiede più: il silenzio! Non c’è momento della nostra giornata che non sia scandita dal rumore. Giorno e notte la vita dell’uomo è aggredita e violentata da rumori e frastuoni di ogni genere. A casa come in ufficio, in viaggio come nel tempo libero, tutto è rumore. La gente grida anche quando parla e dialoga. La nostra è una società che ha smarrito il gusto e il piacere di ascoltarsi. E ascoltare il silenzio. La sfida dell’uomo di oggi è, dunque quella di ritrovare i sentieri del silenzio; “non il silenzio della rinuncia, dell’infinita solitudine”, ma il silenzio come spazio dell’ascolto, dell’incontro. Ci sono posti e luoghi in cui il silenzio si può trovare nel contatto diretto ed esclusivo con la natura. In monta-

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gna, lontani da strade e da altre concentrazioni umane, lo si sente interamente nel “respiro” del bosco quando il vento si infila fra gli alberi e li accarezza; così pure nelle voci degli animali, nello sguardo attento delle piante, nel profumo dei fiori, nella pioggia incessante, nel cadere misterioso della neve. E nella notte, così ricca di quel silenzio che racconta tutti i colori del buio. La voce del silenzio è chiarissima al mare. Superbamente suggestiva. È bello andare a largo con la canoa, quando la notte si prepara a fare posto alle prime luci del giorno. In quei momenti si scopre quanto sia nitida e suadente la voce del mare, quanto siano affascinanti i suoi colori e dolci le onde che si scuotono lentamente… Al mattino presto nessun rumore raggiunge il mare. E c’è il commovente silenzio delle chiese ancora deserte, al primo mattino, che fanno sentire una voce profonda, che non ha bisogno della musica di organi e di chitarre, né di preti sbadati che celebrano stanche funzioni religiose. È una voce che parla direttamente al cuore. Ma c’è un momento, raro quanto prezioso, in cui il silenzio diventa Voce. È il momento in cui avanza rapidamente la notte; dal proprio letto non si sentono più né le voci né i rumori della vita quotidiana. In quel momento, in quei minuti, prima che il sonno sopraggiunga, si ode un silenzio profondo e infinito. Chi può ascoltarlo deve fermare il tempo, chiudersi dentro, cercare la fonte di quel silenzio. In quei momenti prevale un forte senso di calma assoluta, di quiete, che permette di sentire una voce. Una voce che non emette alcun suono, che non dice nulla, che è lontanissima. In quel silenzio assoluto c’è una voce. Che parla solo a chi sa ascoltare, a chi sa capire, a chi sa sintonizzarsi su una frequenza che nessuno finora ha mai registrato. È la voce che non ha nulla da dire a chi non sa ascoltare. La voce del silenzio! Il silenzio. Se la società moderna imparasse a riscoprire il piacere del silenzio, potrebbe avvicinarsi un po’ di più all’infinito, e alla sua quiete, e alla sua pace! E quindi a Dio. Quel Dio che non si manifesta e non parla, non ti cerca ma si fa trovare, che non


ha bisogno di santi né di miracoli. È Dio, ed è tutto. Perché Dio è silenzio, è Carità, è Amore. Nella Bibbia, il Salmo 19 recita: “I cieli narrano la gloria di Dio, e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento”. Dio, quindi, parla attraverso il silenzio delle sue opere. Questa è una prima dimensione del silenzio di Dio. I cieli narrano la gloria di Dio, dunque non c’è bisogno di parole. E con Bruno Forte osserviamo che riscoprire il silenzio e la parola nel loro reciproco fecondo rapporto, è un’urgenza assoluta del nostro tempo. Abbiamo bisogno di imparare nuovamente a parlare, ma a parlare nel senso di dire parole che vengano dal silenzio e che dimorino nel silenzio dell’ascolto dell’altro; imparare a tacere non nel senso di chiudersi nella prigionia delle nostre solitudini, ma di lasciarsi raggiungere dalla parola che evoca, che abita, che attira, che trasforma.

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Due mandati in tutte le istituzioni

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In questi ultimi

mesi si è fatta pressante la richiesta di cambiare la legge che vieta ai sindaci di essere eletti per una terza volta consecutiva. Clamoroso il caso di due comuni della provincia di Reggio Calabria, Varapodio e Taurianova (dei quali mi sono occupato in una interrogazione parlamentare al Ministro degli Interni), comuni che hanno visto la ricandidatura illegittima dei sindaci per la terza volta. E non sono i soli casi in Italia. Ritorno sulla questione per dire che non è opportuno eliminare il limite dei due mandati per i sindaci. È semmai necessario estenderli anche alla Regione (per i presidenti delle Province vale il divieto del terzo mandato) e al Parlamento. Intendendo che per i consiglieri regionali e per i presidenti delle Regioni, per i deputati e per i senatori non si debba andare oltre le due legislature consecutive. Sento delle obiezioni. La prima: ma dieci anni sono pochi in una istituzione! Non è così. Chi fa politica e chi

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ha il consenso può continuare a lavorare anche in altre istituzioni. Il sindaco può candidarsi alla Provincia o alla Regione. Da quest’ultime può aspirare alla elezione al Parlamento, anche perché credo sia necessario che alle più alte istituzioni della Repubblica si arrivi dopo una certa esperienza negli enti locali, indispensabile per capire i problemi del Paese. Chi poi dovesse arrivare direttamente al Parlamento (in realtà non sono tantissimi questi casi) potrebbe fare due legislature alla Camera e due al Senato. In buona sostanza, tra Comune, Provincia o Regione, per poi finire in Parlamento, un cittadino potrebbe restare nelle istituzioni dai 20 ai 30 anni. Vi sembrano pochi? Senza limiti di mandato, l’eletto potrebbe rimanere nelle istituzioni anche 50 anni. In Parlamento c’è chi supera anche questo limite, nei consigli regionali vi sono eletti da oltre 30 anni, così come prima della legge dei due mandati, vi erano molti sindaci in carica da un ventennio e anche più! Seconda obiezione: ma un sindaco o un consigliere regionale potrebbe esaurire i due mandati e poi non essere più candidato o eletto alle istituzioni più alte del Paese. Non vedo il problema, vuol dire che quelle esperienze già fatte possono essere impegnate diversamente, nella professione, nella vita dei partiti, nelle associazioni. Terza obiezione: ma vi sono personalità di grande livello che possono servire al Paese anche in tarda età, per cui non è giusto metterle in pensione dopo due mandati in Parlamento. Risposta: se una grande personalità viene eletta per due legislature alla Camera per poi passare (proprio perché può essere anche utile al Paese) altre due legislature al Senato… ma sono 20 anni! E non sono affatto pochi. Nel frattempo il Paese sarà cambiato, i problemi anche, per cui energie più fresche e più capaci di capire la società che cambia sono più utili alle istituzioni. In sostanza, sono convinto che sia necessaria una legge dello Stato che ponga un limite di due mandati in tutte le istituzioni elettive. Questo garantirà un ricambio vero della classe dirigente, impedirà il carrierismo politico,


darà maggiori possibilità ai giovani di farsi spazio nella politica e nelle istituzioni. Stiamo valutando con alcuni colleghi parlamentari la possibilità di presentare una Proposta di Legge in tal senso. Mi rendo conto delle difficoltà della sua approvazione, ma sono anche convinto che la necessità di dare alle nostre Istituzioni una ventata di freschezza e di novità, alla fine prevarrà sull’istinto di conservazione.

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La tragedia di un uomo piccolo piccolo

Cronaca fantastica degli ultimi cento giorni di Silvio II di Franco Laratta



Notte insonne per il Primo Ministro

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Notte insonne per

il Primo Ministro. La terza notte consecutiva. Il letto, improvvisamente troppo grande, non gli dà pace. Sudato, irritato, pazzo di rabbia per il Paese che non lo capisce più. “Eppure gli ho dato tutto: soldi, benessere, meno tasse, grandi riforme e grandi opere”. Il giorno prima era andato dappertutto in Tv: da Anna La Rosa, da Biscardi, da Vespa, il suo notaio preferito, poi a Tribuna politica e per 25 minuti al Tg4. Il giorno dopo è andato per la prima volta in Procura per denunciare Prodi, D’Alema, Rutelli e Fassino per la storia delle Cooperative rosse. “Ma perché gli italiani non mi capiscono più? Perché ho perso le Elezioni europee, poi tutte le comunali, e perfino le regionali?”. Più ci pensa e più non trova pace. Così ne inventa una al giorno: la casa per tutti; il viagra per gli anziani. Ma non gli credono più. Fosse per lui farebbe sposare anche i gay, o invadere San Marino, occupare la Svizzera, cacciare i cinesi. Ma non lo ascol-

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ta nessuno. Non si dà pace il Presidente. Così, essendo uomo di azione, decide che è questo il momento di passare definitivamente alla storia, come solo Cesare Augusto, Napoleone, Washington, Stalin e Mao hanno fatto prima di lui. Se i giornali gli sono contro, se gli industriali lo detestano e la magistratura lo perseguita, se tutti scioperano e il Paese crolla, vorrà dire che bisogna fare altro. Scende di scatto dal letto quando non è ancora l’alba; saltella per casa come una pallina di gomma impazzita, osserva stupito che le sedie, i tavoli, i divani sono tutti troppo alti, mentre lui è piccolo, tanto piccolo. Grida, urla, impreca contro il mondo intero, sente che la fine è vicina. Ma uno come lui, che non ha mai perso nemmeno una partita a carte, deve reagire, deve progettare e realizzare un Paese tutto nuovo, tutto suo. Ci vuole qualcosa di clamoroso. Di quelle cose che accadono ogni 100 - 200 anni! Suda, non trova pace, non riesce a salire sul divano. Fuori è buio, ma si affaccia e vede il sole nel cielo scuro! Un sole rosso fuoco. Certamente un segno divino. “Ci sono. Ho trovato”, urla pazzo di gioia. Telefona al perfido Ferrara e lo convoca d’urgenza, chiama anche Emilio, il fedele direttore, fa venire il Capo di Stato Maggiore e l’Ambasciatore italiano presso la Santa sede. Arrivano tutti di corsa. Lo trovano pallido, in un pigiama troppo lungo e largo, tutto bagnato. Il premier nemmeno saluta. Parla, parla, parla… si agita, e siccome vuole farsi vedere bene, fa un balzo dalla sedia e si mette seduto al centro del grande tavolo ovale. “Ho deciso: voglio un Paese tutto mio, senza giudici, senza opposizione, senza comunisti, senza elezioni, e senza comuni e regioni, tutte rosse ormai. Non deve esserci nemmeno il Parlamento, né tanto meno i partiti. Un Paese dove sarò Presidente a vita, Primo Ministro perenne, Capo dello Stato, dell’Esercito e di tutti gli Enti, Legislatore unico, Primo e solo Giudice”. Silenzio! Un minuto di silenzio che sembra lungo un secolo. “Ho un piano, ho un piano, ho un piano - grida saltellando sul tavolo -: conquisteremo il Vaticano!” “Ho un piano, ho un piano, ho un piano - ripete battendo a ritmo le mani -: conquistere-


mo il Vaticano. Ho un piano, ho un piano, ho un piano, conquisteremo il Vaticano!” Dopo 20 minuti di filastrocca, il premier entra nei dettagli e annuncia il Piano Perfetto, in codice P2: A) I confini dell’attuale Stato della Città del Vaticano si estenderanno fino alle porte di Milano. Il resto del Nord sarà consegnato alla Lega che ne farà la Repubblica Padana. Gianfranco invece sarà il Governatore unico di Roma e del Lazio, col titolo di Vicario a vita. B) Nuovi confini al Sud: “Basta con la Calabria e i calabresi, basta con i meridionali lagnosi, basta con mafia e delinquenza: un grande muro sarà costruito a sud di Napoli, da lì comincerà lo Stato Meridionale affidato alla gestione diretta di Mafia, ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita. Faremo costruire direttamente ai mafiosi il Ponte sullo Stretto, così ci sarà lavoro per tutti per i prossimi 20 anni; faremo abbattere l’A3 Salerno-Reggio Calabria (altri 10 anni di lavoro per i forestali e i clandestini africani), così che nessuno dovrà più emigrare verso Nord. Risolto il problema del lavoro e della criminalità al Sud, risolto il problema della Padania e della Lega al Nord, avvisati con una telefonata l’amico Putin e l’amico G.W.B. che approvano, il progetto P2 prevede l’immediata nomina del Premier quale Presidente a vita di uno Stato supremo tutto suo, senza altri mezzi di comunicazione se non la Radio e la Tv vaticana e l’Osservatore romano (tutti diretti da Silvio II), con una sola Banca e una sola grande squadra mondiale di calcio (allenata dal presidente a vita). L’ambasciatore italiano presso la Santa sede si ricorda di un dettaglio: “Presidente, ma… e il Papa?”. Gelo in sala. Al presidente, al quale nel frattempo per il sudore e la concitazione si staccano uno dopo l’altro i capelli che da un anno si era fatto impiantare, viene un’idea: “Ma… questo Papa non è tedesco? Bene, allora lo trasferiamo in Germania. Se ne occupasse la Merkel per un po’, l’Italia lo ha fatto per quasi 2 mila anni! Ma lo sanno i tedeschi e i polacchi quanto sono costate allo Stato italiano 10 milioni di bottigliette di acqua minerale per i funerali

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dell’altro Papa? Poi annuncia che il Piano prevede la Grande Riforma della Chiesa Cattolica (approvata dall’Onu): il Papa sarà ospitato a rotazione da tutti i paesi europei, americani e africani. Ogni 50 anni cambierà Paese. Sarà così un papato universale e senza confini!”. Mentre urla felice per la straordinaria idea, gli si stacca una guancia che pure era quasi nuova, impiantata a Ginevra un mese fa. Finito di illustrare il Piano, il Presidente a vita fa un salto gigantesco da quel tavolo che è diventato alto quanto un grattacielo, poi con un balzo felino salta sull’immenso loggione della villa, davanti a sé vede lo splendido e immenso giardino che ora somiglia quasi ad un sagrato, con una grande piazza; gli alberi formano un incantevole colonnato, come quello del Bernini. Silvio II guarda in silenzio milioni di persone che attendono in piazza che lui si affacci. Ma c’è un silenzio tragico nella villa, per certi aspetti perfino comico. Dal fondo della sala si ode solo una voce dai toni bassi che, grave ma sollevata, dice al telefono: “Gianni, corri subito qui, è giunto il momento. Ora tocca a te!”. Dopo poco arriva il sottosegretario di Stato, Letta.


Arrivano i caschi blu!

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Il vertice si svolge in un clima molto teso. Mancano

pochissimi giorni al voto. Il Presidente del Consiglio è al telefono da 25 minuti con il Presidente americano. Tenta di ottenere l’appoggio degli Stati Uniti per convincere il Segretario Generale dell’ONU ad inviare i Caschi Blu in Italia. “Si tratta di una questione di vita o di morte per l‘Italia - sostiene il presidente italiano - perché il Paese sta per cadere nelle mani dei comunisti. C’è un serio rischio per la democrazia e per l’Europa se l’Onu non interviene”. Il presidente americano tenta di capire meglio. Chiede al suo consigliere per la sicurezza quanti voti può prendere il partito comunista italiano nelle elezioni del 9 e 10 aprile. “Sommando tutte le sigle comuniste presenti nella lista elettorale, non si arriva che all’8-9%”, è la risposta. Il presidente non capisce. Non riesce a spiegarsi l’agitazione e le urla disperate dell’amico Silvio; non capisce perché l’Onu dovrebbe intervenire per arrestare tutti i maggiori esponenti “comunisti” italiani: Prodi, Fassi-

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no, D’Alema, Rutelli, Bertinotti. “Si potrebbe anche fare”- pensa tra sé e sé - anche perché Silvio è amico fidatissimo ed è sceso subito in guerra con gli Stati Uniti contro l’Irak di Saddam. Ma non vede il pericolo per la democrazia italiana e per l’Europa. Silvio è ancora in attesa dall’altro capo del filo. È furibondo perché tutte le sue trovate elettorali questa volta non sembrano aver funzionato. È incazzato nero perché aveva chiesto al Vaticano, senza ottenere risposta, un appello di Benedetto XVI al voto per la Casa delle Libertà durante l’Angelus della Domenica delle Palme. È ancora più nero perché aveva chiesto al Cardinale Ruini di eliminare le funzioni religiose della Domenica delle Palme, o almeno di sostituire il ramoscello di Ulivo, da benedire in tutte le chiese italiane, con un innocuo fiorellino di campo. Niente ha funzionato delle sue trovate in campagna elettorale. Ha provato a definire “coglioni” gli italiani che votano a sinistra, ma mezza Italia è uscita per strada con cartelli e cartelloni con sù scritto “Siamo tutti coglioni”! Ha provato ad annunciare l’eliminazione dell’Ici, e niente. Ha insultato i magistrati, aggredito gli industriali, offeso i giornalisti, invaso le televisioni, annunciato i bonus per i bambini e una vecchiaia felice e tutta gratis per gli anziani. Niente, non ha funzionato niente. Silvio insiste con l’amico Bush: “Il Paese cadrà in mano ai comunisti, che mangeranno i bambini come i cinesi, faranno chiudere le chiese, sposare gli omosessuali, arrestare gli oppositori, scappare gli industriali. Sarà una tragedia, George, un’immane tragedia per tutto il mondo civile!” Il Piano che Silvio illustra all’amico George è chiaro. Alle 16 di sabato 8 aprile, i Caschi Blu dell’Onu guideranno le truppe militari di Stati Uniti e Inghilterra che occuperanno tutti i seggi elettorali. Il voto sarà rinviato di almeno 5 anni, giusto il tempo di completare il programma di governo. Che poi sarà un programma di pochi ma efficaci punti. Prima di tutto: il presidente del consiglio eserciterà tutti i poteri che la costituzione assegna al Parlamento, alla Magistratura, al Governo. Punto e basta. Capo dello Stato sarà nominato: Cesare Previti. Solo cinque i ministri: agli


Interni Totò Cuffaro; agli Esteri Calderoli; all’Informazione Confalonieri; al Mezzogiorno Umberto Bossi; alla Sanità Storace; alla Cultura Giovanardi. Il programma prevede poi la nomina di Marcello dell’Utri al vertice del Consiglio superiore della Magistratura. La presidenza della Confindustria sarà affidata a Paolo Berlusconi; gli Affari Religiosi a don Gianni Baget Bozzo. Dopo aver esposto il suo Piano, dall’altro capo del filo si ode solo un prolungato silenzio. La linea si interrompe. Silvio grida “George… George…”. Ma nessuno risponde. Rifà il numero ma non si prende più la linea. È notte fonda quando a Palazzo Grazioli bussano con decisione al portone d’ingresso. Un’auto dell’Ambasciata americana entra nel cortile. Scende l’ambasciatore americano in Italia e quattro uomini in abito scuro e occhiali neri, che lo seguono. Dopo qualche minuto, si vede Silvio entrare nell’auto americana che velocemente abbandona il cortile del palazzo. Da quel momento nessuno ha saputo più niente dell’ex presidente del consiglio italiano!

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Silvio al Festival di Sanremo!

L’idea sarebbe quella di farlo presentare anche

alla Corrida, concorrente fra i concorrenti, ultimo fra gli ultimi. Ma a Bondi questo sembra davvero troppo. Per cui si sta pensando di farlo partecipare al Festival di Sanremo, che si conclude nel bel mezzo della campagna elettorale, con un successo di Mina, “Grande grande grande”, che pure gli si addice. Ma Baget Bozzo teme che poi i comunisti di Striscia gli dedichino “Parole parole parole”. Quindi si pensa di recuperare un brano inedito di Pace, Panzeri, Pilat degli anni ’70: “Vinceremo”, da cantare insieme al fido Apicella. Il piano per occupare tutti gli spazi possibili, in barba alla par condicio e a quel noioso di Ciampi, prevede che Silvio non partecipi più né a Porta a Porta, né a trasmissioni simili (tanto c’è già stato decine di volte). L’idea è di farlo partecipare da concorrente (perché la cosa non è vietata dalla par condicio) ai maggiori programmi di intrattenimento e spettacolo delle tv! Un’idea geniale, anche perché quei programmi fanno 8-10 milioni di te-

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lespettatori a puntata, contro i 3 di Vespa. Don Gianni Baget Bozzo ha pianificato bene il tutto: anche l’ingresso di Silvio nella casa del Grande Fratello, proprio nell’ultima settimana, a ridosso delle elezioni del 9 aprile! Nella più conosciuta casa italiana, Silvio canterà, racconterà barzellette, finirà anche nel tugurio. C’è poi il passaggio, ma solo per 8 giorni, all’Isola dei famosi, dove farà vedere come pescare un pescespada con le nude mani, come cacciare animali feroci senza arma alcuna, come affrontare di notte il freddo e le intemperie senza alcun timore. Alla fine dell’ottavo giorno costruirà una zattera, diciamo pure una barca, con la quale andrà via nottetempo. Bondi, dal canto suo, non esclude che possa gareggiare ad Amici di Maria De Filippi, così pure alla Prova del cuoco, ad Affari tuoi, a Genius di Mike Bongiorno. “Ma ad una condizione - dice Cicchitto -: Silvio dovrà sempre e comunque vincere. Sempre al primo posto, per dare agli italiani l’idea dell’uomo invincibile”. Ma Bondi ha in mente qualcosa in più: “La radio. Non dobbiamo trascurare la radio”. Così si studia bene il palinsesto dei programmi radiofonoci più ascoltati. “Potrebbe andare a Viva Radio2 con Fiorello” - “No, già andato due volte in un mese”! - “Allora al Ruggito del coniglio o a Caterpillar”. - “No, lo prenderebbero in giro i conduttori di nota appartenenza di sinistra”. Allora si pensa a “Radio anch’io”. Ma nemmeno questo va bene, perché lì ci vanno tutti. “Ci vuole una trasmissione di servizio, che va in onda più volte al giorno, 24 ore su 24, ascoltata da tutti, che per 30 giorni consecutivi gli consenta di stare su Radio uno, Radio due, Radio tre senza limiti né condizioni”. Don Gianni chiude gli occhi e pensa intensamente. Dopo 10 minuti di meditazione (che recenti studi hanno provato allarghi e potenzi il cervello. Di chi ce l’ha!) viene fuori con una proposta clamorosa, di quelle che sono destinate a cambiare il corso della storia: “Gli faremo condurre OndaVerde!!”, grida don Gianni. “Bene, bravo, bravissimo”, rispondono all’unisono Pier Silvio, Confalonieri e Sandra Mondaini (gente che di spettacolo se ne intende) nell’apprendere da Bondi la felice trovata.


Intanto i tre commentano euforici. “Ma ve lo immaginate Silvio che in 47 edizioni quotidiane, annuncia a milioni di automobilisti le code, i tamponamenti, i banchi di nebbia, i lavori in corso ad Alto Pascio, il vento forte a Canosa, le nevicate a Genova, le mille interruzioni sull’A3 e il gelo sulla Basentana? Sarà clamoroso, bellissimo!” Lo dicono a Silvio in persona ad Arcore. Il quale, incredibilmente, si incazza di brutto e maltratta i tre: “Io non posso e non voglio annunciare tamponamenti a catena e traffico vietato a caravan e autoarticolati! Siete tre idioti: queste notizie sono da comunisti, perché solo loro annunciano disgrazie. Io racconterò agli italiani solo belle notizie, anche quando sono brutte. Come ho sempre fatto finora. C’è nebbia in Val Padana? Balle: annuncerò che splende il sole in tutto il nord Italia. Hanno chiuso per neve la Salerno-Reggio Calabria? Non è vero, cribbio: abbiamo solo deviato il traffico sulla 106 jonica per far risparmiare tempo e benzina agli automobilisti. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, per 30 giorni e 30 notti porterò allegria, calma e serenità a decine di milioni di automobilisti che non crederanno alle loro orecchie nel sentire queste cose da OndaVerde. E alla fine gli italiani se ne convinceranno pure. Come per l’inflazione che da anni è all’8% ma io li ho convinti che è scesa al 2%, come per le grandi opere che tutti ormai sanno in via di completamento (e se guardano bene anche il Ponte sullo Stretto è quasi pronto), come le tasse che sono le più basse da 50 anni, come la criminalità che ormai non esiste più (a proposito: ma allora perché quei cretini di parlamentari hanno approvato la legge che consente di sparare ai ladri? I ladri ormai non ci sono più in Italia, cribbio!)”. La rivoluzione di Silvio piace ai tre. E a pensarci bene ha pienamente ragione Silvio. Tanto che se il Paese crollerà per l’eccessivo debito pubblico, la recessione strisciante, la disoccupazione e la criminalità, a quel punto apparirà nel cielo un aereo con un enorme striscione con su scritto: “Niente paura, siete su Scherzi a parte”!

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Fantacronaca dal Parlamento

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È durata oltre 24 ore l’interminabile riunione con-

giunta dei vertici dell’Unione con i capi della Cdl. Dopo che per 6 mesi il Conclave laico non è riuscito a eleggere il nuovo presidente, un accordo in extremis, sottoscritto tra Unione e centrodestra, ha segnato la svolta decisiva: si è concordato che il centrosinistra avrebbe presentato alla Cdl una rosa di nomi per l’elezione del successore di Ciampi. Uno alla volta, fino a quando Berlusconi e Bossi scegliessero il nome più gradito, per poi farlo sostenere anche a Fini e Casini e quindi trasmetterlo all’Unione con il “visto si approva” di rito. Alle tre del mattino l’Unione aveva già fatto 122 nomi alla Cdl, ma nessuno aveva ottenuto l’ambito “Visto”. Prodi-Rutelli-Fassino non sapevano più che nome inventarsi. Tutti erano stati bocciati dalla Cdl: Napolitano perché ex comunista, D’Alema perché comunista tutt’ora, Amato perché socialista, Marini perché democristiano. E così pure - per le più avanzate ragioni - Rutelli, Fassino, Maccanico, Bindi, Pannella, Jervolino, De Mita, Anselmi, Prodi,

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Bertinotti…! E c’ha provato pure l’ex deputato Agazio Loiero, molto noto in Parlamento, che dopo aver dichiarato di aver fatto vincere Prodi e, prima ancora, in concorrenza con lo Spirito Santo, papa Benedetto XVI (grazie al voto decisivo di tre cardinali suoi amici), ha inviato due nomi alla Cdl sostenendo che li aveva già vagliati l’Unione: Mario Pirillo e lo stesso Agazio Loiero. Ma nemmeno questo era bastato a convincere Berlusconi, Bossi e soci. Stanchi per i sei mesi di votazioni a Camere congiunte, visto il nervosismo di Prodi che era rimasto con il Governo ancora da fare, visto che Ciampi premeva per andarsene via in meritato riposo, Rutelli, D’Alema e Fassino hanno avuto un’idea geniale: chiediamo alla Cdl di far loro un ampio numero di possibili Presidente della Repubblica, noi poi sceglieremo tra questi. “Qualsiasi nome?”. Chiede Fassino. “Qualsiasi nome”, risponde Rutelli e poi anche D’Alema, d’accordo anche Bertinotti, Capezzone, Pecoraro Scanio, Di Pietro, Diliberto e tutti gli altri 27 leader del centrosinistra. D’accordo soprattutto Prodi che così sarebbe stato subito incaricato di formare il Governo. La Cdl a questo punto non poteva più tirarsi indietro. Ognuno dei leader fa subito uno-due nomi. “Personalità indiscusse e indiscutibili del Paese”, afferma con grande solennità Berlusconi. La rosa dei nomi arriva nelle mani di Prodi. Il quale chiama subito tutti i maggiori leader del centrosinistra e apre così la busta. “Ecco i nomi tra i quali scegliere il prossimo presidente della Repubblica - dice Prodi stanchissimo: Orietta Berti, Iva Zanicchi, Bruno Vespa, Cesare Previti, Dell’Utri, Miccichè, Cuffaro, Moggi, Ciriello, Luxuria, Francesco Caruso, Camillo Ruini, Mike Bongiorno”. Gelo in sala, nonostante i 38 gradi di caldo e il 90% di umidità. Dopo 6 ore di panico, con i capi del centrosinistra a discutere animatamente su chi fosse il miglior presidente possibile, si decide tutti insieme sul nome unico da proporre all’Aula di Montecitorio che nel frattempo era già stata convocata e stava agitandosi in maniera assai scomposta. Camera e Senato in seduta congiunta hanno così votato rapidamente il nome scelto dall’Unione dall’elenco proposto


dalla Cdl: ogni parlamentare aveva fretta di andarsene via dopo 180 giorni di riunioni e 365 votazioni inutili, con infinite discussioni e anche qualche rissa provocata dal solito Pannella. Al termine dello scrutinio il presidente della Camera, come vuole il protocollo, lascia l’Aula e si reca a casa del negletto per comunicare l’esito della votazione. Un esito straordinario visto che il 97% dei parlamentari aveva votato il prescelto! Dopo 20 minuti entra in Aula il nuovo presidente della Repubblica accolto da un grande applauso da destra e da sinistra. Poi qualche secondo di silenzio e il capo dello Stato appena eletto si avvicina al microfono, guarda l’Aula di Montecitorio, e grida felice: “Allegriaaa”! Inizia così la Terza Repubblica.

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L’Italia sarà un Paese senza tasse

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Ora sappiamo che, qualora il centro-destra do-

vesse vincere le elezioni del 9 aprile, l’Italia sarà un Paese senza tasse. È certo, lo ha deciso Silvio ad Arcore la settimana scorsa nel corso di una cena con Fini, Bossi, Casini. Questi ultimi hanno alzato la mano senza commentare la decisione del capo. Casini domani frenerà, come al solito; ma poi approverà. Un Paese senza tasse: “Ma… è un’idea geniale”, ha esclamato Silvio nell’ammirarsi allo specchio subito dopo aver varato la “Prima rivoluzione fiscale italiana”. E si tratta davvero di un’idea rivoluzionaria. Ben più importante di quanto non abbiano fatto Einaudi, Fanfani, Vanoni, La Malfa, Visentini, Ciampi, Visco nella storia della Prima Repubblica. Più importante delle grandi riforme del primo centro-sinistra, da quella Agraria a quella industriale, dalla nascita dell’Iri e della Cassa per il Mezzogiorno all’eliminazione dell’IGE in favore dell’Iva. Più ancora dell’introduzione dei registratori di cassa e degli scontrini fiscali. Una cosa clamorosa, quasi

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quanto la creazione dell’Onu, l’entrata in vigore dell’Euro, la caduta del muro di Berlino, la fondazione della Fiat, del Corriere della Sera e l’entrata in vigore dell’ora legale. Silvio, che aveva promesso un’idea rivoluzionaria per la fine della campagna elettorale, ha mantenuto gli impegni. Lui, si sa, è un uomo di parola, uno che quando una cosa la promette si può dire che l’abbia già fatta. E questa volta, senza neppure giurare sulle testa dei figlioli, siamo tutti certi che manterrà l’impegno assunto davanti al notaio di sempre, Bruno Vespa, che ancora una volta ha assistito ad un grande colpo mediatico del Capo in diretta televisiva. Immaginate un’Italia senza Ici, senza tasse sulle case. Ma immaginate anche tutte le altre cose che la “Rivoluzione fiscale” di Silvio II prevede per la prossima legislatura: l’abolizione della Guardia di Finanza, la cancellazione di tutti i debiti degli italiani con le banche, l’estinzione di tutti i mutui per l’acquisto della prima casa (quelli che gli italiani hanno contratto dal 1980 in poi, non prima!), l’abolizione del pedaggio autostradale, dei tiket della Sanità, delle tasse per la Scuola e l’Università. Su suggerimento di don Gianni Baget Bozzo saranno cancellate le tasse più odiose: quelle sulla spazzatura, l’acqua e, finalmente, tutte le accise sui carburanti. In quest’ultimo caso l’effetto sarà miracoloso: la benzina ed il gasolio costeranno 150 centesimi al litro, già dal 1 giugno 2006! Uno sguardo anche alle famiglie: basta con le bollette della luce. Dal 1 luglio 2006 (notate la precisione del piano fiscale di Silvio II) le famiglie con un reddito fino a 50mila euro all’anno non pagheranno più la bolletta all’Enel, mentre a ciascun figliolo appena nato il Governo di Silvio II invierà una tessera elettronica della durata di 20 anni (ricaricabile gratuitamente per altri 20) con la quale avrà diritto a tutte le cose gratis: viaggi, cinema, concerti, vacanze, università, cinema, teatri, campionati di calcio. Ma questo, ci tiene a far sapere Silvio, solo fino al quarto figlio, onde evitare il dissesto finanziario del Paese! E tutti sanno quanto il presidente tenga all’ordine del Bilancio dello Stato. Fatta la rivoluzione, Silvio si interroga su alcune con-


troindicazioni. Cioè: dove trovare le risorse. “Semplice gli risponde il fantasioso Tremonti - se il Paese non avrà più tasse, è logico che non debba più pagare stipendi ai dipendenti nè pensioni ai pensionati”. Geniale anche questo. E anche semplice da realizzare. Un grande Paese, l’Italia senza tasse e senza stipendi. E da qui il passo è breve. Sarà anche un Paese senza leggi e senza giudici, senza comuni (chiusi dopo 3 mesi dall’eliminazione dell’ICI) senza Province né Regioni (“Tanto sono tutti di sinistra”, pare abbia sussurrato Silvio II fra sé e sé). Un Paese senza istituzioni, senza regole, senza limiti. Un regno del “tutto è possibile”, un principato della felicità. Il 12 aprile, di primo mattino, il maggiordomo di Arcore sveglia Silvio II. Dormiva da 48 ore consecutive. Chiede subito di Umberto. “Non c’è”, gli risponde il maggiordomo. Poi di Gianfranco, ma è partito l’11 pomeriggio. Chiama Letta. Silenzio. Poi don Gianni. Idem. Nessuno, non c’è nessuno ad Arcore, ma nemmeno a Roma. E neanche a Milano. La corte è scappata via nottetempo.

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Laratta, Maria De Filippi e il frutto proibito di Harrison Ford di Antonella Grippo

Franco Laratta è il frutto proibito di una relazione extraparlamentare tra Pierluigi Castagnetti, Harrison Ford e Kim Basinger. Partecipano all’associazione carnale, in concorso esterno, anche Brad Pitt, Ryan O’Neal e Robert Redford. I sei se la spassano così tanto da procreare uno strafigo della madonna, il quale, più che figlio della colpa, viene denominato figlio della coop hollywoodiana. Biondo, occhi azzurri, fisico da sirenetto. Dalla madre che, com’è noto, è Castagnetti, eredita l’olezzo di sacrestia. Da tutti gli altri, invece l’amore per il cinema. L’infanzia trascorre tra San Giovanni in Fiore e Beverly Hills. Appena compie 18 anni, lo zio, Ryan O’Neal, celeberrimo interprete della pellicola strappa lacrime “Love story”, gli affida la parte di protagonista, nel remake dello stesso film. Il ruolo della protagonista femminile è affidato a Rosy Bindi. Franco, appresa la notizia, è colto da paresi al basso, bassissimo ventre e chiede che, nelle scene di nudo, la Bindi sia sostituita da Marilina Intrieri. Il regista, tale Franco Bruno-Brass, detto il Tinto sigarato, 125


è irremovibile. “Al massimo - sentenzia - si può optare per Marisa Fagà”. Il giovane, disperato, si ripara a San Giovanni in Fiore. Bussa alla porta della parrocchia e chiede lavoro, in qualità di chierichetto. Per due lunghi anni servirà messa, accanto a don Tonino Acri, parroco strozzapreti che, nel corso della liturgia domenicale, distribuisce ai fedeli l’ostia taroccata. I NAS, infatti scopriranno che, più che del corpo di Cristo, si tratta della lombata liofilizzata di Mario Oliverio. Affinché non si dica che la Sila è tutta comunista, il Larattino chiede la tessera della Democrazia Cristiana, scambiandola per il partito di don Sturzo e di Alcide De Gasperi. Qualcuno disvela la terribile verità: la Democrazia Cristiana, in realtà, è il partito di Geppy Camo e di Franco Santo Subito. Il Nostro subisce l’ennesimo trauma. Trasmigra alla volta di Cinecittà. Conosce Maria De Filippi che lo proclama tronista a vita, nella trasmissione “Uomini e donne”. Costantino Vitagliano e Daniele Interrante, incazzati, denunciano il fatto a “Mi manda rai tre”. Dichiarano: “Laratta non è più bello di noi. In realtà è raccomandato da Franceschini”. Il biondo calabriforniano, espulso da Mediaset, segue il medesimo malinconico destino di Cristiano Malgioglio e di Elisabetta Gregoraci, a loro volta estromessi dalla Rai, a causa di vallettopoli. Il figlio della coop, conscio del fatto che solo una sana e consapevole libidine, salva i giovani da Franco Bruno e dall’Azione Cattolica, viaggia in lungo e in largo per il mondo, alla ricerca di inediti piaceri. A Parigi incontra Monica Bellucci. Dalla burrascosa Unione, nasce Orlandino Greco, strafigo castroliberato. Intanto, la DC si fa chiamare Margherita-Magnolia Produzioni e lancia, in tutta Italia, i provini per la fiction “Oggi in Parlamento”. Franco cade nella rete e finisce a Montecitorio, con Mara Carfagna. Tra le sue imprese più nobili, la visita presso il carcere di Cosenza, a capo di una nutrita delegazione di onorevoli colleghi. Ma il destino cinico e baro, gli riserva

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l’ultimo, crudele, tiro mancino. La Repubblica, il giorno dopo, titola “Franco Laratta beneficia dell’indulto e lascia la sua cella, dopo aver scontato metà della pena inflittagli, per il reato di insubordinazione ad Agazio. Ad attenderlo, una folla di deputati e senatori, tra i quali l’amata Marilina”.

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2006



Franco Laratta Giornalista e scrittore, ha pubblicato: Riflessioni Libere, Quando in Sila cade la neve, Non sparate sul cronista, La Villa dei sette piani, Padre Antonio Pignanelli (Biografia). Ha diretto Radio Sila Tre, Sila Tv, La Città di Gioacchino, Il Cittadino. Ha collaborato con Gazzetta del Sud, il Crotonese. Scrive per il Quotidiano della Calabria. È membro del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti. È deputato al Parlamento italiano.

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