Toska

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TOSKA Una rivista riguardo la società post sovietica - Numero 1 - Gennaio 2021

BOZHEVILNYI

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La parola russa toska non può essere tradotta letteralmente con un termine equivalente in quanto comprende un'infinita quantità di sfumature poco chiare e difficilmente descrivibili anche dai russi stessi. In generale racchiude i sentimenti di tristezza, insicurezza, senso di vuoto, angoscia, nichilismo, ansia e paura, spesso mischiati uno con l'altro e ai quali non è data una causa ben precisa. Un occhio disattento potrebbe attribuire a quasta parola il significato di depressione, ma toska è molto di piu. È un sentimento estremamente radicato nella cultura post-sovietica, c'è chi dice che sia presente nel dna dei russi e delle popolazioni a loro vicine e che attribuisce la sua origine nella sofferenza che nel corso di secoli di storia dura e crudele gli antenati delle attuali generazioni hanno dovuto provare. Toska è anche un paradosso: suscitando questo sentimento di insicurezza in maniera così costante e persistente diventa in chi la prova l'unica vera certezza, la certezza di essere incerti, fatto che rende quindi toska un ingrediente vitale per i russi e popoli post sovietici.


«Nessuna parola è in grado di restituire tutte le sfumature di significato della parola toska che designa uno stato di grande sofferenza spirituale che non scaturisce da alcuna causa precisa. A un livello meno morboso indica una sofferenza dell’anima, uno stato di vaga inquietudine, un senso di nostalgia e di struggimento» Vladimir Nabokov

KRUSCEVKA

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TOS TOS TOS


SKA SKA SKA


INDICE

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KRUSCEVKA


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Bozehvilnyi

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Turuktuuluk

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Beregynya

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Kruscevka

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Zatyshok

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Kopanka

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Chechnya

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Poshlost

INDICE

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Bozehvilnyi


Божевільний

Bozhevilnyi nella lingua ucraina è un termine utilizzato per indicare una persona folle o psicologicamente malata. Negli ultimi anni questo aggettivo è spopolato nel gergo nazionalista ucraiono che lo utilizza per descrivere che nacora oggi crede negli ideali comunisti.

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La repubblica Ucraina, ora stato indipendente, ha una storia particolare la quale è legata strettamente con quello di uno stato vicino che in quella porzione di mappamondo ha sempre cercato di predominare e di espandersi. Lo stato in questione è insubbiamente la Russia che da quando ancora era l’Impero Zarista Russo aveva ottenuto il controllo dell’Ucraina nel diciannovesimo secolo e, se si esclude la piccola parentesi di indipendenza fra il 1918 e il 1922, ne ha mantenuto il controllo fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1992. Alla luce di questa doverosa premessa, come la sociologia ci insegna, quando un popolo si trova dominato per un lungo periodo di tempo, due secoli e mezzo in questo caso, da un altra potenza, la società dominata solitamente ha due possibilità di reazione: svilupparsi in maniera frammentata e divisa fra indipendentisti e sostenitori dell’invasore, oppure unirsi in maniera profondissima con l’unico obbiettivo di ottenere l’indipendenza. Il popolo ucraino ha reagito nella maniera più patriottica unendosi contro l’Impero Russo prima e l’URSS in seguito, unione dimostrata dal netto risultato ottenuto dal referendum in favore all’Atto di Indipendenza del 1991 che vinse con il 90% dei voti a favore. Questo risultato, oltre alla solidità della popolazione scaturì anche una sensazione di odio e ripudio nei confronti di quella che era stata la dominazione subita per decenni e tutto quello che essa aveva introdotto, imposto, importato, costruito, inculcato forzatamente. La conseguenza fiseologica è quindi quella di cercare di eliminare, ditruggere e dimenticare tutto quello che l’invasore ha creato e perseguire chi ancora ne professa gli ideali. Nello specifico questa campagna nei paesi dell’ex URSS fu denominata decomunizzazione e fu proclamata così ardentemente da divenire quasi un’ossessione.

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Decomunizzazione Decomunizz Decomunizzazione Decomunizz Decomunizzazione Decomunizz

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zazione Decomunizzazione zazione Decomunizzazione zazione Decomunizzazione

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Una statua di Lenin conservata nei sotterranei della centrale nucleare di Chernobyl. “Mi piace pensare che un operaio dell’impianto lo abbia nascosto qui, nel caso tornassero i comunisti. Anche qui a Chernobyl, le persone hanno questo in mente.” Maksim, un ex operaio della centrale.

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Una delle primissime vittime della di questa spasmodica ricerca di eliminare tutto quello che potesse ricondurre all’Unione Sovietica ricerca denominata appunto decomunizzazione furono i monumenti che di conseguenza vennero spesso distrutti, dando vita a non poche diatribe fra chi sosteniva siano un patrimonio storico da conservare e chi invece credeva che in questi casi non c’è storia che tenga e queste statue vanno disintegrate.Infatti, nonostante il popolo ucraino si sia dimostrato estremamente unito sotto il punto relativo all’indipendenza dall’Unione Sovietica, era pur sempre un popolo i quali ideali si sono sviluppati in un ambiente dove la libertà di parola e di pensiero non erano alla base della società, la quale crebbe inevitabilmente frammentata su molti atgomenti e non sempre abituata ad accettare e rispettare le ideologie altrui. In Ucraina infratti nonostante il processo di decomunizzazione iniziò

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immediatamente con la distruzione della maggior parte delle statue rappresentanti personaggi o simboli legati all’Unione Sovietica, tale campagna non era apprezzata da chiunque e ancora oggi il dibattito attorno all’argomento è accesissimo e spacca in due l’opinione degli Ucraini: in molti credono che niente possa dare il diritto a questi monumenti di essere protetti in quanto le figure a cui essi fanno riferimento abbiano aperto ferite che mai saranno potute essere risanate, mentre altri ritengono che queste statue vadano conservate perchè rappresentano un patrimonio storico e culturale inestimabile. Vi è poi una ristretta fetta di popolazione che vorrebbe tutelare questi monumenti in quanto ancora condividegli ideali delle figure che questi rappresentano rimpiangendo i tempi del regime. Tuttavia la maggior parte delle statue sono state distrutte o quantomeno smembrate, ma i resti che da esse sono stati creati venivano


spesso abbandonati o lasciati in luoghi isoliti. Oggi infatti nonostante la campagna di decomunizzazione è ancora possibile incontrare statue intere o frammenti di esse nelle strade e nelle case ucraine il dona alla vicenda una nota quasi comica e talvolta artistica. Nel corso degli ultimi anni infatti, in particolare le nuove generazioni, dimostrano il proprio disprezzo nei confronti di questi simboli in maniera più pacifica e meno carica d’odio, fenomeno dovuto al non diretto coinvolgimento che tali generazioni hanno nei confronti di questo delicato e buoio periodo storico che invece i loro genitori o nonni hanno vissuto in prima persona in tutte le sue sfumature e aspetti. Va inoltre compreso, che statue rappresentanti i vari leader, in particolari quelle raffiguranti Lenin, erano estremamente diffuse e situate in ogni piazza grande o piccola, al di fuori e all’interno dei diffusissimi edifici pubblici e anche all’interno della quasi totalità delle case ucraine, su imposizione del regime. Era quindi praticamente imposibile sbarazzarsi definitivamente della totalità di queste statue che sono state di conseguenza graziate in discreto numero.

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Queste statue sono infatti state più vandalizzate che propriamente distrutte, e molto frequentemente sono state dipinte dei colori della bandiera ucraina, il giallo e l’azzurro. Non è affatto complicato abbattersi in tali statue ancora oggi in particolare in quei luoghi quali le campagne, dove il governo si è impegnato meno nella ricerca e nella rimozione di simboli legati e rappresentanti l’Unione Sovietica. Tuttavia alcune statue sono ancora oggi soggetto di discussione per alcuni villaggi ucraini ma non solo. Infatti è molto comune all’interno delle stesse famiglie avere diverbi in relazione all’argomento: le nuove generazioni sostengono che il patrimonio storico che queste statue rappresentano sia unico e vada tutelato e protetto, e le generazioni più vecchie che quei volti rappresentati nelle statue li hanno sentiti parlare professando odio e false promesse legate al fantomatico sogno comunista, una società dove tutti avrebbero potuto avere le stesse possibilità e uno stesso dignitoso stile di vita. Sogno che per molti si è trasformato nel più terribile degli incubi. Un punto curioso sta in un singolare fatto che si è verificato a partire dal 2014 e che ha visto i gruppi nazionalisti passare da cercare per distruggere a cercare per vendere queste statue, i quali profitti sono stati utilizzati per finanziare le cure necessarie ai feriti delle sanguinose proteste del 2014 conto l’allora governo filo-russo che aveva sospeso nell’anno precedente le trattative per l’ingresso del paese nell’Unione Europea, proteste che hanno visto centinaia di nazionalisti ed europeisti essere picchiati a sangue e alcuni di loro perdere la vita vittime della violentissima linea di azione adattada salle forze di polizia.

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«È UNA STORIA ORRIBILE DI CUI DOBBIAMO SBARAZZARCI. IMMAGINA CHE UN UOMO IRROMPE IN CASA TUA, METTE SOTTOSOPRA L’INTERA CASA, TI PICCHIA, SPOSA TUA MOGLIE E ALLEVA I TUOI FIGLI, APPENDE IL SUO RITRATTO AL MURO E SI SOSTITUISCE COME PADRONE DI CASA. POI FINALMENTE ARRIVA IL MOMENTO IN CUI PUOI TOGLIERE IL RITRATTO, MA SONO I TUOI STESSI FIGLI CHE TI IMPEDISCONO DI FARLO CON IL PRETESTO CHE È STORIA, È ASSURDO»

Yuriy Shukhevych: figlio dell’ex comandante dell’Esercito Insurrezionale Ucraino Roman Shukhevych morto nel 1950 in uno sconto a fuoco contro ne forze armate dei servizi segreti dell’Unione Sovietica denominate MGB.

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Turuktuuluk


Туруктуулук

Turuktuuluk in lingua Kitghisa può essere tradotto come resilienza ma ha un significato più profondo: questo termine viene utilizzato per descrivere un atto di resistenza dinnanzi ad un forte trauma le quali cause non derivano da chi ne subisce le conseguenze.

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Kurki è un uomo che sulla sua pelle ha vissuto gli anni in cui il Kyrgukystan è stato parte dell’Unione Sovietica e che indubbiamente hanno segnato i suoi ideali e la società del suo paese nonostante la cultura di questultimo sia significativamente differente rispetto a quella delle arree più centrali dell’unione. Kurki ha sempre lavorato grazie ai lavori popolari stabiliti dal regime con le positività e negatività del caso, sostenendo come nel paese le azioni del regime non abbaino mai cercato di migliorare la situa zione economica ma abbiano sempre mantenuto costante il tasso di povertà senza quantomeno far peggiorare la situazione. Kurki ha lavorato per anni nella fabbrica tessile locale, ha svolto quasi tutti i compiti passando da magazziniere a confezionatore e anche capo del reparto dedicato al lavaggio della materia prima. Oltre al lavoro, quado il fisoco lo permetteva, si è sempre dedicato al taglio della legna d’inverno e alla caccia d’estate. Ora Kurkig vive la sua pensione in maniera tranquilla cercando di mantenere quelle che sono state le

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sue tradizioni e abitudini, vestendosi coi vestiti che la fabbrica gli ha di tanto in tanto donato nel corso degli anni. Una cosa che Kurki ha sempre fatto e mai ha smesso di fare è stata curare la sua barba, spesso ci spene gran parte della sua mattinata, ora che tempo ne ha, e la tratta come

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fosse un figlio. «La barba per un uomo kirghiso vale più della paga perchè per decenni è stata una delle poche cose sulle quali esso abbia potuto avere libertà decisionale». Questa frase detta da Kurki rappresenta una concreta realtà, qui come in tutta l’unione il regime decideva tutto, la tua occupazione, la tua abitazione, i tuoi vestiti, la tua auto, le tue abitudini, ma la barba, che ha sempre fatto parte della cultura kirghisa, era una delle cose sulla quale il regime non poteva governare e sulla quale nulla poteva imporre.


La storia di Kurki è un ottimo esempio all’interno del quale è possibile capire come la giovane repubblica del Kirghikistan viva ancora sotto le ombre dei postumi sovietici. Qui infatti è possibile vedere grandi sogni ed aspirazioni intersecarsi con i resti dell’Unione Sovietica che sembrano essersi congelati nella società kirghisa, una società radicata in un ambiente in cui il dolore e l’isolamento incontrano un’umiltà piuttosto tranquilla. Proprio come per Kurki dove le ferite lasciate dai sovietici sono ancora aperta nonostante i numerosi tentativi di dimenticare e ripartire da zero. Quei valori sovietici che si sono congelati nella società si possono leggere vividamente nei volti delle persone che abitano il paese e che ancora oggi ricordano gli anni di regime con un misto di odio e controversa malinconia. Indubbiamente il sentimento che i russi definirebbero come toska è radicato anche nel popolo kirghiso, che però nonostante ciò continua a rimanere unito anche nella sofferenza e nel maledetto ricordo di un epoca che sarà difficile da dimenticare. Questa particolare unione dà la possibilità ai kirghisi di proseguire la loro vita con relativa serenità e con indiscutibile forza interiore in quanto dentro di loro si è sviluppato il senso di convivenza con il sofferto ricordo che sarà impossibile cancellare.

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Prima del periodo di dominazione sovietica la popolazione kirghisa era per la maggiorparte nomade e sviluppava la sua economia su acricoltura di sussistenza o di piccola produzione. Con l’arrivo dei sovietici è arrivato anche un certo livello di urbanizzazione ed è stato avviato un timido processo di industrializzazione, settore industriale che oggi garantisce un quarto del PIL, che ha portato alla costruzione di industrie prima e in seguito di villaggi intorno ad esse. Di conseguenza molti kirghisi che non avevano mai visto una casa prima di allora e che l’unico lavoro che conoscecano era la terra e il bestiame ebbero la possibilità di ottenere un lavoro e una dimora fissa. Questa opportunità si rivolgeva anche alle donne, che fino a quel momento si occupavano

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principalmente di mantenere la famiglia e i figli e mai avrebbero potuto svolgere le stesse mansioni ricoperte dagli uomini. Ad una prima apparenza tutti questi fatti sembrerebbero solamente positivi ma purtroppo ciò non corrisponde al vero: l’unico reale obbiettivo dei sovietici non era infatti quello di industrializzare e civilizzare questa terra per dare una migliore possibilità di vita alla gente che la abitava ma bensì quello di sfruttare questa terra e questa gente così arretrata e che difficilmente avrebbe protestato per un migliore salario o per una casa più confortevole, per il semplice fatto che una casa e un salario non lo avevano mai visto. Infine non tutti i kirghisi volevano abbandonare la vita nomade, anzi quasi nessuno, e spesso furono costretti.

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I segni congelati lasciati dai sovietici non sono visibili solo nei volti dei kirghisi ma anche nei paesaggi del paese. In se il paesaggio kirghiso è prevalentemente montuoso in qualto il paese e racchiuso da tre magnifiche catene montuose: i Monti Altay i Monti Alatua e l’imponente catena dello Tian Shan al confine con la Cina rendono il luogo piuttosto movimentato e difficilmente monotono a differenza di molte altre aree della Russia o comunque di luoghi di dominazione sovietica. Questi incredibili paesaggi hanno per decenni fatto da sfondo ad ingiustizie sociali e ideologiche e si sono anche visti modificare e sfrtuttare nel corso del tempo. Infatti grandi giacimenti carboniferi sono presenti nell’area i quali erano sfruttati dai sovietici che qui scavavano il carbone ma poco ne lasciavano perchè esso finiva per la maggior parte alle grandi industrie presenti nelle neonate città sovietiche in Russia. Ancora più importante era però un grande giacimento di uranio scoperto nella valle Ferghana proprio dai sovietici e che era la principale fonte che essi utilizzavano per soddisfare il loro fabbisogno nucleare sia in termini di settore energetico che di settore bellico. Come già spiegato in precedenza i sovietici in Kirghikistan, come anche in tutti gli altri luoghi dell’Unione, non avevano l’interesse di fare sviluppare realmente l’economia della zona o di dare alle popolazioni che qui vivevano un possibilità migliore di vita, ma il tutto era volto allo sfruttamento. Di conseguenza anche in questo caso dove veniva trattato un elemento così delicato e potenzialmente dannoso come l’uranio, i sovietici non si preoccuparono minimamente di adottare le precauzioni del caso e abbandonarono nella valle

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Ferghana tonnellate di materiale radioattivo esposto all’area aperta e che rappresenta ancora oggi una potenziale rischio geologico che potrebbe verificarsi da un momento all’altro. Il rischio è presente ogni giorno anche per le famiglie che abitano la valle all’interno della quale furono costruiti vari centri abitati proprio per ospitare chi lavorava nell’estrazione dell’uranio. Infatti i sovietici costruirono parecchie abitazioni nel luogo le quali sono ancora oggi molto spesso abitate anche se decadenti ed estremamente fredde. Va specificato che non è semplice trovare case calde in Kirghikistan anche proprio per la conformazione geografica del luogo e il clima qui presente: infatti l’altitudine media del paese è di 2750 metri sul livello del mare e il clima è freddo e secco, le nevicate si verificano di continuo nella stagione invernale e circa il 40% del totale del territorio kirghiso è occupato perennemente da componente nevosa o ghiacciosa. Questa incredibile e suggestiva ambientazione ha fatto da parcoscenico all’occupazione sovietica e fa oggi da scena a quelli che ancora oggi sono i segni che essa ha lasciato, forse indelebili e che probabilmente mai verranno cancellati del tutto. Rimane il fatto che questo tipo di territorio così freddo e così apparente mente silenzioso sia il riflesso dei sentimenti del popolo kirghiso, che compone una società radicata in un ambiente in cui il dolore e l’isolamento incontrano un’umiltà piuttosto tranquilla e piegata alla sottomissione dove ciò che è stato apparentemente dimenticato si nasconde in realtà sotto la superficie, pronto a riaffiorare e ad alzare la testa se solo qualcuno prestasse maggiore attenzione e aprisse gli occhi di tanto in tanto.

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Beregynya


Берегиня

Il termine beregynya in ucraino descrive il concetto di casa come luogo che ha conservato la ricchezza materiale e spirituale degli antenati e la memoria delle generazioni. La parola deriva dal verbo ucraino bereh che significa “proteggere”.

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Come esaminato nel primo capitolo il popolo ucraino si è sempre dimostrato unito nella lotta per la separazione dall’Unione Sovietica e dai suoi ideali, ma questa unione non si riflette affatto per quanto riguarda la separazione dagli ideali dello stato russo attuale. Vi è infatti una brande porzione di popolazione ucraina che nonostante ripudi quelli che furono gli ideali comunisti, è strettamente legata a livello stnico, linguistico e culturale alla Russia e si identifica come discendente di questa terra i quali imperatori zaristi prima e comunisti in seguito hanno occupato il territorio ucraino per 250 anni influenzando estremamente la società e la cultura ucraina. Questa influenza non è stata però sempre uniforme in tutto il territorio del paese, infatti la parte orientale, quella più vicina all’attuale Russia, è definita

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filo-russa e supporta quindi le idee e politiche promosse dal governo russo e ne vorrebbe essere più legato e dipendente. La parte occidentale del paese è invece definita europeista in quanto condivide gli ideali europi e quelli di totale indipendenza economica dalla Federazione Russa. Queste nette divergenze interne creano spesso malcontenti e rivolte contro il governo o contro quelli che teoricamente dovrebbero essere considerati connazionali. Come la storia ci insegna questo tipologie di rivolte, che nascono da una così significativa spaccatura all’interno di una singola popolazione, sepsso possono sfociare in qualcosa di molto più grande. Questo è quello che è accaduto anche in Ucraina dove la Rivolta dell’Ucraina Orientale, la quale di presentava gia estremamente violenta, si è presto trasformata in Guerra del Donbass.

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Come spesso è accaduto per i conflitti avvenuti nel corso dei secoli essi si verificano in momenti di particolare tensione e sono la pura dimostrazione che tali divergenze erano state represse e nascoste per anni prima che poi scoppiassero in una guerra. Anche per quanto riguarda la Guerra del Donbass la faccenda è simile: la parte di popolazione filorussa temeva di esprimere in totale libertà la propria opinione in quanto temeva di essere additata come neo-comunista e non credeva che questa idea fosse condivisa da molti. Durante le elezioni del 2010 però a vincere, per un pugno di voti al ballottaggio, fu il filorusso Viktor Yanukovych che ebba la meglio sulla candidata europeista quale Yulia Tymoshenko. Questo risultato diede consapevolezza ai filo-russi di essere in realtà un nuomero estremamente vasto di persone a condividere quella idea fino ad allora quasi discriminata dai governi ucraini che stavano andando in una direzione sempre più europea. Questa spinta europeista subì indubbiamente una brusca frenata che ebbe il suo apice nell’autunno del 2014 quando il presidente Yanukovych bloccò il trattato che avrebbe portato l’Ucraina all’interno dell’Unione Europea dando così il via ad una serie di insurrezioni denominate Euromaidan.

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Le proteste dell’Euromaidan portarono a scendere in piazza i gruppi nazionalisti ed europeisti che si schieravano in contrapposizione con il presidente Yanukovych che oltre a fermare il processo di integrazione dell’Ucraina all’interno della UE stipulò un accordo con Vladimir Putin che avrebbe legato strettamente l’economia ucraina sotto quella russa. Le proteste si dimostrarono immediatamente estremamente crudeli e sanguinose dove sia chi scendeva in

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piazza per protestare sia chi avrebbe dovuto contrastare le riforme prese una linea di azione molto violenta tanto che le vittime non tardarono ad arrivare. Nonostante tutto queste riforme portarono alla deposizione di Yanukovych e le nuove elezioni istituite portarono alla presidenza l’Europeista Petro Porošenk con il 54% dei voti. Questo fatto non fece che inasprire le proteste che si erano già nate sull’onda dell’Euromaidan e che vedeva scendere in piazza

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le popolazioni filorusse in sostegno di Yanukovych. In particolar modo esse si erano sviluppate in territori dell’Ucraina Orientale nel Bacino di Donbass nelle oblast (distretti) di Doneck e Lugansk. In questi luoghi, in seguito ai risultati delle nuove elezioni, gruppi separatisti occuparono palazzi governativi uno dopo l’altro fino ad ottenere il controllo nelle principali città dell’area e quindi a proclamare l’indipendenza unilaterale dall’Ucraina governativa.


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Dopo la proclamazioni di indipendenza nascquero così la Repubbilca Popolare di Doneck e la repubblica Popolare di Lugansk. In sostegno delle milizie separatiste arrivò presto l’esercito russo e dall’altra parte le forze della NATO capitanate dagli Stati Uniti entrarono in sostegno dell’esercito Ucraino: tutte le prerogative per l’inizio del conflitto armato erano inevitabilmente in campo. Il vero e proprio conflitto che ne scaturì è in corsa ancora oggi e nessun significativo cambiamento è avvenuto e nulla al momento sembra poter cambiare. L’Ucraina si è ritrovata da essere un paese sviluppato a diventare teatro di una guerra che miete vittime, povertà e fame. Le categorie che soffrono

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sono indubbiamente estremamente numerose, ma certamente chi vive al fronte soffre in maniera particolare dovendo vedere giornalmente crudeltà una dopo l’altra. Lo sfondo a questa guerra è una terra povera e piatta che non offre protezioni naturali costringendo così a costruire chilometri di trincee all’interno delle quali la vita è estremamente dura ed è messa in dubbio ogni giorno. L’acqua e il cibo sono disponibili in quantità assai limitate e gli spazi dove poter vivere e dormire sono solitamente stretti e angusti. Molte trincee sono inoltre costruite da milizie volontarie le quali risorse economiche sono di conseguenza limitate rendendo il tutto ancora più spartano e terribilmente precario.

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Le trincee sono infatti spesso costruite con tronchi di legno grezzi e vecchi copertoni che non offrono sempre la stabilità che sarebbe necessaria. All’interno delle trincee il tempo si passa per la maggior parte parlando e facendosi forza a vicenda, mangiando insieme e talvolta giocando a domino il tutto scandita da una grande quantità sigarette. Nonostante questo le giornate possono sembrare estremamente lunghe ed interminabili, l’umore fa fatica a rimanere alto a lungo e l’ambiente che gli occhi dei soldati osservano ogni giorno non aiuta certamente in questo. Il nulla e la desolazione circondano lo scenario di guerra, il cielo si presenta quasi sempre di un colore grigio cemento dal quale molto spesso cade per ore una pioggia fitta e costante che porta fango nelle trincee e malessere nei soldati e il quale rumore ricorda quello delle mitragliatrici che a giorni altrerni rompe il silenzio che domina le pianure ucraine.

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PREGA MANGIA

COMBATTI FATI

CA SPARA VIVI


ICA SPARA VIVI PREGA MANGIA COMBATTI FAT


DA CALCIARE UN PALLONE

A CALCIARE UN FRATELLO

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La repubblica Ucraina nell’anno 2012 ha ospitato i Campionati Europei di calcio in combinazione con la Polonia. L’evento è stato molto atteso dal popolo ucraino in quento potesse essere occasione definitiva per dimostrare all’Europa che l’Ucraina era uno stato avanzato che si era lasciato completamente alle spalle il periodo di dominazione comunista e che esercitava la sua sovranità in maniera magistrale e indisturbata e che di conseguenza si preparava sempre di più a poter entrare a far parte dell’Unione Europea. Se si escludono infatti i separatisti filorussi, la maggioranza della restante parte di popolazione ha sempre appoggiato l’idea di entrare nella UE dati i vantaggi di sviluppo sia dal punto di vista economico che da quello democratico e dei diritti umani e dei cittadini. Dopo il successo proprio di questo evento la strada in quella direzione sembrava ormai spianata, ma la crisi del 2014 e le conseguenti

guerre civili non fecero altro che compromettere questo percorso di diretta annessione della UE che ebbe una brusca virata e che si limitò nel 2014 ad ottenere dei trattati di libero scambio con l’Unione, firmati in seguito all’Euromaidan. Bruxelles ha inoltre preso immediatamente le difese del governo di Kiev nella questione del Donbass, attribuendo alla Russia una pesante campagna di sanzioni economiche che ancora oggi sta continuando a pagare. Tuttavia si stima che il percorso per entrare a Bruxelles sia oggi lungo e complicato considerando indubbiamente che un conflitto civile è ancora in atto nel territorio del paese. La Guerra del Donbass ha infatti messo alla luce quelli che sono i forti contrasti che spaccano la società ucraina e che costringono connazionali a farsi la guerra e a uccidersi a vicenda senza apparente pietà o rimorso ma con la tremenda convinzione di star facendo la cosa giusta.

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Quando vedi che perfino due fratelli, due connazionali che fino a qualche tempo prima sono stati uniti per combattere un male comune iniziano a farsi la guerra capisci che qualcosa di estremamente terribile è in atto. Non c’è causa che tenga, la guerra è la guerra e va combattuta brutalmente cento anni fa come oggi, non importa chi ti trovi davanti ma devi sparare, sparare e uccidere, uccidere e dimenticare perchè domani sarà uguale: sparare, uccidere, dimenticare. Ma dimenticare cosa? Come si può dimenticare di avere ucciso un uomo? E soprattutto se quell’uomo condivide la tua stessa patria, il tuo stesso villaggio o la tua

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stessa casa. Nessuno lo sa, nessuno può dare una risposta a questo, nessuno. Forse è semplicemente impossibile dimenticare o forse questa è la vera natura dell’uomo: vivere per uccidere, uccidere per non morire, uccidere per vivere. Forse, anche questo nessuno lo sa, nessuno. E probabilmente nessuno vorrebbe saperlo, nessuno. Ma c’è qualcosa che possiamo sapere? Che possiamo conoscere della crudeltà umana? Potremmo mai saperlo prima che non ci sia più nessuno a potercelo raccontare, prima che questa crudeltà prenda il sopravvento sull’essere umano e lo porti ad una lenta e feroce estinzione?

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Questo duro conflitto porta fra le altre cose una tremenda distruzione senza fare sconti a niente e a nessuno. La gente che si ritrova senza casa non ha solitamente altre possibilità se non quelle di continuare a vivere in quello che rimane dell’abitazione o farsi ospitare da conoscenti o parenti. Tenendo conto anche di questo pericolo sono in realtà pochi i civili che ancora oggi vivono nella zone di guerra e solitamente essi sono composti dalle generazioni piu anziane ovvero le più attaccate alla loro terra e dimora e che dinnanzi a loro non hanno molte altre prospettive oltre a quella di vivere gli ultimi anni di vita.

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Essendo questa una guerra che si svolge in un contesto storico molto diverso da quello dove hanno avuto luogo le guarre alle quali la nostra memoria fa solitamente quando si pensa ad un conflitto armato, ci permette di scoprire nuovi aspetti e fenomeni che girano intorno ad una guerra. Uno di questi è quello che vede partecipare al conflitto volontari provenienti da luoghi nel mondo che nulla hanno a che fare con quelli contestati dai combattenti, e che scelgono un fronte in base solitmente alle proprie ideologie politiche o morali. Un esempio è Spartaco, italiano di Brescia che abbandona tutto e si trasferisce in

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Ucraina per combattere nell’esertcito filorusso. Il mondo e la società interconessa in cui viviamo oggi ci permette infatti non solo più di condividere files e fotografie ma anche ideali e principi con persone a noi sconosciute e che si possono trovare in qualsiasi angolo del pianeta. Nel caso della Guerra del Donbass il concetto che affascina i volontari che arrivano dall’estero è quello che questo è un conflitto alimentato non solo da interessi di uno o più governi, ma propriamente condotto da una popolazione che conbatte, su un frote o sull’altro per proteggere e tutelare le proprie origini e la propria beregynya più sincera.

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me quella di Svetla Molti villaggi nell’area del Donbass sono stati praticamente resi al suolo e la popolazione che qui viveva è scappata o stata uccisa per la quasi totalità. I pochi superstiti vivono una vita dura e menotona che non offre alcun spiraglio di cambiamento. Vivono solitamente da anni senza luce, acqua corrente o gas; durante il giorno o lavorano per attività sociali utili alla comunità o si dedicano alla riparazione delle loro case, ma al calar della notte, quando i combattimenti si fanno più intensi, si rifugiano nel sottosuolo in bunker improvvisati costruiti nelle cantine del edifici più grandi. All’interno di questi rifugi improvvisati, ogni occupante ha stipato le cose più costose oltre a tutto il necessario per far fronte ai rigori dell’inverno o ai giorni di bombardamenti prolungati. Ogni abitante riceve da una paga mensile di circa 3000 rubli per il lavoro svolto a beneficio della comunità. Le case e i rifugi sono riscaldati con stufe a legna costruite a mano, la debole luce è diffusa da lampade a led alimentate da batterie per auto, l’acqua potabile viene portata da un’autocisterna il martedì e il venerdì, il pane viene distribuito

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il martedì. Ogni due mesi la Croce Rossa Internazionale fornisce a ciascun residente un pacchetto di beni generali di aiuto umanitario. Con l’arrivo della primavera ogni abitante di si dedica solitamente alla cura del proprio giardino che rappresenta una importante fonte di sostentamento insieme ad alcuni animali da cortile allevati nelle aree comuni. Le condizioni di vita nei bunker sono al di fuori di ogni tipo di immaginazione, e non permettono alcun tipo di privacy o di spazio personale. All’interno di questi luoghi tutto è condiviso oggetti ed emozioni, cibo e sofferenza. Fra le persone che vivono in questi luoghi angusti e inospitali troviamo anche Svetla che per il suo forte legame alla propria beregynya ha deciso di non abbandonare il suo villaggio e di vivere in ombra ogni giorno. Come lei molte altre persone hanno avuto il coraggio di prendere la dtessa decisione e di condividere a tutti gli effetti con i soldati angoscie e paure data la vicinanza che tali paesi hanno solitamente con il fronte. Una vita del genere presenta molte e non è adatta a tutti, Svetla è però una donna forte e resiliente.

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Svetla è una donna ucraina vissuta sempre nello stesso villaggio che mai ha voluto abbandonare e che mai abbandonerà. Le difficoltà per lei sono tante, vivere per giorni in un bunker sottoterra e al buio non deve essere una cosa semplice, ma in questi luoghi si diventa un po’ tutti fratelli e si cerca di far passare il tempo nel modo più piacevole possibile. A Svetla piace ad esempio aiutare i più piccoli a studiare e fare i compiti, ritiene l’istruzione una cosa molto importante ed in particolare apprezza la letteratura, quella

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russa ovviamente in quanto quella ucraina nelle zone separatiste non viene più insegnata nelle scuole. La dortuna ha permesso a Svetla di trovare un vecchio televisore funzionante così che nei giorni di bombardamenti, quando la linea non salta, è possibile vedere qualcosa e sentire qualche voce diversa. Le sigarette scandiscono la giornata e la vodka è sempre ben accetta per i grandi e anche per i piccoli, ai quali si dice che un sorso fa solo che bene e che aiuti a crescere più forti e resistenti alla vita aspra e dura.


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Appena i bombardamenti cessano Svetla si reca a casa, con la speranza innanzitutto che non sia stata bombardata, qui cerca di mantenere per quanto possibile ordine e pulizia. Nei giorni di tregua inoltre Svetla si reca con l’autobus in ospedale per assistere il marito Vova qui ricoverato per l’ennesima volta. Nella mente di Svetla durante i giorni interminabili dei bombardamenti è sempre fisso il pensiero di riguardo nei confronti del marito che non si trova vicino a lei ma che sta in una stanza di un ospedale la quale assistenza nei confronti dei pazienti non è sempre ai livelli di un comune ospedale dell’Ucraina occidentale. Nonostante questo Svetla si ritiene fortunata in quanto lei suo marito può andarlo a trovare in ospedale

e non al cimitero come molte sue amiche sono costrette a fare. Per Svetla il momento della cena è un momento importante dove si sta insieme, si chiacchiera e se possibile si mangia qualcosa di buono. La Croce Rossa offre una scatola contenente vari beni fra i quali cibo di qualità superiore a quello che mediamente sono abituati a cucinare. I supermercati sono praticamente sempre vuoti e alcuni cibi come la carne e i formaggi sono impossibili da reperire. Anche l’acqua è contata e disponibile solo in alcune giornate, la corrente elettrica non scorre nei cavi dei villaggi da anni e i riscaldamenti funzionano grazie a stufe costruite in maniera rudimentale; tutto è insomma precario e in tremendamente coperto dall’ombra.

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vivere al buio dal sole 66

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vivere al buio dalla società

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Kruscevka Kruscevka


Xрущёвка

La parola Kruscevka è un neologismo sovietico che nasce alla fine degli anni ‘50 e che indica una nuova tipologia di condomini construiti con lastre di cemento prefabbricato a basso costo e in larga scala. Il termine deriva dal nome dal promotore del progetto Nikita Kruscev.

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Una Kruscevka per tutti una casa per nessuno


Dopo la seconda Guerra Mondiale si presentò all’interno dell’Unione Sovietica una problematica abitativa che vedeva milioni di persone sfollate o senza una vera e propria dimora a causa della feroce distruzione che il secondo conflitto mondiale provocò alli’interno dei territori sovietici. Per ovviare a questo problema nell’immediato dopoguarra gli architetti ingaggiati dal governo valutarono varie tecnologie che potessero ridurre i costi e i tempi di realizzazione; le tecniche tradizionali di costruzione richiedevano infatti un grande utilizzo di manodopera e costi troppo onerosi. Nel gennaio del 1951, una squadra di architetti, sotto la supervisione di Nikita Kruschev, allora segretario del partito, dichiarò che l’obiettivo dell’ordine era trovare nuove e rapide tecnologie a basso costo da essere utilizzate nella costruzione, ponendo così una cesura rispetto allo stile più ricercato ed elaborato del Classicismo socialista. Dopo una serie di studi e prove sul campo venne deciso di puntare su una tecnologia che vedeva l’utilizzo di pannelli di cemento prefabbricati e di conseguenza due mastodontici impianti per la produzione del cemento furono costruiti a Mosca ed entrarono in piena funzione a metà degli anni ‘50. L’ingegnere Vitaly Lagutenko, progettista capo del partito dal 1956, progettò e testò il processo di costruzione su larga scala e industrializzato, facendo affidamento su impianti di pannelli di cemento e un rapido programma di assemblaggio che permetteva ad una squadra di operai di costruire un palazzo di cinque piani in sole due settimane. Nello stesso periodo, l’istituto di Lagutenko pubblicò il progetto K-7, un edificio prefabbricato a 5 piani che venne definito come Kruscevka, prendendo il nome dal suo promotore Nikita Kruschev. L’incedibile versatilità di questo progetto permise immediatamente agli arcghitetti di progettare edifici i quali piani superassero di granliga i cinque previsti dal progetto originale, inoltre per lo stesso motivo essi potevano essere costruiti ovunque e in varie dimensioni. Una volta confermato il progetto venne distribuito nri vari distretti dell’Unione, e centinaia di migliaia di unità di Kruschevka furono fabbricate in brevissimo tempo e dietero una dimora a molti sfollati o a lavoratori che necessitavano un’abitazione per la famiglia che rappresentasse un buon compromesso fra costi e spazi abitativi.

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Il designe delle Kruscevka era estremamente ridotto al minimo se non inesistente: tutto era ugaule e ripetutto all’infinito, sia nella stassa facciata di un palazzo sia all’interno di un quartiere. I colori delle case non esistevano, tutti i palazzi venivano costruiti con i prefabbricati di cemento senza essere dipindi in alcuna maniera in quanto questo avrebbe significato un aumento dei costi i queli furono sempre mantenuti al minimo. Viene infatti stimato che nei primi anni di il governo sovietico spendesse circa 35 rubli dell’epoca, equivalenti a 200 euro odierni, ogni anno pro capite per la produzione di nuove abitazioni. Dal 1957 in avanti infatti le principali città dell’unione sovietica registrarono una rapida ascesa di grandi complessi abitativi in aree prima disabitate, boschive o pianeggianti

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situate principalmente in periferia. Questi nuovi agglomerati residenziali furono costruiti su larga scala con la previsione anche di edificare in contemporanea scuole, asili negozi e altri edifici essenziali per garantire ai cittadini i servizi basilari. La spinta decisiva al cambiamento e all’espansione dell’edilizia in unione sovietica avvenne quando si iniziarono a produrre in maniera estesa i modelli prefabbricati in calcestruzzo. Le autorità adattarono questo approccio con uno scopo ben preciso ossia quello di standardizzare i pannelli in modo da poterli spedire in tutto il vastissimo territorio dell’Unione Sovietica e di semplificare e velocizzare le operazioni di montaggio oltre che chiaramente a distribuire i costi non solo di realizzazione ma anche di trasporto e di manodopera, in quanto le ore che essa


impegava sulla costruzioone di una singola unità erano alquanto ristrette. Si stima difatti che queste tecniche volte al risparmio salvarono alle casse sovietiche in termini moderni quasi 8 miliardi di euro annui. In conseguenza a boom edilizio il settore industriale sovietico si espanse ad un ritmo esponenziale portando lo stato a fondare a metà degli anni sessanta oltre 2 mila impianti moderni e meccanizzati dedicati interamente alla produzione di componenti prefabbricati in cemento armato, un settore che all’epoca vantava una produzione di circa 3.500 milioni di rubli corrispondenti approssimativamente a 56 miliardi di euro. A causa però dei costi così ristretti le condizioni delle abitazioni non erano sempre le migliori, ma nei primissimi anni l’idea di poter garantire ad ogni singolo cittadino

un’abitazione che si presentava fra l’altro in forma uguale da un’unità all’altra, era estremamente allettante e seguiva alla perfezione quelle che erano le politiche e le ideologie che girano intorno al comunismo. Questi ideali infatti aspiravano ad una società piatta che possa dare le stesse possibilità a tutti i cittadini. Tutti possono avere una macchina, un lavoro, una paga, una famiglia, una Kruscevka, ma quanti realmente possono dire di avere una casa? Indubbiamente fra le poche persone che una vera casa la hanno, in quest periodo, vi sono coloro che lavorano nei vertici del partito e che tanto professano ideali di uguaglianza ma le quali politiche non fanno altro che aumentare sempre di più la disparità che vi è fra l’alta società borghese sovietica e i milioni della classe operaia.

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Una volta placatosi il forte entusiasmo iniziale, i nuovi blocchi abitativi divennero oggetto di molte critiche da parte dei cittadini sovietici e anche, inevitabilmente degli osservatori stranier,i soprattutto per la qualità e il design degli appartamenti. Anche i residenti iniziarono a lamentarsi sia per le dimensioni inadeguate delle case che per l’attrezzatura delle cucine, per gli impianti idraulici rudimentali, ingressi sottodimensionati e la metratura ridotta delle stanze. Gli ingegneri e gli architetti sovietici tuttavia erano fiduciosi del fatto che gli anonimi casermoni come furono chiamate da alcuni media stranieri alla lunga sarebbero entrati a far parte della mentalità sovietica scavalcando in termini di benefici le abitazioni convenzionali in mattoni che si trovavano in largo uso in occidente. Oggi possiamo affermare che questa tipologia di costruzione è entrata indubbiamente parte importante della cultura e della società societica ma per ben altri motivi rispetto a qualli indicati dagli ingegneri del partito: questi palazzi sono infatti diventati il simbolo del grande malessere comunista sovietico rappresentando i concetti di standardizzazione, sofferenza, inefficenza e abbandono in un colpo solo.

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La standardizzazione anonima degli edifici era un altro punto fondamentale riguardante le Kruscevka. Nonostante il partito non fosse contrario a questioni come il decoro o la bellezza, il suo obiettivo principale era legato a fattori di praticità come la capillarità con cui distribuire questo tipo di edifici e la possibilità di offrirli al maggior numero possibile di abitanti data la promessa effettuata dal partito di garantire una casa a tutti i cittadini sovietici. Un ulteriore obbietivo del regime era quello di dimostrarsi all’altezza degli standard occidentali: se in europa e in america i governi

costruivano case popolari anche l’Unione Sovietica comunista doveva essere in grado di farlo e, in aggiunta, in maniera migliore. Questi obiettivi furono però tentati di essere raggiunti utilizzando la filosofia del minimo sforzo-massimo risultato che si dimostrò fallimentare a causa principalmente delle limitate risorse economiche disponibili. Le case sovietiche avevano inoltre molto da invidiare alle altre case popolari costruite dagli stati occidentali fatto che veniva spesso sminuito e negato dai vertici del partito centrale il quale spostava l’aattenzione su un ulteriore aspetto.

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Esso intendeva infatti sotolineare l’inesistenza della proprietà privata e il fatto che era il governo centrale ad essere il proprietario di tutti quegli immobili. Nel corso degli anni seguenti al dopoguerra gli investimenti per la costruzione delle Kruscevka aumentarono in maniera costante e vennero inoltre costruiti palazzi sempre più altri a causa del boom delle nasite che si sviluppò all’interno dell’Unione Sovietica nel corso degli anni ‘60 e che aumentò di conseguenza anche la densità abitativa. Arrivarono così palazzi in cemento con sempre più piani fino ad arrivare a sedici.

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Un’ulteriore grande conseguenza che lo sviluppo in massa che questi particolari palazzi portò fu la crazione di quello che potrebbe essere definito come panorama sovietico: chilometri quadrati di periferie, grandi centri abitati e perfino intere città costruite da zero, assunsero ben presto un aspetto tremendamente identico e monotono al suo interno. Ogni via che si calpesta è uguale alla quella a fianco e così via per isolati, i parchi costruiti fra questi palazzoni hanno un aspetto cupo e sono anch’essi costutuiti di grigio cemento. Ogni palazzo sembra la brutta copia di quello che è situato

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a lui di fiancoha di fianco, tutti i palazzi presentano lo stesso grigio cupo e piatto, ogni palazzo ha le stesse finestre, delle medesime dimesioni e forme ripetute per righe e colonne. I palazzi visti da lontano si mischiano l’uno con l’altro e creano quello che sembra enorme pattern che si ripete all’infinito. Addirittura è possibile osservare i punti dove le lastre prefabbricate di cemento iniziano, dove finiscono e dove si intersecano con la successiva, la precedente, quella che sta sopra ad essa e quella che vi sta sotto, tutte uguali l’una all’altra e disposte anche qui in maniera ripetitiva,

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Quando si pensa poi che queste lastre di cemento costituiscono delle abitazioni il tutto assume un significato ancora più forte e inquietante. Per chi abita questi palazzi e questi quartieri non deve essere facile accettare l’idea che qualche milione di persone vive in un appartamento e in un palazzo identico al proprio millimetro per millimetro. Dopotutto il fatto che le stesse milioni di persone condividono una medesima sofferenza non fa altro che alimentare il concetto legato alla sofferenza della società post sovietica e alla plasmazione del concetto di toska.

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Le Kruscevka sono ancheun esempio della campagna di sfruttamento di qualsiasi tipo di risorsa da parte del Partito Comunista e in questo caso lo sfruttamento riguarda la manodopera: i cittadini lavoratori nelle industrie sovietiche erano infatti costretti a vivere in questi ambienti così angusti e che costavano però poco al regime. Questi palazzi grigi ripetuti all’infinito sono comunque entrati in maniera estramamente radicata all’interno della società e della cultura sovietica divenendo uno dei simboli più rappresentativi di questo periodo storico.

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Russian texture

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Georgean pattern

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A partire dagli anni sessanta il reddito dei cittadini dell’Unione, specialmente nelle zone di Mosca e San Pietroburgo, che all’epoca si chiamava ancora Leningrado, aumentarono a sufficienza da generare una richiesta di alloggi più confortevoli e ampi. Da parte di alcune fasce benestanti, o comunque di classe media della popolazione, il salario medio mensile alla fine degli anni sessanta era di 103 rubli, cifra considerevole se confrontata ai dati degli anni precedenti. Questo legggero arricchimento della classi medio-alte permise ad esse si depositare il 30-40% del loro stipendio nelle casse dello stato, il quale era proprietario degli immobili, e aveva così la possibilità di recuperare in parte i soldi investiti dalla costruzione di essi e di finanziarne di nuovi. Nacque così un circolo virtuoso che

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fruttò economicamente al sistema aumentando gli investimenti nell’edilizia fino allo smantellamento dell’Unione Sovietica ad inizio anni novanta. Tuttavia il sistema di edificazione subì nel corso degli anni diversi tentativi di modifica, dimostratisi sempre fallimentari in quanto le idee portate in campo che si dimostrarono sempre troppo costose in fase realizzativa e in alcun modo convenienti finendo così accantonate e mai effettuate. L’unico cambiamento significativo si ebbe nell’aumento dei piani di palazzi che divennero sempre più alti e composte da sempre piu piani. Va detto che nonostante una monotonia di base era possibile fra le varie repubbliche sovietiche vedere qualche differenza di stile e di progettazione di alcune componenti come porte, mobilio, e soprattutto finestre.


Uno dei tanti curiosi paradossi che hanno colpito le città e le periferie delle città sovietiche composte dalle Kruscevka era quello che vede enormi palazzi di oltre dieci piani essere eretti nel bel mezzo del nulla o all’interno di qaurtieri la quale altezza media degli edifici è assai più bassa. Sarebbe curioso immaginare che questo noi sia un errore di progettazione ma che si in realtà un qualcosa di voluto, un atto che potesse permettere a quell’ambiente e a quel paesaggio così piatto e monotono di poter cambiare per un attimo. L’enorme muro creato dalle file infinite dei palazzoni grigi rapresenta inoltre in se il paradosso più grande che si manifesta in chi osserva tutto ciò che è legato al periodo storico nel quale l’Unione Sovietica dominava una grande porzione di cartina geografica: si tratta del fascino, di quella curiosità mista a tentazione e paura che attira i nostri occhi a fissare e a non distogliere lo sguardo nei confronti di qualcosa che apparentemente potrebbe essere descritto come superfluo e privo di ogni forma di significato.

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Kommunalki

Prima dell’avvento delle Kruscevka una forma di abitazione che si basava su principi simili era nata già prima della seconda guerra mondiale, durante il periodo Stalinista e che presero il nome di Kommunalki. La loro diffusione fu tuttavia in scala molto ridotta rispetto proprio alle Kruscevka. Le kommunalki ossia appartamenti in condivisione comparvero dopo la Rivoluzione Russa del 1917, quando tutte le abitazioni vennero statalizzate, e il potere cominciò a insediare negli appartamenti dei ricchi abitanti delle città dei nuovi inquilini. Nel disastroso periodo degli anni venti la gente arrivava nelle grandi città in cerca di sostentamento, di un modo per sopravvivere. Se trovavano impiego in una fabbrica o in un ente statale, i nuovi arrivati potevano farsi assegnare una stanza in un appartamento condiviso, per una superficie di circa dieci metri quadri per ciascun adulto e cinque metri quadri per ciascun bambino (gli standard cambiarono più volte nel tempo). Persone che fino a ieri erano state contadini diventavano coinquilini degli intellettuali pre-rivoluzionari; le cuoche condividevano l’uso della stanza da bagno con i professori universitari. Benché una simile vita non fosse facile, essa corrispondeva però all’ideologia ufficiale, che non ammetteva distinzioni di classe. Accanto alla porta di ingresso dell’appartamento vi erano diversi campanelli con i cognomi degli inquilini. Alle pareti dell’ingresso erano appesi tanti contatori della luce: ciascuno degli abitanti pagava la propria bolletta dell’energia elettrica. Non c’era un appendiabiti o un armadio comune: gli occupanti dell’appartamento tenevano i soprabiti e le scarpe ciascuno nella propria stanza; sul corridoio comune si affacciavano le porte di ingresso alle singole stanze. Davanti a ciascuna di esse era steso uno zerbino. Nel corridoio c’erano biciclette e sci, alla parete era appeso un telefono comune (erano molto rari i telefoni privati nelle stanze). Nel bagno c’erano tanti catini per il bucato, e tante saponette: gli abitanti facevano attenzione a che ciascuno di loro usasse il proprio sapone, e

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anche la propria tavoletta personale per il water. In una La pulizia delle aree comuni veniva svolta da tutti gli abitanti dell’appartamento a turno, in base a un rigoroso calendario che veniva appeso nel corridoio, in modo che fosse visibile a tutti. Si faceva la colletta per le riparazioni dell’impianto elettrico, di quello idraulico e per le altre necessità comuni. Non partecipare alla causa comune significava mettersi in contrasto con gli altri abitanti dell’appartamento, e questo atteggiamento poteva rendere la vita nella kommunalka insopportabile. Negli anni precedenti allo scoppio del secondo conflitto mondiale i tassi di costruzione di nuovi edifici furono divennero fra i più bassi mai registrati in tutta la storia dell’Unione in quanto la quasi ttalità dei fondi era stata deviata negli ivestimenti bellici. Senza grandi fondi a disposizione le autorità cittadine furono costrette a ridurre lo spazio abitativo che veniva dedicata una singola persona da circa dieci metri quadri a cinque. Le abitazioni delle grandi città che si stavano formando erano dei veri e propri alloggi collettivi che obbligavano gli inquilini a condividere la quasi totalità dello spazio abitabile all’interno,compresi i servizi di base come la cucina e il bagno una necessità derivante dal fatto che i pochi appartamenti costruiti in epoca stalinista si trovavano in città a forte espansione dove la pressione demografica soffocava la domanda di abitazioni. Ciononostante l’austero e funzionale design dei pochi edifici staliniani si adattava perfettamente all’ideologia sovietica la quale aveva come obiettivo principale quello di fornire nel tempo più rapido è possibile. Le Kommunaki potevano essere dividere essenzialmente in due tipologie: le strutture più piccole e diffuse erano composte da anonimi blocchi di cemento armato ed erano destinate alla classe operaia, e quelle più grandi in mattoni e ben arredate che erano principalmente dedicate all’elite del partito comunista. Tuttavia le Kommunaki dopo una rapida espanzione iniziale subirono nel corso degli anni una rapida diminuzione di produzione a causa degli alti costi di produzione a nche in seguto alla riduzione delle dimensioni degli spazi abitativi. Per il governo era inltre insostenibile la produzione delle Kommunalki in mattoni la quale si interruppe quasi immediatamente e diede spazio a costruzioni in forma privata da parte delle famiglie più ricche e che si dimostravano finanziatori diretti del partiro. Nonostante il regime comunista sovietico nel corso di questi anni era ancora agli inizi, si dimostrò subito fermo su alcuni ideali che poi si ripresentaro in forma identica anche nel corso degli anni successivi alla secona guarra mondiale, proprio come quello di donare a tutti i cittadini un’abitazione che costasse poco alle casse del governo ma che potesse rappresentare una dimora quantomeno sicura. Tuttavia l’urbanistica sovietica si arrestò bruscamente durante con l’inizio del secondo conflitto mondiale che al contrario distrusse quanto costruito negli anni precedenti.

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vivere in una scatola una scatola d


di cemento duro

duro freddo grigio


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Come i topi I grandi blocchi residenziali erano stati in realtà concepiti unicamente come dormitori. Vi era difatti l’idea di far socializzare il più possibile chi abitava nei palazzi attraverso le cucine comuni o gli spazi condivisi. Questo era un elemento su cui puntava tanto il regime com unista che si immaginava che tra il lavoro in fabbrica o nelle miniere e due chiacchiere formali nell’ingresso del condominio la giornata potesse finire in fretta per i cittadini sovietici, dopotutto che senso avrebbe avuto nascondersi tra quattro mura come degli asociali dopo ore di sfinente lavoro? L’effetto che si ottene fu però molto spesso l’esatto opposto, la trendenza di chiudersi, di nascondersi è presto nata all’interno della personalità sovietica. Le ore passate in casa erano molte nonostante un

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un tipico appartamento del genere poteva arrivare ad un massimo di trenta metri quadri con cucine di soli 6 metri quadri. La scarsa metratura delle stanze andava inoltre ad accompagnare altri problemi quali l’anonimo design degli alloggi, l’inadeguata attrezzatura delle cucine, gli impianti idraulici rudimentali e ingressi sottodimensionati. Tuttavia vivere in spazi così limitati per una famiglia sovietica era del tutto nella norma, difatti all’epoca di Krusciov circa 60 milioni di persone ottennero un posto in una Kruscevka. Le condizioni di vita all’inerno dei palazzi erano spesso ridotte ai minimi termini e in una stanza si poteva arrivare a dormire fino a cinque persone. La sofferenza e l’inadeguatezza erano i sentimenti principali che si provavano vivendo qui.

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Anche gli spazi che sarebbero dovuti essere destinati alla vita conciciale erano quasi sempre estremamente ridotti e poco accoglienti, non invogliando in alcun modo gli abitanti delle Kruscevka a passare qui molto tempo. Alcuni palazzi di costruzione sovietica si imostrarono anche di scarsa qualità costruttiva e nel corso degli anni inizairono piano piano a decadere e perdere letteralmente pezzi di quelle terribili lastre di cemento prefabbricate.

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Tutto questo è a dir poco assurdo. “Avrai una casa dicevano” e questo è quello che ho: una stanza piccola e angusta dove per spostarmi devo disturbare altre tre persone. Se devo andare in bagno la notte non ci vado, nessuno ci va perchè nessuno vuole svegliare nessuno. Il sonno è sacro e va tarttato come fosse oro, le ore di lavoro spezzano laschiena e il morale, dormire almeno è una delle poche cose che non porta rogne e problemi. Almeno a letto si può dire di stare relativamente tranquilli e senza grossissimi pensieri per la testa.

Quando arriva il momento di preparare da mangiare la situazione diventa invece piuttosto critica: la cucina non è in cucina, quando si fa da mangiare la cucina è in camera da letto, è in bagno ed è perfino negli appartamenti vicini. E pure la cucina dei vicini è a sua volta nel nostro appartamento quando fanno da mangiare, e loro fanno da mangiare negli orari più strani. E poi quell’odore di cucina è sempre ovunque, sempre forte e sempre nauseante, non va mai via, anche perchè c’e sempre qualcuno nel palazzo che fa da mangiare.

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Grand Hotel Donesk

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I bordi delle città

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Molti centi abitativi costruiti ai tempi dell’Unione Sovietica sono stati eretti ai bordi più estremi delle città, dove finisce il tutto ed inizia in niente più assoluto. Inoltre molto spesso alcune città sovietiche sono cotruite proprio nel bel mezzo di questo niente più totale il che rende il tutto ancora più suggestivo e netto. L’atto di incredibile urbanizzazione in questi casi è stato sviluppato in mezzo ad paesaggi spesso piatti e che niente hanno da offrire in centinaia di chilometri di terra fredda

e fangosa. Fino a che si rimane nel bel mezzo delle arre urbanizzare questa estrema contrapposizione non è visibile in alcuno modo, ma appena ci si sposta ai limiti delle periferie si inizia ad osservare questa danza incredibile che vede il grigio cemento mischiarsi ed alternarsi col bianco della neve o il marrone fango della terra che circonda in un certo senso quelle monotone macchie grigiastre composta da palazzoni e strade, e dove tutto è cosi egualmente triste, deprimente,

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A volte è forunatamente possibile vedere anche degli sprazi di natura, di alberi, e di vegetazione la qaule affianca timidamente le strade e gli edifici. Osservando questo contrasto fra palazzi tutti uno di fianco all’altro e campagne vuote e desolate a circondarli vengono in mente una serie di corsiderazioni più o meno curiose. Una di esse si propone sottoforma di questito e si domanda per quale strano motivo gli architetti sovietici non si siano presi anche solo poco spazio fra un palazzo e l’altro ma li abbiano invece posizionati così vicini. Verrebbe da pensare che essi pensavano che questa enorme espansione non si sarebbe mai fermata e che le città societiche si sarebbero piano piano espanse così tanto da arrivare atoccarso l’una all’altra e da creare così un’enorme città, un’enorme comunità simbolo dell’ideale comunista.

La spegazione reale sta sepre nello stesso punto: i costi. All’epoca del boom edilizio anche un centimetro in eccesso di asfalto in più avrebbe rappresentato dei costi inutili ed eccessivi per il regime. Tuttavia anche le parti più periferiche delle città erano, e sono tutt’ora, popolate da migliaia di persone che abitano quei palazzi grugi e che si muovono come ombre scure in mezzo a quella neve così bianca che caratterizza la ogni città, periferia e campagna sovietica che si rispetti. Questo bianco così persistente è spesso esso stesso componente fondamentale nel sentimento di toska che si sviluppa nei meandri della pance delle popolazioni delle aree ex-sovietiche. Nelle periferie più estreme è inoltre possibile osservare una certa quantità di abbandono di ogni genere, palazzi, automobili, treni lasciati a marcire a se stessi.

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Questo incredibile abbandono non viene mai cercato di essere recuperato o valorizzatoto in qaulche maniera, e viene spesso vandalizzato o utilizzato per fini non propriamente ortodosi. Un incredibile aumento di edifici abbandonati si ebbe proprio in seguito allo smantellamento dell’Unione Sovietica, che cercava comuqnue di mantenere attive quante più attività con finanziamenti statali anche se esse fruttavano in realtà cifre a dir poco esigue. Con l’arrivo della proprietà privata e con la caduta del regime, che non evrebbe quindi più potuto garantire il sostegno anche alle attività meno profique tutte queste furono costrette a chiudere e di conseguenza i negozi furono i primi ad essere abbandonati. Poi fu la volta degli edifici pubblici che al tempo dell’Unione erano diffusi in maniera eccessiva. In seguito fu lentamente il turno di alcune Kruscevke, delle più decadenti e mal messe in realtà perchè ancora aggo la stragrande maggioranza di esse è ancora in piedi e ancora oggi svolge la sua sovietica mansione. In seguito, grazie

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all’aumento dei salari, fu la volta delle automobili e degli oggetti da mobilio. Però, oltre all’abbandonoil quale suscita in chi lo osserva sempre un sentimento di insicurezza dovuto ad un qualcosa che se essendo abbandonato ha fallito nella sua funzione o ha concluso il suo ciclo di vita, nelle periferie sovietiche è possibile osservare qualcosa che forse è ancora peggiore. Si tratta di quelle strutture o frammenti di esse che sono state abbandonate perchè la loro costruzione non è mai stata conclusa e la loro funzione non si è mai verificata. Anche questa tipologia di abbandono suscita insicurezza, ma lo fa in maniera ancora più radicata e profonda. In relazione a questo fatto potrebbe essre messo in atto un parallelismo con il progetto comunista tentato di attuare dal Unione Sovietica: il progetto non è mai stato portato a termine e non ha mai raggiunto il suo reale obbiettivo; le macerie disastrose che il tentativo di realizzazione sono ancora ben erette e ben visibili nelle società e nei luoghi dove questo progetto ha tentato di operare.

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Un altro elemento caratterizzante le periferie sovietiche sono i suggestivi tubi del gas che si districano fra una casa e l’altra, fra una vie e quella ad essa successiva. A partire dalle periferie è anche possibile osservare quealche casa di campagna che cetamente suscita più bellezza rispetto alle Kruscevka. Nelle periferie è possibile incontrre anche grandi complessi industiali le quali ciminiere sfiatano senza sosta. Nelle periferie è anche possibile osservare pallazzi e costruzioni diverse, spesso più originali e qualche volta anche colorate. Nel corso degli ultimi anni di Unione Sovietica sorse infatti l’idea di dipingere alcuni dei palazzi grigi di colori estremamente accesi e sgargianti. Il progetto non andò poi in porto a causa della solità quastione economica, ma alcuni comunque in era post sovietica decisero di mettere in campo questa idea e di coprire il cemento grigio di vari colori scelti dai cittadini. Questa particolare idea è stata accolta con piacere dalla popolazione che quantomeno avrebbe avuto la possibilità di vivere in un brutto palazzo angusto am che non era però più grigio ma giallo, verde o arancione. Una delle città dove questo progetto è stato attuato è Story Oskol dove in determinati quartieri ad alcuni palazzoni è stato donato finalmente un nuovo abito e un suggestivo ed originale aspetto.

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Zatyshok


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Il termine ucraino Zatyshok letteralmente descrive un luogo silenzioso e protetto dal vento. In senso lato descrive un luogo impercettibile, nullo e desolato e al quale nessuno attribuisce nessun interesse e importanza se non chi in quel luogo ha una dimora e una famiglia.

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I paessaggi del Bacino di Donec

Diverse decine di migliaia di morti e feriti, oltre un milione di profughi. La guerra civile del Donbass ha letteralmente cancellato dalla mappa intere città e villaggi, macchiando di sangue il suolo del continente europeo per la prima volta nel ventunesimo secolo. Strano destino per due popolazioni quella russa e quella ucraina che fino al 1991 facevano parte della stessa nazione, l’URSS. Tanti villaggi distrutti e resi al suono come Spartak un paesino situato a 3 km a nord di Donetsk, capitale dell’autoproclamata omonima Repubblica Popolare; prima della guerra vi vivevano circa 5.000 abitanti, oggi solo 45. Dall’inizio del conflitto, per via dei combattimenti, a Spartak sono morte circa 210 persone mentre non esiste una cifra precisa del numero dei feriti. Quasi tutti i residenti sono fuggiti in Ucraina, alcuni a Donetsk, alcuni in Russia, mentre altri sono stati trasferiti in dormitori gestiti dal governo separatista. Oggi il Donbass sembra un luogo supersite ad un olocausto nucleare in cui gli abitanti

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si muovono come ombre. Tra le macerie delle villette a schiera e lungo i viali deserti vagano branchi di cani randagi, mentre il silenzio spettrale è rotto solo dal rumore delle placche mosse dal vento e dai rumori della guerra che qui e in tanti altri luoghi lungo il prima linea, pende con tutto il suo orrore. Il freddo e la neve fanno la loro parte mentre il fango ha ormai preso il sopravvento su gran parte delle strade e delle vie. Si tratta di una situazione tragica che vede in realtà centinaia di villaggi e cittadine ridotti in macerie e i quali abitanti sono state decimati, dove la vità è limitata ed essa deve adattarsi ad ogno tipo di situazione e dove ogni spazio è sfruttato in ogni suo centimentro. Le case diventano stalle, le macerie diventano dimore, parchi giochi e ripostigli, le auto sono diventata merce rara e la benzina per farle camminare è introvabile. Il tutto, mischiato alla paura all’angoscia crea un ambiente vuoto, desolato, che fa traspare emozioni tremendamente fredde e prive di ogni forma di positività.



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Una madre cammina in una strada non asfaltata insieme ai due fugli

Panni appesi ad asciugare al freddo fra le macerie di una casa bombardata


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Una vecchia insegna lasciata a decadere e ad essere erosa dalle intemperie

Un maiale ripreso in uno dei piccoli allevamenti fai da te al di fuori di un’abitazione


Le terre del Bacino di Donec sono tendenzialmente terre umide e fredde, certamente pocco accoglienti a chi non è abituato a questa tipologia di ambienti. D’inverno tutto si ricopre di bianco, un bianco così puro e cristallino che va a mischirsi con il marrone sporco e fangoso della terra. Una rappresentazione della purità più assoluta quale la neve si mischia al fango sporco di una terra così insangunata e di terreni rimasti incolti ormai da anni e abbandonati a se stessi è la dimostrazione che forse vi è ancora uno spiraglio di speranza per le popolazioni che queste terre le abitano e che qui hanno fontato la loro vita e la loro famiglia. Ad osservare questi luoghi spiragli non sembrerebbero esserci, tutto sembra così piatto e così fragile, la vulnerabilità dell’ambiente è palpabile ed essa va a scintrarsi con l’estrema determinazione delle

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donne e degli uomini che qui hanno deciso di rimanere e ancora una volta di vivere. Il sole è merce rara qui, specialmente in inverno dove una tavola grigia fa costantemente da tella alle scie formate da bombe ed esplosivi che vi lasciano sopra i loro segni di colore rosso fuoco. Un conflitto non poteva che svolgersi in questo luogo così brullo e spoglio, anche se forse ogni posto in realtà rimane in stretta sintonia con quello che gli accade attorno e si muta in virtù di esso. Oppure, osservazione meno profonda ma più lucida, affermerebbe che è la nostra percezione del luogo che cambia in virtù di ciò che qui accade: se non fosse un teatro di guerra probabilmente agli occhi delle persone il Donbass risulterebbe un luogo accogliente e caloroso, certamente con le sue particolarità, ma è quindi la guerra rende che rende tutto più negativo.



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Un bianco assordante Un elemento estremamente costante nei paesaggi della quasi totalità dei territori ex-sovietici per buona parte dell’anno è la neve. Una neva che cade fitta per giorni e che rimane nell’ambiente per lunghi mesi invernali. Questa neve così bianca, spesso si va a mischiare con un cielo grigio chiaro e talvolta con uno strato importante di nebbia, elementi che messi insieme crano

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un ambiente nel quale il colore bianco è estremamente ridondante. Questo bianco così pulito e puro, va spesso a coprire parte delle strutture in cemento che il comunismo ha costruito nel corso dei decenni, le quali rappresentano a loro volta un elemento costante nei paesaggi post sovietici e i quale colore grigio chiaro, contribuisce a rendere tutto così piatto e all’apparenza uguale.


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Kopanka


Копанка

Un Kopanka è un qualcosa scavato nel terreno: un buco, una cava, un fosso, un lago o una miniera. In particolare in ucraino Kopanka in passato era utilizzato per indicare un luogo di estrazione illegale di carbone, oggi indica le miniere cosiddette indipendenti o private.

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Di Kopanka in Ucraina orientale ce ne sono veramente tante. Sono miniere, grandi o piccole che nel corso dell’ultimo secolo si sono piano piano formate e diffuse i seguito alla scoperta di numerosi bacini carboniferi nell’area. Queste miniere sono spesso state costruite in maniera rudimentale e in condizioni che non certamente mettevano la sicurezza di chi lavorava al loro interno al primo posto. Nonostante ciò le Kopanka sono sempre state uno fra i pochi lavori disponibili in queste aree soprattutto nelle campagne, che si sono sempre più popolate di minatori e delle loro famiglie, encora oggi i minatori a lavorare nelle Kopanka sono moltissimi.

Dallo scoppio del conflitto nell’area del Donbass nel 2014 una pesantissima crisi economica si è abbattuta nell’Ucraina orientale dove milioni di persone hanno abbandonato l’area e milioni di attività si sono trovate costrette a chiudere. Così, nonostante l’economia del luogo fosse fino a quel momento in leggera crescita, nel giro di qualche mese il lavoro di anni è stato demolito e molti impieghi rudimentali e poco sicuri che stavano via via scoparendo tornarono in voga. Uno fra questi è proprio il lavoro da minatore nelle numerose Kopanka del luogo che, dopo lo scoppio della guerra, interruppero il processo di messa in sicurezza che stavno compiendo.

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KOPANKA


Quello che accadde fu che chi decise di continuare ad abiatare queste aree, una volta perso il lavoro, si vedeva davanti due opzioni: arruolarsi nell’armata separatista o essere assunto in una Kopanka. In entrambi i casi la paga è piuttosto bassa e i rischi di rimanere gravemente infortunati o addirittura di perdere la vita sono invece altissimi. Furono però in molti a scegliere la seconda opzione in quanto almeno garantisse quasi sempre un rientro giornaliero nella propria dimora e non poneva inoltre dinnanzi alla costrizione di assistere quotidianamente a scene estremamente cruenti, scene di morte e crudeltà, di sofferenza e di odio incondizionato.

Nella foto è ritratto un piccolo centro abitato nei pressi della cittadina di Torez situata nell’Oblast di Donesk in pieno territorio separatista e attorno alla quale sono sempre state presenti numerose Kopanka. Anche qui come in tutta l’area, dal 2014 in poi le miniere si sono ripopolate di uomini e il tasso di mortalità sul posto di lavoro è arrivato a toccare picchi altissimi, il tutto in un contesto di guerra e di estrema poverta e precarietà. Se si immagina poi di vievere questa situazione senza nemmeno poter vedere coi propri occhi il tutto diventa ancora più frammatico e sembra essere la trama di un film. Ma questo non è in realtà la vera storia di Sasha.

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Sasha è un uomo di 31 anni nato e cresciuto nella cittadina di Torez che a 11 anni ha perso la vista a causa di un grave incidente in casa. Sasha è figlio di una famiglia disagiata ma lui ha sempre cercato di lavorare nonostante la sua disabilità, e per anni è stato impegato in un’azienda zootecnica. Questa però, acausa del confilitto è stata chiusa lasciando tutti i lavoratori disoccupati. Fra di loro c’è Sasha il quale rimase senza impiego per molto tempo data la scarsa affidabilità che un cieco come lui poteva portare in un posto di lavoro come una miniera. Successivamente, grazie alla sua fama di ottimo lavoratore, conobbe Ildar, proprietario di una kopanka, che dopo un rapido colloquio dove rimase colpito dalla grande forza d’animo e volontà di Sasha, decise di assumerlo. Da allora, Sasha va

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alla miniera tutti i giorni, alle 6:30, guidato da suo padre anche lui minatore, per i trenta minuti di camminata che separano casa sua dalla kopanka. La miniera dove lavora Sasha, per otto ore al giorno, è una fitta rete di tunnel sotterranei che non sono mai più alti di un metro e mezzo e in alcuni punti l’altezza è addirittura inferiore ad un metro. Questi tunnel corrono sotto un piccolo stagno naturale e raggiungono una profondità di 270 metri. Ciò significa che in molti luoghi la miniera è allagata, il che rende ancora più difficile per i minatori raggiungere la i vari luoghi di estrazione.Sasha è capace di scendere dal pozzo minerario con la stessa rapidità e agilità dei suoi colleghi: nonostante la sua grave disabilità, ha infatti imparato a navigare con estrema sicurezza nel labirinto sotterraneo, a evitare gli ostacoli ed a schivare i pericoli posti dalle travi irregolari del tetto.

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Dopo una lunga convivenza Sasha ha sposato Evgenija, la quale aveva due figli, Valerija e Alexander da un precedente matrimonio. Un anno più tardi è nata la sua piccola Anja, prima figlia di Sasha. Al momento dello scoppio del conflitto anche la moglie lavorava nella stessa azienda zootecnica dove era occupato Sasha e anche lei rimase disoccupata. Nonostante ciò entrambi si misero subito al lavoro iniseme per trovare una soluzione che potesse permettere ai propri figli di continuare a vivere in maniera dignitosa. Trovare lavoro per Sasha però è stato molto complicato a cusa della sue ciecità che spaventava anche Ildar, proprietario della kopanka dove è assunto Sasha, che temeva si fosse potuto perdere nell’infinito

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labirinto sotterraneo, senza mai fare ritorno. Nel corso del tempo però, Sasha, ha imparato a muoversi in ogni angolo della miniera, e grazie alla sua mappa fatta di un flusso continuo di sensazioni è capace di raggiungere rapidamente il centro della miniera. In particolare Il compito di Sasha è di versare con una pala il carbone, che è stato fatto a pezzi con un martello pneumatico, in serbatoi d’acciaio che lo porteranno poi in superficie. Posizionato in una cavità alta meno di quattro metri e mezzo, circondato dal rumore assordante dei trapani pneumatici, coperto di polvere di carbone e immerso nell’oscurità totale, Sasha sembra vedere amplificata ancora di più la sua ciecità. Per otto ore lavorative giornaliere la pagalario settimanale è di circa 5000 rubli, corrispondenti circa a 75 euro, che

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Sasha va ad aggiungere al sussidio di invalidità di 4000 rubli. Una squadra di 4 lavoratori può produrre fino a 5 tonnellate al giorno, che vengono immediatamente immesse sul mercato locale. Gli incidenti sono estremamente frequenti, come è noto nonostante non siano disponibili statistiche ufficiali; allo stesso modo, non è disponibile la documentazione relativa all’incidenza di malattia e mortalità, le quali stime raccontano di dati ben al di sopra delle medie nazionale il tutto a causa delle scarsissime condizioni lavorative dove la sicurezza della minierà rappresenta un fattore tutt’altro che prioritario. Tuttavia, le kopanka rimangono l’unica fonte di reddito per migliaia di famiglie i quali padri decidono di prendere tale rischio ogni giorno pur di dare da mangiare ai propri figli e mogli.

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La ciecità per Sash rimane comunque un grande limite e un unteriore motivo di sofferenza. Proprio per questo la moglie Evgenija isieme ad Alexander, padre di Sasha (ripresi in foto) si sono impegnati nel corso degli anni per potergli dare una possibilità di speranza e lo hanno fatto visitare numerose volte in cliniche e ospedali russi. Secondo gli specialisti che lo hanno visitato nel corso del tempo, la cecità di Sasha è reversibile e potrebbe essere curata con un trapianto della cornea. Di recente, Sasha ha deciso di sottoporsi a un intervento chirurgico che potrebbe aiutarlo a ritrovare finalmente la vista. Lui e sua moglie si

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sono recati alle cliniche di Fyodorov, a Krasnodar e poi a Mosca, per sottoporsi a test preoperatori. Ad allungare i già lunghi tempi che questo percorso richiede, vi è il fatto riguardante il costo che tale cura impone, il quale è piuttosto elevato in particolare per una famiglia come quella di Sasha. Infatti il loro reddito estremamente basso è alimentato da un lavoro poco sicuro e altamente rischioso, in particolare per un disabile come Sasha. Forse un giorno però, uscendo dalla miniera, Sasha potrà nuovamente sorridere insieme ai suoi colleghi e alla sua famiglia, vedendo di nuovo la luce del sole, dopo ore trascorse al buio.

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Quella di Sasha è si una storia incedibilmente drammatica, cruda e che rappresenta una realtà ignirata da molti, ma è anche solo un esempio di centinaia di altri casi che si trovano a vivere in condizioni precarie e le quali sorti sono determinate da

un conflitto in corso ormai da anni e dinnanzi al qaule spesso le autorità europee voltano le spalle e rifiutano di parlarne. Come già visto in precedenza queste incredibili storie hanno luogo in territori e in società dove mentalità e cultura sovietica

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sono spesso ancora estremamente presenti e ancora dettano spesso il da farsi. Il conflitto del Donbass non ha fatto altro che mettere in luce queste dinamiche scavandole brutalmente come il martello pneomatico di una Kopanka scava il carbone.

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Chechnya


Нохчийчоь

La Chechnya è un territorio formalmente russo situato nel caucaso al confine con la Georgia. La sua etimologia ha origine nelle lingue caucaseche ed è coposta dalle parole Che ossia “interno” e Chan che può essere tradotto come “terra” o “territorio”.

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Ufficialmente denominata Reppubblica Cecena, la Cecenia, nome con il quale è più nota a livello internazionale è un territorio caucasico che rappresenta una repubblica della Federazione Russa dove la popolazione è prevalentemente islamica e l’etnia che qui vive è da secoli estremamente legata a questa terra tanto che è appunto definita etnia cecena. La Cecenia è da sempre legata a doppio filo alla Russia e la sua è una storia fatta di periodiche ribellioni al potere centrale, sin da quando, nel 1873, entrò a far parte dell’Impero Russo. Successivamente, a seguito della Rivoluzione d’Ottobre, fu inglobata insieme al vicino territorio dell’Inguscezia, all’interno dell’Unione Sovietica con il nome di Repubblica Autonoma Socialista Sovietica Ceceno-Inguscia. Qualche anno più tardi, la Seconda Guerra Mondiale offrì ai ceceni la prima occasione per insorgere contro Mosca, sperando di poter approfittare del fianco aperto lasciato dall’Armata Rossa, impegnata sul fronte. L’obiettivo era già allora quello di ottenere la completa indipendenza, ma per queste insurrezioni i ceceni furono accusati in maniera infondata da Stalin di aver collaborato con in nazisti, pretesto mai confermato dagli storici e dagli studiosi, che permise però al governo russo di attuare una tremenda repressione che finì con la deportazione della quasì totalità delle popolazioni cecene con l’obiettivo di decaucasizzare l’area. L’episodio più grave si verificò il 23 febbraio del 1944 ed è ricordato come “Operazione Lenticchia”, dall’assonanza del nome russo del legume, chechevitsa, con quello della popolazione. In una sola notte mezzo milione di ceceni e ingusci furono deportati in Kazakistan dai militari dell’Nkvd, il predecessore del Kgb. Molti di loro morirono nel viaggio, altri furono uccisi perché opposero resistenza mentre i sopravvissuti poterono tornare nelle loro terre solo alla fine degli anni 50, in seguito alla destalinizzazione. Fu l’implosione dell’Unione sovietica a dare nuovo impulso alle spinte indipendentiste, che sfociarono immediatamente in un conflitto contro mosca Mosca. L’allora Presidente ceceno Džokhar Dudaev dichiarò unilateralmente l’indipendenza dalla Russia nel 1991, sull’onda di molte altre repubbliche sovietiche. La risposta russa non fu subito muscolare. Una legge voluta da Boris Eltsin e approvata dalla Duma nel 1992 concedeva larga autonomia a 86 entità territoriali dalla forte caratterizzazione etnica all’interno della neonata Federazione Russa. La Cecenia, però, non ritirò mai la propria dichiarazione di indipendenza e la trattativa si arenò. Eltsin ordinò di impedire la secessione, inviando nel 1994 40mila soldati nella Regione. Aveva inizio la Prima Guerra Cecena. I russi erano demotivati, mal equipaggiati e indeboliti da una catena di comando inadeguata e corrotta. Subirono una serie di sconfitte iniziali, ma grazie alla forza soverchiante presero il controllo della capitale Groznyj a febbraio del 1995. Un anno

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dopo, nell’aprile del 1996, il Presidente ceceno Dudaev fu ucciso durante un’operazione coordinata dall’intelligence militare russa, che impiegò due missili a guida laser lanciati da un velivolo per colpire la località segreta in cui si trovava. La morte del leader indipendentista favorì il successivo cessate il fuoco siglato da Eltsin e dagli altri leader ceceni, cessate il fuoco che portò poi al trattato di pace che pose fine alla Prima Guerra Cecena nell’agosto del 1996. Le prime elezioni del dopoguerra portarono alla presidenza il comandante delle forze ribelli, Aslan Maskhadov, ma il consenso di cui godeva non fu mai tale da scalzare il potere di capiclan e signori della guerra che in molte zone della repubblica costituivano l’unica autorità presente. È probabilmente questa la ragione alla base di una nuova escalation che portò il conflitto a divampare nuovamente nel 1999. Il casus belli fu offerto da alcune incursioni dei ribelli ceceni nella repubblica del Daghestan, col probabile intento di fomentare le locali istanze separatiste, insieme a una serie di attentati con esplosivi in diverse città russe, compresa la capitale Mosca. La Seconda Guerra Cecena ebbe inizio con una serie di bombardamenti aerei, finché le truppe russe non entrarono nuovamente nella repubblica ad ottobre del 1999. Meglio addestrati e attrezzati rispetto a otto anni prima, i militari di Mosca presero velocemente il controllo di tutta la Regione con il risultato però di una devastazione di enormi proporzion. Si può dire che da allora le forze militari russe non abbiano mai più lasciato la Cecenia. Gli anni che sono seguiti hanno visto un progressivo abbandono della guerriglia da parte dei miliziani e una netta pacificazione della repubblica. Nonostante questo migliaia di ex miliziani vivono ora una vita normale in Cecenia e non dimenticano di certo quello che fino a pocchi anni fa accadeva giornalente. Uno di questi è Shahruddi, guardia boschiva che, insieme alla sua famiglia, vive nel villaggio di montagna di Engenoy, uno dei villaggi interessati dal programma forzato sovietico di deportazione degli anno ‘40: la famiglia di Shahruddi è stata una delle poche che in seguito sono state in grado di tornare alle loro terre natali anche se in fatto ha lasciato una cicatrice permanente dei sopravvissuti e dei loro discendenti fra cui Shahruddi che durante le guerre ha militato in nelle milizie indipendentiste. Una volta terminate le guerre Shahruddi decise di entrare a far parte del programma che la repubblica mise in atto per tutelare la natura locale che uscì devastata dai due conflitti i quali distrussero bellezze naturali e fecero scappare milioni di animali esponendo alcune specie all’estinzione a livello locale. Ogni giorno ora Shahruddi consulta le cartine e porta con se l’arma per tutelare e non per rovinare la sua terra. Shahruddi è un uomo di poche parole ma c’è una frase che ripete spesso alla figlia: “Un animale non attacca mai per primo. Sono gli umani a farlo“.

CHECHNYA



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Poshlost


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La parola russa poshlost è di difficle traduzione, ma evoca generalmente sregolatezza, follia, eccesso e volgarità in maniera pseudo-dispregiativa. Questa parola è spesso usata per descrivere sia artisti che, in maniera generale la componente più giovane delle società post sovietiche.

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Sin dalla caduta dell’Unione Sovietica la vita all’interno delle repubbliche ex-sovietiche è quasi sempre stata difficile a causa di numerosi fattori come la situazione economica disastrata ereditata dall’Unione Sovietica e dalle enormi ferite che gli anni di regime hanno lasciato nella società. In maniera particolare le componenti più povere della popolazione hanno sempre dovuto affrontare grossi problemi in maniera autonoma in quanto i governi hanno spesso voltato le spalle dinnanzi ai bisognosi. Ancora oggi questo è un tema attualissimo e che include in maniera particolare le giovani generazioni le quali sono spesso abbandonate ed emarginate dal resto della società. Droghe come l’eroina rappresentano, sin dai tempi dell’Unione Sovietica una piaga enorme che colpisce giovani dal futuro incerto i quali molto spesso vivono in collettività in vecchie kruscevka abbandonate e che a volte colonizzano letteralmente interi quartieri. Interi quartieri di morti viventi che camminano calpestando le siringhe cadute a terra, e che di tanto in

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tanto vedono un amico andarsene per sempre. Oltre alle droghe, l’alcol è stato negli anni dell’Unione, per la quasi totalità della popolazione, il più grande detterrente nei confronti della sofferenza. Tanto quanto l’eroina anche l’alcol colpisce e uccide in maniera incondizionata tremendamente brutale. Cadere in questi oblii non è cosa rara per i giovani che crescono in certe città della Russia in particolare, le città più isolate e più dimenticate. Il governo e la società non fanno nulla per aiutare queste persone che di conseguenza non fanno altro che chiudersi in se stessi e alimentare un odio incondizionato nei confronti delle autorità e delle altre persone. Questo fenomeno accade comunque in maniera generale per gran parte dei giovani russi indipendentemente se affetti o men o da qualche dipendenza il che non aiuta ad immaginare rosee prospettive per alcune zonne dell’enorme territorio Russo le quali rischiano di vivere nell’ombra per sempre, nascoste e negate da uno stato che preferisce di dubbia democrazia e trasparenza.

POSHLOST



Molti russi sono considerati poshlost o almeno alcune delle loro azioni lo sono. La società russa è però ormai abituata a qualsiasi cosa e il termine è diventato più soggettivo negli ultimi anni. Per alcuni russi la violenza è un qualcosa di molto poshlost, mentre per moltissimi altri reprimere o imporre qualcosa con la violenza è assolutamente normale e lecito il che rispecchia tutto sommato ideali che nel corso dell’Unione Sovietica erano più che in voga. In questo concetto di giustizia non c’è solo la violenza ma anche l’odio, che spesso ne è la causa e che rappresenta anche qui un qualcosa di estremamente radicato nella società russa. L’odio verso il diverso, verso chi non la pensa come tutti pensano, odio nei confronti del passato, del futuro e del presente. Odio spesso riversato

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in violenza, botte, nasi spaccati e ferite sanguinanti. Ferite delle quali non bisogna vergognarsi ma anzi bisogna andarne fieri e mostrarle il più possibile. Perchè poshlost è anche questo, mostrare i difetti, mostrare quello che le persone pensano sia brutto, negativo e immorale. Poshlost è accentuare questo difetto per renderlo un qualcosa di positivo e che dia alla persona che ne è titolare un senso di superiorità ed un certo status all’interno della società. Una società che ha poco di positivo da dimostrare e che mette quindi in mostra qualsiasi cosa negativa o insensata che sia. Non importa quanti pochi soldi si hanno e quante difficoltà si stanno affrontando, l’importante e passare del tempo con qualcuno, essere un almeno un pizzico poshlost e scandire il tempo con tanto alcol e tante sigarette.

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Alcuni definiscono poshlost anche chi discute la classe politica che è rappresentata da grandi capi ammiratissimi dalle folle e che fa proprio quello che la società apparentemente vuole: usa la forza nei confronti di stati che si dimostrano irrispettoni nei confrondi di Madre Russia, mantengono l’ordine condannando i ribelli e ignorano completamente chi dice qualcosa di diverso da loro. Alla società russa non importa tuttavia se la sua classe politica continua ad arrichhire se stessa e l’alto tessuto della società continuando ad ignorare e impoverire sempre più tutti coloro che invece non hanno già grandi poteri o grendi patrimoni. Ma questo non importa quando non si hanno prospettive ed aspettative, e quando nel corso dei decenni il tuo stato ha sembre abituato te e i tuoi antenati a trattamenti simili.


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Niklas

Niklas è una guardia giurata che vive a Mosca e che lavora per privati e come definisce lui “per la società russa”: nel tempo libero si cimenta spesso in picchiare giovani ragazzi dipendenti dalle droghe che odia e che considera parassiti della società. Anche lui era parte di quella mela marcia un tempo, ma a forza di pugni e percosse ricevute da gente come lui è guarito e ora si dedica solamente alla vodka. Tutti i russi la bevono fin da piccoli, non p considerato qualcosa di male ma è anzi visto come un aiuto e come un qualcosa che aiuto a crescere. Anche Niklas la pensa così e spesso prima di uno dei suoi attacchi per ripulire la società, qualche bicchiere colmo di vodka se lo scola in maniera ferma ed estremamente fiera. Qualsiasi russo che beve vodka si sente tendenzialmente fiero in quanto qeusto superalcolico rappresenta uno sei pilastri fondanti della propria cultura e nulla portà mai

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sostituire il suo valore e la sua funzione. Niklas è sempre fiero quando fa qualcos per il suo paese, anche quando picchia e anche quando si sporca le mani di sangue, aiuta la russia come metodi russi e nulla potrebbe renderlo più fiero. I russi sono infatti anche molto patriottici, proprio come Niklas, e seguono e supportano la propria nazione qualsiasi cosa faccia e pensi. Questo patriottismo morboso è un ulteriore elemento di cui andare fieri per i russi, anche se ad un occhio più abituato a società occidentali tutto questo potrebbe sembrare una follia. Questo racconto non vuole certamente dipingere l’intera società russa come malata e violenta, ma vuole solo mettre in luce come molte dinamiche e ideologie di origine sovietica influenzino ancora oggi una fetta di società russa che non si sente ancora pronta a sfatare molti dogmi e tabù costruiti da anni di regime comunista totalitario.

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è certamente il colore dominante di queste zone, la neve è parte del paesaggio ed il freddo è temprato all’ineterno di ogni siberiano che si rispetti. Alexander sostiene in particolare che la società russa è stata plasmata in questa maniera dai sovietici che ne hanno determinato le sorti anche fino ai giorni nostri. Nonostante questo, è un un fatto di cui non bisogna vergognarsi e nemmeno andarne fieri, fa semplicemente parte della storia del paese e di tutti i russi e quindi è una cosa che va semplicemente accettata pero come è stata. La cosa fondamentale, sostiene Alexander, rimane non dimenticare ed ignorare il passato o ancora peggio negarlo, in quanto questo renderebbe tutti meno coscienti e meno consapevoli.

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Alexander

Come descritto nella piccola introduzione, poshlost non indica solo qualcosa di esageratamente strano e sregolato, ma descrive anche artisti. Questa precisazione non deve far trasparire le due categorie come due compartimenti stagni in quanto molto spesso le due cose si mischiano e vanno a creare personalità molto singolari. Tuttavia molti giovani trovano come valvola di sfogo vie differenti rispetto alle dipendenze e uno di queste stade è l’arte. Un esempio è Alexander, un artista post modernista siberiano molto legato alla sua terra. La Siberia è infatti un’enorme area geografica russa che rappresenta molte particolarità principalmente dovute all’ambiente all’interno del quale ci si trova a vivere. Il bianco

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Valerian è un noto artista siberiano, stabilitosi nella città di Krasnoyarsk, il cui lavoro si concentra nei campi della pittura e della fotografia. I soggetti principali dei suoi lavori solo i magnifici paesaggi della Siberie con le loro stranezze e particolarità. Valerian ha sempre lavorato col lo scopo di trasmettere le emozioni che ogni luogo è capace di evocare in chi qui vi è immerso. In particolare sostiene che molto spesso i luoghi più silenzioni e dispabitati siano quelli che trasmettono le emozioni più autentiche non avendo subito alcuna influenza dall’essere umano. L’uomo è infatti capace principalmente di distruggere quanto di bello e positivo la natura offre alla nostra umile vista. Questo è indubbiamente anche quello che il regime comunista ha cercato di fare anche nel campo dell’arte, andando a porre censure restrittive e ben definite. In conseguenza a ciò molti artisti decisero di abbandonare l’Unione in direzione di uno dei numerosi paesi occidentali, ma lui non ha mai avuto

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intenzione di abbandonare la sua patria e la sua casa, e ha così deciso di rimanere e di continuare ad operare ridimensionando il suo campo d’azione. Valerian ha comunque definito l’arte come il suo personale salvagente nel corso del periodo sovietico e sostiene che ancora oggi quello che l’arte è stata per lui potrebbe esserlo anche per le giovani generazioni russe dal futuro incerto. L’arte permette infatti, dice Valerian, di esprimersi in maniera incondizionata e libera senza seguire regole e canoni particolari. L’arte infatti non chiudendosi dentro all’interno di gabbie e non limitandosi da muri ed ostacoli può realmente roccare tutti in maniera estramamente istantanea. L’arte da la possibilità a tutti di esprimere ed interpretare con una chiave sempre personale la quale vera natura non può mai essere influenzata da ideali esterni o tantomeno inculcati da altre persone. Proprio per questo motivo, Valerian, si impegna oggi ad insegnare la dottrina dell’arte alle giovani generazioni.

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Valerian


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Lev

Lev non è stato ne un artista e ne un ragazzo sregolato. Lev è stato semplicemente un uomo che nel corso della sua vita ha sempre professato la sua passione continuando a coltivarla ed alimentarla. Lev ha sempre messo la scienza al primo posto di tutto, del suo lavoro e della sua vita e proprio per questo ai tempi del regime anche lui poteva essere cosiderato volgare nei confronti dello stato. La scienza, che rappresenta per

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antonomasia il significato di senso logico ed azione consapevole e comprovata, spesso andava in contapposizione con le numerose controversie e azioni crudeli ingiustificate che il regime metteva in atto. Lev nel corso degli anni dell’Unione ha sempre lavorato a testa alta nella ricerca scientifica dei fiumi siberiani è stato membro di numerose spedizioni illustri ed è autore e titolare di sei brevetti nel campo dell’ingegneria idrica.

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FOTOGRAFI

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Bozehvilnyi

Niels Ackermann & Sebastien Gobert (progetto in collaborazione)*

8-21

Turuktuuluk

Elliott Verdier

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Beregynya

Giorgio Bianchi

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Kruscevka

Arseniy Kotov

68-95 102-109

Giorgio Bianchi

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Renat Latyshev

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Denis Zeziukin

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Zatyshok

Giorgio Bianchi

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Un bianco assordante

Elliott Verdier

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Giorgio Bianchi

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Chechnya

Hassan Kurbanbaev

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Svetlana Bulatova

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Gosha Bergal

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Pavel Limonov

160 (prima immagine) 164-165

Anastasia Soboleva

160 (seconda immagine)

Alexander Zhemchugov

161-163 166-167

Poshlost

169


CREDITI

170

POSHLOST


*Courtesy of Niels Ackermann / Lundi13 & Sebastien é Gobert / Daleko Blisko

Free University of Bozen-Bolzano Faculty of Design and Art Bachelor in Design and Art – Major in Design WUP 20/21 | 1st-semester foundation course Project Modul: Editorial Design Design by: Francesco Ferretti Supervision: Project leader: Prof. Antonino Benincasa Project assistants: Andreas Trenker, Emilio Grazzi Format: 215 x 285 mm Fonts | Font Sizes & Leading: Body Text Univers LT Standard 9,5/13 pt Caption Text Univers LT Standard 6,5/8,67 pt Title Text Tactic Regular 80/96 pt Layout Grid: 12 Column Grid Module proportion: 1.326 : 1 CPL | Character per line - Body Text: 37 characters including spaces

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