Un patrimonio ancora da salvare

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UN PATRIMONIO ancora DA SALVARE Sono molte le opere d’arte recuperate e trasferite in un deposito a Spoleto Tante però restano sotto le macerie

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olo un affresco resiste sotto l’enorme impalcatura che sostituisce le volte a crociera della chiesa. Il 26 ottobre 2016 San Salvatore in Campi, frazione di Norcia, è crollata in diretta televisiva. Ora, nella piana ai piedi delle montagne innevate, non resta che qualche parete e un cumulo di pietre. Il resto delle mura è stato da poco trasferito nel deposito di Santo Chiodo, nella zona industriale di Spoleto. «Le pietre che presentavano resti di affresco o erano scolpite sono state recuperate», spiega Tiziana Biganti, funzionaria del ministero Beni culturali che gestisce le attività del deposito. Un enorme centro pensato come luogo di accoglienza del patrimonio artistico in caso di emergenza. L’emergenza è stata talmente grande che le opere custodite negli immensi saloni sono oltre 5.600. Sono tutte umbre e provengono da 107 luoghi diversi, soprattutto chiese, ma anche i più importanti musei della Valnerina. L’inventario è ancora in corso. Se le comunità in un primo momento erano restie a perdere i tesori del proprio territorio, dopo la seconda scossa, il 30 ottobre, hanno capito che andavano messe in sicurezza. Così il

deposito, nato come pronto soccorso dei beni culturali, con i mesi è diventato un vero e proprio ospedale. Le persone dei vari paesi vengono infatti a “visitare” le opere, come fossero pazienti ricoverati. Il legame è ancora forte: «Per chi ha perso tutto, anche una chiesa è un luogo di consolazione». Ci sono reliquie e oggetti sacri da secoli simboli di intere comunità. Alcune opere custodite nel deposito sono state riparate e fatte uscire giusto il tempo necessario per partecipare alle feste di paese. Come il crocifisso della chiesa di Sant’Antonio a Frascaro, recuperato dal Genio dell’esercito e portato in pezzi dentro una scatola. È stato riassemblato e ridato ai cittadini per la tradizionale processione. Ora è tornato al deposito, impacchettato, in attesa di ulteriori cure. Come ogni ospedale che si rispetti, anche qua c’è un reparto di medicina d’urgenza. Un’intera ala è dedicata a stabilizzare le opere che arrivano in cattive condizioni. Spesso sono coperte di detriti e polveri: «Le sottoponiamo alle prime operazioni che impediscono un ulteriore degrado». Iolanda Larenza è alle prese con un paziente difficile. Sta tamponando il dorso di San SebastiaQuattrocolonne

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di

PIETRO ADAMI

@pietroadami1

FRANCESCO BONADUCE

@frabonaduce


Ciò che rimane della chiesa di San Salvatore a Campi di Norcia L’area dove sorge l’edificio è recintata Da questo cantiere molte pietre sono state trasferite al deposito di Santo Chiodo

no, una statua in legno gravemente danneggiata. Le braccia sono spezzate e la schiena, spaccata in due, è tenuta insieme con dei cerotti medici. Gli strumenti del mestiere sono presi in prestito da altre professioni: dall’aspiratore del dentista alle più comuni siringhe. L’obiettivo è limitare i danni: «In futuro altri penseranno a rincollare le parti che io ho temporaneamente aggiustato». Iolanda è una restauratrice esterna, assunta per l’occasione dall’Opificio pietre dure di Firenze, a cui è affidato il lavoro di recupero, in collaborazione con la Sovrintendenza umbra. In questi mesi si è alternata con altre nove persone. Il Quattrocolonne

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suo è l’ultimo turno, il contratto scade a febbraio. Da marzo verrà sospeso lo stato emergenziale: «Al deposito siamo in pochi, ancora si agisce come unità di crisi – sottolinea Biganti – appena finirà ci dovrebbe essere una stabilizzazione del personale». A modo suo la dottoressa si ritiene fortunata: «L’unica situazione favorevole creata dal terremoto è la possibilità di studiare e approfondire la storia delle opere». A maggior ragione qua in Umbria, dove, imparando dalle lezioni del passato, si è agito nell’ottica della prevenzione e ora tutto il patrimonio culturale recuperato è custodito in un unico centro.



La restauratrice Iolanda Larenza mentre lavora per recuperare la statuta di San Sebastiano Un’intera ala del deposito è dedicata al laboratorio di messa in sicurezza delle opere rovinate

Camminando per il deposito, ci si imbatte nelle diverse sezioni. Ce ne è una dedicata alle tele, custodite in veri e propri armadi che arrivano fino al soffito. Poco più in là, una serie di scaffali proteggono le statue in legno. Mentre i primi due hangar sono tutti riservati alle pietre delle chiese. Alle pareti sono adagiate alcune pale d’altare. Ogni pezzo ha una sua etichetta. Sopra sono indicati il luogo di provenienza e la data di schedatura. Un’opera colpisce particolarmente: il Martirio di San Pietro, una tela alta tre metri, non ha neanche un graffio. Quando la descrive, la dottoressa Biganti si emoziona: «È un miracolo che sia intatta, la maggior parte dei dipinti infatti sono andati distrutti». Pochi giorni dopo la prima scossa era stata tolta dalla chiesa di Sant’Agostino di Norcia e portata in un laboratorio privato per un restauro. È stata la sua salvezza: la chiesa è venuta giù il 30 ottobre. Quella del Martirio di San Pietro è una fortuna rara.

La facciata della chiesa di Sant’Antonio sempre a Campi Il tetto è crollato Le panche all’interno sono ancora coperte di macerie Quattrocolonne

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Sono tante infatti le opere rovinate, mentre altre sono ancora disperse: «Sappiamo che ci sono beni straordinari sotto le macerie», aggiunge preoccupata Biganti. Costretti ad affrontare il secondo inverno sotto tetti crollati, dipinti e sculture attendono il giorno in cui si potrà entrare e scavare tra i detriti. Per chiese come San Benedetto e Santa Maria Argentea la messa in sicurezza deve essere ancora completata: «Quando si potrà, si agirà per il recupero, ma non sappiamo in che condizioni troveremo le opere. Più tempo passa più questo patrimonio è sottoposto a una grande crisi conservativa». Ma il tempo passa anche per tutti quei paesi e popolazioni che vorrebbero riaccogliere le proprie opere d’arte. A un anno e mezzo dal sisma, non si sa ancora quando queste potranno tornare a casa. L’intenzione però è chiara e la conferma la dottoressa Biganti: «Sono una ricchezza per le comunità e alle comunità vanno restituite». Q


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