formavera 10 - Una forma di resistenza

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L’opera vocale Paul Zumthor Questo saggio è tratto da P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna 1984, pp. 197-200. La parola poetica (che passi o no attraverso la scrittura) nasce sempre da un luogo interiore e incerto a cui si fa riferimento, con maggiore o minore approssimazione, con delle metafore: fonte, profondo, io, vita… A rigore di termini, essa non designa nulla. Un evento si produce, in maniera quasi aleatoria (lo stesso rito non consiste che nel cogliere e dominare il caso), in uno spirito umano, su delle labbra, sotto una mano, e ecco che un ordine svanisce e se ne svela un altro, si apre un sistema, è sospesa l’entropia universale. È un luogo e un tempo in cui, in un eccesso di esistenza, un individuo incontra la storia, e, in maniera dissimulata, frammentaria, progressiva, modifica le regole della sua lingua. È una voce che parla, non questa lingua, che non ne è che l’epifania: energia senza volto, risonanza intermedia, luogo sfuggente dove la parola mutevole si radica nella stabilità del corpo. Attorno alla poesia che nasce, turbina una nebulosa che si è appena staccata dal caos. Un ritmo sorge improvviso, rivestito di brandelli di parole, vertiginoso, verticale, zampillo di luce: in esso tutto si rivela e si forma. Tutto: chi parla, ciò di cui si parla, e chi ne è destinatario. Già Jakobson aveva segnalato (come per gioco) questa circolarità invocando la «funzione incantatoria» del linguaggio… I caratteri specifici di ogni forma di comunicazione orale si interiorizzano in questo stato secondo del linguaggio. I segni, si diceva prima, diventano cose; il trasparente, opaco. Ma a sua volta l’opaco diventa traslucido. Il testo poetico interroga i segni (la domanda è anche tortura), tenta di rovesciarli, in modo che le cose stesse prendano senso. Nel raggio di questa parola, un piccolissimo settore del reale si rischiara improvvisamente e vive, solo al centro della morte onnipresente. È perciò che il discorso della poesia non può essere fine a se stesso. La chiusura del testo (la sua barriera, il suo muro) è smantellata: attraverso la breccia si introduce il germe dell’antidiscorso, che trasgredisce (in modo specifico, marcato, in ogni luogo diverso) gli schemi discorsivi comuni. Nella vibrazione della voce si tende, fino al limite della resistenza, il filo che lega al testo un certo numero di segnali o indizi tratti dall’esperienza. La forza referenziale che resta alla poesia dipende dalla sua focalizzazione sul contatto tra i soggetti fisicamente presenti nell’esecuzione: colui che le dà voce, e colui che la riceve. Questo contatto è così stretto che di per sé basterebbe a far senso, come nell’amore.

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Trionfo del fatico. L’ascolto, come la voce, oltrepassa la parola. Funzioni primarie del corpo libidinale (di cui il linguaggio è funzione seconda), attraverso cui transitano, l’una incontro all’altra, metonimia e metafora. La scrittura, se per avventura interviene, neutralizza queste ambiguità. Nella poesia orale si definisce in questi termini acuti uno stato di cose incontestabile, il Sitz-im-leben dei critici tedeschi che si ispirano a Bultmann; nella dimensione orfica del senso, con parole di Bruns, dell’impulso ‘dionisiaco’ in cui Nietzsche riponeva l’origine della ‘musica’. Il desiderio della viva voce abita ogni poesia, in esilio nella scrittura. Il poeta è voce, ϰλέος άνδρών, secondo una formula greca la cui tradizione è stata fatta risalire fino agli Indoeuropei primitivi; il linguaggio viene da un altro luogo: dalle Muse, in Omero. Di qui l’idea di έπος, parole inaugurale dell’essere e del mondo: non il λόγος razionale, ma ciò che manifesta una φωνή, voce attiva, presenza piena, rivelazione degli dei. La prima poesia è consistita nel ‘fare’ l’έπος come un oggetto e a porla tra noi. «Dispiegamento della parola» (Heidegger) al di qua delle parole divulgate, nascosta nelle pieghe del testo, nel luogo proprio dell’uomo, «rapporto di tutti i rapporti». Ogni poesia aspira a farsi voce; a farsi, un giorno, sentire: a cogliere l’individuale incomunicabile, in un’identificazione del messaggio con la situazione che lo genera, in modo che possa giocare un ruolo stimolatore, come un appello all’azione. […] Parola globale, senza un significato distinto ma che, nella ricezione uditiva, il corpo dell’altro riempie di senso allusivo. Il suono purificato si identifica come il ‘punto di cessazione’, con il luogo e l’istante della mancanza, dove (al di qua di qualsiasi realizzazione di superficie) la lingua non può non ‘venir meno’, come farebbe un testimone chiamato in causa. Già Dante, in qualche modo, lo aveva intuito: l’idea della poesia esposta nel Convivio e nel De vulgari eloquentia si fonda sul ricordo di uno spazio vuoto in cui è sorta, il primo giorno, la sonorità pura di un dire, anteriore all’articolazione, materializzandosi poi, in una frase originaria, sotto la forma del concerto vocalico a u i e o…, che, in latino, assomiglia alla prima persona di un Verbo! Fluidità tra due non-detti (l’assenza di parola e la parola interiore), il luogo della voce, è il cavo uterino, ai confini del silenzio assoluto e dei rumori del mondo, dove la voce si articola sulla contingenza delle nostre vite.

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