Stearns Brand Magazine

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EDITORIALE Un cambio di paradigma è necessario. La vita corre a ritmi frenetici. Impazzanti. E il tempo passa logorandoti. In momenti come questi che pensi. Qualcosa deve cambiare. È necessario. Prova a fermarti. Prova a guardarti attorno. Prova a riscoprire i piccoli piaceri dimenticati. Datti tempo. Rilassati. Respira. Prendi una boccata d’aria. Goditi tutto più lentamente. E vedrai che tornerai a riassaporare la gioia. La gioia della vita.

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CHARACTER

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6 | Ben Affleck: maturo, responsabile, irresistibile Ben Affleck è il personaggio del momento: fresco del recente successo del suo nuovo film “Argo”, che lo vede sia in veste di regista che di attore, ci rilascia un’intervista.

CITY

2 12 | Peer-to-peer bike sharing Il bike sharing reinvetato da Liquid.

18 | San Francisco sogno low cost È la nuova meta green, tra cultura e design.

22 | Coastal city phenomenon Problematiche ambientali legate alle città sulla coste oceaniche.

24 | L’amico da marciapiede che ti dà sempre conforto Fontanelle: il tesoro cittadino dimenticato. 4


CHARM

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28 | Street style: stile senza stilisti La strada come contesto di stile.

34 | Amo la mia barba ma non sono snob Difesa della barba: non è una moda hipster.

36 | New York barber tour Barbieri creativi della grande mela.

38 | Espressioni di stile: due dritte per il tuo look

CHILLIN’

4 40 | American home brewing Birrifici artigianali negli States.

46 | Unhappy hour La dissoluzione del rito dell’aperitivo.

48 | Geocaching: la caccia al tesoro 2.0 La caccia la tesoro si aggiorna: tra applicazioni web e GPS.

52 | Buona notte ai suonatori La nuova esperienza dei sleeping concerts.

CULT

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54 | Until the quiet comes Il jazz elettronico sperimentale del nuovo album di Flying Lotus.

58 | Coffee and cigarettes Undici diverse storie a sorsi di un tranquillo caffè.

60 | L’ozio come stile di vita Riflessioni sul ritmo frenetico della vita d’oggi: guida a come godersi il meritato riposo.

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1.1

CHARACTER



BEN AFFLECK: MATURO, RESPONSABILE, IRRESISTIBILE Il brillante attore-regista Ben Affleck è il personaggio del momento: il 12 ottobre è uscito Argo, che si è rivelato un grande successo per gli incassi e per la critica. Un uomo maturo, che fa il suo grande ritorno alla regia con questa pellicola mozzafiato e veritiera dimostrando, se ce ne fosse bisogno, tutto il suo talento. Nell’intervista parla della sua storia, della persona che è adesso, delle sue abitudini e della filosofia che ha maturato con le sue esperienze.

Signor Affleck, si descriva in poche parole. Sono un uomo di quarant’anni, ho una splendida famiglia e faccio il lavoro che amo. Detto così sembra l’uomo più fortunato della Terra... L’ho mai negato? Sembra molto sereno Ben Affleck, con un po’ di barba, una camicia a quadri, jeans scuri, il volto virile e schietto, come lo sguardo. Se adesso sto bene e sono felice il merito è di mia moglie. Dopo l’Oscar, conquistato con Matt Damon, avevo perso ogni equilibrio: troppa fama, troppo denaro. Quello che ero diventato sminuiva la mia parte migliore. Mi sono fermato. Mi sono interrogato.

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mezzo della fase di grande maturazione tipica di un quarantenne. Spero solo di non diventare troppo noioso, altrimenti rischierei di annoiare la gente con i miei film e forse non avrei più successo. E quindi probabilmente non potrei permettermi i pannelli. Per ora non ci sta annoiando. Se dovesse cominciare a farlo, glielo faremo presente.

chiedo se sua moglie dica: “Ma non è che viene tutte le sere?” Per la mia carriera la conoscenza di Matt è stata fondamentale. Insieme siamo partiti per Hollywood in cerca di successo. E insieme l’abbiamo incontrato. Se non avessi conosciuto Matt, probabilmente non sarei diventato attore e quindi nemmeno regista. A proposito di mogli, le piacerebbe di dirigere Jennifer sul set?

La ringrazio molto. (Ride) Sappiamo che è molto amico di Matt Damon, ci racconta come vi siete conosciuti? Io e Matt ci siamo incontrati per la prima volta ad una partita di baseball. Abitavamo a soli due isolati di distanza. Io avevo 8 anni e lui ne aveva 10 e frequentavamo entrambi la Cambridge Rindge and Latin High School. Ricordo che in quel primo incontro si comportò un po’ da stronzetto, ma credo che si possa considerare una situazione più che normale per due bambini di quell’età. Pochi giorni dopo eravamo già amiconi. E lo siamo ancora. Matt ed io ci vediamo quasi troppo spesso. Mi 12

Moltissimo. Le confesso che ne abbiamo già parlato, più di una volta. Jennifer ha un grande talento per la recitazione, e dirigerla sarebbe per me un vera e propria gioia, anche se in realtà non vorrei mai recitare insieme a lei: credo che al pubblico non interessi vederci insieme anche nella finzione. Se improvvisamente dovesse trovarsi ad avere molto più tempo libero, come lo impiegherebbe? Le ripeto: amo moltissimo passeggiare in città, credo che sia davvero l’attività che preferisco. Prima di questo, penso che dedicherei più


mezzo della fase di grande maturazione tipica di un quarantenne. Spero solo di non diventare troppo noioso, altrimenti rischierei di annoiare la gente con i miei film e forse non avrei più successo. E quindi probabilmente non potrei permettermi i pannelli. Per ora non ci sta annoiando. Se dovesse cominciare a farlo, glielo faremo presente.

chiedo se sua moglie dica: “Ma non è che viene tutte le sere?” Per la mia carriera la conoscenza di Matt è stata fondamentale. Insieme siamo partiti per Hollywood in cerca di successo. E insieme l’abbiamo incontrato. Se non avessi conosciuto Matt, probabilmente non sarei diventato attore e quindi nemmeno regista. A proposito di mogli, le piacerebbe di dirigere Jennifer sul set?

La ringrazio molto. (Ride) Sappiamo che è molto amico di Matt Damon, ci racconta come vi siete conosciuti? Io e Matt ci siamo incontrati per la prima volta ad una partita di baseball. Abitavamo a soli due isolati di distanza. Io avevo 8 anni e lui ne aveva 10 e frequentavamo entrambi la Cambridge Rindge and Latin High School. Ricordo che in quel primo incontro si comportò un po’ da stronzetto, ma credo che si possa considerare una situazione più che normale per due bambini di quell’età. Pochi giorni dopo eravamo già amiconi. E lo siamo ancora. Matt ed io ci vediamo quasi troppo spesso. Mi 12

Moltissimo. Le confesso che ne abbiamo già parlato, più di una volta. Jennifer ha un grande talento per la recitazione, e dirigerla sarebbe per me un vera e propria gioia, anche se in realtà non vorrei mai recitare insieme a lei: credo che al pubblico non interessi vederci insieme anche nella finzione. Se improvvisamente dovesse trovarsi ad avere molto più tempo libero, come lo impiegherebbe? Le ripeto: amo moltissimo passeggiare in città, credo che sia davvero l’attività che preferisco. Prima di questo, penso che dedicherei più


tempo ai miei figli: con il lavoro che faccio, spesso mi capita di perdere degli appuntamenti che per loro sono importantissimi. Quando usciamo tutti insieme, spesso ci capita di andare al parco: per loro un posto perfetto per scatenarsi, per me e mia moglie un’ottima occasione per rilassarsi. Come vede il suo futuro, signor Ben Affleck? Credo che continuerò a fare il regista. Amo veramente questo lavoro. Da quando lo faccio sento di essere più maturo, più consapevole

di quello che sono e di quello che voglio fare. Dopo i miei primi successi negli anni Novanta, tutto mi sembrava così nuovo e straordinario... Ma ho commesso molti errori. E dagli errori ho imparato davvero moltissimo. Credo che si impari molto di più dai propri sbagli che dai successi. In questo momento della mia vita posso dire di sentirmi veramente bene. Dentro di me c’è una forte consapevolezza che mi mostra chi voglio essere e dove voglio andare. Nel mio futuro vedo la mia famiglia e il lavoro da regista. E naturalmente anche qualche bella passeggiata. 13


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2.1

CITY



PEER-TO-PEER BIKE SHARING Liquid è una startup americana che ha inventato un sistema di condivisione di biciclette tra utenti privati. Ciascun membro mette a disposizione il proprio mezzo e può così accedere al servizio. di Matteo Marconi

S

e non hai toccato internet per gli ultimi cinque anni, potresti essere perdonato per il fatto di non sapere dell’esistenza dei cosiddetti sistemi di consumo collaborativo (in inglese “collaborative consuption economy”). Ormai sono ovunque. E funzionano così. Tu hai una cosa che in pratica non usi mai. Altri pagano per prenderla in prestito. Oggi puoi affittare le tue stanze su Airbnb.com, lasciare la tua macchina su Getaround.com, o trovare almeno un offerente per (quasi) qualsiasi cosa che possiedi, anche per il tuo cane, come Rob Baedeker (giornalista di Newsweek) ha recentemente dimostrato. La prossima cosa è probabilmente la tua bicicletta. Le biciclette non possono vantare una grande storia in fatto di condivisione. Negli anni Sessanta il fallito tentativo di Amsterdam portò solo a un incremento dei furti e ad avere i canali pieni delle sfortunate biciclette bianche. A esso seguirono altri piccoli tentativi. Nessuno ebbe grande successo. Ci sarebbero voluti altri quarantacinque anni perché la tecnologia permettesse la formazione di un vero sistema di condivisione di biciclette. 14

L’idea si sparge ogni anno di più, incentivata da alcuni esperimenti francesi con 1.500 biciclette a Lione, e ora 20.600 del programma di bike sharing parigino chiamato Vélib’. Più di 100 iniziative di questo genere si stanno diffondendo in tutto il mondo. La maggior parte è promossa dalle amministrazioni cittadine locali, che permettono alla gente di utilizzare le bici per piccoli spostamenti pagando ogni volta oppure servendosi di un abbonamento annuale. Liquid ha un’idea un po’ diversa. Vuole che la gente metta la propria bicicletta online, stabilisca una certa quota e quindi lasci che il sistema di collaborative consuption faccia il resto. Tutti quelli che vogliono vedere la loro bicicletta girare libera per la città possono pubblicare un profilo e accettare qualsiasi offerente che sia disposto a pagare il prezzo fissato per un utilizzo in un determinato periodo. Secondo quanto dichiarano i gestori, il sito offre un sistema tale da rendere molto difficile ogni sorta di truffa ai danni dell’utente. Oltre a ciò vale sempre il buon senso e il rispetto verso gli altri: se rompi qualcosa, vedi di rimediare o comunque di segnalarlo subito. Funzionerà davvero? Per ora Liquid sta avendo un discreto successo. Il fondatore Will Dennis dichiara in un post sul sito ufficiale: “Noi siamo semplicemente questo: un mercato online che permette alle persone che possiedono una bicicletta di noleggiarla a concittadini, viaggiatori e ciclisti”. Il nome Liquid rappresenta al meglio l’essenza di ciò che questa realtà sta facendo, cioè


creare un mercato davvero fluido che faccia in modo che le persone si mettano in contatto per concordare dei comodi scambi di biciclette e, chissà, magari per trovarsi a sorseggiare una buona birra. I possessori di una bici possono guadagnare qualcosa dall’incontro con persone che condividono il loro stesso interesse (e spesso la loro passione) per le biciclette. Le persone hanno così la possibilità di utilizzare un mezzo di trasporto accessibile ma anche bello, personale. I gestori hanno dichiarato che si stanno impegnando soprattutto per migliorare costantemente il servizio, cercando di renderlo il più sicuro, facile e divertente possibile. La realtà è nata in California e si è diffusa progressivamente in diverse città negli Stati Uniti. Ultimamente sta crescendo il numero di iscrizioni e pubblicazioni provenienti da tutto il mondo. Va molto forte in città come San Francisco, Los Angeles, New York e Portland. Ma è anche possibile noleggiare biciclette in Australia, in Romania, in Francia...

Il momento storico che stiamo vivendo è ideale per la nascita e lo sviluppo di una realtà come questa. Liquid è un mix di trend sociali ed economici. La gente sta acquisendo una confidenza sempre maggiore con l’impiego di dati personali online e pare che sia sempre più in cerca di esperienze vere, autentiche. Uno scambio di materiale realizzato grazie ad internet può sembrare molto interessante, a maggior ragione se ti consente di fare qualche soldo in più noleggiando la tua bicicletta nel momento in cui non hai necessità di utilizzarla. La possibilità di portare la tua ragazza a cena solo per aver noleggiato la tua bici è qualcosa che può davvero attirare un sacco di gente. La definizione di sistema peer-to-peer è in questo caso particolarmente indicativa perché perfettamente coerente con Liquid, forse in misura maggiore rispetto ad altre analoghe reti che sono così classificate. Se vuoi iscriverti a Liquid per usufruire del servizio di noleggio, anche tu devi mettere a disposizione una

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bicicletta. Non esistono richiedenti e offerenti, tutti i membri sono allo stesso livello. In questo senso il termine peer-to-peer funziona particolarmente bene. Ed è forse proprio grazie a questa intuizione del fondatore che il sistema sta conoscendo un grande successo. Se hai bisogno di una bicicletta ti devi iscrivere, se ti devi iscrivere devi mettere a disposizione il tuo mezzo, se ognuno mette a disposizione il proprio mezzo il sistema cresce e le possibilità di scelta per ogni utente si moltiplicano. C’è un numero impressionante di biciclette a disposizione di ogni membro ed è possibile scegliere tra varietà di tutti i tipi: dalle biciclette d’epoca olandesi a quelle professionali da corsa, dalle bici da donna alle mountain bike. Anche chi è più esperto e vuole qualcosa di particolarmente bello e sofisticato ha una buona probabilità di trovare quello che sta cercando. I prezzi variano a seconda del mezzo e sono sempre stabiliti direttamente dal possessore. Ogni utente è invitato a fissare un prezzo per il noleggio orario, per quello giornaliero e per quello settimanale: mediamente le cifre si aggirano intorno ai 5 dollari l’ora, venti per la giornata e 100 per l’intera settimana. L’esperienza di Liquid è estremamente eccitante e positiva. Da un lato la buona riuscita di un sistema peer-to-peer è sintomo della diffusione di una nuova mentalità molto affine al modo

di agire caratteristico di chi sfrutta internet per delle esperienze non virtuali. In secondo luogo Liquid è promotore di uno stile di vita che favorisce l’uso della bicicletta per gli spostamenti, favorendo gli scambi tra ciclisti di tutto il mondo. La sua sfida più grande oggi, dato che è una realtà ancora molto giovane e in piena espansione, è quella di farsi conoscere il più possibile dalle persone di tutto il mondo, così da rendere sempre più completo questo efficiente meraviglioso sistema di condivisione globale.

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2.2

CITY

SAN FRANCISCO SOGNO LOW-COST Una meta che accoglie sempre più turisti perché offre arte e cultura a buon mercato. Un modo di vivere “green” a portata di mano. di Fausta Filbier

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verybody’s Favorite City: San Francisco. E che sia una delle più belle città del mondo, tra le preferite dai turisti, lo dimostrano anche i dati più recenti. Secondo San Francisco Travel Association, nel 2011 Frisco ha accolto quasi tre milioni di visitatori internazionali, con un incremento del 10 per cento rispetto al 2010 e quasi del 30 per cento rispetto al 2009. Gli italiani, se è vero che sono di casa a New York (178mila visitatori nel 2011), preferiscono però San Francisco a 18

Los Angeles (103 mila visitatori contro 96mila). Bella grazie alla sua posizione geografica e al clima mite. Celebre grazie ai suoi luoghi simbolo: il Golden Gate, il ponte di ferro rosso che la unisce alla Baia, e che quest’anno festeggia il 75’ anniversario, l’isola di Alcatraz, ovvero The Rock, carcere di massima sicurezza tra il 1933 e il 1963, i moli di Fisherman’s Warf, affollati di locali, ristoranti e mercatini, Chinatown, dove vive la comunità cinese più numerosa d’America. Ma San Francisco oggi si propone anche come meta low-cost, dove trascorrere una settimana di divertimento, cultura e relax, senza dover spendere cifre esagerate. Mostrandosi con un volto originale, quello di città d’arte dalle mille sfaccettature. Dove fantasia e creatività


si mescolano al paesaggio. Una way of live da sperimentare nel Golden Gate Park, che è la quinta naturale dei maggiori musei cittadini: la California Academy of Science, il De Young Memorial Museum e tutta un’altra serie di luoghi d’arte che raccontano dei fiori, dei nativi d’America, della musica e della lotta all’Aids. Al suo interno, ci sono persino un campo da golf, un lago dove si può andare in barca, un recinto con i bisonti e una serie di giardini: quello delle rose, il giapponese e quello di Shakespeare. Un parco (aperto tutti i giorni dall’alba al tramonto con ingresso gratuito) nato alla fine dell’Ottocento, su un progetto di William Hall. Nei suoi 400 ettari di giardini e boschi, un capolavoro di paesaggio che muta a mano a mano che ci si avvicina all’oceano, si

trovano strade tutte curve, disegnate così per invitare alla passeggiata e non ad attraversarlo di corsa. Tappa obbligata, la nuovissima California Academy of Sciences disegnata da Renzo Piano nel 2008, l’edificio pubblico ecocompatibile più grande al mondo, dove convivono museo di storia naturale, acquario e planetario. Da non perdere? il suo tetto dalla copertura vegetale: diecimila metri quadrati di tappeto vivente di piante e di fiori selvatici della California, quattro specie di tipo perenne e cinque annuali, frutto di una cernita che riguardano trenta graminacee in grado di sopravvivere senza usare fertilizzanti e senza irrigazione. Complessivamente, in cinquantamila vassoi in fibra di cocco, sono contenute un milione e settecentomila piante.

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Oggi il museo mette in scena Terremoto, che permette ai visitatori di sperimentare una scossa di impatto elevato, generata da un simulatore di terremoti, di sorvolare il pianeta, di farsi avvolgere dal planetario, ed esplorare l’impatto del più grande disastro della storia di San Francisco: il terremoto del 1906 e gli incendi che ne scaturirono. Un’esperienza da brivido. Altra tappa imperdibile, un altro grande universo verde affacciato sulle onde del Pacifico, esso stesso un museo, un inno alla natura californiana: il Presidio, ex zona militare, oggi parco nazionale, con 600 ettari di terreno, oltre 110 km di strade forestali e sentieri tra eucalipti, dove passeggiare a piedi o in bicicletta, e dove ovunque aleggia il profumo dell’oceano. Già l’entrata parla da sola: sul gigantesco cancello sono raffigurate la Libertà e la Vittoria. I più pigri possono esplorare l’intero parco a bordo di un bus navetta (gratuito) che ogni mezz’ora parte dall’ingresso principale e ne fa il giro completo. Un paradiso verde adatto agli adulti, ma soprattutto ai bambini, perché è qui che si trova The Walt Disney Family Museum che quest’anno celebra il 75esimo anniversario con Biancaneve e i sette nani (fino al 14 aprile 2013) presentando un’edizione speciale del primo lungometraggio animato, capolavoro disneyano, iniziato nel 1934 e terminato nel 1937. Ma il future prossimo dell’arte è down town, in Third Street. Qui, nel nuovo quartiere Yerba Buena e nei suoi Yerba Buena Gardens, hanno preso vita nuovi luoghi di creatività e sperimentazione, primo fra tutti il San Francisco Museum of Modern Art (sfmoma.org). Inaugurato nel 1995 su progetto dell’architetto ticinese Mario Botta, è un capolavoro di luce e di spazi, con tanto di giardino sul tetto e vista sulla baia, dove rilassarsi bevendo un caffè, circondati da sculture di Alexander Calder. Un inno all’arte innovativa e d’avanguardia, dedicato a chi ama le opere espressioniste astratte, che qui può ammirare i lavori migliori di Mark Rothko, Jackson Pollock, Robert Rauschenberg, Jeff Koons, Frida Kahlo. Tra le mostre in calendario, Jasper Johns.

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2.3

CITY

THE COASTAL CITY PHENOMENON Le città costiere statunitensi e quelle di tutto il mondo sentono in misura sempre maggiore gli effetti del riscaldamento globale. Una ricerca di alcuni studiosi illustra quali sono oggi i più gravi problemi con cui devono fare i conti tutti i cittadini che vivono sulla costa. di Amy Myer Jaffe

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uasi la metà della popolazione mondiale (di cui il 53 per cento di tutti gli statunitensi) vive in una città costiera. Che siano di Miami o Mumbai, si trovano molto più esposti ad alcuni dei più grandi problemi del nostro pianeta: il riscaldamento globale, il clima avverso, l’inquinamento e altro ancora. In tutto il mondo - in


particolar modo negli Stati Uniti - sta crescendo un senso di appartenenza ad una nuova categoria, che si potrebbe definire di cittadini costieri. Queste persone stanno sviluppando un nuovo modo di guardare il mondo, che nasce proprio da delle difficoltà che condividono e che li differenziano da tutte gli altri abitanti del pianeta. I ricercatori dello Shell Center For Sustainability della Rice University, hanno recentemente avviato uno studio interdisciplinare collaborando con vari istituti di ricerca in Cina. Di seguito riportiamo tre dei più grandi problemi che costituiscono l’oggetto di questo studio. Allagamento. Si stima che il livello medio del mare sia destinato ad aumentare più di 50 centimetri entro il 2100, minacciando la vita e le abitazioni e mettendo a dura prova la resistenza degli argini che fino ad oggi hanno protetto le città da gravi fenomeni di allagamento. L’esistenza di canali superficiali che attraversano la città rende molto più facile il verificarsi di un’inondazione. Allo stesso tempo la loro presenza è anche causa di un aumento della salinità delle falde acquifere costiere. Que-

sto fenomeno comporta gravissimi danni per l’agricoltura, per gli stabilimenti industriali e soprattutto preclude al cittadino la possibilità di usufruire di acqua potabile. Tempeste. Gli esperti hanno calcolato che dalla combinazione di riscaldamento delle temperature delle acque oceaniche, dall’aumento della concentrazione di inquinamento e dall’innalzamento del livello del mare si avrà una maggior frequenza di tempeste (che diventeranno progressivamente più violente e devastanti). Inquinamento atmosferico. Numerosi stabilimenti di industrie petrolchimiche e, più in generale, molti impianti industriali sono costruiti in una città costiera perchè essa può offrire la grandissima comodità di avere accesso a un porto. Questo comporta gravissimi squilibri per la composizione dell’aria circostante, che diventa ogni giorno sempre più irrespirabile. Ciò è evidente in molte città costiere degli Stati Uniti, tra cui Los Angeles, Houston e New York, città in cui il miglioramento della qualità dell’aria resta una sfida importante. 23


2.4

CITY

L’AMICO DA MARCIAPIEDE CHE TI DÀ SEMPRE CONFORTO Vedovelle, toret, nasoni, bubblers, tap water: ogni città le chiama in modo diverso. Tutte insieme costituiscono un tesoro da strada, ricco di storia che garantisce, quasi a ogni angolo, acqua di qualità gratis. di Gianfranco Raffaelli

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oro ci sono. Da sempre. Magari un po’ malconce. Sepolte tra doppie file e cassonetti. A Milano le chiamano “vedovelle”, per il loro pianto eterno, o “draghi verdi”, in Nordamerica i “bubblers” o “tap water”, e pare stiano tornando. Le fontanelle dell’acqua pubblica fanno notizia a fine 2012. Tanto che a Parigi, che ne ha fatto un’arte, con le fontane di Charles-Auguste Lebourg, finanziate dal mecenate Richard Wallace, sta dedicando loro una mostra al Pavillon de l’eau: stampe, video, mappe, e poi fontanelle antico romane, artistiche, di design. E un parcour de l’au guidato sui pattini e a piedi in giro per la città. Loro, indifferenti ai riflettori, continuano a spruzzare perenni, amiche dei bambini e dei nottambuli astemi, dei ciclisti e dei cani. Nei parchi, giardini, tra i banchi dei mercati, nelle piazze nobili e quelle di periferia. E sulle strade impalpabili del web. “Il progetto Liberi di bere c’è dal 2009”, spiega Elisa Mastrofrancesco, mente di Fontanelle.org, “anche a sostegno del referendum sulla privatizzazione dell’acqua e come forma di attivismo ambientalista. Un gruppo di giovani volontari che andava in giro in motorino a censire le fontanelle di 24

Roma e Milano. Ma mai come negli ultimi tempi si è visto un fiorire di iniziative, adesioni, attenzione. Il fatto è che in questo momento di incertezza - economica e sociale - la fontanella incarna una serie di valori improvvisamente forti e sentiti. Sobrietà, essenzialità, ecologia, risparmio, trasparenza…”. È chiaro, chi beve al rubinetto elimina la plastica dalle bottigliette, taglia l’anidride carbonica generata dalla loro produzione e dal trasporto da qualche fonte alpina alla moda (cos’è più a chilometro zero dell’acquedotto comunale?). E ancora, ogni sorso è una Coca-Cola in meno, e se incontri la fontanella, vuol dire che stai facendo anche un minimo di moto, risparmiando in benzina in anidride carbonica e sull’abbonamento alla palestra per dimagrire. E se servono spunti per la passeggiata, a Torino si può fare il tour del Baloon (mercato torinese mensile del brio à brac) diviso in tappe di rifornimento alla fontana, e il giro delle fontanelle milanesi è da tempo una classica del Geochaching (caccia al tesoro urbana col Gps). Ma c’è di più. Chiamiamola suggestione anticrisi. La piccola goduria di un consumo a refill illimitato, accessibile ogni giorno e ogni ora, senza scioperi, aliquote occulte, sforamento mensili. Segno concreto del patto fra cittadino e cosa pubica. Quasi provocatorio di questi tempi. Mi ci fermo a bere anche se non ho sete. Per principio! “Si va al bar del Comune”, si dice a Milano, “a bere l’acqua del sindaco”. Che è pure buona. Legambiente denuncia ogni anno, per la Giornata mondiale dell’acqua, come l’Italia sia tra i Paesi con più risorse


d’acqua potabile, e come oggi i controlli sulla qualità di ciò che passa dagli acquedotti urbani siano più severi di quelli per l’acqua confezionata, eppure siamo anche tra i maggiori consumatori di minerali, causa antichi pregiudizi. Che oggi non hanno scuse: classifiche degli acquedotti italiani per purezza si trovano ovunque in Rete. Se si dubita dell’acqua della fontana sotto casa (o del lavandino), un kit fai da te per misurare la qualità dell’acqua (Immediatest) oggi costa meno di 15 euro. E a chi ritiene ancora che pasteggiare a acqua municipalizzata faccia un po’ “troppo plebeo”, segnaliamo la campagna “imbrocchiamola!” di Altraeconomia, che sta rendendo trendy, grazie a un apposito marchio, i locali minerale-free che servono solo acqua di rubinetto. Bollando al contempo come uncool chi non lo fa. Quanti segnali da una colonnina di ghisa! Ma aggiungiamo un ingrediente: l’orgoglio nazionale”. Le fontanelle d’acqua sono un tratto distintivo di una città. Insieme alle insegne, ai negozi, persino ai tombini, contribuiscono a costruirne l’identità. Poi, in molti casi, sono state smantellate. Provate a cercare una fontana a Londra o a Madrid fuori dal centro. In Ita-

lia invece la rete tiene. Nelle città ma anche nei paesini, nelle campagne. Finora ne abbiamo censite oltre 15mila ma pensiamo ce ne siano almeno 22mila. Lavoro complesso. Spesso non ci sono dati. Nelle campagne bisogna cercare il vecchio fontaniere. In città girare strada per strada; per fortuna ci hanno aiutato le macchinino della streetview di Google”. Mappare è la grande sfida dei fan delle fontanelle. L’ultima arrivata su fontanelle.org è la mappa delle fontanelle di Rovereto. Prima quella, faticosissima, dei Castelli Romani. “Abbiamo scoperto perfino che un paio di fontane qualcuno se le dev’essere portate a casa!”. Per la cronaca, è possibile anche questo. Legalmente. Su portali di impiantistica idraulica come oppo.it si trovano “draghi” meneghini da 596 euro “full optional”. Funzionanti e certificati. A Torino se ne vedono di originali nei giardini di certe ville della collina (e una pare sia finita in Canada, voluta da una comunità di expat piemontesi). Liberi di bere ha messo intanto online la mappa dei pubblici rubinetti di un centinaio di città. Da Latina a Helsinki, da Città del Capo a Boston. Pare sia buonissima l’acqua di strada di New York, tanto che c’è 25



chi la imbottiglia e la vende agli angoli delle vie. Il movimento We Tap sta censendo tutti i “punti di raccolta” per la Grande Mela e il resto del Nordamerica. E li incasella per qualità. Ci sono, ovviamente, le app dedicate a escursionisti e ciclisti urbani come Acqua gratis, per iPhone, o H2O, per Android. Anche a tema, come il water finder “I nasoni di Roma”. Un dubbio. Ma le fontanelle sempre gocciolanti non sprecano? Non c’è periodicamente il consigliere d’opposizione che propone di mettere il rubinetto? “In realtà di solito no”, spiegano ancora da Liberi di bere. “Le nostre reti idriche, tutte dell’Ottocento, le hanno messe su “nodi” delle tubature sottostanti, e servono anche a dare uno sfogo e tenere in circolo

l’acqua, per evitare depositi e zone d’acqua stagnante”. Ad analoga domanda, il Comune di Milano risponde che, passata dalle fontanelle, l’acqua è filtrata e usata nelle campagne dell’Hinterland. A tutto ciò va ha aggiunto un ultimo elemento. Sentimental-memoriale. Le fontanelle sono parte integrante del paesaggio urbano e sono tra i più antichi testimoni della storia della città. Anche per questo motivo è importante che siano mantenute bene, che non siano sostituite da impianti più moderni ma del tutto anonimi e privi di valore. La riconquista delle fontanelle significa riappropriazione di un bene primario. Riconquista dei (pochi) spazi ancora per tutti in città.

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3.1

CHARM



STREET STYLE: STILE SENZA STILISTI “Visto che non esistono più gli aristocratici per promuovere gusti e mode, chi decide cos’è che deve piacerci?”. È il 1964 quando Susan Sontag, scrittrice e intellettuale statunitense, si pone questa domanda e comincia ad indagare sulla psicopatologia dell’opulenza. di Giulia Arosio

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a quale genio creativo, o da dove veramente nasce ciò che compreremo e indosseremo? Le grandi marche multinazionali dai budget promozionali miliardari, gli stilisti delle griffes di lusso, i guru della psicologia del consumatore, sono tutti in competizione fra loro per catturare la nostra attenzione e il nostro potere d’acquisto. Emerge però, da mezzo secolo a oggi, una regola costante. È una regola che prende forma negli anni Cinquanta nell’America del Giovane Holden, di James Dean ed Elvis Presley. Si conferma negli anni 60 nell’ Inghilterra dei Beatles, di Carnaby e della minigonna di Mary Quant. Si impone nel mondo intero con la cultura pop degli anni Settanta. Si rafforza nel Giappone degli anni Ottanta, nella Cina degli anni Novanta e attualmente è ancora più evidente e tangibile. Questa la regola: le grandi mode e le tendenze capaci di dettare stili di vita e comportamenti di consumo, nascono tra i giovani, sono essi stessi a crearle, adottarle, convalidandole nel tempo. È la regola della cultura suburbana che decontestualizzata dal suo habitat naturale. La strada trova nuovo contesto e successo nel si30


stema moda. La strada degli Zooties, Hipsters, Beats, Rockers, Hippies, Rude Boys, Punks. Ognuno con il suo stile, codifica di quelle idee e ideali da cui nasce la loro identità di gruppo. E’ finita l’era della moda, quella ufficiale, in cui il designer, lo stilista, il responsabile della ricerca informato sul trend, traccia quelle che lui considera tendenze e su cui progetta una nuova collezione: oggi le tendenze sfilano per strada. I modelli? Ragazzi e ragazze qualunque. Questo è il fenomeno dello StreetStyle, ufficialmente riconosciuto una decina di anni fa tra le pagine dell’inserto domenicale del New York Times che, per primo, utilizzò immagini di semplici passanti come icone contemporanee. La strada, da laboratorio d’incubazi- one di una impressionante quantità di mode, a passerella dei grandi nomi della moda. Allo stesso modo, la Graffiti Art comparsa sulla scena di New York all’inizio degli anni 60, durante un periodo difficile, partivano da Harlem, dal South Bronx e dal Lower East Side, da un contesto di strada, per arrivare al grande palcoscenico dei musei e dell’arte internazionale. Così come lo streetstyle, la Graffiti Art, con la stessa anima contestatrice, dura, illega-

le, contro. Una società omologata, pronta ad etichettare e imprigionare tutto e tutti, trova il suo stile/segno di appartenenza identitaria. Le pareti, i convogli della metropolitana, la strada sono il museo d’arte popolare di un popolo di graffitisti, quelli della periferia urbana prevalentemente nera o ispano-americana dei quartieri degradati del South Bronx e diventano espressione e rivendicazione di un proprio diritto alla parola. Non a caso molti anni fa su Vogue, lo stesso stilista Christian Lacroix affermava: “è terribile dirlo, ma molto spesso i vestiti più eccitanti vengono dalla gente più povera”. Il graffito contrappone all’impersonalità e all’oggettività dello stile adottato dai “bianchi” una modalità espressiva cromaticamente aggressiva, fatta di colori industrializzati, i colori della vita, accesi e sbiaditi al tempo stesso, a volte sovrapposti gli uni agli altri come manifesti sui pannelli. Un’arte, una controcul- tura underground, che Haring come un designer moderno carpisce dalla strada, eleva a cultura pop per portarla al consumo di massa, ma a quella massa intellettuale, culturale del mondo dell’arte universale. Una “massa elitaria”, quella dei grandi musei e del 31



fashion system, che nel loro modo di agire, accomunano due forme d’arte, la Graffiti Art e lo Streetstyle, nel semplice fatto di riconoscerle tali. Forse l’Arte dei graffiti e lo StreetStyle sarebbero piaciuti anche a Coco Chanel che, con la sua celebre “in order to be irreplaceable, one must always be different”, ben rappresenta una delle chiavi di interpretazione di questi movimenti: andare contro e differenziarsi sempre dagli altri. Esiste qualcosa che permette di riconoscere uno street style di qualità? Si tratta davvero di un modo di vestire senza regole? Si può affermare che non esistono dei mod- elli a cui fare riferimento? Noi di Yellow Fellow abbiamo tentato di definire le caratter- istiche più interessanti dello stile. Mettendo a disposizione alcune indicazioni pratiche, vogliamo consigliare il lettore per cercare di mantenere sempre un look urbano vincente, senza però rinunciare alla propria personalità. 1. Indossare il colore. Non è un segreto che in questo momento la moda dia ampio spazio ai colori vivaci. Il nero era un tempo l’uniforme non conclamata del settore, ma oggi prevale decisamente il colore. L’unica regola è che non ci sono regole, si può indossare un unico colore dalla testa ai piedi, optare per toni a contrasto e magari aggiungere qualche elemento in metallo.

ugualmente valida. 4. Essere giocosi. La moda è sinonimo di divertimento, è quindi importante lasciare spazio a capricci e scelte bizzarre. “Le donne hanno la libertà e possono disporre di un guardaroba diversificato, lezioso un giorno e professionale un altro” racconta Adam Katz-Sinding di Le-21eme.com, che si occupa anche di servizi fotografici per Elle, W Magazine e Teen Vogue. 5. Non dimenticare il comfort. Tacchi vertiginosi e abiti superaderenti possono essere di forte impatto, ma se non ci sentiamo a nostro agio con ciò che indossiamo, non possiamo apparire al meglio. Un’opzione possibile è quella di barattare tacchi a spillo traballanti con solide scarpe a zeppa, mentre eleganti oxford o brogue da uomo rappresentano un’interessante alternativa in chiave maschile. Non prendete queste regole come delle rigide prescrizioni. Consideratele piuttosto de-gli spunti sui quali costruire intelligentemente il vostro look da sfoggiare a spasso per la vostra città.

2. Mescolare stampe e fantasia. Le stampe sono diventate un elemento importante nel nostro modo di vestire, ma ciò non significa che dobbiamo limitarci a un solo elemento. Righe, elementi floreali e pois non possono mancare e, se sovrapposti, rendono il look ancora più interessante. Phil Oh di Streetpeeper.com - il maggiore sito di street style - che lavora anche per Vogue.com, riprende questo concetto: “Adoro vedere colori, stampe e fantasie insieme quando la commistione è ben fatta”. 3. Investire in un capo importante. Ogni stagione ha un capo che fa girare la testa di chi lo vede a tal punto da finire su ogni blog di moda. I tacchi fiammati di Prada o la t-shirt con il gorilla di Christopher Kane sono entrambi esempi di pezzi unici divenuti dei simboli. Se non rientrano nel proprio budget, basterà fare attenzione agli articoli online, sicuramente sarà disponibile una versione meno costosa e 33


3.2

CHARM

AMO LA MIA BARBA MA NON SONO SNOB Confessione di un giovane barbuto che da anni sfoggia anche un paio di occhiali di bachelite nera. I segni di riconoscimento di una tribù urbana un po’ presuntuosa. di Matteo Bordone

N

el 2000, dopo 26 anni di glabrismo militante, decisi di farmi crescere la barba. Sempre in quel periodo, stufo di una serie di montature minimali, optai per occhiali di bachelite nera. Al tempo pochi avevano la barba e quegli occhiali, ma né barba né gli occhiali da film erano in sé originali. Sono passati dodici anni e come capita sempre con le cose comode, ho mantenuto entrambi. Eppure, se per caso avessi anche una bicicletta a scatto fisso e si venisse anche a sapere che ultimamente tendo a mangiare più vegetali che proteine, qualcuno punterebbe il dito e direbbe: “Ecco, figurati, un altro hipster!”. Non è la prima volta che si parla di hipster, ovviamente la parola deriva da “hip”, cioè tizio che segue la moda e le tendenze, e risale ai primi anni del 1900. Qualche decennio dopo è usata per definire chi frequenta l’ambiente fumoso e alternativo del jazz. Harry “The Hipster” Gibson, un pianista bianco che anticipò lo stile irrefrenabile di Jerry Lee Lewis negli anni Quaranta, è il primo a usare la variante che oggi sembra così fondamentale nella sociologia da banco. Dopo di lui molti, tra cui Norman Mailer. Negli anni Sessanta la contrazione “hippie” descrive giovani di tendenza su 34


Rolling Stone, e scioperati anti-americani nelle parole dei repubblicani: una categoria bifronte nella quale rientrerebbe anche Bob Dylan, per dire. I cosiddetti hipster attuali però rappresentano l’accezione più inconsistente mai esistita del termine. Anzi, a dire la verità io sospetto che non siano nemmeno una categoria sociale, quanto piuttosto uno strumento retorico. Nessuno si definisce mai “hipster”, a differenza di quello che succedeva ai tempi dei fiori in bocca. Appiccico questo bollino estetico a qualcun altro per ribadire che no, io non sono così banale, figurarsi. Sembra, insomma, che essere à la page e seguire le tendenze della società sia segno di una pochezza d’animo imperdonabile. Chi dà dell’hipster a qualcun altro lascia intendere che lui è profondamente diverso. Ma da cosa? Dagli occhiali? E in che modo? È forse un contadino? No. È povero? In genere no. È preso da un afflato bucolico e detesta la città e il suo stile? No. È potenzialmente come un hipster, ma autentico. Cioè segue la moda, ma non stupidamente; ascolta i dischi nuovi, ma lo fa con tutto un distacco critico che non ti dico; si pettina, si veste, si agghinda in un modo tutto suo personale, mica come quelli lì che sono intruppati nei canali della moda. Io ho orrore per il “discorso dei capelloni” di Pasolini, così come mi fanno impressione quelli che negano la natura gregaria della specie umana, e mi pare che le città siano bei posti, i quartieri in riqualificazione siano stimolanti e le persone davvero semplici e autonome non esibiscano la frugalità dei loro bisogni o l’originalità dei loro riferimenti. Volevo dire che non sono un hipster, perché vado in giro uguale da quasi quindici anni ma se volete chiamatemi hipster, fate pure. Basta che la finiamo di proclamare la nostra unicità dimessa e insieme così consapevole: a fare troppe contorsioni poi viene il mal di schiena.

Come curare la tua barba incolta Ognuno è libero di scegliere e modellare il suo stile a seconda della sua personalità e della sua conformazione del viso. La barba lunga è stata associata per molto tempo a persone anticonformiste o a intellettuali: bisogna stare attenti però a non passare per persone che si trascurano. Per questo bisogna seguire alcune regole. Il concetto da chiarire è quello di barba incolta: quando parliamo di “incolta” non ci riferiamo a una barba lunga 40 cm, dura e disordinata. La barba va infatti curata regolarizzata periodicamente, ogni 3 giorni in media. Da curare molto anche il pizzetto, da mantenere ben definito e corto. Stesso discorso per i baffi che se tenuti troppo lunghi possono dare un’immagine trasandata. Gli strumenti del mestiere: - Regolabarba: per quanto riguarda il mantenimento di una barba incolta lo strumento da cui non si può prescindere è il regolabarba che aiuta a mantenere in ordine la barba di tre giorni. - Cera da barba: serve per tutti i tipi di barba che costringono i peli ad assumere posizioni contro natura e soprattutto per i baffetti arricciati. - Spazzola da barba: per tenere in ordine una barba lunga è consigliabile l’uso di una spazzola da barba. - Forbici: servono, principalmente, per regolare i baffi. Per non sembrare Poirot, meglio regolarli. - Specchio: guardarsi è indispensabile per non sbagliare. Per osservare meglio l’andamento della linea della barba sotto il mento si può usare anche un piccolo specchietto.

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3.3

CHARM

NEW YORK BARBER TOUR di Giacomo Girola

S

ignori, c’è poco da fare. New York City, the Big Apple, the Empire City, la città così bella che per dirla tutta devi doppiarle il nome (New York, New York) è ancora il posto più creativo al mondo. Perché c’è sempre qualcosa che ancora non hai visto. E magari potrebbe essere il meglio. Tu pensi: a tutti i ristò che ci puoi trovare, ai negozi più cool, ai teatri off off (Broadway), alle gallerie, ai club con il meglio delle nuove scene musicali. Tutte cose più o meno già viste. Giusto? A rinnovare l’elenco dei tour ufficiali into Manhattan ci ha pensato la Braun, sì, proprio quella, l’azienda che produce il mitico Braun Cruzer. Con un website tutto dedicato ai migliori barbieri della città-che-non-dorme-mai (ma anche a quelli delle più grandi metropoli a stelle & strisce, dalla East alla West Coast) e con un divertentissimo contest, naturalmente documentato on-line, dove una serie di giovani, 36

stilosi, tutti strafighissimi barbieri si sfidano a colpi di rasoio in una avvincente battaglia all’ultimo pelo. Vincitore del contest nonché tagliabarba e aggiustacapelli preferito di una serie di cool guy di quelli che animano la New York più alla moda è il Frank’s Chop Shop, al 19 di Essex Street, uno di quei barbieri che non solo sanno il fatto loro e sono capaci di rivoluzionarti il look come pochi! Creato con ambizione da Michael Malbon, background nella moda e in pubblicità, Frank’s ha allargato la cultura del barbiere partendo dalla tradizione ma ispirandosi al mondo hip hop per arrivare a uno stile che potremmo definire “tagliente”. Ognuno dei suoi barbieri ha la sua personalità, ma Mr Bee, biondo uomo di punta del Chop Shop, ha quel tocco in più che avverti subito quando sei sotto il suo personal Braun Cruzer. Così non importa se a entrare in negozio è un tipo rock’n’roll, uno stallone hiphop o un semplice mister Smith: ognuno trova la sua nuova dimensione, it’s easy.



3.4

CHARM

ESPRESSIONI DI STILE DUE DRITTE PER IL TUO LOOK L’uomo virile mette Strati, pesi e il pullover a pelle fantasie Il pullover indossato sulla pelle nuda insinua richiami sensuali, che nell’immaginario collettivo rimandano al passato, dalle pellicole neorealiste di Visconti e Rossellini fino ad arrivare al Tango di Bertolucci. La sensazione che evoca la vista della lana a contatto del corpo è ruvido, cruda, decisamente maschile; non è un caso che sia un modo di presentare la maglieria che è stato ripreso centinaia di volte durante le sfilate, nel corso degli anni. L’assenza della camicia fa sì che il tessuto accarezzi le forme, che le spalle e il torace risaltino meglio e che i movimenti siano più sciolti ed eventualmente permette - laddove fisicità e carattere lo consentano - uno styling molto in voga sulle riviste di moda degli anni che furono: infilare la maglia dentro i pantaloni. Il margine di tolleranza circa la profondità dello scollo è dannatamente labile, però: se è troppo al di sotto dell’attaccatura del collo, l’impatto sarà tutt’altro che maschile. Un tipo d’uomo molto sicuro di sé e della propria carica virile, può coprire il triangolo di pelle con un foulard in seta - annodato a cache - o meglio ancora sciolto come una sciarpa sotto il golf - e indossarlo con un bel blazer a tre bottoni o semplicemente sotto il cappotto. 38

Quando un uomo è dotato di personalità e gusto, può tentare accostamenti insoliti senza trascurare compostezza e senso della misura. Le stampe, i tessuti fantasia e le stoffe lavorate possono convincere, soprattutto in inverno, quando è possibile vestirsi a strati. La varietà di proposte è ampia, questo può generare confusione perciò, se avete voglia di osare un look anticonformista, il consiglio spassionato è di farvi guidare dall’istinto senza esagerare: se vi sentite a disagio è meglio lasciar perdere. Per esempio, ci sono blazer in maglia grossa e sfoderati, caldi quasi come un cappotto: è possibile indossarli sopra un abito ma attenzione, viceversa l’abito dev’essere in lana pettinata e non in tweed o altre lavorazioni “spesse”, l’attrito tra due lane simili ingrossa. Tuttavia esistono anche i tessuti lisci disegnati e per di più con una vestibilità asciutta che aderisce al corpo e contrasta con l’ampiezza della giacca/cappotto. In casi come questo, per attenuare un insieme decisamente già inedito, gli accessori devono essere semplici e molto classici, per non rischiare inutili e vistose forzature. Molto moda sì, ma con equilibrio e buon senso.


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z

4.1

CHILLIN’



AMERICAN HOME BREWING In tempi in cui grandi brand multinazionali come Miller e Budweiser fanno sempre più fatica a crescere, il mercato della birra artigianale americana non conosce crisi. di Fausto Enzi

I

n un periodo in cui quotidianamente si rincorrono notizie poco rassicuranti per quanto riguarda lo stato dell’economia mondiale, è interessante notare come il settore della birra artigianale rimanga, almeno negli Stati Uniti, un mercato nettamente in salute, al punto da risultare quasi immune all’attuale congiuntura internazionale. Sia chiaro, la birra non è più quel bene a prova di crisi (letteralmente “recession-proof”) come in passato, ma il segmento artigianale mostra segnali incoraggianti. In particolare, come riportato da Beverfood, la Brewers Association ha definito il 2012 un anno storico per la birra. Mentre i primi dieci marchi hanno subito forti cali nelle vendite (parliamo di birra industriale, ovviamente), i piccoli produttori indipendenti hanno continuato a rafforzarsi, guadagnando quote di mercato e attenzione da parte dei consumatori. I dati evidenziano che dal 2011 al 2012 il giro d’affari legato alla birra artigianale negli USA è passato da 5,74 a 6,34 miliardi di dollari. Nell’anno appena passato si è registrata una crescita di quasi 500,000 barili di birra artigianale venduti rispetto al 2011: una quota impressionante, se calcoliamo che ammonta

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quasi alla metà di tutti i barili di birra venduti in più negli USA. Brewers Association stima che in questi due anni la birra artigianale in America è cresciuta del 5,8% in volume e del 10,5% in dollari. In aggiunta, l’associazione sottolinea il continuo spostamento dei consumatori dal vino e dai superalcolici alla birra. Mentre dunque le multinazionali stanno subendo le conseguenze della crisi mondiale, le piccole realtà brassicole degli Stati Uniti sembrano in grado di ammortizzare meglio la situazione. Addirittura, l’attuale recessione potrebbe rappresentare un ulteriore volano per i microbirrifici USA, permettendo loro di guadagnare quote di mercato di fronte alle difficoltà della grande industria.


Ma chi sono i protagonisti di questo nuovo fenomeno? Yellow Fellow ha individuato sette capitali dell’american home brewing che stanno rivoluzionando il modo di bere la birra negli Stati Uniti. Chicago. Nonostante le scalinate del Wrigley Field probabilmente siano ancora bagnate di Bud Light, oggi il mercato della birra aritigianale nella Second City si sta espandendo in modo impressionante. Se ti trovi al campo da baseball, dall’altra parte della strada c’è il Goose Island’s Wrigleyville Brewpub, che da anni offre la Green Line Pale Ale, una bionda leggera e gustosa, e la fortissima Bourbon County Stout, una scura con il 13,5% di gradazione alcolica. Nei pressi di Wicker Park, il pub Piece è sicuramente da visitare per le sue gustose pizze e per l’eccezionale birra fatta in casa (in particolare la Golden Arm, realizzata in stile rigorosamente tedesco). Al ristorante Publican (nel cosiddetto West Loop) i Cicerone Certified Servers -in pratica l’equivalente dei più comuni sommelier del vino - supervisionano una lista di birre che include accurate selezioni da Paesi di tutto il mondo, come il Belgio, la

Germania e la Francia, così come alcune scelte di famosi birrifici locali come la Chicago’s Metropolitan Brewing Co. e l’Indiana’s Three Floyds Brewing Co. Denver. Esiste una ragione per cui ogni anno produttori e appassionati di birra arrivano da tutto il mondo fino a Denver per partecipare al Great American Beer Festival: è forse l’evento più importante per la produzione artigianale di birra statunitense. Nonostante proprio nelle vicinanze della Coors Brewing Company - divisione del gigante canadese Molson Coors Brewing Company - sono i brewpubs a produrre la migliore birra del Colorado, dalla New Belgium di Fort Collins alla Steamworks di Durango. Wynkoop Brewing Co. gestisce il più antico brewpub di Denver, aperto dal 1988 dove si può pranzare con cibi davvero squisiti, naturalmente accompagnati da una splendida birra. Se davvero vuoi il meglio, devi provare la Patty’s Chile Beer, una bionda leggera in vero stile tedesco (è fatta con i peperoncini di Anaheim e i peperoni affumicati di Ancho). Di sicuro non ti puoi sbagliare nemmeno con la Falling Rock Taphouse, a mezzo isolato da 43


Coors Field. Con più di 75 birre alla spina e ancora di più in bottiglia non potrai che avere l’imbarazzo della scelta. New York. Quando si parla di cibi e bevande di qualità, Manhattan è sempre ai primi posti. Naturalmente anche se si parla di birra artigianale. In posti come il Blind Tiger nel West Village o il Rattle N Hum in Murray Hill, si potrebbero passare dei giorni interi a scegliere tra la numerosissima serie di bottiglie e birre alla spina. Più che birra per snob, è roba da buongustai: da segnalare la nuova catena Eataly di Mario Batali che insieme ai gustosi piatti rigorosamente Made in Italy vende una birra italiana molto raffinata (Birra del Borgo). E poi c’è l’Eleven Madison Park di Danny Meyers, che ha appena aggiornato la sua ricca lista di birre artigianali: si va dalla bottiglia di Brooklyn Brewery da 8 dollari, alla costosissima birra della svizzera Brasserie Des Franches-Montagnes (100 dollari per una bottiglia large-format). Philadelphia. Philadelphia è la città americana che da sola si è assegnata il titolo di America’s best beer-drinking city. Fondata nel 2008, la popolarissima Philly Beer Week - che quest’anno si è svolta dal 31 maggio al 9 giugno - è una grandiosa celebrazione della birra artigianale, in cui si può bere birra, cenare o semplicemente degustare. Tra gli stand da visitare quest’anno c’era anche quello della City Tap House, dove si poteva assaggiare la squisita Victory Prima Pils, da annoverare

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tra le migliore birre artigianali della nazione. Inoltre, grazie alla vicinanza di Philadelphia a Delaware, in città si può sempre trovare la Dogfish Head Brew. Portland. Dimentica per un momento che stiamo parlando delle migliori città per produzione di birra in questo paese. In Oregon, Portland si contende il titolo con le migliori città di tutto il mondo. La Rose City ospita il maggior numero di birrerie di qualsiasi altra città del mondo. E chiunque sia stato almeno una volta nella zona a nord ovest sa che oltre che per la quantità, Portland eccelle anche per la qualità della birra artigianale che lì è prodotta. La Central Oregon’s Deschutes Brewery ha aperto il suo pub di Portland nel 2008, che offre dei piatti molto buoni da accompagnarsi con la raffinatissima Black Butte Porter, un’imperial stout (un tipo di birra scura molto forte) invecchiata in botte. Nell’utlimo weekend di Luglio, Downtown’s Waterfront Park ospita l’annuale Oregon Brewers Festival, quest’anno alla sua venticinquesima edizione. Negli Anni Ottanta la Widmer Brothers Brewing Co. ha contribuito in modo significatico a far conoscere Portland come la più grande città statunitense per la produzione di birra artigianale grazie all’invenzione dello stile hefeweizen-americano (un tipo di produzione tipico della germania che parte dal lievito di frumento). Al Gasthaus Pub puoi fare esperienza di questo tipo di produzione, e puoi trovare anche un’altra dozzina circa di birre Weidmer.


La mappa mostra per ogni stato la miglior birreria a produzione sostenibile ed indipendente.

St. Louis. All’ombra del più grande stabilimento dell’impero multinazionale Budweiser, sono le minuscole birrerie artigianali di St. Louis a produrre alcune delle più buone birre che si possono trovare negli Stati Uniti. Secondo le ultime stime, ci sono più di una dozzina di birrifici dislocati a meno di quaranta minuti dal centro della città, e l’anno prossimo quasi sicuramente ne apriranno altri due. Anche quest’anno in giugno tutte queste case produttrici si sono riunite per il Brewers Heritage Festival a Forest Park, appuntamento che vede la presenza sia di birre A-B (della AnheuserBusch InBev) che delle più buone birre artigianali locali. I bevitori più esperti si ritrovano sempre nella Schlafly Tap Room, dove la St. Louis Brewery offre i suoi più freschi boccali di birra (per esempio l’American Pale Ale, che si sposa benissimo con il gustoso fish and chips che si può trovare in città).

Se si presenta l’occasione, il nostro consiglio è quello di girarle tutte. Si può trovare un’incredibile varietà di birre alla spina nei posti appena citati così come al brewpub Pizza Port, che ha aperto il locale circa due anni fa ma attira già una numerosa clientela. A circa trenta miglia a nord della città a Escondido è il locale World Bistro & Gardens della Stone Brewing & Co. a offrire il cibo migliore accompagnato dalla migliore birra artigianale: più di trenta specialità alla spina e dozzine di bottiglie di birra locale e proveniente da diverse parti del mondo.

San Diego. Nella contea di San Diego si possono trovare alcune delle birrerie più innovative e prestigiose d’America: Stone, Green Flash, Ballast Point, Lost Abbey, e molte altre ancora. 45


4.2

CHILLIN’

UNHAPPY HOUR di Filippo Bologna

U

n tempo appannaggio di aristocratici signori che giocavano a bridge e fumavano col bocchino, eccentrici viaggiatori stranieri che trascorrevano oziose vite nei migliori alber- ghi del mondo e alcolizzati professionisti che ammazzavano il tempo (e il fegato) ai tavoli dei bar, oggi l’aperitivo è diventato un obbligo sociale, una moda e un’ossessione. Liceali che si mettono insieme o si lasciano per uno Spritz di troppo, manager molto – forse troppo – sicuri di sé che concludono fusioni societarie sorseggiando un Long Island, casalinghe che si scambiano imbarazzanti confidenze raschiando con la cannuccia il fondo zuccheroso di un Mojito, teppisti che si ritrovano col calicino di prosecco in mano prima di posarlo per picchiare un pensionato che chiede gentilmente di spostare la macchina in doppia fila. Tutto ormai avviene prima, durante o dopo l’aperitivo. Possibile che i sacerdoti dell’aperitivo, i protagonisti dell’happy hour – che ci sarà poi da stare tanto allegri? – non si accorgano che il rito serale cui partecipano, più o meno consapevolmente, non ha nulla a che spartire con l’aperitivo? Una persona che ama bere non può amare l’aperitivo così come si è codificato negli ultimi anni. L’aperitivo dovrebbe “aperire”, ossia aprire, preparare lo stomaco alla cena stimolando i succhi gastrici, e non chiuderlo inzeppandolo di cibo fino a rendere la cena uno stucchevole pleonasmo. Chi s’intende un minimo di alcolici, sa benissimo che i maggiori effetti di quella droga legalizzata che per convenzione 46

chiamiamo alcol si ottengono a stomaco vuoto. È risaputo che bere a digiuno, soprattutto i primi sorsi, provoca sensazioni prodigiose quali immotivata fiducia nel futuro, smodata indulgenza verso i propri difetti e irragionevole stima di se stessi. Ora però, chi sa queste cose sa anche che bere a digiuno ubriaca, e rotolare sotto il tavolo non è il modo migliore per godersi un aperitivo. Il segreto sta nel mantenersi in un limbo di sconsiderata ebbrezza, un vago ma diffuso benessere che dev’essere mantenuto costante, come la temperatura nella sauna versando la giusta quantità d’acqua sulle pietre bollenti. E per non ubriacarsi bisogna mangiare. “Cosa mangiare” è altra questione, ma non meno importante. Poco, decisamente poco. Intanto lasciate perdere quei pastoni immondi di farro, quelle insipide paste fredde e panzanelle scondite, quegli essudati tramezzini e quegli esotici spiedini di frutta che accompagnano ogni buffet. Anzi, usate la presenza di questi mangimi come indicatore di degrado e diffidate di quei posti che li ostentano senza vergogna: sotto piatti e piattini si cela quasi sempre l’incapacità di servire al cliente un cocktail fatto a regola d’arte. L’aperitivo è diventato oggi la Caritas dei ricchi, la mensa della classe media, dove tutti credono di poter mangiare con 10 o 15 euro, quando in realtà per quella cifra nel migliore dei casi otterranno due risultati in uno: un aperitivo mediocre e una cena scadente. Provate dunque a osservare la frenesia compulsiva mentre si consuma la tonnara dell’aperitivo, contemplate la desolazione del buffet dopo che si è consumato l’orrido pasto: lo scenario vi


si rivelerà in tutta la sua decadente verità, rassomigliando molto più ai resti di un banchetto funebre che agli avanzi di una festa nuziale. E io mi sento sempre più solo. Non sono le persone a mancarmi. Ma i posti in cui incontrarle. Sapevo che in quella via c’era un bar, un piccolo bar aperto fino all’alba. Stretto come un budello, squallido e un po’ buio, il bancone di marmo e il pavimento di graniglia, lo specchio dietro alle etichette della sambuca e degli amari. Un posto dove di notte i netturbini con gli occhi gonfi di sonno venivano a girare lentamente il cappuccio e i transessuali col trucco bistrato a divorare tramezzini avanzati, i poliziotti a bersi un caffè e i tossici a chiedere un limone. Tutti assieme, in una reciproca ma civile diffidenza. Torno dalle vacanze. Giro

nervosamente per il quartiere, cerco quel bar ma niente. Eppure dev’essere qui, mi dico, anzi, ne sono sicuro. Poi d’un tratto riconosco la piazza, la farmacia all’angolo, il fioraio all’incrocio. E finalmente, tra le rovine dei neon, trovo ciò che resta del mio bar. Al posto di quel misericordioso ristoro notturno c’è una sfarzosa luminaria. E davanti alle vetrine niente netturbini né poliziotti, niente tossici né transessuali. Ma un crocchio di spavaldi studenti con le camicie inamidate e i pantaloni bassi che lasciano sfrontatamente intravedere i boxer cifrati, e studentesse coi capelli biondi e le borse firmate. Sostano sotto grandi ombrelloni col marchio di un rum. Bevono e fumano seduti ai tavoli, o in piedi, poggiando i bicchieri di plastica sulle macchine parcheggiate. Ridono scoprendo denti bianchissimi mentre si mostrano le foto negli schermi dei telefonini. Come un clochard butto l’occhio dentro il locale senza avere il coraggio d’entrare: luci sparate, baionette di prosecco, arsenali di Aperol e Campari, un frigo carico d’instabili sostanze fluorescenti, e un barman imbrillantinato che tradisce il nervosismo di chi è ancora in prova. Il padrone che prima mi offriva un cicchetto di Amaro del Capo – e che rifiutavo con timida determinazione – troneggia in cassa; conta i soldi tra le dita grasse e con la coda dell’occhio segue l’andirivieni ancheggiante di giovani cameriere dalle camicie scollate e dalle unghie ricostruite. Rimonto in moto con l’orgoglio ferito dei vinti, e, mentre mi allontano, piango un compagno caduto. L’ennesimo in città, dopo che hanno messo una tavola calda al posto della rivendita di libri usati, dopo che hanno chiuso la sartoria artigianale per insediare un outlet spagnolo. È una marea che si ritira, lenta ma inesorabile, si porta via alberi e panchine, pensiline e piazzette, barbieri e artigiani, botteghe e caffè, tutto viene risucchiato. E quando il mare ha finito di ritirarsi, dalla riva in secca contemplo lo sfacelo e faccio una stima dei danni che mai nessuno potrà risarcire: tavoli di alluminio, pavimenti in finto marmo, sedie di plastica, lampade alogene, insegne stroboscopiche, schermi al plasma, murales, acquari e piante tropicali.

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4.3

CHILLIN’

GEOCACHING: LA CACCIA AL TESORO 2.0 Arriva un nuovo gioco per passare in modo divertente il proprio tempo libero in modo salutare e all’aria aperta: in sella alla vostra bicicletta, armati di Gps andate alla scoperta di tesori nascosti. di Fabio Lorenzi

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e per caso non sapete come trascorrere la vostra giornata, che siate in città o in vacanza, prendete il vostro cellulare e concedetevi un ritorno all’infanzia. C’è un applicazione da scaricare, gratuita, si chiama geocaching ed altro non è che una caccia al tesoro a cui partecipa tutto il mondo. Perché a volte la tecnologia è anche tornare


indietro nel tempo e ripescare il bambino che è in ognuno di noi. I partecipanti del gioco nascondono - in un qualsiasi angolo del mondo - nei luoghi in cui si trovano, delle scatoline (cache). Poi devono pubblicare sul sito di riferimento sia le coordinate (longitudine e latitudine) in cui si trova il contenitore, rilevate accuratamente con un ricevitore Gps, sia una descrizione del luogo, il tutto accompagnato da eventuali suggerimenti. Il gioco nasce in alcune città statunitensi e oggi si è diffuso in tutto il mondo. Per giocare basta accedere all’applicazione e la mappa gps fornisce le coordinate per i luoghi più vicini. Le scatoline, tesoro virtuale, sono ben nascoste e contengono - è la regola del gioco - il segno del passaggio di chi è arrivato prima di noi. Oggetti di nessun valore commerciale: bigliettini, piccoli giocattoli, monetine, insieme con un foglio su cui annotare il ritrovamento. E si scopre che prima di noi la cache è stata scoperta da americani, australiani, giapponesi, europei un po’ da ogni Stato. Ognuno ha lasciato la propria firma, un pensiero, un oggetto, e doverosamente segnalato sul sito l’avvenuto ritrovamento. Chi organizza la caccia al tesoro lascia su internet

delle indicazioni: quiz, indovinelli che alla fine portano a dei numeri. Le cifre vengono tradotte in coordinate Gps. Per trovarele scatole del tesoro si gira la città a piedi o in bicicletta usando i navigatori portatili (quelli usati per fare trekking). Segretezza, intuito e passioni gli ingredienti per participare al gioco. Da ricordare la regola fondamentale del geocaching: mai posizionare le cache sopra i monumenti, in luoghi che potrebbero intralciare il passaggio di pedoni e auto e in posti a pagamento come i musei.

Storie di geocachers Butch e Jane hanno voluto festeggiare il loro 15° anniversario di matrimonio in un modo molto speciale: hanno fatto fare il giro del mondo a una scatola. Dentro la loro foto e una moneta celebrativa del loro “sì”. Il recipiente è stato trovato su un muretto vicino allo Yosemite Park. Il suo percorso è tracciato on line: da San Francisco, a San Diego, passando per Los Angeles. 49




4.4

CHILLIN’

BUONANOTTE AI SUONATORI di Marco Valsecchi

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a mattina dopo, quello che più stupisce è risvegliarsi perfettamente riposati. E magari ritrovarsi a commentare le ultime ore come se si trattasse di un sogno condiviso. «C’è stato un momento in cui un suono continuava ad ascendere, eppure tornava sempre alla frequenza iniziale. Ma non sono certo di averlo sentito davvero», azzardo davanti a un caffè. Il mio compagno di colazione conferma: «Lo ricordo anche io. Credo sia successo poco prima che il gallo là fuori si mettesse a cantare a tempo». Nulla di strano, in realtà. Questo è lo sleeping concert, un’esperienza prima che uno spettacolo. Il concetto è semplice: ci si trova in una stanza e ci si rilassa tutti insieme per una notte intera, mentre dj e musicisti si alternano nel fornire una colonna sonora adatta ad accompagnare l’alternarsi di sonno e dormiveglia. Dal punto di vista culturale, il riconoscimento di un legame tra musica e sogno ha origini ancestrali, ma a dare una forma compiuta a questo tipo di concerto è stato a partire dagli anni Ottanta l’americano Robert Rich, le cui sperimentazioni sonore hanno aperto la via seguita negli anni Novanta dal duo tedesco Deep Space Network. Anche in Italia, dove negli ultimi anni gli sleeping concert, ancorché occasionali, hanno animato in più di un’occasione le notti di centri sociali e spazi indipendenti. Quello che è mancato, finora, è un format stabile e continuativo. Ma anche su questo fronte ci si sta muovendo. A Milano, dopo alcune date di affinamento (tra 52


cui quella in cui ho avuto il piacere di godermi l’infinito suono ascendente di cui sopra), si è formato lo Sleep Collective, un gruppo variegato formato da appassionati di elettronica che hanno deciso di unire i rispettivi progetti per diffondere il verbo del suono notturno. Sono loro a spiegarmi come nulla possa essere lasciato al caso. «Innanzitutto, è importante realizzare un ambiente accogliente. Ai partecipanti viene quindi richiesto di portare quello che serve per essere comodi e non avere freddo», esordisce Luca Isabella, dj e formatore. «Poi vi è l’aspetto musicale. Per modulare i sogni, il suono deve essere a basso volume e avvolgere il pubblico. Oppure si può giocare con il dormiveglia fornendo stimoli che possano essere utilizzati dal pubblico per cadere in uno stato anche di sogno a occhi aperti o di veglia rilassata», prosegue Massimiliano Viel, musicista e insegnante. «Le variabili su cui si lavora sono quelle più difficilmente godibili durante la veglia cosciente. Ritmo dilatato, durata prolungata, intensità e frequenze subliminali, variazioni impercettibili, suoni e strutture atipiche o stranianti», conclude il filosofo Matteo Saltamacchia.

Preso atto di quelle che sono le premesse di un buon sleeping concert, per capire come si arrivi ai risultati che ho sperimentato sul mio corpo mi rivolgo al dottor Raffaele Manni, responsabile dell’Unità di medicina del sonno dell’Istituto neurologico nazionale Casimiro Mondino di Pavia, che spiega: «La tendenza all’imagerie e al pensiero per libere associazioni è tipica del predormium. In questa fase, che precede l’addormentamento, alcune aree del cervello, in particolare quelle dell’attenzione, si disattivano a favore di altre. Così come a livello anatomico si passa dal controllo volontario a quello involontario di numerose funzioni. In più, la musica può funzionare come un esercizio di rilassamento, rendendo più efficace il sonno». Tutto regolare, insomma. Anche quello splendido quarto d’ora – verso le otto del mattino – in cui, steso sul mio sacco a pelo, mi sono visto risalire un canale d’irrigazione nuotando a marcia indietro sulle note di una lentissima progressione elettronica.

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#1 CULT

Autore Flying Lotus Titolo Until the quiet comes Etichetta Warp Records Anno 2012 Genere Elettronica/jazz

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Al momento di presentare la propria futura uscita, Flying Lotus aveva parlato di “collage di stati mistici, sogni, sonno e canzoncine per la buonanotte”. Una sorta di scivolo che inizia dagli altipiani della coscienza per abbracciare, nelle profondità più terrene, i movimenti segreti del subconscio inesplorato. Quel che pare certo dall’ascolto di Until The Quiet Comes, è che la carriera di Steven Allison ha finalmente trovato una forma e una direzione, dopo aver raggiunto tutti gli scalini dell’autoconsapevolezza.


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La forza dell’album risiede negli contrasti in campo aperto tra le anime di Flying Lotus: da una parte la spinta black, che urla dalle periferie della sua Los Angeles, dall’altra l’asettico ritmare delle drum machine, in diretta da un’autobahn mitteleuropea. Poi il groove che fa a pugni con l’onnipresente broken-beat, la melodia e il rumore protagonisti di un romanzo cavalleresco dove il successo e la sconfitta sono stati temporanei dell’essere. Però, come tutti i sogni, non esiste solo il crepuscolo mio-rilassante (e così vicino alla morte) della perdita di coscienza, annunciato dagli echi soul di All In e di Only If You Wanna. Dopo, a palpebre chiuse, inizia il vero spettacolo: come nel manuale audio-visivo per sogni lucidi Waking Life, il viaggio di Flying Lotus incontra i premi e le asperità dell’opera di formazione personale che si compie, inconsapevolmente, ogni notte. Allora è proprio la tonalità confusa di Electric Candyman con Yorke, insieme alla classe di Niki Randa nella favola di Getting There, a schiudere le porte multicromatiche e intimamente spaventose della narrazione subconscia. Ci sono anche le oscure atmosfere di sintesi nella Phantasm di Laura Darlington, la ninna nanna di gusto Four Tet con Putty Boy Strut e la sboccata rivelazione di Sultan’s Request. Ma il punto da toccare è ancora lontano, più

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lontano della sperimentazione del vecchio Cosmogramma, che a tratti è ancora qui a reclamare la paternità della reazione minimalista odierna. Non c’è più nulla di quel trionfo progressivo di fruscii ed esplosioni, nella parabola sonora di Until The Quiet Comes, e lo strappo risuona tanto doloroso quanto riesce a mascherarsi da sotterranea presenza. Proprio come negli attimi più densi di See Thru To U, lo zenit acustico della prova, dove la rinascita ibrida del r’n’b attraverso la mano ostetrica di Erykah Badu si configura come un passo avanti, nel futuro prossimo dell’artista. Un passo, come sempre, a due facce: rassicurante nell’incedere di basso, quanto inquietante nel tamburellare frenetico di un’orchestra fantasma. Until The Quiet Comes sembra la più coerente espressione di ciò che coerente non può essere. I sogni, il passato, le inclinazioni contraddittorie di mastro Flying Lotus modellano un Pinocchio pronto a tendersi verso le meraviglie del mondo, quanto disorientato dalle direzioni opposte che vorrebbe intraprendere. Senza mai urlare, senza urlare più come in Cosmogramma, Steven Allison confeziona un disco che rinuncia al monolitismo dell’Ego e che ammanta di uniforme eleganza lo zucchero della gioia e le cicatrici che marcano il dolore.

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#2 CULT

Regista Jim Jarmusch Titolo: Coffe and cigarettes Genere Commedia Anno 2003 Colore B/N Durata 95 min 58

Il cinema di Jim Jarmusch è diventato nel corso degli anni un piccolo mondo a parte, impossibilitato ad acquisire un senso altro rispetto alla propria autodeterminazione. Un cinema che vive e si nutre di se stesso, dei propri ritmi, delle proprie regole interne. Coffee and Cigarettes acquista, in questa chiave di lettura, il ruolo di manifesto programmatico. Non a caso la sua struttura, un film in bianco e nero a episodi, attraversa l’intera filmografia del cineasta: il primo episodio risale al 1987 e vede protagonista Roberto Benigni, mentre


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l’episodio in cui Steve Buscemi spiega ai due gemelli Joie e Cinqué Lee la sua teoria sulle contraddizioni della vita di Elvis Presley fu girato nel 1989. Coffee and Cigarettes appare fin dal suo incipit come una sorta di conceptalbum, di cui il tema è quello dei rapporti umani e dell’interazione fra i personaggi. Questi rapporti fragili, spesso immotivati e senza alcuna possibilità di una reale evoluzione drammatica, sono indotti da elementi esterni, quali il fumo e il caffè. Discorsi e situazioni da bar, dunque, puri e semplici istanti, nulla di più. Ma l’arte sulla quale fa forza il cinema di Jarmusch non ha in se nulla di bozzettistico: questi frammenti di dialoghi e di vita basano la loro forza e la loro coerenza soprattutto sull’uso reiterato di alcuni elementi stilistici, propri dell’intera esperienza dell’autore, come il bianco e nero e le dissolvenze. In questi undici episodi non sono previsti, e non potrebbe essere altrimenti, movimenti di macchina; bastano e avanzano i piani fissi, le inquadrature dall’alto, i primi piani. Un cinema in continua ricerca di una sinapsi che congiunga i frammenti e che li leghi, basato sul contrasto: quello tra il bianco del fumo delle sigarette e il nero del caffè rappresenta quella spinta a cercare un rapporto umano in realtà irrealizzabile, perché il bianco resta bianco e il nero resta nero (come evocano i tavolini a scacchiera intorno ai quali si svolgono gli eventi del film), nonostante la frenetica – e a tratti spasmodica – spinta che i personaggi provano verso l’opposto. Un film che si conclude, dopo aver mostrato la paranoia, la schizofrenia e la nevrosi in tutte le possibili sfaccettature, con una morte, senza comunque la pretesa di voler mettere la parola fine. Quella che Jarmusch conduce per poco più di un’ora e mezza è una rappresentazione molto ben riuscita – a tratti quasi unica – della sottile arte dell’inutile, dell’apparentemente superfluo; ed è proprio per questo che il frammento che può risultare più indigesto, quello che mostra Renée French alle prese con un cameriere assillante, è in realtà l’elemento fondamentale di questa opera cinematografica. In quei cinque minuti di stasi, nella reitera-

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zione degli eventi e delle frasi, nella paralisi quasi congelante del quadro, c’è tutta l’essenza del cinema di Jim Jarmusch (in sé, sembra quasi di assistere a una versione ridotta ed estremizzata del geniale incipit di Dead Man) e c’è tutta la forza di un film che non va assolutamente visto come un collage di idee, bensì come un concept-album. La parabola ironica di una società underground, schiava del consumo e della dipendenza, scivola nella malinconica revivescenza dei fasti di un passato scomparso (rappresentato dalla Parigi anni ’20 e dalla New York dei Seventies) e nella celebrazione nostalgica della gioia di vivere e della vita stessa nel momento in cui se ne va, trovando la propria, legittima conclusione in un ultimo dialogo di commiato, dove il terribile caffè servito in tristi bicchieri di carta diventa champagne e con esso anche il gusto dell’esistenza si fa più dolce e sopportabile.

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#3 CULT

Autore Tom Hodgkinson Titolo L’ozio come stile di vita Genere Saggistica Anno 2004 Casa editrice Rizzoli

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“Oziare significa essere liberi, e non soltanto di scegliere fra McDonald’s e Burger King o fra Volvo e Saab. Significa essere liberi di vivere la vita che vogliamo fare, liberi da capi, salari, pendolarismo, consumo, debiti. Oziare significa divertimento, piacere e gioia. C’è una rivoluzione che sta fermentando, e la cosa grandiosa è che per prendervi parte non dovete fare assolutamente nulla.” È Tom Hodgkinson a scriverlo in questo libro che ci prende per mano per guidarci attraverso questo mondo fatto di materassi, cuscini


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e tapparelle abbassate. Lui se ne intende, non per niente è il direttore di The Idler (L’ozioso), libro-rivista semestrale, da anni oggetto di culto in Inghilterra, in cui scrittori e umoristi esaltano i piaceri dell’ozio e della pigrizia e combattono l’idolatria del lavoro. Attingendo a una letteratura dell’ozio che è antica e prestigiosa, citando le opere dei suoi grandi cantori, da Bertrand Russell a Walt Whitman, da Robert Louis Stevenson a Friedrich Nietzsche, da George Byron al dottor Johnson, Hodgkinson ci conduce attraverso le ventiquattr’ore di una frenetica giornata del ventunesimo secolo per svuotarle da ansie, compiti e doveri e suggerirci ventiquattro differenti modi di oziare: passeggiare senza una meta, meditare, coltivare l’arte della conversazione, contemplare il cielo stellato, indulgere a piccoli vizi come il tabacco e l’alcol, trasformare il sesso da un exploit ginnico in un’attività rilassante, fare la siesta, sognare a occhi

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aperti... Oziare quindi non è un reato, non dobbiamo sentirci male se non facciamo niente. “Come ci dice Lawrence d’Arabia, gli sgobboni non hanno portato alcun vantaggio al genere umano.” Per il genere umano non è sempre stato così; siamo nati liberi e ci piace oziare, è la nostra natura umana. La vita semplice di una volta era intrecciata con il lavoro, si seguivano i ritmi della natura, ma con l’arrivo della rivoluzione industriale è cambiato tutto. In un mondo dominato dall’etica del lavoro, dall’efficienza, da martellanti messaggi mediatici che ci incitano a fare, produrre, guadagnare, consumare, il non atto dell’ozio è diventato un atto sovversivo, rivoluzionario, una rivendicazione di individualità e indipendenza, un diritto che dobbiamo rivendicare. Ma, come diceva Oscar Wilde, «non far niente è il lavoro più duro di tutti».

I L M A N I F E S TO La religione dell’industria ha trasformato gli esseri umani in robot del lavoro

Il denaro è una costrizione mentale Possiamo crearci il paradiso

Gioia e saggezza sono stati rimpiazzati da lavoro e preoccupazione

Non c’è nulla che deve essere fatto per forza

Non legarti a niente Prima vivere poi lavorare Non sapere niente Il tempo non è denaro

Dobbiamo difendere il nostro diritto di essere pigri

Sii buono con te stesso Smetti di spendere Resta a letto

Il lavoro ci ruba tempo Produttività e Progresso hanno generato ansia e disagio La carriera è un fantasma

Lascia il lavoro L’inazione è la fonte della creazione

Studia l’arte di vivere

Arte, persone, vita

Chi vive piano muore vecchio

Pane, pancetta, birra

Non fare niente

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Direttore Filippo Castellano (filippo.castellano.92@hotmail.it) Vicedirettori Adamo Acquistapace_Marcello Biffi_Francesca Casadio Francesco Dell’Oro_Natalia Laptes Redattore Adamo Acquistapace (adam_@hotmail.it) Art Director Marcello Biffi (mjbiffi@hotmail.it) Photo research Francesca Casadio (francescasadio@libero.it) Photo editor Francesco Dell’Oro (dello-bello@hotmail.it) Fashion editor Natalia Laptes (natalia.a.laptes@gmail.com) Columnists Giulia Arosio_Filippo Bologna Matteo Bordone_Fausto Enzi Fausta Filvier_Giacomo Girola Amy Meyer Jaffe_Fausto Enzi Fabio Lorenzi_Matteo Marconi Gianfranco Raffaelli_Marco Valsecchi website www.yellowfellow.com sponsor

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