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La cura del vetriolo: il presente

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di Laura Colosi

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Ammettilo, se ti trovi a leggere questo articolo è perché il titolo ti ha incuriosito e vuoi sapere cosa diamine sia il vetriolo e di cosa io stia parlando. Bene, ti assicuro che risponderò a tutte le tue domande. Il vetriolo non è altro che il veleno dell’amarezza, prodotto tossico presente in misura maggiore o minore nell’organismo umano che potenzialmente può essere messo a rischio da questo se si trova in una situazione di debilitazione. Le persone colpite dal male perdono a poco a poco ogni voglia di agire, e trascorso qualche anno non sanno più uscire dal proprio mondo, avendo sprecato le proprie energie nello svolgere ogni cosa in modo automatico, senza alcuna grande emozione interiore. Tra i malati di vetriolo vi è Veronika, protagonista del romanzo di Paulo Coelho «Veronika decide di morire» che a causa di questo male tenta il suicidio e finisce a Villete, clinica privata di malati di mente con a capo il dottor Igor, il quale proprio su questo veleno sta scrivendo una tesi con l’intenzione di presentarla all’Accademia delle Scienze della Slovenia. Come vi ho già anticipato Veronika, giovane slovena di 24 anni, un giorno prende la decisione di suicidarsi e per farlo ingerisce una grande quantità di antidepressivi, ma perché? Problemi finanziari?

Familiari? O di natura amorosa? In realtà nulla di tutto questo, Veronika si è semplicemente stancata di una vita monotona che non le provoca alcuna emozione, sembra affetta dunque dall’amarezza di cui parlavamo. Questa decisione porta la ragazza nella clinica e tutta la storia ruota intorno a un’emblematica notizia, l’ingerimento degli antidepressivi le ha danneggiato irrimediabilmente il cuore ed è destinata a morire nel giro di una settimana; alla fine nonostante l’apparente salvataggio sembra avere ottenuto ciò che desiderava da principio, morire. Ma cosa significa essere consapevoli che siamo finiti ancor prima di finire?

Avviene una sorta di anticipazione della morte (ebbene sì sto facendo riferimento proprio a quella anticipazione della morte teorizzata dal filosofo tedesco Martin Heidegger nella pars costruens analitica esistenziale del problema dell’essere affrontato in «Essere e Tempo») che ci rende responsabili delle nostre scelte in funzione alla nostra realizzazione personale, al nostro essere progetto. Si abbandona dunque la via della vita inautentica, del sì impersonale, la via di una vita che si lascia vivere, non riconosce gli altri, dove non ci si assume responsabilità di scelta e si rinuncia alla propria individualità cadendo nel futile chiacchiericcio, per lasciare posto alla via della vita autentica, dell’essere per la morte, ossia dell’accettazione della finitezza umana vissuta con un sentimento d’angoscia ben diverso da quello della paura. L’angoscia infatti, al contrario della paura che ha una valenza negativa e che arresta l’agire, ha una connotazione positiva nella misura in cui trovandosi di fronte alla morte, al nulla, invita all’azione, all’apertura nei confronti dell’esistenza nella consapevolezza della condizione di finitezza umana. Per essere più chiari si riscopre la voglia di vivere proprio nel momento in cui ci si trova di fronte alla morte, come succede a Veronika. Ed è proprio tale sentimento d’angoscia esistenziale che vive la nostra Veronika, la quale alla notizia della sua oramai prossima morte si ritrova a possedere esclusivamente il presente: «tutto ciò che possiedo è il presente e – tra parentesi- un presente molto breve» ci dice la protagonista alla quale Mari, ex avvocato affetta d’attacchi panico e ora ricoverata a Villete, risponde «È ciò che del resto hanno tutti: il presente è sempre molto breve. Alcuni pensano di possedere anche un passato, dove hanno accumulato tante cose, e un futuro, nel quale potranno stiparne molte altre. […] ».

Straordinario è come la condizione di Veronika influenzi gli altri ricoverati della clinica, come per l’appunto Mari, con la quale si svolge il dialogo prima riportato, Zedka, affetta di depressione dovuta a un amore lontano, ed Eduard, uno schizofrenico. Coloro che entrano in contatto con lei, con una condannata a morte, entrano anche in contatto con la sua rinnovata angoscia di vita, se così possiamo chiamarla, e ne rimangono contagiati divenendo anche loro consapevoli che la condanna della morte aleggia sulla testa di ogni singolo uomo e che per questo la vita può essere vista come un’occasione. Spesso si hanno tante cose da fare e le si lasciano per il futuro, come se la vita fosse eterna ma quando ci si rende conto che non è così qualcosa scatta, si abbandona la paura che ci frena dall’essere diversi, e il presente, per quanto breve per la nostra Veronika, diventa lo strumento di riappropriazione della propria vita, alla quale la ragazza si riavvicina.

È infine questa volta Zedka che rivolgendosi a Veronika pronuncia delle parole che ne sintetizzano la condizione: «Non hai niente da perdere. Molta gente si rifiuta di amare perché ha tanto futuro e tanto passato in gioco. Nel tuo caso, esiste solo il presente». Ed è per via di questo breve presente che Veronika si pone una domanda centrale nel nostro discorso «Posso spingermi più lontana di dove sono arrivata finora?» e direi che la risposta a tale quesito è un’affermazione successiva che la stessa protagonista fa: «Ho bisogno di correre il rischio di essere viva». Il bisogno di correre il rischio di essere vivi è un tema che viene trattato, questa volta però in chiave metaforica, anche in «George Gray», una lirica appartenente alla raccolta poetica di Edgar Lee Masters «Antologia di Spoon River», dove ogni poesia corrisponde all’epitaffio di ciascuna delle lapidi degli abitanti dell’immaginario paesino di Spoon River. In questa lirica il rischio è simboleggiato dalla necessità di «alzare le vele» che il protagonista ormai morto manifesta alla visione della sua lapide sulla quale è scolpita per l’appunto una barca con le vele ammainate in un porto. In una lapide, quindi per mezzo di un emblematico simbolo del passato, Edgar Lee Master con maestria ci svela il significato del presente, un presente che George Gray è pentito di non aver vissuto appieno: «Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno» - afferma infatti George. Parole che del resto suonano molte vicine a quelle prima citate rivolte da Zedka a Veronika.

«Dare un senso alla vita può condurre alla follia ma una vita senza senso è la tortura dell’inquietudine e del vano desiderio- è una barca che anela al mare eppure lo teme». Ciò a cui questi versi si riferiscono, attraverso la voce di un uomo lacerato dal rimpianto, è la paura, la paura di alzare le vele e di scoprire fino a dove la nostra barca, sempre attraccata al porto, può arrivare. È la paura di dare un senso alla propria vita per via del rischio di diventare folli non rendendosi conto che, così come apprende Veronika, si può convivere con la propria follia interiore in modo che questa sia liberatoria e ci permetta di guardare la nostra e la follia altrui senza terrore. La cura del vetriolo è vivere autenticamente il presente, ossia la propria vita. Come direbbe un celebre regista «si alza il vento, bisogna tentare di vivere».

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