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Immaccariarsi- Fiat Lux X

Di Alessandra De Varti

Installarsi in casa altrui per alloggiarci e banchettarci a sbafo. Etimologia: Il verbo “immaccariarsi” fu coniato dal letterato fiorentino Alessandro Allegri, vissuto a cavallo fra il 1 500 e il 1 600. Il verbo deriva dalla locuzione di etimologia incerta “a macca”, che nei dialetti settentrionali ha il significato di “a ufo”, “a sbafo”.

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“Parasite”, il film del regista sud coreano Bong Joon-hu, è stato uno straordinario successo: ha vinto 6 premi Oscar e ha prepotentemente indirizzato lo sguardo del pubblico medio occidentale sulla produzione cinematografica orientale, che da tempo faceva sfoggio di sé a Cannes, a Venezia e a Berlino, ma restava pressocché ignota alla cultura pop, che ha sempre avuto preferenze per l’America. Ma facciamo un passo indietro, torniamo a quindici anni fa, quando a Venezia quello che sarà considerato l’ultimo grande capolavoro di Kim Ki-duk, prima di scadere nel manierismo, conquista il Premio speciale per la regia. Con “Ferro 3 –La casa vuota” restiamo in tema di parassitismo, di chi vive alle spalle altrui, ma la mordace critica sociale di Parasite qui si addolcisce in un’atmosfera onirica e poetica, muovendosi su quel confine, sempre più labile, fra le dimensioni di sogno e realtà, uno dei temi che domina il mondo del cinema sin dai suoi albori. Il parassitismo descritto da Kim Ki-duk va oltre la conquista di un tetto per la notte e di un pasto caldo, ma permea l’animo del protagonista, che “si immaccaria”, più che nelle case, nelle vite delle persone. Il nostro protagonista non ha nome né voce, né una casa che sia sua, vive infiltrandosi per qualche ora nelle abitazioni altrui e nelle loro abitudini, adattando la sua vita a quella dei suoi inconsapevoli ospiti.

Usando dei volantini per accertarsi che i proprietari non siano in casa, entra in un appartamento vuoto che abita fino al loro ritorno: si fa il bagno, usa i loro spazzolini, si prepara da mangiare il loro cibo, gioca con ciò che trova e si scatta fotografie accanto alle fotografie appese alle pareti; infine, in una sorta di muto e segreto ringraziamento, si occupa delle faccende di casa, come lavare i vestiti sporchi o riparare ciò che trova di rotto. La vita mutevole del protagonista, che cambia e si trasforma, irriconoscibile ogni volta, a seconda della casa che abita, resterà ancorata a quella della protagonista femminile, anche lei senza nome e per lo più silenziosa. Quando lui entra in una casa che credeva vuota, i ruoli dei due protagonisti si invertono: la legittima proprietaria si nasconde per osservare lo sconosciuto che si è installato in casa sua, mentre il parassita si aggira libero fra le stanze, usufruendo della vasca da bagno, delle camere da letto e del set da golf in giardino. E’ qui che lo vediamo, per la prima volta: un bastone da golf, con su inciso il numero 3, un ferro 3, una delle mazze meno usate nel gioco, che sarà l’arma del protagonista. Una terza figura si interpone fra i due personaggi principali, rompendo il silenzio, che regna quasi incontrastato per tutto il film, con la sua voce autoritaria che squilla dalla segreteria telefonica: il marito di lei, che, al contrario dei due protagonisti parla, grida, minaccia, supplica, chiede perdono e giura vendetta. Nella galleria dei personaggi della pellicola, l’immagine del marito è una delle più nitide: un uomo frustrato e insoddisfatto, afflitto da un forte complesso di inferiorità nei confronti della moglie, che tenta di sopraffare fisicamente, picchiandola e violentandola, per ristabilire una posizione di superiorità; allo stesso tempo, è morbosamente attaccato alla donna e geloso di lei, al punto da tenerla quasi segregata in casa. Per dare alla donna la possibilità di fuggire, il protagonista maschile decide di esporsi e farsi notare dal marito di lei, da poco rientrato a casa, per poi colpirlo con delle palline da golf fino a farlo accasciare a terra. La donna accetta la silenziosa offerta del protagonista di unirsi a lui, alla scoperta di molte vite, senza tuttavia la possibilità di sceglierne una. Il contrappeso di una storia che si tiene in equilibrio fra l’improbabile e l’impossibile è il costante tangibile pericolo di essere scoperti, che più volte si trasforma in realtà, innalzando la tensione e ricordando allo spettatore di non abbandonarsi così facilmente alle tenere sequenze d’affetto fra i due protagonisti.

Fu Truffaut a dire che “coloro che conoscono il segreto perduto, che hanno comunicato all’epoca del muto, sanno qualcosa che tutti i registi nati col sonoro non sapranno mai”. Kim Ki-duk è nato negli anni ’60, il sonoro nel cinema non era più una rarità da anni, eppure sembra di scorgerlo (perché non si può sentire) quel segreto a cui accennava François Truffaut. I due protagonisti restano in silenzio per l’intero film, eccezion fatta per un paio di battute finali di lei: c’è il rombo della moto di lui che sfreccia per le strade, le parole di qualche personaggio secondario, la musica, ogni tanto, ma loro stanno zitti. Creano un immenso vuoto, una persistente assenza che cancella ogni altro rumore, appiattisce le voci di chi li circonda, nella spasmodica ansia che uno dei due possa dire una sola parola. I due protagonisti comunicheranno con la musica, le struggenti canzoni d’amore che andranno a comporre la colonna sonora, nella maggior parte dei casi, saranno scelte dai personaggi principali come sottofondo per la loro quotidianità fittizia e come simbolo del loro amore. La pellicola è ricca di simbolismi: in mancanza di grandi dialoghi risolutivi, è ai gesti e alle inquadrature che ci si affida, più di quanto normalmente si faccia nel cinema, per raccontare la vicenda. Kim Kiduk ha spesso dichiarato di aver discusso con operatori e direttori di fotografia, ricercando la limpidezza e la semplicità nei colori e nel montaggio. Durante il film, la soluzione compositiva di cui fa il maggior utilizzo è quella di riprendere un’immagine proiettata su un una superficie riflettente (un vetro, uno specchio, una pozzanghera), dando allo stesso tempo allo spettatore il volto di un personaggio terzo che osserva la scena come dell’esterno, spettatore anch’egli. Verso la fine del film, il protagonista maschile riuscirà a diventare un vero e proprio fantasma, sfruttando il limitato campo visivo dell’occhio umano e nascondendosi nei punti ciechi.

A questa evoluzione del personaggio corrisponde una sequenza di scene girate con un’inquadratura “in prima persona”, come se guardassimo ciò che accade attraverso gli occhi del protagonista, imprevedibili e sfuggenti, soprattutto a causa dei subitanei ritorni ad una narrazione “in terza persona”. Gli oggetti si caricano di significato, in particolare l’attrezzatura da golf: per il marito della protagonista femminile non rappresentava che un passatempo, nelle mani del protagonista maschile assume la forma di una stabilità illusoria, l’unico ricordo di una delle sue mille vite che ha scelto di portare con sé, un marchio indelebile sulla pelle di un uomo che vive in un ciclo di rinnovamento perpetuo.

L’incidente causato da un tiro sbagliato sembra quasi un monito per il protagonista a non abbandonare mai il controllo. Il finale, carico di tensione, si scoglie nella rivelazione del protagonista all’amata, il quale per lei abbandona la sua invisibilità e abbraccia una sola vita: quella dell’amante. Ricomincia la musica e si sentono le prime, dolcissime, parole di lei, una dichiarazione d’amore che il marito stenta a credere gli sia rivolta, ma, non potendo vedere l’amante nascosto alle sue spalle, accetta ben volentieri di credere a qualcosa di improbabile, se pur possibile, come ha fatto lo spettatore per tutto questo tempo.

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