Tesi di Laurea di Lara Petroni

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CONSERVATORIO DI MUSICA SANTA CECILIA DI ROMA

Corso di Diploma Accademico di secondo livello in Management Musicale

Electro Dance Music Dalla sperimentazione al rito Tesi di Lara Petroni

Anno Accademico 2012/2013


CONSERVATORIO DI MUSICA “SANTA CECILIA” DI ROMA

Corso di Diploma Accademico di secondo livello in Management Musicale

Tesi di laurea:

ELECTRO DANCE MUSIC DALLA SPERIMENTAZIONE AL RITO

CANDIDATO Lara Petroni (Matricola 1488BN)

RELATORE Prof.ssa Gisella Belgeri

CORRELATORE Prof. Fabio Maestri

Anno Accademico 2012/2013


INDICE

Introduzione ................................................................................................................. 3 Cap. 1. L’elettrificazione del suono ............................................................................... 5 Cap. 2. I laboratori di musica elettronica .................................................................... 13 Cap. 3. La musica elettronica esce dai laboratori ....................................................... 39 Cap. 4. L’incontro con la club culture: nasce l’electro dance music ............................ 53 Cap. 5. I grandi eventi legati all’EDM: dalla protesta al business ................................ 75 Conclusioni ................................................................................................................ 84 Ringraziamenti ........................................................................................................... 87 Bibliografia ................................................................................................................. 88 Sitografia .................................................................................................................... 89

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INTRODUZIONE

Il connubio tra ballo e musica è sempre esistito fin dalla notte dei tempi in ogni latitudine della Terra e nelle destinazioni d’uso più varie che andavano dal culto religioso al corteggiamento, ma la musica ha subito enormi mutamenti nel corso dei secoli. Dagli ancestrali ritmi tribali si è approdati alle orecchiabili melodie popolari, al grande sentimentalismo del melodramma ed infine alla fredda razionalità del serialismo. È proprio a questo punto che sul lungo processo evolutivo della musica si innesta la più grande scoperta dell’uomo: l’elettromagnetismo. La gestione delle forze elettromagnetiche ha permesso la produzione di dispositivi che hanno dato uno slancio alla produzione industriale proiettando l’umanità nell’era moderna e modificando l’aspetto del paesaggio. La musica, che da sempre è stata il prodotto della sua epoca, non poteva che assorbire questi grandi mutamenti. Si è iniziato con il produrre strumenti in grado di generare suoni elettricamente (elettrofoni), in seguito l’elettronica è diventata un vero e proprio oggetto di studio da parte dei musicisti che a questo scopo hanno fondato dei centri di ricerca. I primi centri erano basati su strumentazioni analogiche mentre i successivi su quelle digitali. Nel frattempo l’industria non restò a guardare e iniziò a produrre strumentazioni sempre più sofisticate basate sulle nuove tecnologie. Questi strumenti innovativi iniziarono ad essere impiegati da molti musicisti e non solo in ambito accademico. Così si venne a creare un nuovo genere definito appunto musica elettronica, un genere che riceveva un grande apporto creativo da una tecnologia che aveva messo a disposizione suoni inimmaginabili molti dei quali totalmente sintetici e con una possibilità smisurata nell’effettistica. La musica elettronica fin dall’inizio si presenta con diverse peculiarità: c’è quella prodotta dai centri sperimentali molto vicina allo stile seriale e apprezzata da un pubblico più ristretto; ci sono gruppi rock e pop che introducono suoni sintetici nelle loro composizioni ma solo come elemento marginale; ed infine ci sono altri artisti che fanno proprio del suono sintetico la struttura portante o, addirittura, il materiale unico delle proprie creazioni. Sarà proprio il lavoro di questi ultimi che, fondendo l’elettronica al ritmo e al calore delle melodie popolari, riuscirà ad allargare la platea

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degli estimatori e farà i guadagni di una fiorente industria discografica, quella dedicata al genere synth-pop. Il synth-pop ha avuto il merito di aver dato disinvoltura all’uso delle sonorità elettroniche dimostrando che era possibile avvicinarle ai gusti del grande pubblico. Quasi in contemporanea il dorato mondo dei club si è appropriato di quelle sonorità e le ha riadattate alla pista da ballo. È nata così l’electro dance music (EDM) un tipo di musica elettronica scritta e pensata esclusivamente per i dancefloor e che farà da scenario ai nuovi riti della gioventù tecnologica. Con questo elaborato si vuole analizzare il lungo processo evolutivo della musica elettronica ponendo l’attenzione proprio su quegli elementi che hanno permesso la nascita e il successo dell’EDM; un percorso complesso che inizia dagli albori delle prime sperimentazioni e si conclude con delle riflessioni sulla grande diffusione dei festival incentrati su questo genere.

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CAPITOLO 1 L’Elettrificazione del suono La scoperta dell’elettromagnetismo è stata forse quella che più di tutte ha inciso sull’evoluzione tecnologica e sul corso della storia umana degli ultimi due secoli. Dalla fine del Settecento e per tutto l’Ottocento assistiamo ad un proliferare di scoperte ed invenzioni legate allo studio di questo fenomeno. È importante citarne alcune: la pila di Alessandro Volta (1799), primo generatore di energia elettrica; la legge di André-Marie Ampère (1826) che sancisce il legame tra le correnti elettriche ed il campo magnetico da esse prodotto; la legge sulla resistenza elettrica di Georg Simon Ohm (1827); l'induzione elettromagnetica scoperta da Michael Faraday nel 1831, che gli permise di mettere a punto un generatore di corrente elettrica; il primo sistema di illuminazione con lampade ad arco a Parigi (1841); le importanti equazioni di Maxwell (1865) che definiscono in maniera completa le relazioni tra campo elettrico e campo magnetico unificando definitivamente elettricità e magnetismo; la lampadina a carbonio (1880) di Thomas Edison, che nel 1877 aveva brevettato anche il primo microfono a granuli di carbone; il trasformatore (1881) di Lucien Gaulard e John Dixon Gibbs; il “singing arc” (1899) di William Duddell, precursore degli strumenti elettrofoni che sfruttava il ronzio dei sistemi d’illuminazione allora in uso; per di più intorno al 1882 iniziano a funzionare anche le prime centrali elettriche. Alla fine dell’Ottocento iniziarono anche i primi esperimenti da parte di Nikola Tesla e Guglielmo Marconi che portarono all’invenzione della radio anche se, per la prima trasmissione della voce umana, si dovrà aspettare il 30 maggio 1924. Altre importanti tecnologie legate al suono videro la luce nella seconda metà del XIX secolo: il telefono (1871) di Antonio Meucci, ossia la trasmissione in diretta di un suono a distanza, e la registrazione meccanica. Quest’ultima si materializza nell’invenzione di due strumenti: il fonografo (1877) di Thomas Edison, pensato sia per registrare che per riprodurre i suoni incidendoli su un cilindro; ed il grammofono (1887) di Emil Berliner, primo giradischi della storia, con stesse funzioni del fonografo ma che incideva su una piastra circolare (che poi evolverà nei vari formati di disco a 78, 33 e 45 giri). Nello stesso periodo venne inventata anche la registrazione

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magnetica il cui funzionamento fu descritto per la prima volta in un articolo sulla rivista americana “Electrical World” nel 1888. Il fervore creativo scaturito da tutte queste invenzioni di fine Ottocento influenzò inevitabilmente le attività musicali del Novecento. Infatti nel 1912 il compositore e musicologo italiano Francesco Balilla Pratella pubblica in Italia il primo Manifesto dei Musicisti Futuristi, seguito dal Manifesto tecnico della Musica Futurista nei quali scrive una serie di raccomandazioni per le nuove generazioni di musicisti dichiarando che è ormai necessario esprimere in musica le metamorfosi che le scoperte scientifiche hanno apportato alla natura e quindi “glorificare la macchina ed il trionfo dell’elettricità”. Questo è il concetto che meglio spiega il clima culturale che si respirava nei primi decenni del Novecento, un secolo dove l’uomo inizia a vedere oggetti che grazie ai progressi scientifici si illuminano o si muovono, inizia a sentire il rumore delle prime macchine e comprende quanto sia forte il suo potere di modificare il paesaggio e la natura. Tutto questo doveva in qualche modo permeare l’universo musicale e modificarlo profondamente. Ciò si manifestò dapprima con il desiderio di uscire da schemi precostituiti reinventando nuovi criteri compositivi che arrivavano a mettere in discussione il principio stesso di tonalità e a sovvertire le regole dell’armonia tradizionale come vediamo nella musica atonale, seriale e dodecafonica di Arnold Schönberg (1874-1951) e poi con la valorizzazione del “rumore” come espressione musicale. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto il compositore Luigi Russolo, firmatario del manifesto futurista L’arte dei rumori, costruì nel 1913 lo strumento meccanico Intonarumori. Egli teorizzava che per ammodernare la musica si dovessero allargare le risorse timbriche dell'orchestra con l’apporto di suoni presi dalla realtà che ci circonda e quindi che la musica del nuovo secolo dovesse essere composta prevalentemente da rumori. Il passo successivo sarà l’invenzione di apparecchiature elettriche per la produzione del suono ed il loro massiccio impiego nella produzione musicale. Le prime tecnologie elettriche vennero applicate tanto alla diffusione del suono quanto alla sua creazione. L’esposizione internazionale dell’elettricità a Parigi nel 1881 aveva visto l’installazione del Theatrophone, composto da dieci coppie di ricettori che permetteva al pubblico di ascoltare la musica in diretta dall’Opera nelle sale pubbliche o utilizzando la rete telefonica privata. Anche il primo strumento in

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grado di produrre suoni elettricamente, il Telharmonium (1897) di Taddheus Cahill, per la diffusione del suo suono, che era molto debole, sfruttava la trasmissione telefonica, l’unica possibile non esistendo ancora né l’altoparlante né la radio. L'idea di Cahill infatti era proprio quella di diffondere la musica attraverso le linee telefoniche, e realizzò la prima trasmissione nel 1904 da Holioke in Massachussets, a New Haven in Connecticut. Il Telharmonium ebbe vita breve anche perché era di dimensioni gigantesche ed a causa del suo funzionamento le linee telefoniche iniziarono ad avere dei disturbi.

Fig. 1: La consolle del Telharmonium in una delle prime immagini. Il suono era generato da una immensa struttura di 200 tonnellate che occupava l’intero piano di un palazzo a New York. (da http://www.knightarts.org/)

Sono dello stesso periodo anche i primi esperimenti sull’amplificazione del suono, come quelli di Lee De Forest che nel 1909 inventò un sistema (il triodo) che permetteva di amplificare un segnale elettrico, o come quelli di Peter Jensen uno dei primi ad inventare l’altoparlante (1911) che fu utilizzato per la prima volta nel 1915 a

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San Francisco in occasione delle festività natalizie e che permise al famoso Leo Fender, a metà degli anni Quaranta, di costruire uno dei primi amplificatori per chitarra elettrica. Il primo elettrofono che destò un certo interesse tra i musicisti fu l'Eterofono o Thereminovox (Theremin), costruito tra il 1919 e il 1920 dal russo Leon Termen, che generava suono sfruttando i battimenti prodotti da due oscillatori ad alta frequenza cioè dei circuiti elettrici che forniscono una corrente alternata (oscillante) la cui frequenza in hertz determina l'altezza dei suoni. Il suono veniva successivamente inviato ad un filtro passa basso, cioè un dispositivo in grado di modificare il contenuto armonico di un segnale elettrico complesso sopprimendone le componenti più acute a partire da una certa frequenza. Nonostante le notevoli difficoltà riguardanti la tecnica di esecuzione, che prevedeva la formazione degli intervalli tramite lo spostamento delle mani sopra delle antenne, diversi compositori si interessarono a questo strumento introducendolo nelle proprie opere.

Fig. 2: Leon Termen nel 1920 con il suo Theremin. (da http://www.tumblr.com/)

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Il primo che si servì del Theremin fu Andrej Pascenko che nel 1923 scrisse il Mistero sinfonico per Eterofono e orchestra; successivamente nel 1929 a New York Joseph Schillinger compose la prima Suite aerofonica per Eterofono e orchestra. Nello stesso periodo Termen apportò alcune modifiche al suo strumento aggiungendovi una tastiera. Dal 1930 questi nuovi modelli furono costruiti dalla Radio Corporation of America (RCA) e con essi Edgar Varese compose nel 1934 il suo Ecuatorial che prevedeva l’impiego di due apparecchi Theremin. Termen fu anche uno dei primi a cimentarsi nella costruzione di drum machine, apparecchiature elettriche progettate per comporre dei ritmi imitando il suono degli strumenti a percussione. Il primo prototipo, il Rhythmicon fu presentato nel 1932 e poteva produrre ben sedici ritmi diversi. Tra gli anni Venti e Cinquanta del Novecento vennero costruiti un numero incredibile di apparecchi rudimentali per la produzione elettrica del suono che possiamo considerare i progenitori dei moderni synth: l'Elettronde (1929) di Martin Taubmann; lo Sferofono (1926) di Jorg Mager che nel 1930 inventò anche il Partiturofono una specie di organo a quattro voci (successivamente portate a cinque); il Dynaphone (1928) di Rene' Bertand strumento dotato di tastiera a cinque ottave che alla pressione di un tasto generava, oltre che la fondamentale, anche la quinta e l'ottava, particolarità che valse allo strumento il prematuro nome di organo elettrico ma la sua modernità consisteva nella dotazione di filtri che, inseriti, producevano numerose nuove sonorità e imitavano i timbri degli strumenti tradizionali. Questi strumenti non ebbero però il successo sperato, contrariamente alle Ondes musicales (1928) di Maurice Martenot che saranno utilizzate persino da Varese, Boulez e Milhaud. L’apparecchio sfruttava il battimento prodotto da 2 oscillatori ad alta frequenza. Inizialmente la tastiera, di 6 ottave, era finta e serviva solo come riferimento per l’esecuzione degli intervalli tramite lo scorrimento di un anello ancorato ad un filo di metallo. In seguito venne perfezionato e dotato di tastiera simile a quella del pianoforte sulla quale si potevano eseguire anche accordi arpeggiati e staccati. Grazie alla dotazione di filtri l'apparecchio generava anche una certa varietà di timbri che lo rendevano estremamente versatile.

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Le risorse elettroniche iniziavano a dare delle risposte concrete a chi si stava dedicando ad una ricerca meticolosa di nuovi ritmi e di nuovi timbri, come faceva ad esempio il compositore Olivier Messiaen (1908-1992) che spesso introduceva anche strumenti esotici nelle proprie composizioni e che si servì delle “onde Martenot” per la sua sinfonia Turangalila (1949) e per Fête des belles Eaux (1937) scritta per ben sei Onde Martenot. Messiaen era affascinato dalle possibilità che l’elettronica regalava alla musica e nel 1988 alla tv francese, in una delle sue ultime interviste, ancora definiva la musica elettronica come “la principale invenzione del ventesimo secolo” perché aveva influito anche su quei compositori che non ne facevano uso. Nello stesso anno delle Onde Martenot viene brevettata l’invenzione del nastro magnetico di Fritz Pfleumer, perfezionata poi dalla società BASF che insieme alla AEG ne comprò il brevetto, presupposto fondamentale per la nascita del magnetofono a nastro (1934) che registrava su un nastro di plastica rivestito di particelle magnetizzate e che diventerà negli anni ’50 la base del progresso tecnologico-musicale. Negli anni Trenta assistiamo ad un fenomeno del tutto nuovo: per la prima volta le industrie iniziarono a costruire dei modelli in serie di strumenti elettronici. Oltre alla RCA tra le prime ci fu la Telefunken che nel 1932 inizia a produrre un modello perfezionato di Trautonium, strumento inventato nel 1929 dal tedesco Friedrich Trautwein e presentato all'esposizione radiofonica di Berlino. Lo strumento si suonava premendo con un dito un sottile nastro di metallo finché questo chiudeva il circuito con una resistenza sottostante determinando una certa tensione di carica e con essa la frequenza del suono generato. Ma la versione più interessante fu quella modificata da Oscar Sala, allievo di Trautwein e virtuoso di Trautonium, che arricchì lo strumento di una seconda voce e di un “generatore di rumore” capace di produrre diversi effetti ritmici. Questa nuova versione presentata a Berlino nel 1948 fu chiamata Mixtur Trautonium. Altri strumenti musicali elettronici vennero prodotti in serie, inizialmente erano adoperati soprattutto nelle orchestre di musica leggera per imitare il suono di strumenti tradizionali. I più conosciuti sono quelli costruiti dalla società di Laurens Hammond fondata nel 1929 come il Solovox, strumento a tastiera dotato di diversi filtri per la modifica dei timbri ed il più sofisticato Novachord. Ma il più celebre fu

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senz’altro l’Organo di Hammond, costruito nel 1934 a Chicago dallo stesso Laurens Hammond e diffuso in tutto il mondo, viene ancora prodotto dalla casa americana in diversi modelli. L' Ondioline di Georges Jenny (1941) invece venne fabbricato da un’industria di Parigi. Vanno citati anche l' Electrochord (1936) uno dei primi pianoforti elettromagnetici, l’apparecchio di Hanert (1945) che utilizzava schede perforate per la codificazione delle grandezze elettriche correlate ai parametri del suono, il Melochord costruito da Harald Bode nel 1949, strumento a quattro voci munito di due tastiere a sei ottave ed il Clavioline (1947), simile al Solovox della Hammond solitamente utilizzato come strumento solistico ausiliario del pianoforte.

Fig. 3: Laurens Hammond nel 1934 con la prima versione del suo popolare organo. (da http://www.lowes-pianos-andorgans.com/)

Con la nascita delle orchestre jazz e blues iniziò a sentirsi anche l’esigenza di avere uno strumento con il suono di chitarra ma con un volume tale da non essere sovrastato dagli altri strumenti. Inizialmente il problema si risolse con l’invenzione del pick-up (1931), un dispositivo inventato da Adolph Rickenbacker che trasformava le vibrazioni delle corde in impulsi elettrici che poi venivano amplificati; spesso però la cassa armonica dello strumento, entrando in risonanza con l’amplificatore, poteva creare un effetto non proprio gradevole. In ogni caso è a partire da questi esperimenti

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che iniziarono ad essere costruiti i primi modelli di chitarre elettriche, quelli ideati da Les Paul (1941) saranno poi commerciati dalla Gibson negli anni Cinquanta. Il costruttore di amplificatori Leo Fender creerà nel 1948 la Broadcaster, la prima chitarra elettrica che, essendo costruita su un corpo in legno massiccio, eliminava il problema delle risonanze generate dalla cassa armonica che interferivano con l’amplificatore. Fender passerà alla storia per la sua Stratocaster (1953) la prima chitarra elettrica dotata di una innovativa leva per il tremolo; il modello sarà considerato una pietra miliare in ambito blues e rock soprattutto a partire dagli anni Sessanta quando, per venire incontro alle esigenze dei grandi live, il suo suono verrà diffuso con l’ausilio dei celebri “muri” di amplificatori Marshall che le conferivano quell’affascinante timbro leggermente tendente alla distorsione. L’ingegnere Jim Marshall negli anni Sessanta aveva anche inventato il primo microfono per cantanti in grado di sovrastare il suono della batteria. Tutte queste invenzioni testimoniano quanto fosse allettante per molti musicisti del Novecento l’idea di poter usufruire di apparecchiature elettriche per la produzione e la modifica del suono. Ma oltre all’evoluzione di queste strumentazioni, per comprendere le prime tappe che segnano lo sviluppo della musica elettronica, occorre ribadire il contributo stilistico di compositori come Messiaen e Webern che influenzarono la formazione di Pierre Boulez (1925) e Karlheinz Stockhausen (19282007), protagonisti delle avanguardie musicali degli anni Cinquanta e Sessanta. Questo aspetto è fondamentale per capire quanto i primi stadi di sviluppo della musica elettronica affondino le radici proprio nella musica atonale e nel serialismo con dei criteri compositivi molto lontani da quelli che poi ha adottato l’Electro Dance Music che in un certo senso riabbraccia le regole dell’armonia tonale affermatesi nel corso del Settecento. L’elettricità costituiva un’essenziale fonte di ispirazione per coloro che si definivano musicisti moderni, l'introduzione della sintesi sonora offriva per la prima volta l’opportunità di manipolare materiale inedito, di inventare forme musicali altrimenti impossibili e di uscire dal vincolo degli intervalli cromatici offrendo la possibilità di lavorare su tutte le frequenze udibili. Ciò modificava il rapporto del compositore con il materiale di base e allargava enormemente gli orizzonti della creatività che necessariamente aveva bisogno di ricavarsi uno spazio con “nuove regole”.

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CAPITOLO 2 I laboratori di musica elettronica La musica da sempre ha avuto bisogno di essere sperimentata e studiata ma con l’avvento dell’elettronica questo studio diventa più complicato perché per esplorare a pieno le potenzialità degli oscillatori c’è bisogno di grandi apparecchiature professionali e molto costose che esigono una manutenzione continua da parte di tecnici specializzati. Infatti i primi gruppi di ricerca di musica elettronica nascono all’ombra degli studi radiofonici, gli unici che potevano permettersi l’acquisto di questi macchinari ed un personale tecnico. La presenza di un intermediatore tra il musicista e la macchina era un fatto del tutto nuovo. Infatti fino agli anni Cinquanta il compositore aveva sempre potuto dialogare direttamente con gli strumenti a sua disposizione perché ne conosceva sia gli effetti che il funzionamento mentre adesso, le capacità di correzione e manipolazione dello strumento, appartenevano ad una figura terza, un tecnico appunto. Questa situazione, anche se spesso poteva generare dei conflitti, in realtà era un circolo virtuoso in cui le esigenze del musicista spronavano i tecnici a creare soluzioni innovative e sempre migliori le quali, a loro volta, stimolavano la creatività del musicista. Il contributo dei tecnici fu fondamentale in questa fase dell’evoluzione musicale. Senza di essi non si sarebbe sviluppata gran parte della tecnologia in uso ancora oggi e non sarebbe mai esistita la musica elettronica. Purtroppo molto spesso i loro nomi restano nell’ombra mentre si parla dei capolavori e dell’importanza di Berio, Boulez e Stockhausen anche se da soli non sarebbero riusciti a sfruttare le complicate tecnologie di quei tempi. Uno dei primi gruppi di ricerca, il GRM (Groupe de Recherches Musicales) di Pierre Schaeffer (1910-1995), nasce nel 1948 presso lo studio radiofonico di Parigi (RTF) e diventa il polo della “musica concreta” cioè quella musica composta tramite la manipolazione di materiale sonoro preesistente. Shaeffer inaugura la lunga stagione degli esperimenti con Etude aux chemin de fer (1948), primo pezzo con suoni concreti in cui registra e manipola i rumori prodotti da un treno in partenza. L’attività di ricerca di Schaeffer si concentra sull’utilizzo di materiali sonori registrati con apparecchiature analogiche. Egli estraeva rumori, frammenti di parole e suoni strumentali dal loro contesto ed, utilizzando la puntina d’incisione, li ricomponeva

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sottoforma di brevi studi. Il risultato veniva fissato su dei 78 giri che poi erano posti su giradischi differenti comandati da un banco mixer; in questo modo poteva sovrapporne il contenuto in fase di rilettura. Le sue prime apparecchiature gli permettevano di ripetere un campione sonoro invertendo il suono o cambiandone la velocità. Poteva inoltre aggiungere frammenti prelevati in determinati punti da altre registrazioni. In questo modo realizzò les Etudes des bruits (1948) e la Symphonie pour un homme seul (1950). I pezzi si presentano come dei collage di registrazioni, a volte con frasi ripetute, interessante principio che sarà poi ripreso nella musica house.

Fig. 4: Il disco di Pierre Schaeffer del 1948 che contiene i primi suoni manipolati con apparecchiature elettriche. (da http://www.allmusic.com/)

Importantissima fu nel 1950 la consegna del magnetofono a nastro alla RTF che, registrando su nastro magnetico, rende possibile la suddivisione dell’oggetto sonoro in frammenti brevi che possono essere tagliati e montati più agevolmente. La musica concreta quindi, in realtà, non è generata dalla macchina, ma è una sorta di selezione del musicista che sceglie cosa montare e come assemblare il tutto. Il 1951 fu un anno molto importante per lo sviluppo della musica concreta. Infatti un’intensa collaborazione tra Schaeffer ed il suo tecnico di studio Jaques Poullin

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portò all’invenzione dei Fonogeni (1951), apparecchiature che permettevano la trasposizione dei suoni in maniera continua o per semitoni.

Queste invenzioni

stimolarono ulteriormente la creatività dei concretisti tanto che Schaeffer ed il suo collega Henry realizzarono la prima opera lirica interamente realizzata con materiali concreti: l’Orphèe 51. Nel 1954 il compositore Edgar Varèse fu invitato da Schaeffer a Parigi dove poté sfruttare le tecnologie a disposizione dello studio per completare le parti su nastro del suo lavoro Déserts che diede grande visibilità alle attività dei concretisti. Diverse erano invece le prerogative dello "Studio fur Elektronische Musik" (1951) di Herbert Eimert presso la radio di Colonia (WDR). Infatti qui l’obiettivo non era quello di comporre musica estrapolando suoni già esistenti dal loro contesto come faceva Shaeffer, ma quello di utilizzare suoni prodotti interamente da generatori di frequenze poi in seguito elaborati, mixati e montati su nastro magnetico. La volontà di Eimert era quella di esplorare i mezzi offerti dalla sintesi elettronica del suono e per i suoi studi si basò sui lavori dello scienziato Werner Meyer-Eppler che svolgeva ricerche

sulla

produzione

sintetica

della

voce

presso

l’“Institut

für

Kommunikationsforschung und Phonetik” di Bonn. Fu qui che, nel 1951, anche Bruno Maderna ebbe il suo primo contatto con nastri e generatori di frequenze ed iniziò a cimentarsi con la sperimentazione elettronica lavorando sulla sua opera per flauto e nastro magnetico Musica su due dimensioni (1952) che rappresenta un tentativo di commistione tra suoni artificiali e strumentali. Quindi la musica elettronica, a metà del Novecento, sembra distinguersi in due tendenze fondamentali: quella dei “puristi” di Colonia e quella dei “concretisti” di Parigi. In pratica mentre la scuola di Parigi utilizzava l’elettronica per trattare una materia prima già esistente trasformando in musica eventi acustici registrati, in quella di Colonia ci si concentrava sulla creazione di una materia prima che fosse generata essa stessa dall’elettronica. Il compositore Karlheinz Stockhausen (1928-2007) è una figura di passaggio tra questi due mondi, infatti, dopo aver trascorso un periodo di studio tra i concretisti di Shaeffer, nel 1953 si trasferisce a Colonia e si concentra sulla musica elettronica con i suoi Electronic Studies (1953-1954). Il suo lavoro più conosciuto Gesang der Jünglinge (1956) si presenta come una mescolanza di suoni concreti ed elettronici;

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ispirato alla terribile strage di bambini nei campi di concentramento, miscela il canto filtrato e modificato di un bambino ai suoni elettronici; il tutto viene strutturato secondo un criterio seriale che coinvolge altezza, durata e timbro; il risultato ottenuto è di un’angoscia profonda e onirica, la spensieratezza del canto è continuamente frantumata, il bambino canta felice, ma si ritrova nell’incubo della fornace. Stockhausen collaborò con lo studio di Colonia fino al 1998 e per un periodo ne fu anche direttore artistico. Tra i suoi lavori va citato anche Kontakte (1960), un’opera per nastro magnetico interamente composta da suoni elettronici che può essere suonata anche nella versione “mista” con pianoforte e percussioni e di cui esiste anche una partitura dotata di particolari rappresentazioni grafiche per i suoni complessi. La versione “purista” contiene già alcuni ingredienti timbrici della musica elettronica commerciale che si svilupperà in seguito ma qui, in assenza di ritmo e di tonalità, il tutto sembra galleggiare in un brodo primordiale.

Fig. 5: Karlheinz Stockhausen negli anni Cinquanta presso il centro sperimentale della WDR. (http://prorecordingworkshop.lefor a.com/)

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Negli anni Cinquanta molti furono i gruppi di ricerca che vennero inaugurati in tutto il mondo a cominciare dal “Project of Music for Magnetic Tape” fondato a New York nel 1951 da John Cage e David Tudor che, con l’aiuto dei loro due tecnici Louis e Bebe Barron, realizzarono l’opera William Mix (1952) assemblata su otto nastri. Per la sua presentazione al festival dell’Università dell’Illinois fu necessario riunire ben otto registratori il che destò non poco stupore negli spettatori che videro sulla scena queste macchine. Louis e Bebe Barron, noti per i loro numerosi esperimenti sull’uso del registratore a nastro magnetico, nel 1956 realizzarono anche la colonna sonora del film di fantascienza Forbidden Planet, la prima composta interamente da suoni elettronici. Questo sta a dimostrare quanto all’epoca fosse sottile il confine tra la professione del tecnico e quella del musicista. Lo studio di Colonia fece da modello per la costituzione anche di altri laboratori ospitati nelle stazioni radiofoniche come il “Denshi Ongaku Studio” di Tokyo (1956), lo “Studio Sperimentale della Radio” (1957) a Varsavia e l’ “Institute of Sonology” in Olanda. Anche in Italia, nel 1955, nasce lo “Studio di Fonologia Musicale” presso la Radio Audizioni Italiane (RAI) di Milano. Concepito dai musicisti Luciano Berio (19252003) e Bruno Maderna (1920-1973) si avvaleva del contributo di tecnici come Alfredo Lietti e Marino Zuccheri e poteva contare su un pannello a nove oscillatori per la sintesi sonora.

Fig.6:Luciano Berio agli oscillatori negli anni Cinquanta presso lo studio di fonologia della RAI. (da http://www.150storiaditalia.it/)

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È importante sottolineare che Berio e Maderna si erano conosciuti nel 1953 al “Ferienkurse für Neue Musik” di Darmstadt, dei corsi estivi che diedero ampio spazio alla discussione sulla musica elettronica tra i giovani compositori e dove, oltre alle relazioni di teorici o compositori come Herbert Eimert, Friedrich Trautwein e Pierre Schaeffer, furono presentati anche alcuni esempi sonori realizzati da Meyer-Eppler che affascinarono il giovane Maderna ed influenzarono i primi anni di ricerca nello studio di fonologia. Anche Berio comprese fin da subito le potenzialità di questa nuova musica che poteva fornire soluzioni timbriche e ritmiche finora inesplorate e poteva essere adatta a descrivere situazioni psicologiche sonorizzando copioni radiofonici, televisivi e cinematografici. Lo studio italiano divenne presto il terzo polo di sviluppo per la musica elettronica in Europa insieme alla WDR di Colonia ed al GRM di Parigi; qui si ricorreva sia a risorse di sintesi elettronica che al trattamento di suoni registrati. Le sperimentazioni di Maderna, fin dagli inizi, si sono sempre distinte da quelle condotte da Sheffer o Eimert. Egli infatti, contrariamente ai “concretisti”, era affascinato dalla sintesi sonora ma rifiutava anche il radicalismo elettronico “purista” che caratterizzava gli esperimenti di scuola tedesca. Maderna riteneva che l’adozione della tecnica seriale dovesse consistere in un dialogo tra la dimensione strumentale e quella elettronica. Ciò è molto evidente nella sua opera teatrale Hyperion (1964) dove il protagonista, impersonato da uno strumento reale, il flauto, viene continuamente sovrastato da raffiche di suoni elettronici che rappresentano “la macchina”. Questo scontro musicale simboleggia la continua battaglia dell’uomo che tenta di non farsi sopraffare dalla tecnologia. Oggi siamo tutti molto abituati a gestire con dimestichezza i dispositivi elettronici e non li vediamo come una grande minaccia ma il rapporto tra essere umano e “macchina” è sempre una tematica molto attuale. Nello studio italiano furono realizzate importanti composizioni tra cui: Scambi (1957) di Henri Pousser, composta con l’aiuto del filtro di ampiezza, un dispositivo ideato da Lietti che dona ai suoni elettronici una maggiore morbidezza; Thema (1958), opera di Berio su un testo estratto dall’Ulisse di James Joyce, che presenta oggetti sonori realizzati sulla trasformazione elettronica della voce; Fontana Mix (1958) di John Cage ed infine Visage (1961) di Berio che conclude il periodo “aureo” dello studio. Purtroppo le nuove tecnologie presupponevano un veloce e continuo

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aggiornamento, nuovi e costosi investimenti di cui vertici aziendali non riuscivano a comprendere l’importanza in un quadro così poco redditizio. Questo mancato rinnovamento spinse i compositori a sperimentare in altri studi ormai più attrezzati. Negli anni seguenti sarà esclusivamente la creatività di compositori come Bruno Maderna e Luigi Nono a forgiare nuovi capolavori nonostante uno strumentario tecnologico superato fin dalla seconda metà degli anni Sessanta. Purtroppo di molti lavori non esistono partiture ed, a seguito della chiusura dello Studio di Fonologia nel 1983 ed il successivo smantellamento nel 1987, si è rischiata la perdita di quel materiale che, trovandosi esclusivamente su supporti magnetici, è soggetto a deterioramento irreversibile. Il recupero di ciò che è rimasto negli archivi RAI è stato possibile solo grazie alla collaborazione di G. Belletti e M. Novati. Recentemente lo studio di fonologia, riadattato a museo, è stato trasferito al Castello Sforzesco di Milano. Anche gli Stati Uniti diedero un contributo significativo allo sviluppo della musica elettronica in particolare per quello che riguarda la strumentazione. Infatti nel 1955 la Radio Corporation of America (RCA) presentò a New York un sistema completo per la produzione elettronica del suono che automatizzava gli oscillatori e i moduli ad esso collegati: l’imponente sintetizzatore analogico Mark I, realizzato nel laboratorio sperimentale della RCA a Princetown, da Harry Olson e Herbert Belar. Il Mark codificava la musica tramite una tastiera che perforava un nastro sul quale venivano riportate in codice binario le informazioni di durata, altezza e timbro. Il suono era generato da dodici oscillatori che riproducevano le frequenze della scala cromatica trasportabili fino a otto ottave per un totale di novantasei note, la forma d'onda veniva poi trasformata e successivamente elaborata con l’uso di filtri. Il Mark I possedeva anche un generatore di rumore bianco e dei dispositivi per ottenere effetti come i glissati, il vibrato ed il tremolo. Il risultato della rilettura del nastro veniva inciso su un disco a 33 giri. L’apparecchio tuttavia non soddisfaceva a pieno i musicisti in particolare per i suoni, giudicati troppo rigidi ed inerti, tanto che nel 1957 la RCA costruì un secondo prototipo perfezionato il Mark II. Questo sintetizzatore fu installato negli studi della "Columbia-Princetown Electronic Music Center" dove Milton Babbit compose il suo Philomel (1964) per soprano e suoni elettronici.

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Fig.7:I’imponente sintetizzatore Mark II della RCA in una foto del 1958 presso il Columbia Princeton Electronic Center. (da http://capone.mtsu.edu/)

Il sintetizzatore analogico rappresenterà la nuova frontiera della liuteria soprattutto dagli anni Sessanta quando il processo di miniaturizzazione del transistor (inventato nel 1948) permise di sostituire le voluminose valvole elettroniche, che finora erano state alla base dell’ingegneria elettrofona, con delle componenti molto più piccole. I vantaggi in termini di costi e di spazio furono immediati. L’orientamento verso l’uso del transistor rese possibile lo sviluppo dei sintetizzatori controllati in tensione. Il controllo in tensione è una tecnica che si basa sull’uso del sistema VCO (voltage controlled oscillator) in cui la frequenza degli oscillatori è determinata da una tensione di controllo. In precedenza la frequenza degli oscillatori poteva essere determinata solo manualmente, mentre con questo sistema, data una certa tensione all’ingresso del VCO, si determina una frequenza corrispondente. Alla base del funzionamento di un sintetizzatore ci sono due procedure di sintesi del suono: la sintesi additiva che permette di scomporre un suono in una serie di onde sinusoidali che poi vengono sommate per creare nuovi suoni complessi e la sintesi sottrattiva che al contrario si serve dei filtri per creare nuovi timbri attraverso l’eliminazione di determinati armonici ai suoni complessi. Il

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sintetizzatore entrò a far parte dello strumentario a disposizione dei laboratori di musica elettronica sostituendo le manipolazioni su nastro magnetico. La nascita del sintetizzatore che sfruttava il VCO è dovuta, come sempre, alle sollecitazioni dei musicisti che collaboravano con i centri di ricerca e si concretizza in diversi dispositivi realizzati da tre inventori: l’ingegnere Robert Moog, il fisico e musicista Donald Buchla ed il tecnico Paul Ketoff. A Paul Ketoff venne assegnato il compito di inventare strumenti per la composizione di musica elettronica destinati agli studi dell’Accademia Americana di Roma, fu così che nel 1965 nacque il Synket (Sintetizzatore-Ketoff) utilizzato dal compositore John Eaton nella sua opera Songs for RPB, per soprano, pianoforte e Synket, la prima che prevede l’impiego dal vivo di un sintetizzatore. Sempre in uno studio, il “San Francisco Tape Music Center”, Buchla a partire dal 1963 diede vita ad una serie di sintetizzatori che, oltre all’elaborazione ed al missaggio, erano in grado di generare fenomeni aleatori. I vari dispositivi che costituivano l’apparecchio erano collegati in modo interattivo, avendo alcuni la capacità di modificare il funzionamento degli altri. L’utilizzo del sintetizzatore Buchla rimase però limitato ai circoli più sperimentali della musica contemporanea. Robert Moog invece, ingegnere e proprietario della compagnia “R.A.Moog & Co.” che produceva Theremin, stimolato dalle richieste del musicista Herbert Deutsch, inventò nel 1964 quello che divenne il sintetizzatore per antonomasia tanto che, il nome stesso "Moog", si tramutò in sinonimo di sintetizzatore. Lo aiutò nella progettazione anche il musicista Walter Carlos (Wendy Carlos) a cui si deve il primo successo discografico suonato interamente con il Moog: Switched on Bach (1968). Basato sulle partiture di Bach, quello di Carlos fu anche il primo album di musica “classica” a vendere mezzo milione di copie entrando nella classifica delle Top 10 e restando nella classifica Top 200 per più di un anno. Alla cerimonia dei Grammy Awards del 1970 ottenne anche diversi premi: “Best Classical Album”, “Best Classical Performance” e “Best Engineered Classical Recording”. Non è un caso che il primo pezzo elettronico che riscuote grande successo popolare presenta uno stile palesemente tonale rifacendosi addirittura a Bach, proprio il padre del “Clavicembalo ben temperato”, riabbracciando a pieno le regole classiche da cui i pionieri della musica elettronica, intrisi di serialismo, cercavano di fuggire. Nel 1966 quello di Moog

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fu anche il primo sintetizzatore ad essere prodotto industrialmente ed a produrlo fu proprio la sua compagnia che venne ribattezzata la “Moog Music”. Il Moog Modular System (o C3) era di struttura modulare completamente componibile. Costituito da un mobile alto quasi un metro diviso in tre ripiani, poteva ospitare da 15 a 35 moduli. La tastiera, di cinque ottave, inizialmente era monofonica e provvedeva a generare le tensioni per il controllo dei vari moduli. Era venduto in tre configurazioni precostituite “Model 15", "Model 35", "Model 55", ma erano realizzabili anche altre configurazioni mediante moduli complementari separati. Il C3 poteva generare quattro diverse forme d'onda disponibili contemporaneamente su quattro uscite separate. Dell’apparecchio sono passati alla storia gli efficienti filtri passa basso e il sequencer 960.

Fig. 8: Robert Moog negli anni Settanta con vari modelli dei suoi synth (http://www.permesso.org/)

I primi sintetizzatori erano monofonici o bifonici, e una polifonia più complessa poteva

essere

realizzata

solo

attraverso

un

complicato

procedimento

di

sovraincisioni, esattamente ciò che faceva Carlos. Certamente non erano strumenti per tutte le tasche basta pensare che il Moog (un modello completo), alla sua prima uscita nel 1964, aveva un costo che si aggirava sui 10,000 dollari.

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Contemporaneamente ai primi sintetizzatori viene inventato nel 1964 il primo campionatore della storia: il Mellotron. Questo strumento, fabbricato in diversi modelli fino al 1981, era costruito come una tastiera ma ogni tasto attivava un nastro con un particolare suono registrato o addirittura il frammento di una melodia. Il Mellotron quindi, diversamente dal sintetizzatore, non produceva un suono sintetico ma riproduceva dei suoni reali registrati. Si potrebbe quasi affermare che il Mellotron era uno strumento da “concretisti” francesi mentre il sintetizzatore era da “puristi” tedeschi. I primi prototipi non convinsero molto i musicisti, il successo dello strumento iniziò con il modello mellotron mark II che venne utilizzato anche dai Beatles nel 1967 in Strawberry Fields Forever e dai King Crimson nel 1969 nell’album In the court of the Crimson King confermandone la valenza timbrica e le modalità d'uso. Siamo alla vigilia degli anni Settanta e a partire dall’esperienza di Moog il mondo dell’industria iniziò ad interessarsi alla produzione dei sintetizzatori. Nel 1968 l'ingegnere americano Alan Robert Pearlman fonda la “ARP Instruments”, società per la costruzione e la commercializzazione di sintetizzatori che nel 1970 presenta il modello 2500, un apparecchio da studio, predecessore dell’ ARP 2600 (1971) che, per la sua praticità d'uso e per la sua perfezione costruttiva, ancora oggi ha una posizione di rilievo tra i molti sintetizzatori in commercio. L'obiettivo della ARP era quello di offrire in un'unica struttura uno studio elettronico in miniatura. Infatti il 2600 era contenuto in una custodia che ne facilitava il trasporto; inoltre possedeva un amplificatore incorporato che permetteva un monitoraggio stereo tramite due altoparlanti montati sullo strumento stesso. La generazione del suono era affidata a tre oscillatori che producevano cinque forme d'onda. Nel 1976 lo strumento viene rinnovato e dotato di una tastiera in grado di suonare dei bicordi e un pedale per l'inserimento del portamento. Ma il punto di forza dell'ARP 2600 era che si poteva interfacciare con qualsiasi altra macchina. Della ARP va menzionato anche il modello Odyssey (1972) molto utilizzato negli anni Settanta. Il 1969 fu la volta del VCS 3 (voltage controlled synthesizer 3 oscillator) sintetizzatore prodotto dall’ EMS (Electronic Music Studios) di Londra. Progettato da Peter Zinovieff, è una macchina a tre oscillatori, solitamente usata per la creazione di effetti o per trattare sorgenti sonore esterne. Lo strumento veniva prodotto in due versioni: il modello portatile, conformato a valigia e comprensivo di tastiera, e la

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versione da studio su pannello. Nel 1971 anche Robert Moog si ripropone sul mercato dei sintetizzatori con un modello ridotto del Moog modular system, il Minimoog pubblicizzato come “the moog for the road”; lo strumento era contenuto in un piccolo mobile di legno con un pannello metallico rialzabile su cui si effettuavano le regolazioni dei vari circuiti. Dotato di tastiera a 44 tasti, il Minimoog possedeva tra le altre cose tre oscillatori con sei forme d'onda ciascuno, un generatore di rumore bianco e rosa e un mixer per la regolazione dei vari generatori. Un punto decisamente a sfavore era l’impossibilità di interfacciare il Minimoog con altri strumenti ed inoltre la tastiera era monofonica e non permetteva la sovrapposizione dei suoni con la conseguente necessità di suonare staccato in caso di passaggi veloci. Sebbene l'obiettivo di Moog fosse quello di realizzare uno strumento versatile e maneggevole, il vero successo del Minimoog si deve alla sua eccezionale qualità timbrica. I costi di produzione elevati, dovuti all'impiego di componenti di alta qualità, e l'introduzione di nuove tecnologie fecero cessare la produzione del Minimoog nel Luglio del 1981. La nascita ed il successo del Minimoog cambiò il concetto di sintetizzatore che negli anni seguenti, con l’arrivo di nuove tecnologie e l’abbattimento dei costi, prenderà lentamente l’aspetto di uno strumento di facile uso e consumo presto alla portata di tutti. Infatti l'industria si lanciò subito nella produzione sfrenata di sintetizzatori che ricalcavano i concetti del Moog e così iniziò la grande produzione, ancora in corso, di migliaia di sintetizzatori aventi grosso modo le stesse caratteristiche e che hanno avvicinato l'elettronica anche al musicista meno provvisto di conoscenze tecniche. Basta citare le ditte giapponesi come Yamaha, Korg e Roland che, grazie ad una tecnologia avanzata e ai bassi costi di produzione, sono diventati tra i maggiori produttori di sintetizzatori. Con la produzione dei primi sintetizzatori analogici trasportabili, il suono sintetico entra nella pratica anche della musica pop e rock. Tra i primi gruppi pop che usarono il Moog ed il Minimoog possiamo citare i più famosi “The Beatles” (Abbey Road, 1969) e “The Rolling Stones” che però si servirono del sintetizzatore principalmente in studio di registrazione. Tra i primi ad incorporare il Moog nell’organico strumentale dei suoi concerti dal vivo ci fu il pianista e compositore inglese Keith Emerson, per un periodo tastierista degli “Emerson Lake and Palmer”, gruppo rock progressive degli anni Settanta. Stregato dalle possibilità della sintesi sonora, Emerson si fece

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costruire dallo stesso Robert Moog un monumentale sintetizzatore monofonico passato alla storia come il “Monster Moog”. Di Emerson ricordiamo anche la colonna sonora del film Inferno (1980) di Dario Argento.

Fig. 9: Keith Emerson negli anni Settanta con il suo colossale Moog in concerto (da http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Emerson_moog.jpg)

Rick Wakeman, tastierista del gruppo rock progressive “Yes”, invece prediligeva il Minimoog di cui però lo infastidiva l’impossibilità della polifonia. Pare chiaro che, a questo punto, il più importante traguardo a cui anelava la tecnologia legata ai sintetizzatori era proprio la polifonia. Infatti il musicista aveva l'esigenza di emulare grandi masse orchestrali per arricchire i propri arrangiamenti con suoni che non fossero sempre e solo quelli dell'organo o del pianoforte. Nascono cosi intorno al 1974 le prime “tastiere violini” meglio conosciute come string machines. Queste erano costituite da una tastiera completamente polifonica, generalmente a quattro ottave di estensione, dedicata alla riproduzione degli strumenti ad arco. La generazione del suono avveniva tramite due canali di produzione di onde lievemente scordati tra loro. Il suono cosi ottenuto veniva filtrato con un filtro passa basso e senza ulteriori modifiche veniva amplificato. La più

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popolare string machine fu la Solina (1974), fabbricata dalla compagnia olandese Eminent e acquistata dalla ARP che la introduce nel mercato americano come “ARP string ensemble”. La Solina riproduceva il suono di violino, viola, tromba, corno, violoncello e contrabbasso. Violoncello e contrabbasso sono monofonici e disponibili solo sui 20 tasti più bassi mentre gli altri strumenti sono polifonici e riproducibili sull’intera tastiera. I suoni presi singolarmente non erano particolarmente convincenti ma combinati insieme creavano un effetto molto realistico. In seguito vennero fabbricati una serie di sintetizzatori polifonici come il Polymoog (1975) della Moog Music, che consentiva la polifonia con tutti i 71 tasti della tastiera, o il CS 80 della Yamaha (1976), costituito da due VCO per voce e due generatori di rumore incorporati, che ebbe un grande utilizzo nella musica pop; basta pensare all’album Thriller (1983) di Michael Jackson o all’uso che ne hanno fatto Stevie Wonder o Peter Gabriel. Anche la Korg nel 1977 immette sul mercato dei sintetizzatori polifonici, la serie PS in tre modelli PS 3100, PS 3200 e PS 3300 con polifonia sui 48 tasti e 12 VCO. Questi primi synth polifonici erano molto costosi, uno Yamaha sfiorava i 7000 dollari!

Fig. 10: lo Yamaha CS80, synth polifonico del 1976 (da http://preservethesound.com/)

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La struttura di un sintetizzatore polifonico è molto complessa perché

il

numero degli elementi base per la sintesi del suono deve essere moltiplicato per il numero delle voci eseguibili contemporaneamente sullo strumento. Questo significa che un polifonico a sei voci deve avere sei VCO, sei VCF, e sei VCA, e chiaramente ciò rende difficile l'utilizzazione dal vivo di una macchina così strutturata. Un valido aiuto allo sviluppo dei sintetizzatori polifonici venne dall’introduzione delle tecnologie digitali. Infatti oltre all’elettronica dei filtri e degli oscillatori la musica inizia ad avvalersi, già dalla metà degli anni Cinquanta, dell’ausilio dell’elaboratore elettronico. I musicisti sono stati tra i primi ad interessarsi alle potenzialità dei computer. A meno di dieci anni dalla nascita della cibernetica (1948) prese vita un nuovo campo di ricerca che segnava l’ingresso del computer nel campo dell’arte. Nel 1956 il musicista Lejaren Hiller ed il matematico Leonard Isaacson realizzarono un’opera per quartetto d’archi composta interamente sul computer, la Illiac Suite. Ognuno dei quattro movimenti era stato composto con un programma diverso. L’opera

rappresenta

la

prima

applicazione

informatica

al

processo

della

composizione. Il passo successivo sarà la produzione del suono stesso tramite l’elaboratore informatico. Pioniere di questa tendenza fu l’ingegnere Max Mathews che nei laboratori dell’industria “Bell” inventa un calcolatore in grado di rappresentare l’onda sonora. Provvisto di un convertitore digitale-analogico collegato ad un amplificatore e ad un altoparlante, esso è in grado di produrre una musica il cui materiale sonoro è stato calcolato a priori. Siamo nel 1957 è ciò segna l’inizio della sintesi digitale dei suoni e la nascita della computer music. Mathews nel 1959 redige il Music 3, un programma per l’elaborazione e la sintesi dei suoni che, attraverso un linguaggio simbolico, consente alla macchina di generare suoni artificiali permettendo al musicista di gestire generatori di frequenza, amplificatori e mixer virtuali. Di Mathews va ricordata la versione informatica di A Bicycle Built for Two (Daisy) (1962) primo pezzo cantato da un computer (l’IBM 7094) che in una scena del film 2001:Odissea nello spazio viene intonata dal computer HAL 9000 prima della sua disattivazione. Ma i programmi di Mathews, tra cui vanno citati anche i successivi Music 4 e Music 5 rivelano la loro forza soprattutto nella sintesi di nuovi timbri come testimoniano le opere del suo collega e collaboratore alla Bell, JeanClaude Risset autore di Mutations (1969).

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Anche in Italia, nell’ambito della computer music, si fecero passi importanti. Nel 1967 il musicista e programmatore Pietro Grossi riuscì a far suonare ad un gigantesco computer a schede perforate della Olivetti il Quinto capriccio di Paganini. Presto ci si rese conto che il computer poteva inglobare tutte quelle operazioni a cui l’elettronica aveva dato vita come la registrazione, la memorizzazione, il taglio, l’elaborazione, il missaggio e la sintesi del suono. L’introduzione dell’informatica nel processo di sintesi del suono aveva complicato ulteriormente le cose. Infatti ora i centri di ricerca necessitavano di competenze superiori e per fare progressi c’era bisogno della collaborazione di musicisti, analisti, programmatori informatici, ingegneri del trattamento del segnale e specialisti in sistemi di gestione. Proprio per riunire tutte queste competenze, negli anni Settanta, furono istituiti dei nuovi centri di ricerca (alcuni attivi tutt’oggi) proprio come quelli degli anni Cinquanta ma basati questa volta sull’impiego di mezzi informatici. Tra i più importanti ci sono: il CNUCE di Pisa (1965), fondato da Pietro Grossi che nel 1975 realizzò il TAU2, un sistema per la sintesi digitale del suono; l’IRCAM (Francia) fondato da Pierre Boulez nel 1969; il CCRMA (USA, 1975) di John Chowning, inventore della sintesi per modulazione di frequenza che troverà applicazione nei sintetizzatori digitali della Yamaha; il ZKM (Germania) che ha realizzato un archivio digitale non deperibile di musica elettroacustica; e poi ci sono il GAIV (Francia), il MIT EMS (Usa) e l’EMS (Svezia). Negli anni Settanta quindi convivevano due tecnologie elettroniche che permettevano la composizione musicale: quella dei sintetizzatori analogici (Buchla e Moog) e quella dei calcolatori digitali che, attraverso dei programmi, generavano dei numeri che poi erano trasformati in suoni. Ci furono molte discussioni su quale tecnologia fosse migliore perché entrambe presentavano pregi e difetti. L’analogico permetteva di produrre e modificare suoni in tempo reale (premendo un tasto o girando una manopola) ed incontrava la simpatia dei musicisti proprio per questo legame tra suono e gesto che permetteva allo strumento di essere suonato in un concerto dal vivo; per contro però, la gamma dei suoni prodotti era piuttosto scarsa ed era molto limitata la polifonia (ristretta solo a poche voci). Il digitale, invece, dava ampio spazio alla fantasia del compositore perché permetteva di creare un’infinità di timbri e consentiva una polifonia smisurata ma era molto più costoso dell’analogico e

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presentava anche un grande limite e cioè che il suono non era prodotto in tempo reale, un grande problema per i musicisti. Con i primi costosissimi elaboratori erano necessarie molte ore di calcolo per ottenere pochi minuti di musica; questa procedura escludeva qualsiasi utilizzo del digitale in una situazione dal vivo anche perché, se poi il suono non piaceva, non poteva essere modificato girando una manopola o facendo qualche altro gesto. Quindi, il primo obbiettivo che si sono prefissi i centri di ricerca di tutto il mondo, è stato quello di realizzare un calcolatore talmente veloce da realizzare i suoni digitali in tempo reale. Il primo sistema funzionante (4 A) venne realizzato nel 1975 all’Istituto di Fisica dell’Università di Napoli dal fisico italiano Giuseppe Di Giugno su proposta di Luciano Berio. Questo modello con polifonia a 256 voci, interamente digitale, indicò la direzione da seguire per tutti gli esperimenti successivi. Giuseppe Di Giugno ebbe una lunga collaborazione con l’IRCAM che investì molte risorse su questo sistema tanto che, nel 1980, il fisico italiano realizzò un nuovo modello programmabile, il famoso 4X; formato da 10 DSP (digital signal processor), riusciva a compiere 200 milioni di operazioni al secondo e poteva svolgere il lavoro di 2000 oscillatori. Il primo ad utilizzare il 4X fu Boulez nel suo Rèpons (1981) in cui fa dialogare sei strumenti solisti (due pianoforti, arpa, xilofono, clavicembalo e vibrafono) con un ensemble strumentale di 24 elementi, in un gioco di spazialità, circondando il pubblico con sei altoparlanti da cui esce il suono dei solisti modificato in tempo reale. Di Giugno nel 1988 tornerà in Italia per fondare l’IRIS centro dove saranno realizzati i sistemi MARS e SMART che sfruttano microprocessori super veloci. Questi due sistemi saranno utilizzati negli anni Novanta da Berio ed altri compositori. Anche al GMR di Parigi (dal 1978) si iniziò a lavorare ad un sistema informatico per la sintesi in tempo reale, il progetto Syter, l’unica soluzione che incontrava l’accondiscendenza dei concretisti che, per loro tradizione, erano sempre stati contrari alla creazione di una musica completamente sintetica ed ancora di più al processo di composizione tramite l’uso di un codice. Il Syter divenne operativo nel 1984 e fu utilizzato fino al 1995.

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Fig. 11: il fisico italiano Giuseppe Di Giugno nel 1980 con il 4X progettato all’Ircam di Parigi (da http://www.musicainformatica.it/)

Tra i prodotti dell’informatica il primo ad essere introdotto nell’industria musicale è stato il microprocessore. Inventato nel corso degli anni Sessanta aveva potenzialità ancora limitate ma prezzi più accessibili. Inizialmente venne collegato ai sintetizzatori analogici attraverso dei convertitori digitali-analogici che tramite delle tensioni elettriche agivano sui comandi dello strumento; era un primo esempio di “sintesi ibrida” che troviamo in alcuni sistemi tra cui il GROOVE (Generated Real-Time Operations on Voltage Controlled Equipment) ideato da Mathews nel 1967. In seguito il microprocessore venne applicato ai sintetizzatori polifonici analogici permettendo la programmazione e la memorizzazione dei parametri desiderati. Synth di questo tipo sono: il Prophet 5 (1978), il modello OB-X (1979) della Oberheim; lo Jupiter 8 (1981) della Roland, con polifonia a 8 voci, 16 oscillatori e la possibilità di dividere la tastiera in due sezioni aventi timbri diversi e il Memorymoog (1981), versione programmabile del Polymoog. Tutto sommato questi synth erano ancora piuttosto costosi andavano dai cinque milioni e mezzo di Lire dello Jupiter ai quasi undici milioni del Memorymoog.

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Il sistema VCO di questi sintetizzatori polifonici era molto complicato perché doveva permettere la gestione in contemporanea di più filtri e oscillatori con la conseguenza che gli strumenti presentavano grandi problemi di intonazione e di stabilità nel tempo. Una soluzione interessante si trovò sostituendo il VCO con il DCO (digital controller oscillator), un sistema digitale che permetteva di gestire e mantenere intonati gli oscillatori. Ma il metodo di generazione del suono, seppur supportato dall’informatica, rimaneva sempre di tipo analogico (cioè collegato a degli oscillatori reali). Ciò andava a vantaggio del realismo polifonico perché ogni oscillatore produceva la propria forma d’onda in modo asincrono rispetto agli altri, proprio come accade con i singoli strumenti delle orchestre. Il DCO diventò parte integrante dei polifonici prodotti negli anni Ottanta come il Polysix (1981) o il Poli61 (1983) con polifonia a sei voci della Korg, vari modelli della Roland come Juno-60 (1982) e Juno 106 (1984) a 6 voci, o il Super JX (1986) a 12 voci e il modello Matrix (1986) della Oberheim, che caratterizzarono il sound degli anni Ottanta con i loro caratteristici “rullantoni” riverberati. L’introduzione del sistema DCO comportò anche un considerevole abbattimento dei costi; questi synth, detti “ibridi”, raramente superavano i due milioni di Lire.

Fig. 12: il Korg Poly-61, un synth ibrido del 1983 (da http://www.gbase.com/)

La diffusione del microprocessore permise anche la realizzazione di interi sistemi digitali più agili a cominciare dal grande successo commerciale del Synclavier (1979) sviluppato da Alonso e Jones presso la “New England Digital

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Corporation”. Il Synclavier è stato il primo sintetizzatore digitale commerciale. Digitale in questo caso significa esattamente che il suono non è più prodotto da degli oscillatori reali ma è il risultato di un calcolo che permette di creare degli oscillatori digitali. Polifonico a quattro voci, con possibilità di programmare i timbri e memorizzarli su supporto magnetico e dotato di un display che indica il valore dei parametri del timbro che si sta trattando, il Synclavier venne usato, tra gli altri, anche dal compositore e chitarrista Frank Zappa. Nel 1980 venne prodotto anche l'Alpha Syntaury (1980), polifonico a 16 voci e 16 oscillatori digitali che si interfaccia al famoso personal computer Apple II ed è prodotto dalla “Syntaury Corporation” di Palo Alto (California). È in grado di generare suoni attraverso la modulazione di frequenza e la sintesi additiva. È dotato di programmi che consentono di memorizzare 10 timbri contemporaneamente, di dividere la tastiera in otto parti con voci diverse e di generare forme d'onda tramite disegno su monitor. E' anche previsto un software (Metatrack) che trasforma l'Apple in un registratore digitale con cui è possibile accelerare o rallentare l'esecuzione senza cambiare le altezze dei suoni, eseguire sovraincisioni e memorizzare tutto su dischetto.

Fig. 13: Frank Zappa con il suo Synclavier utilizzato nell’album Jazz From Hell del 1986. (da http://fzreview.blogspot.it)

Tra gli altri sistemi in cui e' possibile la sintesi digitale vanno citati anche il C.M.I. (computer musical instrument), prodotto a Sydney dalla Fairlight Instruments nel

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1979, un sistema computerizzato costituito da un processore dedicato alla sintesi dei suoni collegato ad una tastiera musicale che permette di visualizzare le operazione sul monitor. I timbri si possono creare semplicemente disegnando sul monitor la forma d'onda desiderata. La macchina consente di memorizzare una polifonia ad 8 voci ed è predisposta anche per la stampa delle partiture delle esecuzioni memorizzate; e poi il Prism (1979) della “Kinetic Sound Corporation” di Lockport (Illinois) sintetizzatore polifonico digitale a due tastiere basato su sintesi additiva e modulazione di frequenza, lo strumento contiene 770 timbri diversi in memoria ed è dotato di un sistema di registrazione digitale delle parti musicali; il dmx 1000 (1979) della “Digital Music System” di Boston, un minicomputer a 16 bit appositamente progettato per l'elaborazione di segnali audio ad alta velocità e il PPG waweterm system (1982), dotato di un sintetizzatore digitale contenente 2000 forme d'onda digitali memorizzate all'interno del microprocessore e che consente di campionare e modificare anche suoni naturali. I sistemi digitali avevano un costo superiore rispetto agli analogici “ibridi”, si andava dai quattro milioni e mezzo di Lire dell’Alpha Syntaury agli oltre 54 milioni del CMI Fairlight! Gli anni Ottanta videro l’espandersi del mercato legato alla produzione di musica elettronica e ben presto ci fu l’esigenza di creare un sistema che permettesse a strumentazioni create da case produttive differenti di interagire tra loro. Fu così che nel 1983 venne presentato il MIDI (Musical Instrument Digital Interface) un protocollo di comunicazione numerica, ideato da Dave Smith e Chet Wood già nel 1981, che permetteva a queste diverse strumentazioni di dialogare tra loro. Il MIDI decretò l’utilizzo del computer come principale strumento per la composizione di musica elettronica e spalancò la strada alla progettazione di software musicali. La versione definitiva del MIDI venne applicata nel 1984 sul sintetizzatore digitale, con polifonia a 16 voci, Yamaha DX7 che resta il più venduto nella storia dei synth. La serie DX basa la generazione del suono sulla modulazione di frequenza (FM) ideata da Chowning, ossia sull’impiego di due oscillatori digitali che, posizionati su un preciso rapporto di frequenza, sono in grado di generare uno spettro armonico. Questo synth aveva dei costi più contenuti rispetto agli altri sistemi digitali, un DX infatti non superava i tre milioni di Lire. Ma il successo della serie è dovuto soprattutto alla qualità timbrica e alle nuove possibilità di sintesi che offriva la modulazione di

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frequenza. La programmazione di un DX è molto complessa per questo negli anni si sono sviluppati dei modelli con i suoni già pronti per l’uso; in questo modo però, se da un lato se ne facilitava l’accesso anche da un utenza meno esperta, dall’altro si stava limitando molto l’orizzonte della ricerca individuale.

Fig. 14: Uno Yamaha DX7 del 1984, sintetizzatore digitale di grande successo basato sulla modulazione di frequenza con MIDI incorporato (da http://www.vintagesynth.com/).

Tra gli anni Settanta ed i Novanta anche in Italia sono nati molti centri di ricerca per lo sviluppo delle tecnologie digitali applicate al suono. Oltre ai già citati CNUCE ed IRIS vanno menzionati: il Centro di Sonologia Computazionale dell’Università di Padova (1979); il Centro Tempo Reale di Firenze voluto da Berio (1987); il Centro di Ricerche Musicali di Roma o CRM (1988) che ha ideato la famiglia di processori digitali di suono Fly; l’Istituto Gramma dell’Aquila (1989); il Centro Agon di Milano (1990); l’MM&T di Milano (1992); l’Edison Studio di Roma (1993); l’ACEL di Napoli (1994); tutti questi centri, e molti altri, nel 1996 sono stati riuniti in una federazione italiana, il CEMAT, fondato dalla pianista Gisella Belgeri. Il Cemat collabora anche con le classi di musica elettronica istituite nei conservatori. A partire dagli anni Settanta in questi centri, in Italia come all’estero, l’informatica aveva iniziato a cambiare il modo di concepire la creazione musicale, non ci si concentrava più solo sul miglioramento dei dispositivi strumentali (hardware), e quindi su qualcosa di fisicamente palpabile, ma l’oggetto principale delle ricerche era diventato il programma (software), un linguaggio, quindi qualcosa di molto più astratto, di molto elaborato ma che paradossalmente ha ridotto la distanza

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tra la complessità della macchina e la persona più inesperta mettendola in grado di interagire con essa attraverso un sistema sempre più semplice ed intuitivo, come succede oggi. Ai primi sperimentatori divenne chiaro che un grande investimento iniziale sulla costosa tecnologia digitale avrebbe portato numerosi vantaggi in futuro, ben più dell’analogico. Infatti proprio a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta assistiamo all’affermazione dei sintetizzatori digitali a scapito degli analogici e la tecnologia digitale si conferma a tutt’oggi la più conveniente. Basta pensare agli attuali modelli in commercio, tutti basati su tecnologia digitale, come Jupiter-50, Jupiter-80 o Juno-stage della Roland, in grado di gestire più di 1500 suoni sintetici e 70 acustici, e pensati proprio per un utilizzo live sul palcoscenico come gli ultraleggeri e compatti R3 o M50 della Korg o la serie MOX della Yamaha. L’ultima frontiera della liuteria elettrofona, attualmente, si sta occupando della creazione di dispositivi digitali che consentono di giocare con la localizzazione del suono nello spazio acustico e che sono in grado di sfruttare le risorse timbriche di vari materiali a volte associando anche un particolare design alla strumentazione. L’Italia in questo campo si trova all’avanguardia grazie alle attività del CRM di Roma che ha ideato una serie di strumentazioni in grado di elaborare le caratteristiche vibrazionali degli strumenti a percussione tramite degli algoritmi che controllano dei sensori; parliamo del Feed-drum (2002) e degli SkinAct (2011), elettrofoni a percussione ideati dal compositore Michelangelo Lupone. Il Feed-drum è stato co-prodotto dal CRM e dall’Istituto Gramma e permette per la prima volta al musicista di selezionare e controllare, con apposite tecniche, i complessi modi vibrazionali della membrana del tamburo sia in modo monofonico, sia polifonico. Il suono viene prodotto dal musicista attraverso la percussione, la pressione o lo sfregamento della membrana in uno o più punti determinati che producono una serie di altezze e timbri che poi vengono elaborati digitalmente. Uno strumento simile, lo SkinAct, nasce da un approfondimento delle caratteristiche del Feed-drum e la sua membrana è stata studiata per permettere anche una proiezione dinamica della luce in relazione al gesto dell'interprete. Questi strumenti avvicinano molto le potenzialità dei sistemi digitali alla possibilità di sfruttare a pieno le caratteristiche fisiche dei materiali. Il CRM ha anche prodotto una serie di dispositivi che sono il risultato di una importante ricerca sulla qualità della diffusione del suono nello spazio acustico: i

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Planofoni. Questi dispositivi, nati nel 1997, hanno progressivamente trovato una larga applicazione nel design acustico dei musei o delle sale da concerto predisposte alle opere elettroacustiche o di computer music. I Planofoni, sono delle superfici irradianti che possono avere una grande varietà di forme e vengono costruiti con i materiali più vari come carta, plastica, legno o metallo le cui qualità vibrazionali sono percettibili e controllabili musicalmente; essi rappresentano un’affascinate fusione concettuale del suono con il mezzo attraverso cui esso è prodotto o diffuso.

Fig. 15: Vibrazioni in Rame (2011), planofono su scultura di Licia Galizia con musica di Laura Bianchini, progettato presso il CRM di Roma. Toccando le corde il pubblico può interagire con la composizione provocando delle mutazioni musicali sempre diverse. (http://www.federazionecemat.it/)

Altre interessanti istallazioni del CRM sono le Guide del Suono e gli Olofoni. Le Guide sono formate da condotti tubiformi con geometria e dimensioni variabili che consentono di creare percorsi o aree d’ascolto diversificate. Gli olofoni invece sono strutture paraboloidi e nascono dall’esigenza di introdurre lo spazio come parametro compositivo controllabile e modificabile in base alle caratteristiche delle sale da

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concerto e del materiale sonoro, strumentale ed elettronico, a disposizione; essi infatti sono dotati di un sistema computerizzato per il controllo dei processi di avvicinamento ed allontanamento dell’onda sonora rispetto all’ascoltatore. Le installazioni del CRM hanno trovato impiego in eventi importanti come il Gran Galà Verdi presso il Teatro Regio di Parma (2001) o la Notte Bianca di Roma (2005) ed hanno arricchito monumenti prestigiosi come il Colosseo nel 2003. Negli ultimi decenni si sono sviluppati anche dei programmi informatici molto sofisticati che possono essere utili nell'ambito della live electronics. Tra questi, il Max, progettato originariamente all'IRCAM di Parigi intorno al 1985 da Miller Puckette. Max è un ambiente software interattivo ideato per la musica e la multimedialità utilizzato anche per gestire i flussi di dati provenienti da strumenti elettronici o da altri programmi attraverso il protocollo MIDI. Fu usato per la prima volta in un brano per pianoforte ed elaboratore, Pluton (1988) di Philippe Manoury per sincronizzare il computer al pianoforte. Un'estensione del Max, denominata MSP (o Max/MSP), permette di fare sintesi ed elaborazione del suono in tempo reale venendo incontro alle esigenze della live electronics. Un programma scritto in Max/MSP però non è composto da una lunga serie di codici ma da oggetti grafici che gli utenti assemblano sullo schermo, ne risulta un linguaggio relativamente facile da apprendere pur essendo molto potente. Con il Max/MSP si possono eseguire dei calcoli, produrre ed elaborare suoni, creare immagini, controllare strumenti o apparecchiature esterne. Si possono quindi creare sintetizzatori, campionatori, riverberi e molti altri effetti. L'attuale versione commerciale è distribuita dalla compagnia di software di David Zicarelli, con base a San Francisco in California, la “Cycling '74”, fondata nel 1997. Sul modello del Max, sono nati una serie di altri programmi nel corso degli anni come Cubase, la cui prima versione del 1989, della compagnia tedesca Steinberg, era stata pensata per il computer Atari ST (1985), oggi si interfaccia sia con sistemi Windows che Mac O SX; attualmente viene prodotto dalla Yamaha che ne acquistò il brevetto nel 2003. Altro programma noto per la sua facilità di utilizzo è Logic Studio (2007) prodotto dalla Apple per Mac O SX. Ma senz’altro i prodotti della società americana AVID, tra cui vanno citati Sibelius e Pro Tools, sono tra quelli più utilizzati oggi in ambito professionale per comporre musica elettronica o montare

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video. In particolare il Pro Tools 10 del 2011 che, per un costo inferiore ai settecento euro, mette a disposizione una sofisticatissima cabina di regia virtuale con possibilità di registrare, comporre, montare e mixare musica o suoni per le immagini con una qualità mai vista prima. Nel corso degli anni questa costante evoluzione delle tecnologie legate alla produzione del suono ha prodotto il verificarsi di due eventi importantissimi, prima di tutto il significativo abbattimento dei costi e poi l’estrema semplificazione delle modalità di utilizzo. Questi aspetti hanno messo larga parte della popolazione mondiale (chiunque abbia un computer a disposizione) in condizione di poter produrre una propria opera d’arte virtuale fatta di musica o immagini che con l’ausilio di Internet può essere anche condivisa da milioni di persone. Tutto ciò era stato intuito nel 1991 da un “visionario” Pietro Grossi, convinto che un impiego “amichevole” del PC avrebbe regalato una grande autonomia alle aspirazioni e le possibilità artistiche latenti in ciascun individuo. Lo slogan alla presentazione della sua opera di grafica digitale Homeart recitava: “il computer ci libera dal genio altrui ed accresce il nostro”, nessuna frase potrebbe descrivere meglio la realtà odierna.

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CAPITOLO 3 La musica elettronica esce dai laboratori A partire dagli anni Sessanta alcuni musicisti formarono dei gruppi per sperimentare insieme nuovi modi di produrre musica cercando di mescolare la teatralità dell’improvvisazione e della recitazione con la multimedialità legata alle nuove tecnologie del suono e alla proiezione di film o diapositive. Il seme di questa esperienza era stato gettato nel 1961 dal fenomeno Fluxus, un movimento di artisti che consideravano l’arte un fluire ininterrotto di situazioni e percezioni estetiche trasmesse dall’interazione di diversi linguaggi come la pittura, la scultura, la danza, la musica, la poesia, il teatro e la tecnologia. È indicativo rilevare che ai festival organizzati da Fluxus parteciparono artisti come John Cage, Yoko Ono e Silvano Bussotti; infatti, data l’interdisciplinarietà dei suoi eventi, Fluxus può contenere e inglobare svariate correnti artistiche, come la musica sperimentale, la videoart, il minimalismo e l’arte concettuale. Questi gruppi inaugureranno un nuovo modo di usare le risorse della tecnologia con la conseguenza importante che il centro sperimentale non sarà più l’unico luogo di produzione di musica elettronica. Tra i primi gruppi vanno citati: il “Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza” (1964) di Roma a cui aderiscono tra gli altri Franco Evangelisti, Domenico Guaccero, Paul Ketoff ed Ennio Morricone; l’inglese “AMM” (1965); l’italiano “Musica Elettronica Viva” (1966); e gli americani “Sonic Art Group” (1966) e “The Theatre of Eternal Music” (1964). Questi gruppi erano animati dalla voglia di fare della sperimentazione uno spettacolo e dalla necessità di aprirsi ad un pubblico più vasto rispetto alla ristretta cerchia di chi seguiva le attività dei laboratori. Quella degli spettacoli di musica elettronica manipolata dal vivo (live electronics) è una consuetudine inaugurata da Stockhausen con Mikrophonie I (1964) e Mikrophonie II (1965) in cui i suoni strumentali sono elaborati in diretta tramite filtri, potenziometri e modulatori ad anello. Ma una delle opere più significative per la varietà di elettronica utilizzata in live è Rainforest (1968) di David Tudor dove sono impiegati sintetizzatori e numerosi dispositivi elettronici artigianali per riprodurre i rumori e i versi degli uccelli di una foresta.

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A poco, a poco si venne a formare un repertorio di opere che utilizzavano una tecnologia sempre più emancipata da quella degli studi e che teneva conto anche degli spazi scenici e non solo dei timbri. Quando nel 1979 Nono lasciò lo studio di fonologia per dedicarsi alla live electronics, iniziò ad utilizzare il regolatore spaziale di suono Halaphone, un vero e proprio studio mobile che permetteva un controllo molto accurato della diffusione sonora nello spazio e che usò anche nel suo capolavoro Prometeo, tragedia dell’ascolto (1984-1985). Questo dispositivo ed il 4X (già utilizzato da Boulez in Rèpons) offriranno maggiori potenzialità alla manipolazione in live della musica elettronica e al contempo arricchiranno le attrezzature degli studi tecnici fornendo materiale per le successive sperimentazioni. L’attività di ricerca in studio e lo spettacolo di musica dal vivo seguiranno strade separate ma parallele e la live electronics diventerà un genere ampiamente praticato con un suo spazio autonomo. Questo spazio dagli anni Sessanta è stato nutrito anche dal forte desiderio degli artisti provenienti dall’area rock, pop e jazz di introdurre le nuove sonorità elettroniche nelle loro produzioni. Ciò spinse l’orizzonte della ricerca, in particolare quella delle società private, che da sempre hanno cercato terreno fertile per i loro affari, ad allontanarsi dalle esigenze della sperimentazione fine a se stessa per concentrarsi su una tecnologia che potesse risultare alla portata di tutti e quindi vendibile su larga scala. Ecco perché l’industria, soprattutto quella americana, a partire dalla fine degli anni Sessanta ha cercato in tutti i modi di adattare il sintetizzatore ai bisogni della musica popolare e alle esigenze della live music. Ascoltando le prime opere live di musica elettronica “colta” come Mixtur (1967), Stimmung (1968) e Mantra (1970) di Stockhausen o Piano Control (1974) di Thomas Kessler, si nota subito come esse abbiano una forte tendenza all’astrazione il che le rende molto difficili da apprezzare da parte del grande pubblico. Esattamente come i primi esperimenti all’interno degli studi queste composizioni appaiono come dei tentativi di ricerca a cui manca un equilibrio, come una novità che ancora non riesce a condensarsi in una forma, in qualcosa che sia orecchiabile e soprattutto vendibile. Possiamo considerarle una trasposizione su strumentazione elettronica di quello stile indicato da Schoenberg con Pierrot Lunaire (1912) pur avendo, a partire dalla versione per nastro solo di Kontakte (1960), il germoglio sonoro dell’Electro Dance.

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In ambito accademico la musica elettronica non si è mai discostata troppo da questo stile. Basta pensare alle opere dei compositori di ultima generazione come Quadro (1993) per quartetto d’archi e nastro magnetico di Alessandro Cipriani o Amore (2002) per voce femminile, viola e live electronics di Lucia Ronchetti o alle ultime composizioni dello stesso Stockhausen come Klavierstück XVIII (2004) o Klang (2004-2007), nelle quali risulta impossibile individuare un tema che sia orecchiabile o una qualche sintassi a cui il nostro orecchio sia abituato. Ma d'altronde la sperimentazione non potrebbe essere ingabbiata in schemi troppo rigidi, come quelli che regolano la musica popolare con le sue tonalità ed i giri armonici, perché costituirebbero un impedimento per chi tenta di percorrere strade inesplorate alla ricerca di soluzioni innovative. Un’opera molto significativa, in questo senso, è Spazio Curvo (2012) di Michelangelo Lupone dove lo spazio acustico viene descritto da un suggestivo gioco di ritmi e suoni che vengono scomposti, ricomposti o sovrapposti nel tempo grazie agli SkinAct, elettrofoni a percussione appositamente concepiti per questo scopo. Senza uno studio approfondito delle possibilità di interazione tra la tecnologia e i principi fisici acustici, che viene spesso estremizzato nella sperimentazione, non sarebbero nate molte delle tecnologie di cui si è appropriata l’industria musicale e quindi la musica elettronica commerciale. I primi che sono riusciti a fare della musica elettronica “purista” un vero e proprio fenomeno popolare sono stati negli anni Settanta i tedeschi Kraftwerk, pionieri dell’importantissimo synth-pop. Allievi niente meno che di Stockhausen, i due ragazzi di Dusseldorf, Ralf Hutter e Florian Schneider, sono riusciti in un’impresa che sembrava proibitiva iniettando, nelle algide atmosfere della musica elettronica bianca, le pulsazioni calde e primitive della musica nera, gettando di fatto le basi della futura electro dance. In pratica, anche nella musica elettronica, stava lentamente iniziando quel lungo processo di fusione tra la cultura melodica europea e quella “afro” del Rhythm and Blues, che negli anni Cinquanta e Sessanta aveva portato alla nascita del Rock and Roll di Elvis Presley, dei Beach Boys, dei Beatles e dei più graffianti Rolling Stones. Ralf e Florian, finiti gli studi nel 1970, puntano tutto sulla sperimentazione. Così spinti dalle pulsioni avanguardistiche di Stockhausen e proiettati su una musica che preannunciava il synth-pop e l’electro dance, iniziano l’allestimento dello storico

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capannone “Kling Klang Studio” dedicato alle installazioni grafiche e alla musica elettronica. Fornito di registratore, drum machine ed altre attrezzature, lo studio sarà la linfa vitale del progetto Kraftwerk. I primi album Kraftwerk 1, Kraftwerk 2 e Ralf & Florian (1973) gettano le basi per la futura nascita della musica "industrial" (musica ispirata ai rumori della realtà industriale) ma il loro capolavoro è senz’altro Autobahn (1974). Composto grazie alle nuove apparecchiature dell’epoca come il Minimoog e l’ARP Odyssey, Autobahn rappresenta un equilibrio perfetto tra rumori e melodie, sperimentazione e tradizione, tecnologia ed arte. Nel lato A del disco troviamo una lunga suite di ventidue minuti che con la sua andatura ipnotica sembra quasi preannunciare le atmosfere della più raffinata trance anni Novanta ed ispira una desiderata e ritrovata armonia tra uomo e macchina. Ed è proprio all’universo urbano dei motori, delle fabbriche e dei treni che il duo (che poi diventerà un quartetto) si ispira per trovare il suo sound. Quella dei Krafwerk è una proiezione ottimista del futuro dettata da un momento storico in cui l’avanzata delle nuove tecnologie faceva sperare in un avvenire prospero ed ordinato per l’umanità. Questo ottimismo è esternato anche sulla copertina del disco disegnata da Emil Schult dove colline verdi e autostrada, una perfetta armonia tra natura e tecnologia, fanno da sfondo all’incontro di una vecchia Volkswagen in marcia e una nuova Mercedes che procede nella direzione opposta, quasi a voler rappresentare la Germania del passato e quella che verrà. Con i Kraftwerk finalmente il seme delle sonorità gettato dall’elettronica di Stockhausen iniziava a germogliare grazie anche ad un timido ritorno dell’armonia e del ritmo e alla presenza di un tema più o meno orecchiabile. Infatti un’altra caratteristica, che verrà poi ampiamente sviluppata dalla dance, è proprio la presenza di un ritornello (qui “Wir fahr'n fahr'n fahr'n auf der Autobahn”) sussurrato a ripetizione. Negli album successivi compariranno anche altre caratteristiche che verranno riprese da diversi generi di elettronica da ballo come le veloci pulsazioni all’inizio di Radioactivity (1975) riprese dalla techno, l’uso di voci robotiche in Trans Europe Express (1977) come in The Man Machine (1978) che troviamo anche nella disco music di Giorgio Moroder ed il ritmo del più enigmatico Computer World (1981) cha lascia intuire i possibili sviluppi del rap e quindi dell’hip-hop.

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L’influenza dei Kraftwerk sulla musica elettronica popolare dei successivi decenni fu enorme. Uno dei primi “famosissimi” ad ispirarsi al loro lavoro fu il “Duca Bianco” David Bowie fin dal suo esordio con Station to station (1976), un album di perfetta ibridazione tra elettronica e Rhythm and Blues che darà un’altro importante slancio all’avvio del synth-pop. Senza il contributo dei Kraftwerk, che per primi hanno iniziato a comporre tramite campionamenti, molta della musica pop ed electro dance anni Ottanta e Novanta non sarebbe mai esistita. I Kraftwerk hanno avuto il merito di aver dato visibilità al lavoro di sperimentazione compiuto nel “dietro le quinte” degli ambienti accademici e dei centri di ricerca adottando un criterio di utilizzo delle nuove sonorità più vicino ai gusti del grande pubblico.

Fig. 16: i Kraftwerk nel 1978 con i loro “cloni robot” in occasione dell’uscita del loro album The Man Machine (da http://news.beatport.com/)

I Kraftwerk furono tra i massimi rappresentanti di un genere musicale molto più ampio che per l’interesse nell’elettronica e alcuni momenti di atonalità, affondava le sue radici nelle discussioni di Darmstadt: il teutonico “kraut-rock”, un fenomeno molto vario fatto di gruppi tedeschi di musica elettronica che oltre gli stadi embrionali del

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synth-pop spaziavano dall’ambient music dei Cluster, degli Ash Ra Tempel , dei più “cosmici” Tangerine Dream, allo stile psichedelico di gruppi come i Can o gli Amon Duul. I Can nascono a Colonia nel 1968 e, proprio come i Kraftwerk, sono fondati da due allievi di Stockhausen: il bassista Holger Czukay, ingegnere del suono appassionato di minimalismo e musica etnica ed il tastierista Irmin Schmidt, uno dei pochi a preferire i synth monofonici pur avendo utilizzato il Polymoog negli album più tardivi. I Can arrivano al successo commerciale nel 1972 con il singolo Spoon primo nelle classifiche di vendita in Germania. Il loro stile, pur avendo come retroterra le sperimentazioni di Colonia, si discosta da subito da quello del maestro e già nel primo album Monster Movie (1969) coltivano il seme del rock psichedelico, un tipo di musica ispirata agli stati alterati della coscienza e che spesso condisce il rock con i suoni del sintetizzatore. La musica dei Can, come quella dei più “maledetti” Amon Duul, è un fluire continuo di stati d’animo tormentati senza inizio ne’ fine con un ritmo cervellotico dove spesso la batteria sembra andare fuori tempo, il tutto condito da dissonanze ricorrenti e testi alienanti come a voler simulare gli effetti psicogeni di una droga. Indurre uno stato alterato della coscienza è uno degli obbiettivi di questa musica. In America il rock psichedelico dei Doors (attivi dal 1965 al 1971) si ispira addirittura ai riti sciamanici dei nativi con testi esoterici che descrivono sogni e allucinazioni frammentati da lunghe sezioni strumentali durante le quali il cantante, Jim Morrison, sembrava entrare letteralmente in trance. Addirittura alcuni gruppi psichedelici come i Velvet Underground con la loro Heroin (1967) inneggiano apertamente allo stato di beatitudine provocato dalla droga arrivando a cantare “quando l’eroina è nel mio sangue e il sangue nella mia testa ringrazio Dio”. Nell’universo anglosassone il rock psichedelico ha anche altre varianti: quella più blues dei Led Zeppeling, dei Cream o di Jimi Hendrix e quella più “grezza” e violenta nata a metà degli anni Settanta con i Sex Pistols, i Clash e Iggy Pop e che esploderà nel decennio successivo sotto il nome di punk rock. Il rock psichedelico non ha dato un grande contributo all’evoluzione timbrica dell’electro dance music ma come essa ha privilegiato atmosfere ipnotiche e ha rappresentato un grande fenomeno di aggregazione giovanile, a volte purtroppo, associato anche al consumo di droghe.

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Fig. 17: i Can nei primi anni Settanta (da http://www.spoonrecords.com/)

Il contributo della corrente

ambient,

cosmic

inclusa,

invece è

stato

considerevole. La ambient concepiva la musica come un’opera d’arte. Esattamente come fanno un architetto con i mattoni o un pittore con i colori, utilizzava un materiale fatto di suoni elettronici e rumori combinati in una maniera ben precisa al fine di costruire o disegnare atmosfere particolari. L’ambient è il pilastro stilistico su cui verrà edificata in futuro la trance music di fine millennio, in particolare nella sua accezione chillout. Basta considerare album come Cluster & Eno (1977) o After the Heat (1978) nati da una collaborazione tra i Cluster e Brian Eno e a quanto siano somiglianti alle compilations del nuovo millennio come la famosissima Cafè del Mar che raccoglie, estate dopo estate, i successi suonati nell’omonimo locale di Ibiza. Sono bastati pochi anni ai Cluster per abbandonare il carattere sperimentale “da studio” dei loro primi album per adottare questo linguaggio più sognante e rilassato. In meno di otto anni sono riusciti a passare da un album come Klopfzeichen (1970), che avrebbe potuto assemblare lo stesso Stockhausen, ad una compilation che potrebbe essere suonata nei locali più chillout di Ibiza.

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La musica ambient ha un’esponente di spicco anche in Francia, il compositore Jean Michael Jarre, autore di due album che hanno fatto la storia della musica elettronica: Oxygène (1976), che con 12 milioni di copie resta l’album francese più venduto della storia ed Equinoxe (1978) entrambi realizzati con l’organo elettronico Eminent 310, la drum machine Korg Minipop ed i sintetizzatori VCS3 e ARP 2600. Jarre ha sempre apprezzato i suoni eterei del VCS3 che dichiara di usare tutt’oggi dopo quarant’anni e, da buon concretista che ha fatto parte del GRM, ha sempre preferito una musica fatta di suoni piuttosto che di note e soprattutto senza testo cantato perché, come ritengono gli “ambientisti”, la musica già da sola ha tutti gli ingredienti per essere esaustiva nel suscitare emozioni. Un particolare tipo di ambient era la così detta kosmische musik o cosmic music. Diffusasi in Germania all’inizio degli anni Settanta, sfruttava la strumentazione elettronica per creare effetti di misteriosa grandiosità che spesso, anche nei titoli dei brani, evocavano esperienze di viaggi intergalattici; non dimentichiamoci che negli anni Sessanta era iniziata la grande esplorazione dello Spazio da parte delle due super potenze USA e URSS. I Tangerine Dream, più degli orientaleggianti Ash Ra Tempel, sono considerati i massimi esponenti di questo genere. La formazione Tangerine Dream nasce nel 1966 a Berlino e ne farà parte il percussionista Klaus Schulze, che poi seguirà una brillante carriera solista. I primi album, seppure ispirati a esperienze cosmiche di viaggi stellari, ammiccano sia alla musica psichedelica per l’uso di chitarre distorte e percussioni, che alla musica concreta per l’introduzione di rumori provenienti da apparecchiature diverse come testimonia il loro “Flipper Konzert”, un'esibizione per tastiere elettroniche e sei flipper collegati all'impianto di amplificazione. Ma la cosmicità dei Tangerine diventerà più pronunciata a partire dall’album Alpha Centauri (1971) dove sarà preponderante l’uso distorto dell’organo di Hammond e dei synth analogici come il VCS3. I brani sono delle lunghe suite quasi prive di ritmo, dove il flauto sembra perdersi nell’infinito di un cosmo misterioso che trova la sua espressione nei riverberi dei synth e nelle più minacciose percussioni. Nel successivo album Zeit (1972) la dedizione alle strumentazioni elettroniche sarà totale, in particolare al Mellotron, al Moog, al VCS3 e all’organo di Hammond. I “viaggi siderali” saranno descritti da lunghe suites di sintetizzatori che producono

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ronzii galattici dispersi nell’immensità dell'universo. Chi ascolta viene coinvolto in un vortice di dissonanze, echi, riverberi, rumori e distorsioni elettroniche, in un’atmosfera sospesa nell'assenza totale di ritmo che viaggia su un tappeto sinfonico di suoni sintetici. Un’atmosfera che lascia intuire l’esistenza di un mondo lontanissimo, alieno, ma in qualche modo vivo e presente nel nostro inconscio. Zeit conquista in Germania il titolo di disco dell’anno e lancia i Tangerine anche in Gran Bretagna. Nel successivo album, Atem (1973), invece è la natura terrestre che viene vista in chiave cosmica come una parte del grande universo. Nel brano Fauni-Gena i loop di mellotron, alternati ai versi sintetizzati di uccelli esotici e altre creature del bosco, ci immergono nel verde di una foresta pluviale. Il pezzo sembra quasi una versione elettronica e più mistica del famoso Oiseaux exotiques (1955-56) di Messiaen, mentre in un altro pezzo, Wahn, si possono trovare analogie con lo studio della voce fatto da Berio in Visage (1961), qui riproposto in una veste psichedelica. Il brano infatti apre con un groviglio di voci, urla e grugniti, trattati e riverberati che si spalmano su un sottile tappeto di mellotron lasciando progressivamente spazio ad un crescendo percussivo. Nei lavori seguenti i Tangerine abbandoneranno i ritmi contorti per dedicarsi ad un’elettronica più suadente come nel loro capolavoro Rubycon (1975), disco d’oro persino in Australia, con atmosfere più soffuse che fanno da sfondo a cori sintetici e venti spaziali. Stratosfear (1976) invece è il primo album che abbandona la lunga forma della suite e segna un tiepido ritorno ad uno stile più rock con il recupero di strumenti tradizionali come pianoforte e chitarra. I Tangerine, come i Kraftwerk, hanno continuato la loro attività fino ai nostri giorni riuscendo a radunare folle oceaniche per i loro concerti in ogni angolo del mondo. Il contributo stilistico della “musica cosmica” con l’uso a tutto campo del sintetizzatore, sarà fondamentale per il successivo sviluppo del synth-pop degli anni Ottanta fino ad influenzare la recente electro dance, come testimonia lo stile di artisti di ultima generazione come Underworld e Laurent Garnier.

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Fig. 18: Peter Baumann dei Tangerine Dream nel 1974 (da http://www.tangerinedream-music.com/)

L’analisi approfondita del kraut rock, con tutte le tipologie annesse è indispensabile se si vuole tracciare il sentiero che ha percorso il suono una volta uscito dai centri di ricerca. Il kraut rock infatti rappresenta la musica popolare tedesca che ha il legame più stretto con il mondo accademico delle sperimentazioni. Così la classificazione, forse non sempre legittima, nei tre filoni synth-pop, ambient e psichedelico, ci da la possibilità di inquadrare stilisticamente, non solo quella tedesca, ma tutta la musica elettronica “commerciale” dagli anni Sessanta ai Settanta e di capire quella successiva degli Ottanta, dei Novanta fino ad arrivare al nuovo millennio. Così, ad esempio, parlando dei famosissimi Pink Floyd si può dire che, partendo dallo stile psichedelico dei primi album, adottano a partire da Ummagumma (1969), uno stile più cosmico fino alla vera svolta stilistica con Atom heart Mother (1970) che li vede diventare protagonisti del rock progressivo. Il progressive rock (o prog rock) è un genere che arricchisce l’elettronica con continui richiami al blues, al folk ed alla musica classica con l’obbiettivo di perseguire una maggiore complessità estetica trattando ogni composizione come un’opera d’arte assoluta. Atom heart

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Mother viene da molti considerato l’emblema di questo genere; basta pensare che per incidere la lunga title track, oltre all’impiego dell’organo di Hammond e del Mellotron M400 Mark II, è stata necessaria la collaborazione di un’intera orchestra con il coro ed un massiccio lavoro di mixaggio che vide anche la collaborazione dell’allora giovanissimo ingegnere del suono Alan Parsons. Proprio Parsons, con un collega, nel 1975 fonderà il gruppo progressive “The Alan Parsons Project” passato alla storia per il grande successo di Eye in the Sky (1982). L’universo progressive è costellato di nomi illustri; oltre ai già citati Yes ed Emerson non vanno dimenticati i Genesis, i Jethro Tull, i Gong, gli italiani Giganti ma persino le bellissime Innuendo e The show must go on (1991) dei Queen possono essere annoverate tra i capolavori di questo genere. Sul finire degli anni Settanta, come David Bowie, anche altre band iniziarono ad introdurre nel pop le innovazioni dei Kraftwerk e della cosmic music promuovendo il sintetizzatore come strumento fondamentale per la composizione a fianco di batteria (o drum machine) e chitarra elettrica. Fu l’affermazione totale del synth-pop, il genere che ha dato un’impronta indelebile e ben riconoscibile a tutta la produzione musicale degli anni Ottanta; basta ricordare i successi storici di artisti affermatisi in quegli anni come Gary Numan con i suoi singoli del 1979 Are Friends Electric? e Cars; i Visage autori di Fade to Grey (1980); The Human League con l’album Dare (1981), da cui è tratto lo storico singolo Don't You Want Me, primo in classifica nelle pop charts inglesi e statunitensi e che si attesta al ventiquattresimo posto dei singoli inglesi più venduti della storia con più di un milione e mezzo di copie; gli Ultravox con gli album Quartet (1982) e Lament (1984) comprensivo del noto singolo Dancing with Tears in my Eyes; gli Eurythmics con Sweet Dreams (1983); gli Alphaville con Big in Japan (dall'album Forever Young, 1984); i Pet Shop Boys, con il grande successo di West End Girls (1984) e di It's a Sin (1987) che rimase al primo posto delle classifiche inglesi per ben tre settimane; per non parlare dei leggendari Depeche Mode, il gruppo synth-pop di maggior successo nella storia della musica elettronica, da alcuni ritenuti una delle band più influenti degli ultimi trent'anni, definiti dalla famosa rivista musicale britannica Q “la band elettronica più popolare e longeva che il mondo abbia mai conosciuto”, e dalla storica rivista Rolling Stone: “la quintessenza della musica elettronica degli anni 80”.

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I grandi successi dei Depeche rappresentano una perfetta maturazione del synth-pop dagli anni Ottanta fino ad oggi, basta citare i singoli Just Can't Get Enough (1981), Never Let Me Down Again (1987), Personal Jesus (1989), Enjoy the Silence (1990), Walking in My Shoes (1993), It's No Good (1997), Precious (2005) fino al più recente Heaven (2013) venduto in download digitale. Grazie al loro stile, che si è evoluto costantemente spaziando dal synth pop più ballabile alle atmosfere più dark, i Depeche

sono

sempre

rimasti

sulla

cresta

dell’onda

e

hanno

venduto

complessivamente circa 100 milioni di album in tutto il mondo. Le loro produzioni si sono sempre caratterizzate per una certa ricercatezza delle sonorità new wave al contrario di altri gruppi, nati in quegli anni, che si sono avviati verso la strada del new romantic come i Duran Duran o gli Spandau Ballet.

Fig. 19: i Depeche Mode nei primi anni Ottanta all’inizio della loro carriera. (da http://www.lastfm.it/)

Il synth-pop anni Ottanta, che avrà un’influenza enorme sulla dance del periodo e su quella anni Novanta, si caratterizza per l’uso di particolari drum machine come Linn LM-1 (1980), la prima che sfruttava campioni digitali, usata oltre che da Gary Numan, The Human League e Visage anche da Prince nel suo album più popolare Purple Rain (1984). Il 1980 vide anche la nascita della famosa Roland TR-808;

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all'epoca non venne accolta con molto entusiasmo visto che non aveva suoni campionati digitalmente; i suoni infatti erano giudicati poco realistici e di impronta troppo “analogica” e si preferivano drum-machine con campioni digitali. Nonostante ciò personaggi famosissimi hanno introdotto questa macchina nelle loro produzioni, basta pensare a Michael Jackson, Madonna, i Queen, gli U2 oltre ai già citati Depeche Mode, Brian Eno e gli stessi Kraftwerk. Andò un po’ meglio al suo successore, la Roland TR-909 del 1984 con suoni sia sintetici che reali campionati dal vivo. Il punto di forza della TR-909 era la possibilità di programmare delle strutture ritmiche anche abbastanza complesse con molta facilità ma i suoni erano giudicati troppo metallici e ben presto anch’essa venne rimpiazzata dalle successive drum machine della Korg, della Oberheim o della Alesis che oltretutto, grazie al MIDI, avevano il vantaggio di potersi interfacciare con altre apparecchiature. Ma la più conosciuta drum machine dell’epoca rimane senz’altro la SDS-V della Simmons (1983) che si suona come una vera e propria batteria percuotendo delle superfici esagonali che producono impulsi elettrici tradotti in diversi tipi di suono; in questo modo il batterista poteva adoperare la sua solita tecnica per sfruttare la grande varietà di risorse timbriche e di effetti in dotazione alla macchina.

Fig. 20: il modello SDS-V della Simmons che ha caratterizzato molte produzioni degli anni Ottanta (da http://www.suonoelettronico.com)

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Le drum machine impregnarono il sound degli anni Ottanta e Novanta esattamente come le chitarre elettriche quello degli anni Sessanta e Settanta. Gli anni Ottanta sono importantissimi perché proprio in questo periodo c’è un’ulteriore passaggio che segna il distacco definitivo tra la musica elettronica “colta” dei centri sperimentali e quella popolare. Nella fluidità dei Kraftwerk e nelle lunghe elucubrazioni del rock progressivo e della cosmic music è ancora possibile intravedere, seppure sbiadita, la “mano” del maestro Stockhausen ma questa impronta, benché presente, diventa sempre più impercettibile man mano che ci si addentra nella musica degli Alphaville, dei Visage, dei Depeche o degli Eurythmics dove le pulsazioni delle drum machine inquadrano l’elettronica in schemi ritmici semplici e ben strutturati mentre venti spaziali e ronzii galattici, che una volta erano protagonisti, diventano sempre più rari e, quando ci sono, passano sullo sfondo senza provocare particolari perturbazioni ritmiche. Gli anni Ottanta segnano l’esatto e meraviglioso momento in cui un certo tipo di musica elettronica si adegua alle caratteristiche della musica popolare; innanzi tutto ci si riavvicina alla tonalità, seppure con escursioni frequenti nella dissonanza, mentre la lunga forma della suite strumentale viene accantonata per adottare, in pianta stabile, il modello più agile ed orecchiabile della canzone costituita da strofe e ritornello e della durata massima di tre o cinque minuti; il suono sintetico, sfoggiato nel kraut rock, passa progressivamente in secondo piano mentre si tende a dare risalto al cantante e al testo della canzone. Questo adeguamento dell’elettronica ai parametri della canzone popolare porterà il synth-pop ad affermarsi con una notorietà sempre crescente fino ai nostri giorni. Basta pensare che i due più famosi artisti che hanno fatto la storia del pop, Madonna e Michael Jackson, hanno sfornato i loro primi grandi successi proprio negli anni Ottanta in pieno stile synth-pop e Thriller (1983) di M. Jackson resta ancora l’album più venduto della storia della musica con 115 milioni di copie! I centri sperimentali e le industrie hanno partorito suoni nuovi, il kraut rock ed il synth-pop li hanno resi più malleabili inserendoli in un linguaggio più familiare e comprensibile ad un pubblico più vasto. Il suono, così modellato, è pronto per essere lanciato sulla pista da ballo e diventare un catalizzatore di divertimento, moda e tendenze.

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CAPITOLO 4 L’incontro con la club culture: nasce l’electro dance music La pratica del ballo è sempre esistita ma per molti anni, in Occidente, era stato soprattutto il lento ballato in coppia. Negli anni Cinquanta, con l’esplodere dei nuovi ritmi rock che ammaliarono le nuove generazioni, il ballo si trasforma e diventa più scatenato abbandonando le composte figurazioni del Liscio. I primi club dove si poteva ballare musica di tendenza nascono in Europa e per l’esattezza a Parigi con lo storico “Chez Regine” del 1956 che diventerà il locale culto del Twist. Negli anni Sessanta questi tipi di locali si diffonderanno, molti erano dei semplici bar o ristoranti dotati di Jukebox con uno spazio per ballare, mentre altri erano delle enormi sale con un palco per l’esibizione live degli artisti più conosciuti del momento come lo storico Piper di Roma nato nel 1965. Per il momento il dj, che poi diventerà il “maestro di cerimonie” della musica elettronica, era una figura molto secondaria che si limitava semplicemente a mettere dei dischi uno dopo l’altro (spesso su un solo piatto) durante l’intervallo tra l’esibizione live dei vari artisti. In questi locali si suonava e si ascoltava sia musica europea bianca che americana di matrice “afro” come il rhythm&blues, il soul ed il funky di artisti come Aretha Franklin, Arthur Conley, Joe Tex, Wilson Pickett, James Brown, Rufus Thomas o Lyn Collins e nella programmazione c’era sempre un certo equilibrio tra balli lenti ed il più movimentato “shake”. È negli anni Settanta che si afferma il moderno concetto di discoteca intesa come luogo in cui si va, non per ascoltare i gruppi emergenti, ma principalmente per ballare. Così gradualmente l’orchestra sarà sostituita dalla musica registrata, gestita dal dj, e nascerà un tipo di musica non semplicemente definita “ballabile” ma “da discoteca” ossia nata appositamente per il ballo, parliamo della disco music, un fenomeno musicale fortemente commerciale celebrato anche dal famosissimo film La febbre del Sabato sera (1977). In questo periodo nascono numerose discoteche storiche come il Ritual (1973) sulla Costa Smeralda, il Ciak a Bologna (1973), il Baia Degli Angeli (1974) sulla Costiera Adriatica (dal 1985 Baia Imperiale) e i newyorkesi: The Loft (1970) aperto da David Mancuso, considerato il primo dj della storia; lo Studio54 (1977); il Paradise Garage (1977) e il 12West (1977). In particolare lo Studio54, fino al 1981, si consacrò

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come il locale per eccellenza della disco music eliminando da subito il liscio dalle proprie serate e ospitando molte celebrità del cinema e dello spettacolo. Era il locale che apriva e chiudeva più tardi rispetto agli altri ed aveva luci ed impianto stereo all’avanguardia. Intorno a questi locali si affermò progressivamente uno stile di vita che vedeva nel ballo e nel divertimento un momento essenziale e necessario all’interno della settimana; la discoteca diventa il luogo di ritrovo per eccellenza delle nuove generazioni, è lì che si dettano i principi della moda ostentando pettinature e abbigliamento particolari. Nel frattempo il rock psichedelico imperversa. Lou Reed scrive la sua tormentata e sofferente Black Angel’s Death Song (1965) contemporaneamente alla nascita del Piper e della minigonna e nel 1977, mentre Sid Vicious si tagliava il petto davanti ad un pubblico di punk in delirio e Johnny Rotten cantava un’irriverente God Save the Queen, John Travolta ballava i Bee Gees in abbigliamento impeccabile nell’atmosfera chic del club 2001 Odyssey Disco di Brooklyn. Così, in contemporanea ai malesseri ed alla violenza incarnata prima dal rock e poi dal punk, stava nascendo, quasi come su un altro pianeta, una edulcorata “club culture”, un mondo fatto di lustrini, cocktail e serate all’insegna del divertimento disinteressato che tenendosi lontano dalla protesta e dall’impegno politico non aveva la pretesa di affrontare problemi o di proporre soluzioni, era puro edonismo. Anche qui l’elettronica diede un contributo significativo alla produzione musicale adagiandosi comodamente sui successi della disco music. La disco music affonda le sue radici più profonde nella musica nera in particolare il funky, un tipo di jazz che dava risalto alla matrice blues con sonorità più spesse, riff ripetitivi e ritmo più marcato; un classico esempio è Sex Machine (1970) di James Brown. Il suono della prima disco music è interessato solo marginalmente dalla sintesi e, come il funky, predilige soprattutto voce, sax, pianoforte, chitarra elettrica, basso elettrico e batteria; si distingue per l’utilizzo sincopato del basso elettrico che spicca tra percussioni e chitarre. Tra i primi successi di questo genere vanno menzionati: Soul Makossa (1972) di Manu Dibango, suonato anche da Mancuso nel suo Loft; One Night Affair (1972) di Jerry Butler; Rock the Boat (1973) degli Hues Corporation's; Dancing Machine (1974) dei Jackson Five e Rock Your Baby (1974) di George McCrae. La produzione della disco, a parte qualche raro caso come gli australiani Bee Gees,

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sembrava ad appannaggio esclusivamente degli artisti di colore e molti dei pezzi citati erano prodotti dalla casa discografica “Philadelphia International” degli afroamericani Gamble&Huff.

Fig. 21: il club Studio 54 verso la fine degli anni Settanta (da http://www.siriusxm.com/)

L’anno più prolifico per la disco music fu il 1975 con l’uscita di The Hustle di McCoy, You Sexy Thing di Hot Chocolate e soprattutto Love to love You Baby che vede l’inizio della stupefacente collaborazione tra l’italiano Giorgio Moroder e la cantante Donna Summer. Giorgio Moroder trasferitosi in Germania, negli anni Settanta venne in contatto con i primi sintetizzatori e con il kraut-rock, in particolare era affascinato dai Kraftwerk e dal loro modo di sfruttare le risorse elettroniche. La disco music di Moroder infatti è ben intrisa di suoni sintetici e drum machine e più che ispirarsi alla black music guarda alle avanguardie europee; la sua è una disco più elettronica che rhythm&blues, più synth-pop e meno “afro”. Basta pensare al suo famoso I Feel Love (1976) e a quanto la costruzione,basata su una voce che poggia su un tappeto di synth, sia somigliante a quella adottata dai Kraftwerk in Radioactivity (1975). Come nei Kraftwerk anche qui le voci sono appena accennate e a volte filtrate

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elettronicamente mentre sullo sfondo compaiono, quasi impercettibili, atmosfere evocative di derivazione “cosmica” come nell’album From Here To Eternity (1977) ma, nelle produzioni targate Moroder, sono i bassi potenti e decisi e i ritmi più incalzanti a diventare protagonisti. I punti di partenza erano distanti, Stockhausen per i Kraftwerk e club culture per Moroder ma lo stile delle loro composizioni, in alcuni punti,

è

perfettamente

sovrapponibile.

L’equipaggiamento

di

Moroder

era

impressionante, tra le sue molte apparecchiature troviamo: l’ARP 2600, il Prophet 5, lo Jupiter 8, il Juno 60, alcuni modelli di Moog, Korg, Oberheim e persino un Buchla. I suoi procedimenti compositivi, basati sul suono sintetico e sull’uso del sequencer per la riproduzione automatizzata di sequenze musicali, fanno della sua disco music uno dei primi veri esempi di electro dance music. La musica di Moroder, nella sua originale commistione di sonorità kraut e ritmi ballabili, ha fatto da colonna sonora a numerosi successi cinematografici come “Fuga di mezzanotte” con The Chase (1978), “American Gigolò” con Call Me (1981) ma non vanno dimenticate le collaborazioni per “Top Gun”, “Flashdance” e “Scarface” grazie alle quali ricevette numerosi Oscar. Il fascino che suscitavano le produzioni di Moroder era indiscutibilie, lo stesso Brian Eno le definiva addirittura “il suono del futuro”. Molti artisti di fama internazionale si sono avvalsi della sua collaborazione dagli anni Settanta fino ad oggi, tra i tanti vanno citati: David Bowie, Elton John, Barbra Streisand, Janet Jackson, gli Eurythmics, Cher, Freddy Mercury con la sua Love Kills (1984) scritta per la versione restaurata del film Metropolis (1926), e gli italiani Sabrina Salerno, Adriano Celentano, Gianna Nannini ed Edoardo Bennato. Con Bennato e Nannini ha arrangiato Un’estate italiana, sigla dei campionati di “Italia ’90”. È sua persino la sigla delle Olimpiadi di Pechino Forever Friends (2008). Nel 2012, da Ibiza, Moroder ha annunciato la sua collaborazione con il gruppo francese Daft Punk, che nel 1997 avevano già magistralmente remixato la sua The Chase al Rex Club di Parigi. Il loro disco, Random Access Memories, uscito nel 2013, rappresenta una originale commistione di stile ambient e suoni disco. La disco music raggiunge il culmine alla fine degli anni Settanta con successi come Stayin’ alive (1977) dei Bee Gees, che con 30 milioni di copie e 24 settimane in testa alle classifiche, si attesta come secondo album più venduto della storia superato solo da Thriller. Ma vanno ricordati anche: YMCA (1978) dei The Village

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People; I will survive (1978) di Gloria Gaynor; e Gimme!Gimme!Gimme (1979), hit in stile disco del gruppo pop Abba, magnificamente ripresa da Madonna in stile trance nella sua Hung Up (2005), attualmente il singolo più venduto della cantante con 11 milioni di copie.

Fig. 22: Giorgio Moroder alla fine degli anni Settanta tra i suoi sintetizzatori ( http://www.lastfm.it/)

Con la diffusione della disco music cambia anche il ruolo del dj. A questo punto, se si va in un posto per ballare musica registrata, questa deve fluire in maniera continua senza interruzioni e per fare ciò sono necessari almeno due giradischi, in questo modo si poteva sfumare un brano abbassando il volume di un disco mentre si alzava progressivamente il volume dell’altro; era una tecnica molto semplice di miscelazione ottenuta con un mixer di pochissimi comandi. I mixer e le tecniche di missaggio vengono presto migliorate; è del 1975 l’invenzione del disco mix un formato di disco, appositamente pensato per i dj, con un solo lato inciso che aveva la velocità di un 45 giri e le dimensioni di un 33 giri. Questo formato si poteva maneggiare con più facilità avendo pochi solchi in uno spazio più grande e si adattava anche meglio agli impianti di amplificazione con una maggiore fedeltà del

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suono contrariamente ai 45 giri che a volumi troppo alti risultavano “metallici”. Nel disco mix inoltre, l’abbondanza di spazio, poteva essere usata per prolungare le dissolvenze evitando dei repentini cambiamenti nel passaggio da un disco all’altro. Il disco mix nasceva da un’intuizione del produttore americano e tecnico di studio Tom Moulton; sebbene non abbia mai lavorato come dj, sono sue le prime versioni allungate (long version o extended mix) di brani famosi adatti ai remix come quella di Do It Til You’re Satisfied (1973) dei B.T. Express o I’ll be holding on (1974) di Al Downing. I primi dj “mixatori” si affermano proprio in questo periodo, oltre a David Mancuso, abbiamo Larry Levan, Kerry Carpenter, Walter Gibbons e Jim Burgess. In Italia il primo dj ad importare le tecniche di missaggio d’oltreoceano è Dj Miki del Ciak di Bologna. In Europa, ancora una volta, come successe per i centri sperimentali, sono la Germania, la Francia e l’Italia i paesi più produttivi. La Germania, oltre a Moroder, si afferma con le produzioni di Frank Farian, produttore dei Boney M con il famosissimo Daddy Cool (1976) e degli Eruption. Dalla Francia invece arrivano grandi successi di artisti non afroamericani come Marc Cerrone con Love in C minor (1977); Sheila&B.Devotion con Love me baby (1977) e Spacer (1979) remixato anche dagli svedesi Alcazar nel 2000 con Crying at the Discoteque; Patrick Juvet con Lady Night (1978) e I love America (1978); e soprattutto Patrick Hernandez con il celebre Born to be Alive (1979). Sono di marca francese anche alcuni esperimenti di fusione tra la disco music ed il synth-pop, sulla scia di Moroder, che traghetteranno l’elettronica da ballo negli anni Ottanta; a questo proposito vanno citati i Plastic Bertrand con Tout Petit La Planete (1978) e Telex con Twist a Saint Tropez (1979). Il processo di fusione tra disco music e synth-pop si completerà in Italia con un genere che verrà chiamato appunto Italo Disco e che vede questo paese diventare il più grande esportatore di dance degli anni Ottanta. Gli inizi del fenomeno si fanno risalire a One for you, one for me (1978) del duo italiano La Bionda anche se il pezzo è ancora poco “sintetico”. Il fenomeno esplode nell’interezza delle sue caratteristiche con Vamos a la playa (1983) famosissimo pezzo dei Righeira; è dello stesso anno anche il brano strumentale Ikeya Seky dei Kano che sembra condire le sonorità di Moroder con atmosfere trance. Gli anni Ottanta sono cosparsi di successi italiani che occupano le Top 10 delle classifiche internazionali come Mad Desire (1984) di Den

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Harrow (Stefano Sandri), Self Control (1984) di Raf che con la versione cantata da Laura Branigan arriva al primo posto persino in Australia e parte dall’Italia anche il successo del croato Sandy Marton con People from Ibiza (1984). Tra gli altri pezzi storici possiamo citare: Easy Lady (1985) di Spagna; Tarzan Boy (1985) di Baltimora; Ti sento (1985) dei Matia Bazar che nel 2009 è stato remixato in maniera stupefacente dagli Scooter, gruppo techno tedesco, con la partecipazione della stessa Antonella Ruggiero, diventato da subito un successo internazionale; e non vanno dimenticati i successi di Sabrina Salerno con Boys (1987) e dei Radiorama con Aliens (1987) in vetta alle calssifiche tedesche, svizzere e scandinave. L’italo disco copiava in pieno le sonorità del synth-pop ma diversamente da esso aveva ritmi e testi concepiti appositamente per il ballo, proprio come la disco. La formula era semplice, una melodia molto orecchiabile e ripetitiva, un ritmo trascinante ed un impiego pressoché totale di suoni sintetizzati; un sensuale abbraccio tra lo spirito elettronico dei Kraftwerk e le calde melodie della musica popolare italiana dove il suono dei sintetizzatori viene inquadrato dalle percussioni ritmiche delle drum machine che frammentano i riverberi di lontana derivazione cosmica. Negli anni Ottanta, in Europa, la club culture con l’uso a tutto campo dei sintetizzatori si scatena, accresce il mito di Ibiza come capitale del divertimento e si moltiplicano le grandi discoteche multisala a Londra, Francoforte e in Italia con le note località di Rimini e Riccione. Negli USA, invece, il fenomeno subisce un certo ridimensionamento e i grandi locali come lo Studio54 entrano in crisi già nel 1980 sostituiti da strutture più piccole pensate per l’esibizione live di gruppi pop, rock e rap. Contrariamente a questi presupposti sarà in due locali americani, il Warehouse Club ed il Paradise Garage di Chicago, che nascerà il genere che traghetterà l’elettronica da ballo negli anni Novanta: la house music, il nome deriva dai grandi magazzini riadattati a discoteca. La house è nata per merito dei dj Frankie Knuckles e Larry Levan e del loro modo di mixare insieme elementi disco music, rhythm&blues e synth-pop come è evidente nel brano Your Love (1987) di Knuckles. La house, ancora una volta, ha radici piantate nella black culture e i primi stadi di sviluppo, come per la disco, coinvolgono quasi esclusivamente la comunità nera così come sono afroamericani i primi grandi dj in attività ancora oggi. Oltre a Knuckles tra di loro ci sono: Jesse

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Saunders con una delle prime pubblicazioni house On and on (1984) dove, nelle dissonanze “spaziali” che fanno da sfondo, si può scorgere l’influenza dei Kraftwerk e della cosmic music, qui però il tutto è scandito da un ritmo tribale di chiara matrice “afro”; Marshall Jefferson con Move your body (1986) che con il suo sample vocale riproposto all’infinito per tutta la durata del pezzo contiene tutti gli ingredienti della house moderna; ma non vanno dimenticati Todd Terry e Carl Cox che iniziano la loro prolifica carriera proprio negli anni Ottanta. La house rispetto alla italo ed al synth pop, che abbondano di suoni riverberati, ha un aspetto più scarno ottenuto miscelando pochi suoni asciutti di sintetizzatore e campionamenti con drum machine e linea di basso. L’impatto è molto diverso e seppure i generi, in questo periodo, convivono sulla pista da ballo sembrano il prodotto di due epoche diverse, più espansiva l’italo disco, più ermetica e minimalista la house.

Fig. 23: Larry Levan durante un dj set al Paradise Garage nel 1979. (http://streetblabber.wordpress.com/)

Nel corso degli anni Ottanta la figura del

dj si modifica. Grazie alle nuove

tecnologie che semplificano l’approccio alla composizione e alla produzione del suono, i dj possono creare in prima persona ciò che suoneranno nei club. Si inizia a

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parlare di dj producer. Nell’affermarsi del nuovo stile è fondamentale la tecnologia che progredisce rapidamente e mette a disposizione nuovi dispositivi per fare musica con suoni innovativi e con un approccio sempre più “casalingo” alla produzione. Assieme al perfezionamento dei sequencer, che consentono la programmazione di sequenze musicali, c’è un larghissimo uso del campionatore, ormai divenuto un registratore digitale gestibile da una tastiera, che permette di prelevare frammenti sonori (voci, suoni, effetti) da qualsiasi sorgente. Il campionatore è utilizzato dai dj per memorizzare dei segmenti ciclici di audio (loop) e dare vita ad originali composizioni. La house, in qualità di musica nata come fusione di elementi provenienti da generi diversi, vede proprio nel campionatore il suo strumento prediletto; tra i più utilizzati negli anni Novanta ci saranno gli Akai. La house negli anni Novanta riscopre alcune apparecchiature progettate negli Ottanta che alla loro prima uscita ebbero scarso successo come la Roland TB-303 (del 1981), sintetizzatore di basso con sequencer incorporato e la drum machine Roland TR-909 (1984). In particolare la Roland TR-909, che negli anni Ottanta era stata snobbata per le sue sonorità ritenute poco realistiche, diventa la drum per eccellenza della house proprio per il suo inconfondibile suono che unisce risorse analogiche a quelle digitali.

Fig. 24: la drum machine Roland TR-909 (da http://www.synthfind.com/)

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Per riprodurre l’organo in questo periodo il synth più usato è il Korg M1 (1987) mentre il computer più diffuso per ospitare il sequencer, cioè il software per gestire la programmazione dei synth, è l’Atari ST rimpiazzato nella seconda metà degli anni Novanta dai PC Microsoft e Apple; all’epoca il salvataggio dei dati avveniva ancora su floppy disk. Nella seconda metà degli anni Novanta, grazie anche all’abbattimento dei costi di produzione, si diffonde l’uso dell’hard disk recording un sistema di registrazione che usa l'alta capacità di un hard disk (inventato dall’IBM nel 1956) per registrare del materiale sonoro in formato digitale. L’hard disk recording permette un controllo e una manipolazione del suono altrimenti impossibile consentendo l’impiego di grandi porzioni di brano precedentemente registrate e non solo di piccoli frammenti. Questa invenzione consente di archiviare definitivamente il registratore a nastro ed il campionatore stesso. Il nuovo audio digitale facilita la produzione di composizioni house che contengono samples riciclati da brani del passato; il fenomeno è talmente diffuso che in tutto il mondo si cerca di accelerare la normativa giuridica sulla tutela dal campionamento ma in realtà, in molti casi, l’apporto creativo di alcuni brani è tale da giustificare una condivisione dei proventi con l’autore originario. Le prime produzioni house vengono definite classic house ma da subito si sviluppano dei sottogeneri, tra i primi ci sono: la deep house, con atmosfere più morbide che preannunciano la chillout di fine millennio, le cui origini si fanno risalire a Can you feel it (1986) di Larry Heard; la hip house, influenzata dall’hip-hop, caratterizzata dal rap al suo interno; e la acid house che esprime le sue potenzialità nell’uso del bass line e si sviluppa in concomitanza all’organizzazione dei primi rave parties semi-clandestini, Acid tracks (1987) di Phuture è considerato il primo pezzo importante di questo tipo. La hip house raggiunge la popolarità nel 1990 con I Can’t stand del progetto olandese Twenty 4 Seven. Più avanti si distinguerà per testi sboccati e groove minimali come in Pass the toilet Paper (1993) o Don’t stop (1995) degli Outhere Brothers dove il rap poggia su un semplice basso ossessivo scandito da una percussione intonata. Grande successo ebbe anche Short Dick Man (1995) dei 20Fingers. Nella house non mancherà una variante di ispirazione latina con testi in spagnolo e percussioni brasiliane come El Trago (1994) di Two in a Room o Samba

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de Janeiro (1997) di Bellini ispirato al celebre Celebration suite del percussionista brasiliano Airto Moreira. Dal 1992 si diffonde anche uno stile particolare di house, il garage che stranamente solo in Italia viene chiamato underground. La house garage si caratterizza per le influenze gospel nell’impiego di voci femminili black e nel maggiore risalto che viene dato agli interpreti; un classico esempio è Show me love (1993) di Robin S, uno dei primi che aggiunge al sound house anche un effetto di chitarre distorte che verrà poi molto utilizzato. Anche nella house l’Italia riesce a ritagliarsi un suo spazio con quella che viene definita la “spaghetti house” o italo house; l’esempio più popolare è Ride on Time (1989) dei Black Box (progetto dei dj Mirko Limoni, Daniele Davoli e Valerio Semplici), che costruisce la sua struttura sul campionamento della voce di Loleatta Holloway estrapolata da Love Sensation (1980). Il singolo ottiene il primo posto in moltissime charts comprese quelle americane. La spaghetti house può considerarsi una naturale evoluzione della italo disco verso la house e spesso si distingue per l’uso del pianoforte in veste di strumento ritmico ovviamente riprodotto dal campionatore e, a volte, distorto nel suo contenuto armonico come in Megamix (1990) dei 49Ers. Grazie alla spaghetti house negli anni Novanta l’Italia raggiunge un successo di esportazione maggiore di quello degli anni Ottanta con la italo disco e alla radio iniziano ad essere trasmessi programmi basati sulla musica dei club come Dj Time e la Dj Parade condotti da Albertino su Radio Deejay. Le grandi multinazionali, per il momento, sono escluse dal processo primario di produzione che coinvolge soprattutto piccole label indipendenti e specializzate come Trax Records e Dj International Records, molte gestite da poche persone o dallo stesso dj producer che edita il pezzo e, una volta arrivato al successo, cede la sua etichetta alle majors; esattamente quello che è successo alla label inglese Deconstruction che dopo le hit viene acquisita da BMG. La moda della house si diffonde e molti artisti pop che ci tengono a stare al passo con i tempi affidano i loro remixes a dj importanti come David Morales che ottiene molta più popolarità per i remix che per i suoi pezzi. Alcuni brani pop, grazie ai remix in stile house, diventano successi planetari come Space cowboy (1994) di Jamiroquai mixato da David Morales nel 1995 o Missing (1994) degli Everything but the girl, la cui versione originale non ebbe affatto successo contrariamente al remix di

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Todd Terry del 1995. I campionamenti della house fagocitano di tutto e osano anche con i grandi successi del passato come I love America (1976) di Patrick Juvet remixato nel 1996 dai Full Intention con la loro America. Il 1996 è un anno di cambiamenti e di novità. La house si impregna sempre di più di effetti e sonorità elettroniche (electro house) spesso rinnegando la morbidezza delle origini con bassi molto duri. Un importante producer si affaccia sulla scena house, Armand Van Helden, che firma successi come The funk phenomena (1996), You don’t know me (1999) ma anche famosi remixes come Baby I‘m yours (1997) dei 49Ers e soprattutto Professional Widow (1996) di Tori Amos, dove rispolvera tecniche come il basso sleppato, di moda negli anni Ottanta, su cui sparge i vocals della cantante; i suoi remixes riescono a dare originalità e successo anche a delle composizioni anonime o semisconosciute. Questo è anche il periodo del fenomeno Daft Punk; il duo francese ha un impatto talmente innovativo da cambiare da qui in avanti il corso dell’intera electro dance. Il loro suono è arricchito da novità tecnologiche e dall’uso originale di alcuni dispositivi. I Daft Punk infatti sono i primi ad utilizzare i filtri passa alto e passa basso sull’intera base o porzioni di essa, una procedura che fino ad allora era stata considerata scorretta. Questo nuovo sound si serve di neonati apparati hardware come lo Sherman Filterbank (1996) un dispositivo che permette di giocare sui filtri in stereofonia con altissima qualità audio. Around the world (1997) è il pezzo più significativo dei Daft Punk e, proprio grazie a questo gioco di filtri, presenta dei suoni non statici ma che si evolvono nel corso dell’intera composizione; il sound ricorda vagamente i primi lavori di Moroder e non a caso nel 2013 i due sigleranno una collaborazione. Alla fine degli anni Novanta l’effettistica si trasferisce quasi interamente nel software. Uno dei più usati è l’Autotune (1997) della Antares concepito per aggiustare l’intonazione di cantanti e strumenti; un uso improprio ed originale ha fatto il successo di brani come Believe (1999) di Cher, donando alla voce un timbro metallico con un leggero effetto di sfasatura. È particolare anche l’impiego che i Daft Punk fanno di alcuni dispositivi destinati ad altri scopi; infatti in alcuni pezzi come Music sound Better with You (1998) e One More Time (2000), delle procedure nate per controllare la compattezza del suono, vengono utilizzate per ricreare la

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condizione di cattiva ricezione di una radio; questo effetto particolare diventa il punto di forza del brano. Dopo un ventennio ricco di innovazioni che hanno permesso delle rivoluzioni stilistiche anche ravvicinate nel tempo, la house dai primi anni del Duemila è entrata in un periodo di stasi evolutiva nel senso che, da una decina di anni, non ha subito nessun cambiamento apprezzabile. L’ultimo pezzo che si è imposto per una certa originalità è stato Satisfaction (2003) di Benny Benassi in cui viene estremizzato l’uso dei filtri e dei riverberi. Benassi è forse il dj italiano più popolare del momento, ha firmato collaborazioni prestigiose, anche con Madonna, e nel 2008 con il suo album Rock’n Rave ha persino tentato un azzardato connubio tra rock psichedelico ed house, particolarmente riuscito con Electro Sixteen remix di Sweet Sixteen (1977) di Iggy Pop. La house fa parte a pieno titolo della grande famiglia dell’EDM ed ha avuto figlie e sorelle importanti che hanno raggiunto una propria autonomia stilistica generando a loro volta numerosi sottogeneri. Prima fra tutte la Techno, un genere che dà molto risalto a ritmo e sonorità sintetiche; ma non meno importanti sono la Trance, che accosta il suono techno alle atmosfere ambient, e soprattutto la Dance commerciale, un fenomeno di proporzioni gigantesche, il genere più diffuso anche oggi sulla pista da ballo, spesso definito semplicemente “musica commerciale”. Della Dance sembra quasi superfluo parlare vista la sua enorme diffusione. Oggi, oltre a gruppi specializzati come la recente formazione Ikona Pop, molti artisti famosi provenienti dalle categorie più varie (pop, hip hop, rock, etc.) come Rihanna, Madonna, Pink, Justin Timberlake, Jennifer Lopez, Pitbull, Kylie Minogue o Lady Gaga pubblicano pezzi in stile dance, ossia adatti al remix o appositamente concepiti per i dancefloor. La dance inizia a serpeggiare nei grandi successi house dalla fine degli anni Ottanta e all’inizio è considerata parte di essa, anche considerando i procedimenti compositivi che la riguardano dall’uso della Roland TR-909 al campionamento ma, molto più spesso che nella house, i brani di questo tipo hanno la classica struttura formata da strofe e ritornello e puntano molto sul carisma degli interpreti e sulla ricerca di una melodia molto gradevole ed orecchiabile. La Dance nasce da una fusione tra synth-pop e house; tra i primi esempi possono essere citati i successi

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Pum up the Jam (1989) dei Technotronic e Gypsy woman (1991) di Crystal Waters con il celebre loop vocale “la da dee da da” che diventerà un irresistibile tormentone estivo. Il primo nome ufficiale di questo genere sarà eurobeat o eurodance e dal 1992 al 1995 avrà una diffusione tale da dominare le classifiche di tutto il pianeta; mai come in questo momento le charts sono espressione della club culture e di una musica così sfacciatamente elettronica. I club diventano le fucine musicali e la nuova tendenza non passa più dalle band di musicisti e dal rock ma nasce sulla pista da ballo, dalla club culture. L’eurodance ha consegnato alla musica elettronica successi planetari da milioni di dischi come Rhythm is a Dancer (1992) dei tedeschi SNAP, Please don’t go (1992) di Double U, What is Love (1993) di Haddaway, The Rhythm of the Night (1993) di Corona e Sweet Dreams (1994) di La Bouche. Gradualmente l’eurobeat ha conquistato uno stile ispirato alla house garage dando sempre più importanza alla personalità degli interpreti come Alexia con Me and You (1995), Gala con Everyone has inside (1996) o Simone Jay con Wanna be like a Man (1997) mentre le etichette indipendenti dedicate al genere diventano progressivamente strutture promozionali come le majors. Brani come Barbie Girl (1997) dei danesi Aqua e Vamos a la Playa (1999) di Miranda indicano già dei progetti dance più commerciali. In questo periodo molti producer italiani, che abbracciano vari generi, diventano star internazionali come Giorgio Prezioso con Tell Me Why (1999), Mauro Piccotto con la sua Komodo (2000) o Gigi D’Agostino che ottiene il successo internazionale con Blablabla (1999) un pezzo molto originale che si basa sull’uso ritmico di un sample vocale che poggia su un ossessionante basso in levare, il tutto setacciato da filtri passa basso e passa alto. L’Italia raggiunge la vetta delle classifiche con il gruppo Eiffel 65 e il loro singolo Blue (1998) che con più di dieci milioni di copie diventa uno dei successi italiani più venduti nel mondo. Nel 2002 inizia a prendere forma anche una dance cantata in italiano seppure con limitate potenzialità di esportazione; il genere purtroppo incontra anche l’ostilità dei network radiofonici ed avrà vita breve. Ciò non toglie l’affermarsi di successi popolari come Geordie (2002) di Gabry Ponte, cover di una canzone di Fabrizio De Andrè del 1966 a sua volta ispirata ad una ballata inglese del Seicento.

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La dance dall’inizio del nuovo millennio si è progressivamente fusa con un pop ballabile (dance-pop) diventando un fenomeno molto ampio i cui confini sono molto difficili da delineare; basta pensare al Waka Waka (2010) di Shakira che, nonostante le sue caratteristiche pop, non ha confronti con nessun brano dance del periodo in merito alla ballabilità sui dancefloor. Il termine “dance” oggi è utilizzato per indicare diversi generi di EDM non necessariamente riconducibili all’eurodance. Un fenomeno meno ampio ma molto più interessante è invece quello della Techno. La techno inizialmente non era altro che un particolare tipo di acid house che si suonava a Detroit, in due locali in particolare lo Shelter ed il Music Institute. Tra i primi protagonisti c’è il dj Juan Atkins fondatore del più antico gruppo techno, i Cybotron. Il luogo non è un caso perché proprio Detroit è la città del progresso tecnologico e dei primi esemplari di robotica applicata alla catena di montaggio, dove la produzione industriale passa rapidamente alla gestione computerizzata e dove inevitabilmente dj e musicisti vengono influenzati da queste trasformazioni. E a meno di un secolo dall’Arte dei rumori di Russolo e dalla “glorificazione della macchina” teorizzata da Pratella, lo scrittore Alvin Toffler parla per la prima volta nel suo libro, The third wave (1980), della generazione tecno “nata dall’innesto tra macchine e menti umane” e che proprio attraverso il culto della macchina trova una via di fuga al senso di abbandono. È esattamente da questo legame con la tecnologia che nasce una musica che, anziché nella produzione di melodie orecchiabili o nella campionatura di brani già incisi, investe tutte le sue potenzialità espressive nella ricerca di un suono profondamente sintetico ed emancipato da qualsiasi strumento esistente con un ritmo, a volte duro ed aggressivo, ispirato alla velocità delle catene di montaggio robotizzate. La Techno recide i legami con la tradizione afroamericana e l’ispirazione, piuttosto che dal soul o dal funky, viene dall’Europa delle avanguardie e dei Kraftwerk. Le analogie si colgono in particolare con Computer World (1981) a cui si ispira Clear (1983) dei Cybotron ma ovviamente c’è sempre la differenza che il lavoro dei Cybotron, contrariamente a quello dei Kraftwerk, nasce pensato per la pista da ballo. Nel 1984 i Cybotron danno alle stampe Techno City che ufficializza l’appellativo “techno” per indicare questo genere di musica e successivamente,

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sempre grazie ai primi producer, Atkins, Kevin Saunderson e Derrick May, nascono le prime etichette specializzate come Metroplex e Transmat. Nella techno come nei Kraftwerk l’esaltazione della tecnologia è totale, lo stesso Atkins in una delle prime interviste dichiarò: “voglio che la mia musica suoni come due computer intercomunicanti, non voglio che sembri una band reale, deve suonare come se l’avesse fatta un tecnico. Ecco cosa sono io: un tecnico con sentimenti umani”. E proprio così, i dj di Detroit circondati da un lussureggiante paesaggio tecnologico, si sentivano tecnici ancor prima che musicisti.

Fig. 25: Juan Atkins nel suo studio nel 1993. Sulla destra è visibile un registratore a nastro utilizzato prima della diffusione dell’hard disk recording (da http://old-school-techno.blogspot.it/)

Agli inizi degli anni Novanta anche in Europa c’è un fenomeno musicale chiamato “techno” ma la techno europea è profondamente diversa da quella di Detroit. Ne condivide le fonti di ispirazione, Kraftwerk e musica elettronica bianca europea, ma non il suono. Infatti la techno europea, con le sue pulsazioni violente, descrive atmosfere molto più cupe quasi da tragedia apocalittica; un esempio classico è Quadrophonia (1990) dei belgi Lucien Foort e Olivier Abbeloos. Ma il senso di devastazione raggiunge il suo apice nel 1991 con la catastrofica James Brown is Dead degli olandesi L.A. Style, pezzo ricco di sonorità acide lontanissimo dal funky e dalla morbidezza della house; il titolo probabilmente vuole anche ribadire che questo genere decreta definitivamente la fine dell’influenza primaria di James

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Brown che tanto ha contribuito alla nascita della disco music. I gruppi techno di maggior successo arrivano dall’Inghilterra tra di loro ci sono i KLF, gli Underworld, i Chemical Brothers, ed alcuni di ispirazione punk come Fatboy Slim ed i Prodigy. Tra il 1992 ed il 1994 si crea una netta divisione tra la house e la techno e anche i locali si differenziano a seconda dei generi suonati; in Italia il tempio Techno per eccellenza è il Cocoricò di Riccione. La Techno ha una cerchia più ristretta di seguaci rispetto all’enorme fenomeno dance-house che invade le classifiche. Nonostante ciò alcuni brani come Born Slippy (1995) degli Underworld riescono a raggiungere la vetta delle charts malgrado le sonorità dichiaratamente tecno, motivo del grande successo è l’aver fatto da colonna sonora al film cult Trainspotting; il brano utilizza l’effetto del distorsore, dispositivo nato per le chitarre elettriche adottato dalla techno per trattare groove e voce. Verso la metà degli anni Novanta la techno si velocizza in maniera sorprendente con una frequenza di battiti per minuto (bpm) superiore a 200. Questa nuova variante, chiamata Hardcore, raccoglie un consistente numero seguaci nel Nord Europa diventando il genere prediletto nei raves parties più estremi. Persino questo tipo di electro dance, seppur raramente, riuscirà a penetrare le classifiche di vendita con brani come Hyper Hyper (1994) degli Scooter o il remix di Over the rainbow (1994) della dj Marusha che fonde le violente pulsazioni techno alle sognanti melodie del film Il Mago di Oz. La techno, seppure continuando a seminare qualche sporadico successo nelle classifiche, intorno al 1995 completa il suo percorso evolutivo. Infatti questo è il periodo in cui assistiamo ad un significativo rallentamento dei bpm che riguarda tutta l’EDM ma mentre dance, house e trance riusciranno a riprogrammarsi su ritmi più lenti, quasi tutta la techno confluirà completamente nella sua variante hardcore. Dalla fine degli anni Novanta sarà la Trance il genere di tendenza sui dancefloor che traghetterà l’electro dance nel nuovo millennio. Il termine trance venne utilizzato in tempi insospettabili da Klaus Schulze, ex tastierista dei Tangerine Dream e degli Ash Ra Tempel, nel suo album solista Trancefer (1981). La Trance infatti affonda le sue radici più lontane proprio nella corrente ambient del kraut rock, in particolare la cosmic a cui si ispira per ricreare quelle sensazioni di immensità cosmica e di pace interiore a partire però da un suono

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techno. La trance quindi, come la techno e a differenza della house, stringe un legame molto più stretto con la tradizione bianca europea di Stockhausen e dei Tangerine che con la black music americana. È difficile identificare i primi brani trance, un esempio potrebbe essere We came in Peace (1990) dei Dance2Trance con le sue atmosfere ipnotiche; il remix di The age of Love (1990) nella versione incisa nel 1992 dal duo Jam&Spoon è considerato techno ma con il suo ritmo ammaliante, immerso in un suono soffice e ovattato e le sue aperture improvvise, contiene molte delle caratteristiche trance. Elementi trance si possono scorgere anche nelle atmosfere oniriche di It’s a fine Day (1992) degli Opus III, seppure il pezzo è classificato come house. A partire dal 1992 molti brani in stile trance, anche se ancora considerati techno, entrano nelle classifiche dominate dall’eurodance come Love Stimulation (1993) di Paul Van Dyk, Outside World (1994) di Sunbeam, ma soprattutto Yerba del Diablo (1992) degli italiani Datura che arricchiscono il suono con atmosfere più calde di ispirazione mediterranea. Il brano dei Datura, in seguito, passerà alla storia come una pietra miliare della trance; recentemente è anche stato reinterpretato in stile rap dai Club Dogo nella loro Erba del diavolo (2013).

Fig. 26: i Datura nel 1992: disco d’oro alla trance italiana con Yerba del Diablo. (http://www.datura.it/)

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Il sound trance nasce direttamente da quello techno ma si è progressivamente distinto per la ricerca di atmosfere più morbide e suggestioni oniriche che dovrebbero favorire uno “stato di trance”. Proprio questa caratteristica gli attira da subito le simpatie dei ravers. Anche le tematiche, contrariamente a quelle più distruttive della techno, sono quasi sempre positive e atte a favorire uno stato di benessere interiore, e proprio come la cosmic music spesso evocano esperienze spirituali o viaggi nello spazio come Eternity (1993) dei Datura, Psychic Harmony (1994) dei Mystic Force o For an Angel (1994) di Paul Van Dyk. Eternity, in particolar modo, sembra un vero e proprio mantra di meditazione cosmica dove una voce, che sussurra i nomi di una serie di corpi celesti, si fonde ad una melodia ipnotica. La musica dei Datura, più di ogni altra, presenta un’intima connessione con una certa spiritualità e riesce a fondere in maniera impeccabile electro dance e misticità religiosa, spesso legata alle filosofie orientali. Con questo stile i Datura hanno costellato la storia successi come Devotion (1993) e Mantra (1996), ispirati alle tecniche di meditazione orientale, e soprattutto Angeli Domini (1995) dove invece è la possente sacralità cristiana ad essere magistralmente convogliata nelle nuove sonorità dei dancefloor. A metà degli anni Novanta la trance music è finalmente identificata come un genere a parte, con una sua autonomia stilistica e label dedicate, complice anche il rallentamento dei bpm che ha visto la techno diventare un genere più estremo ed ha invece favorito le atmosfere sognanti della trance. È in questo periodo che nascono le tipiche ambientazioni della trance costruite da melodie struggenti, talvolta persino nostalgiche, accarezzate da un suono ampio di lontana origine cosmica. L’Italia abbraccia in pieno questo stile più sognante e consegna al mondo Children (1995) del friulano Robert Miles, un successo planetario da sei milioni di copie in pochi mesi, diventato uno dei dischi italiani più venduti al mondo. La trance, nei suoi processi compositivi, riscopre il fascino dei suoni analogici e rispolvera i vecchi synth come l’Arp Odyssey, il Minimoog ed alcuni modulari Korg e Roland che erano stati accantonati negli anni Ottanta a favore dei sistemi digitali. Un tipo particolare di trance è quello inaugurato nel 1993 con la compilation Cafè del mar che raccoglie i successi suonati nel famoso locale di Ibiza. Il locale, sorto all’inizio degli anni Ottanta e conosciuto per lo splendido tramonto sul mare, è diventato meta di culto per la sua particolare musica estremamente rilassante

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ispirata alle atmosfere baleariche. I primordi di questo genere, definito chillout, coincidono con i primi esperimenti di deep-house. La chillout trae ispirazione dalla ambient e come dice lo stesso Brian Eno “è adatta ad una percezione distratta”. In effetti il ritmo più lento e l’atmosfera più rarefatta la rendono appropriata ai momenti di relax piuttosto che al ballo. Questo nuovo sound condizionerà anche le industrie di sintetizzatori che metteranno in commercio, a metà anni Novanta, i così detti Virtual Analog che imitano il suono analogico ma sono basati su tecnologia digitale con possibilità di effettistiche prima impensabili. Il Nord Lead (1995) della Clavia sarà uno dei più utilizzati. Nel 1997, in Italia, il fenomeno trance subisce una battuta d’arresto ed al suo posto si afferma la dance commerciale, una controtendenza rispetto all’Europa dove invece la trance diventa sempre più protagonista delle classifiche e sui dancefloor. L’Olanda in particolare è il paese che regalerà al mondo i producer più importanti di questo genere, Tiesto, Armin Van Buuren e soprattutto Ferry Corsten. Quest’ultimo, considerato ancora oggi l’ultimo grande innovatore di questo stile, con il suo progetto Sistem F realizzerà Out of The Blue (1999), un pezzo che imprimerà le caratteristiche della trance del nuovo millennio. La trance, nel nuovo millennio, entra finalmente nella sua fase più matura con un suono profondo, di potenza orchestrale e le toccanti melodie che ricordano i grandi autori della tradizione classica e romantica europea come nell’Adagio for Strings (2005) di Tiesto, basato sul famoso Adagio del Quartetto d’archi Op. 11 (1936) di Samuel Barber, di cui sfrutta la versione remixata da William Orbit nel 1999; ma anche Mirage (2010) di Armin Van Buuren, realizzato con la partecipazione di una piccola orchestra e di un complesso rock, rappresenta un ottimo esempio di trance music più matura. Il Virus (1997) della casa tedesca Access Music, con la sua prestanza sonora ed una sezione effetti con larghissime potenzialità, diventa il virtual analog del nuovo millennio e genera tutti i suoni più importanti della trance. Il brano Carte Blanche (1999) dei Veracocha, progetto che vede sempre lo “zampino” di Corsten, ne rappresenta un ottimo esempio di utilizzo.

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Fig. 27: un modello di Virus, il virtual analog più utilizzato per produrre i suoni della trance music (da http://suzzymackenzie.com/)

Nel frattempo anche i dispositivi per il missaggio si sono evoluti e oggi vedere dj che mixano dischi in vinile è diventata una rarità. Infatti dagli inizi del Duemila si sono diffusi strumenti come CDJ e TRAKTOR. Il CDJ è un lettore per CD audio dotato di comandi che consentono ai dj di manovrare i CD come fossero degli LP; il Traktor invece è un software della Native Istruments che si interfaccia con Windows e Mac X OS i cui comandi vengono gestiti da un hardware simile ad una CDJ ma qui la procedura di missaggio avviene interamente a livello software.

Fig. 28: Il CDJ-2000 della Pioneer uno dei più utilizzati oggi dai dj. (http://www.piacenzaservice.it/)

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Nei primi anni del Duemila i dj trance dominano le classifiche del DJ MAG, periodico inglese specializzato, e la trance diventa il genere più popolare del mondo, anche se i network italiani fanno la scelta incomprensibile di non trasmetterlo tagliando questo paese fuori dalle tendenze d’oltreconfine. Il genere diviene talmente popolare che i personaggi legati alla trance diventano vere e proprie star internazionali con eventi e dj set paragonabili per affluenza e richiamo ai concerti pop e rock. Addirittura, per l’apertura dei giochi olimpici di “Atene 2004”, l’ospite internazionale di maggior richiamo è stato proprio un producer trance, dj Tiesto, che si è esibito con un dj set durante la parata delle squadre olimpiche nella cerimonia di apertura. Nel frattempo quasi tutti i remix delle star mondiali vengono affidati ai dj della musica trance e realizzati secondo questo stile mentre in Europa la trance diventa il genere per eccellenza dei grandi raduni rave come il Mayday e il Love Parade. Con vent’anni di dominio musicale che parte dai club di tendenza ed arriva ai mega raduni da migliaia di persone e a seguito della virata pop del fenomeno dancehouse, la trance attualmente rappresenta l’unico punto di svolta nell’innovazione sonora dell’EDM. Il fenomeno oggi ha assunto dimensioni planetarie e l’EDM, grazie all’apporto creativo della Trance, è diventato progressivamente un oggetto di culto con manifestazioni e festival dedicati in ogni angolo del mondo, Africa ed Asia comprese.

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CAPITOLO 5 I grandi eventi legati all’EDM: dalla protesta al business Accanto alle serate, più meno mondane, legate al mondo delle discoteche ne sorsero altre di diverso tipo. Infatti, verso la fine degli anni Ottanta, alcuni gruppi di giovani e di hippies iniziano ad organizzare delle serate clandestine; si tratta dei primi rave illegali ossia feste incentrate sulla musica elettronica ad altissimo volume che potevano protrarsi anche per giorni e si svolgevano in capannoni industriali abbandonati o nelle campagne. Come oggi, le attrezzature venivano noleggiate dagli organizzatori e la pubblicità, che può varcare anche i confini nazionali, si basava sostanzialmente sul passaparola. Inizialmente, e fino ai primi anni Novanta, i rave avevano una connotazione di protesta, nascevano dalle difficoltà economiche e dal disagio sociale che veniva sfogato attraverso l’affronto della proprietà privata. Erano organizzati da giovani o disoccupati, appartenenti alle fasce sociali più deboli, che si sentivano esclusi persino dal circuito del divertimento delle discoteche. Il fenomeno inizialmente partì da Londra dove alcuni esponenti di varie controculture da quella hippy al punk iniziarono ad organizzare i primi rave con musica acid house; il loro motto era “freedom for the right to party”. Molto spesso queste feste erano legate al consumo di droghe e per questo oggetto di repressione da parte dei governi. Con il passare degli anni però, molte di esse, persero il loro valore di protesta diventando manifestazioni legali e regolamentate mentre il termine “rave”, dalla metà degli anni Novanta, iniziò ad essere utilizzato per indicare genericamente le grandi manifestazioni gratuite a base di musica elettronica come gli streets rave parade che si svolgono addirittura per le strade delle grandi città. Alcune di queste manifestazioni hanno mantenuto ancora oggi una connotazione di protesta sociale come il “Reclaim the streets” i cui attivisti hanno motivazioni fortemente anti capitaliste e si battono contro il potere delle multinazionali e l’eccessiva cementificazione. Il Reclaim prese forma la prima volta a Londra nel 1995 con l’occupazione di spazi metropolitani tramite azioni di disturbo al traffico urbano per mezzo di cortei danzanti che seguivano dei carri con l’impianto audio; oggi è un tipo di protesta adottata in molti paesi.

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Fig. 29: il volantino di un Reclaim the streets del 2010 che invita ad un’azione di disturbo contro la conferenza del partito conservatore inglese. (da http://toffsout.wordpress.com/)

Oggi, nella maggioranza dei casi, i grandi rave parade sono diventati delle vere e proprie industrie del divertimento al pari delle grandi discoteche. Le due manifestazioni storiche sono il tedesco Love Parade e lo svizzero Street Parade. Il più antico è il Love Parade nato il 1° Luglio 1989 a Berlino, pochi mesi prima della caduta del muro, in un clima di forte cambiamento. L’ideatore è stato il dj Matthias Roeingh (alias Dr. Motte). La manifestazione, con il motto “Friede, Freude, Eierkuchen” (pace, gioia e frittelle), aveva l’ideale politico di promuovere la pace e la fratellanza fra i popoli abbattendo, attraverso la musica, il muro dell’incomunicabilità. Una specie di “fate l’amore non fate la guerra” delle manifestazioni anni Sessanta trasposto in un contesto tecnologico. Inizialmente, essendo considerata una manifestazione politica, per la legge tedesca aveva diritto ad un sostegno statale ma in seguito, seppure con un numero sempre crescente di partecipanti, ha perso questa connotazione ed è diventato un vero e proprio business boicottato addirittura dal suo stesso ideatore. Dal 2006, l’evento, che nel frattempo ha perso il diritto al supporto statale, si è avvalso della sponsorizzazione della catena di centri fitness McFit di Rainer Schaller ma in realtà il nome stesso “love parade” è un marchio registrato i cui proventi per lo sfruttamento ed il merchandising, dai diritti televisivi alla vendita di alimenti lungo il percorso,

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vanno alle compagnie che organizzano la manifestazione, la Lopavent di Schaller in primis. Anno dopo anno il numero di partecipanti è aumentato fino a raggiungere la punta massima di 1.600.000 presenze nel 2008.

Fig. 30: folla impressionante intorno alla Colonna della Vittoria di Berlino in occasione della Love Parade 2003 (da http://www.lastfm.it/)

L’ultima edizione della Love Parade è stata quella terribile del 2010 a Duisburg funestata dalla morte di 21 ragazzi uccisi dalla calca nel tunnel sulla Karl Lehr Strasse.

Dopo

quella

tragedia

gli

organizzatori

hanno

dichiarato

che

la

manifestazione non si sarebbe svolta mai più, anche se oggi si cerca di ripristinarla con un nome diverso, il B-Parade. Nel frattempo il modello “Love Parade” è stato adottato da molti altri paesi tra cui il Brasile, gli USA, l’Australia, il Cile, l’Inghilterra, il Venezuela, la Norvegia, il Sud Africa, il Messico e persino Israele con la sua Love Parade di Tel Aviv. Attualmente il rave parade che raccoglie il maggior numero di partecipanti è lo Street Parade di Zurigo che il 10 Agosto 2013 arriverà alla sua ventunesima edizione. La manifestazione si svolge sempre in un weekend di Agosto e alla scorsa edizione hanno partecipato ben 950.000 persone. Gli inizi di questo evento sono molto particolari. Uno studente di matematica di Zurigo, Marek Krinsky, dopo aver

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visto un documentario sulla Love Parade di Berlino, decide di fare domanda alle autorità per organizzare una manifestazione “per l’amore, la pace, la libertà e la tolleranza”. Questa prima edizione del 1992 vedrà la partecipazione di solo 1000 persone ma l’anno seguente con Dr Motte alla consolle, padre della Love Parade, i ravers diventeranno già 10.000, l’anno seguente 30.000, poi 120.000, finché nel 1996 viene fondata l’associazione ufficiale che si occuperà dell’organizzazione, la Verein Street Parade Authorities (oggi Verein Street Parade Zurich), da cui Krinsky si estrometterà lasciando come unico proprietario Herby Leodolter. La manifestazione ha raggiunto il culmine con un milione di presenze nell’edizione del 2001, senz’altro favorita anche da uno splendido tempo soleggiato. Il momento culminante dello Street Parade è sempre il Sabato, quando più di trenta camion (detti “love mobiles”), allestiti con dj set e cubisti, percorrono le vie del centro lungo un tragitto di circa due chilometri e mezzo; la sfilata inizia da mezzogiorno e si conclude a notte inoltrata. La gente, spesso abbigliata in maniera stravagante, segue questi camion ballando. Un melting pot interessante che vede, non solo la partecipazione di giovani, ma anche famiglie, bambini e anziani accanto a gay, trans e travestiti in un clima di festa molto coinvolgente ed allegro; una specie di Carnevale di Rio basato sulla EDM.

Fig. 31: una “love mobile” che passa tra la folla dello Street Parade 2012 a Zurigo (da http://www.limmattalerzeitung.ch/)

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Come il Love Parade anche lo Street Parade è il fulcro di un business colossale attorno al quale ruotano numerosi rapporti di sponsorizzazione con importanti marchi come Heineken, Opel, Coca Cola e soprattutto con la Medica, una grande rete di laboratori medici, partner ufficiale delle ultime edizioni della manifestazione. Può capitare persino che lo sponsor venga associato direttamente alla presenza di una star come nel caso di Bob Sinclair la cui partecipazione è pubblicizzata direttamente da Chamane Energy Drink. Ogni edizione è sempre accompagnata dalla pubblicazione di una serie di CD, con il marchio ufficiale dello Street Parade, ognuno dedicato ad un genere diverso di EDM (trance, house, deep-house, etc). Lo Street Parade ha visto negli anni la partecipazione dei più famosi dj internazionali come Carl Cox, Paul Van Dyk, Ferry Corsten, Dj Tatana, Martin Solveig, Armin Van Buuren, Dave 202, Laurent Garnier, Sven Väth, Tiesto o David Guetta, che in genere prendono parte al grande evento conclusivo, l’Energy, allestito all’Hallenstadion di Zurigo. L’Energy è un dance party con ticket d’ingresso che chiude lo Street Parade ed è il momento topico della manifestazione, viene organizzato dalla label Glamourama che poi commercializza il marchio “Energy” ed i CD collegati all’evento. Gli altri grandi eventi internazionali sono per la maggior parte a pagamento. I più importanti vengono organizzati da quattro imprese di intrattenimento, tutte con base in Olanda, come ALDA Events, ID&T, UDC e Q-dance. La più importante è forse la ALDA Events, fondata nel 2007 da David Lewis e Allan Hardenberg. ALDA prende in carica eventi planetari collegati alla figura del dj Armin Van Buuren ed alla sua label Armada come A State of Trance (ASOT) legato all’omonimo show radiofonico. ASOT, nato nel 2001 e condotto da Van Buuren, è diventato un evento radiofonico colossale con circa trenta milioni di ascoltatori. Attualmente la diretta coinvolge ogni settimana più di 50 radio dedicate all’EDM sparse in Albania, Argentina, Austria, Australia, Belgio ,Bulgaria, Brasile, Canada, Cipro, Repubblica Ceca, Egitto, Estonia, Francia, Gambia, Germania, Guatemala, Ungheria, India, Israele, Italia, Libano, Giordania, Lituania, Lussemburgo, Malta, Messico, Olanda, Nuova Zelanda, Pakistan, Filippine, Panama, Polonia, Portogallo, Romania, Serbia, Spagna, Russia, Singapore, Sri Lanka, Svezia, Svizzera, Siria, Turchia, Ucraina,

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Emirati Arabi, Inghilterra e USA; in Italia è l’emittente radiofonica M2O a trasmetterlo. Lo show, dal 2009, viene festeggiato ogni 50 episodi con un grande evento live in tour che attraversa diversi paesi e vede la partecipazione dei dj più famosi del momento. L’evento da Giugno 2013, e per tutta la stagione estiva, sarà ospitato ogni Lunedì dalla discoteca più grande del mondo: il Privilege di Ibiza.

Fig. 32: Armin Van Buuren in tour con A State of Trance in occasione dell’episodio n° 600 dell’omonimo show radiofonico (da http://www.prweb.com/)

La politica della ALDA, e quella della label Armada, hanno fatto della sovraesposizione in rete il loro punto di forza, soprattutto nella scelta di youtube come canale prediletto per il marketing. Ogni settimana è possibile anche scaricare gratuitamente su iTunes una selezione tratta da ASOT pubblicata da Van Buuren nel suo podcast ufficiale. Distribuire materiale gratis facilita la fidelizzazione di un pubblico che poi si sentirà parte di quel brand e andrà ai concerti, comprerà CD, magliette, e poi oltretutto, con il calo delle vendite dovute alla diffusione del download

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illegale, gli introiti pubblicitari di internet stanno diventando la nuova fonte di reddito per gli artisti e la cosa più conveniente, ancor prima del copyright, è avere un video o una pagina web con numerosi accessi. ASOT è considerato il più grande evento trance di tutto il mondo e proprio grazie ad esso ALDA ha ottenuto una nomination all’International Dance Music Award (IDMA) nella categoria “Best Event Promoter worldwide” ed è incredibile se si pensa che il team di questa organizzazione conta solo 12 impiegati! ALDA organizza anche altri grandi eventi come l’Electronic Family ad Amsterdam, l’Armada Night incentrata sugli artisti dell’omonima etichetta e Armin Only, evento che vede come unica star Van Buuren e le sue produzioni. Si svolge ad Amsterdam anche il festival dell’ADE (Amsterdam Dance Event) che offre cinque giorni di eventi che stravolgono l’intera città con più di 450 iniziative tra feste, conferenze e laboratori a base di electro dance con la partecipazione dei principali attori tra dj, produttori, label ed un’affluenza pari alle 300 mila persone. Un’impresa altrettanto importante è l’ID&T nata all’inizio degli anni Novanta grazie a tre amici che erano soliti organizzare rave. Si interessa di molti eventi importanti come il Sensation che raccoglie circa 40.000 ravers nell’Amsterdam Arena. Esistono due particolari versioni di questo party: il Sensation White, incentrato sulla musica trance e house, dove i partecipanti sono obbligati a vestirsi di bianco ed il Sensation Black, a base di techno e hardcore, dove invece è obbligatorio vestirsi di nero. Il party viene anche esportato in una serie di discoteche, in particolare ad Ibiza. È dell’ID&T anche l’organizzazione del Mystery Land, del Trance Energy, dell’Innercity e del Bloomingdale che richiamano più di 50 mila persone. L’ID&T ha anche organizzato il concerto di Tiesto del 2003, il primo che vede un dj e non un artista pop o rock esibirsi davanti ad un vasto pubblico in uno stadio. L’impresa possiede anche una rivista dedicata alle proprie attività ed un portale per il download musicale. Recentemente la grande compagnia americana di intrattenimento SFX Entertainment ha acquistato il 75% di ID&T. La trance vede l’Olanda come sua portabandiera ufficiale ma i festival di EDM che coinvolgono anche diversi generi e le star internazionali del djing sono numerosissimi in tutto il mondo, tra i tanti vanno citati: gli statunitensi Ultra Music Festival di Miami, con più di 165 mila partecipanti, l’Electric Daisy Carnival di Las

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Vegas, evento di due giorni con più di 300 mila persone, il Nocturnal Festival, il Beyond Wonderland, l’Electric Zoo Festival di New York; i canadesi World Electronic Music Festival e Bal en Blanc; e poi Trancemission (Russia), Boom Festival (Portogallo), Tomorrowland (Belgio), Mayday (Germania), Nature one (Germania), Sunburn Festival (India), Fool Moon Party (Thailandia), Beijing Electronic Music Festival (Cina), The Mission Dance weekend (Romania), Free Summer Festival (Slovacchia), Torino Electronic Music Festival (Italia) e 100 Live Electronic music Festival (Egitto).

Fig. 33: il producer Afrojack all’Electro Daisy Carnival di Las Vegas ( http://www.ballinonabudget.tv/)

L’Italia fino al 2006 ha avuto anche una Street Rave Parade con una certa affluenza, quella di Bologna, organizzata dal centro sociale Livello 57; bloccata dal sindaco della città, era comunque poco conosciuta a livello internazionale e frequentata principalmente da italiani. Tutti i dance parade, ossia dance party itineranti all’interno delle città, nella loro storia hanno avuto una fase in cui erano fortemente ostacolati per via dei disordini

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collaterali che spesso si creavano; oggi però, in quei paesi che hanno saputo gestire il tipo di evento, sono entrati a far parte integrante della vita culturale della città che li ospita e questo anche perché sono un ottimo volano per l’economia, basta pensare al fatto che tutte queste persone, una volta in città, avranno bisogno di dormire, mangiare, compreranno dei souvenir o dei CD legati all’evento. Le autorità e le imprese, da un certo momento in poi, hanno realizzato che sfruttare questa nuova tendenza fosse molto più proficuo che ostacolarla. L’Olanda, più di tutti, ha saputo trarre un ottimo business dagli eventi collegati all’EDM ed ultimamente la Regina Beatrice d’Olanda ha persino conferito ad Armin Van Buuren un titolo onorifico come riconoscimento al prestigio dato dal dj alla madre patria con la sua lunga carriera musicale.

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CONCLUSIONI

Un primordiale flusso di elettroni gestito da una tecnologia adeguata, raggiunta con anni ed anni di sperimentazioni, ha consentito la nascita dell’electro dance music un genere indissolubilmente legato al progresso della sintesi sonora e al mondo delle discoteche e che oggi, tra tutti i tipi di musica elettronica, è quello in grado di attrarre il maggior numero di persone con eventi e festival che riescono a superare anche il milione di presenze. I festival ed i concerti di EDM stanno assumendo un’importanza pari a quella dei grandi raduni rock degli anni Sessanta e Settanta, basta considerare che il colossale raduno rock di Woodstock, che nell’Agosto 1969 riunì la folla impressionante di mezzo milione di persone, era solo un terzo degli ultimi grandi Love Parade con più di 1.500.000 di partecipanti. L’EDM è forse un nuovo tipo di espressione musicale che, più che sui contenuti, punta sull’aspetto aggregativo in sé. Partecipando a questi enormi eventi si prova un grande senso di appartenenza, ci si sente in sintonia con una comunità, il ritmo coinvolge tutti e poco importa che ci sia qualcuno che da tutto questo è riuscito a trarre un proficuo business. Il connubio tra tecnologia ed arte ha prodotto la nascita di grandi eventi dance con le caratteristiche di un fenomeno rituale, e come per un rito si sa che in un certo giorno dell’anno si svolgerà lì in quel determinato posto e ci saranno dei “pellegrini” che affronteranno anche un lungo viaggio per raggiungerlo. I riti legati alla musica sono sempre esistiti fin dall’antichità con il culto dionisiaco o il coribantico ma il rave, da alcuni studiosi, viene definito un “rito senza un mito” ossia una forma secolarizzata di comportamenti rituali dove i partecipanti sono travolti da un sentimento oceanico di fusione con una comunità. Nei raves, ed in alcune discoteche, l’assunzione di ecstasy o di alcolici coadiuva questa espansione di sé verso gli altri. Musica, alcool, luci e colori, sono tutti elementi che fanno parte del dispositivo rituale. La musica è profondamente legata a quell’esperienza e se non c’è quella data musica non c’è quella data esperienza. La techno e la trance, con la loro assenza di testi che spiegano una storia o una situazione, che non si pongono domande o

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cercano una soluzione ai vari problemi che affliggono l’umanità, sono musiche esclusivamente sensoriali che concentrano tutta la loro potenzialità espressiva nella ricercatezza dei suoni o nella violenza del ritmo, coinvolgono la nostra fisicità dal profondo ma in maniera irrazionale e, senza conoscerne il motivo, ci si ritrova ad avere un forte desiderio di ballare; esattamente come potevano coinvolgerci un walzer o una musica tribale, ma nel rave il materiale sonoro è indissolubilmente legato ad un’epoca ipertecnologica. Gli studiosi sostengono che un evento per svilupparsi e radicarsi deve appartenere ad una comunità che si riconosce nei valori, nei gusti e nella cultura che l’evento incarna. L’evento spettacolarizza i codici comportamentali della comunità, condensandoli nel suo contenitore. Così il rave, o il dance party, spettacolarizza questa esigenza di aggregazione in un contesto tecnologico molto avanzato ma con le caratteristiche proprie di un rito ancestrale dove il ballo diventa un mezzo per partecipare alla cerimonia ed il dj lo sciamano. Il dj Marshall Jefferson raccontando le prime esperienze a Chicago ha detto: “mai provato nulla di simile. L’aspetto più impressionante della rivoluzione house e tecno, al di là del fatto musicale, resta la comunione che si creava tra la gente, una intensità spirituale molto simile alla trance. Come se una ventata di puro misticismo fosse prepotentemente entrata in discoteca […]. Per la stragrande maggioranza dei frequentatori, il Warehouse Club era un’autentica chiesa!” L’esperienza fisica del rave è quella di un corpo umano che porta al massimo il proprio dinamismo bioenergetico: il suono lo prende e lo carica ma il ballo subito lo scarica, l’energia viene assorbita con il suono e scaricata con il movimento. Il processo, se viene iterato per molte ore, può indurre uno stato di trance. Il contesto rave, o dance che sia, è quindi un dispositivo rituale che permette una catarsi in grado di incanalare degli impulsi irrazionali. Ci sono molte analogie con il tarantismo, un ballo terapeutico che permetteva di sfogare delle tensioni psicologiche seguendo dei ritmi ossessivi al fine di raggiungere una specie di estasi liberatoria; d’altronde oggi, come l’EDM per l’Olanda, anche la Taranta, per il Salento, è diventata un ottimo business. Nel 2012 sono state più di 120.000 le persone che hanno assistito al concerto finale della Notte della Taranta diretto dal M° Goran Bregovic, un evento che, come un rave, vede ballare le persone

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dal pomeriggio fino all’alba del giorno successivo ed ha anche un fortissimo richiamo all’estero. Dalla Taranta ai rave, sembra che queste esperienze che ci riavvicinano ai riti tribali con i loro ritmi liberatori o guaritori, stiano oggi guadagnando un largo consenso tra le nuove generazioni.

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Ringraziamenti

Ringrazio sentitamente il prof. Giuseppe Di Giugno per la gentile disponibilitĂ e la pazienza con cui piĂš volte ha saputo darmi importanti delucidazioni sulla strumentazione tecnologica utilizzata nella musica elettronica. Senza il suo aiuto non avrei avuto una sufficiente comprensione della terminologia specifica.

Un particolare ringraziamento va al producer Stefano Mazzavillani dei Datura per il tempo che mi ha cortesemente dedicato. Il suo contributo è stato fondamentale per comprendere il percorso evolutivo e la tecnologia collegata ai diversi generi di musica che hanno consentito la nascita dell’electro dance music.

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Bibliografia

Jean-Jacques Nattiez, Le avanguardie musicali del Novecento, in Enciclopedia della musica, Giulio Einaudi editore,Torino, 2007 Jean-Jacques Nattiez, Piaceri e seduzione nella musica del XX secolo, in Enciclopedia della musica, Giulio Einaudi editore,Torino, 2007 Dieci anni di Cemat, Cemat, Roma, 2006 G. Battistelli, N. Bernardini, M.Cardi, L.Ceccarelli, G. Di Giugno, R. Doati, L. Frencesconi, M. Lupone, N. Sani, M. Stroppa, A. Vidolin, Il complesso di Elettra, Roma, 1995 A. Gentilucci, Guida all’ascolto della musica contemporanea, Feltrinelli, Milano,1978

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Sitografia http://oklahomadubstep.com/ http://www.buchla.com/ http://www.suonoelettronico.com/ http://www.audiocentralmagazine.com/ http://cycling74.com/ http://www.disco70.advnews.com/ http://www.federazionecemat.it/ http://www.crm-music.it/ http://www.pietrogrossi.org/ http://www.galleriaoltremare.it/ http://www.wikipedia.org/ http://www.soundonsound.com/ http://www.musicainformatica.it/ http://www.academia.edu/ http://www.vintagesynth.com/ http://www.kraftwerk.com/ http://www.ondarock.it/ http://ritmi.accordo.it/ http://www.streetparade.com/ http://www.analogue.org/ http://www.listology.com/ http://www.trancefix.nl/ http://www.armadamusic.com/ http://www.aldaevents.nl/ http://www.avid.com/ http://www.id-t.com/ http://www.lastfm.it/ http://www.amsterdam-dance-event.nl/

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