La "trasfigurazione" auto-referenziale della forma

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La “trasfigurazione” auto-referenziale della forma (Opere di Franco Del Zotto Odorico: periodo 1990-2006)

La produzione “poetica” dell’udinese Franco Del Zotto sembra maturare da un punto di vista squisitamente concettuale già a partire dal lontano 1990, quando i precedenti studi giovanili in tecnica di “restaurazione artistica” vengono per la prima volta applicati su lavorazioni finalmente dense di notevoli connotazioni estetiche. In quel periodo, a Roma, una serie di diverse superfici sapientemente affrescate “a muro” pare ripensare le classiche composizioni “a polittico” medioevali, la cui tradizionale conformazione simmetrica interna è qui però fondamentalmente messa in discussione.

In realtà, il “taglio” divisorio (dallo spessore più o meno allargato) tra le molteplici “pale” di raffigurazione simbolica, l’inserimento di elementi a decorazione pesantemente “squadrata” (quasi tozza), ma soprattutto la chiara curvatura “divina” superiore (tendenzialmente inclinata a destra) sembrano andare oltre il ben intuibile riferimento artistico alla caratteristica metafora dottrinale. Se, come sostiene il pittore Van Gogh, la vita stessa risulta molto probabilmente rotonda, il filosofo novecentesco Gaston Bachelard afferma che il più decisivo Essere Universale si deve immaginare in chiave circolare (anziché meramente “sferica”: una complicazione, questa, cara a Parmenide, e tuttavia già ingenuamente “cristallizzata” in una “perfezione” volumetrica appena geometrica, “limitata” da banali parametri matematici). La “piattezza” espressiva di qualsiasi simbologia rotonda, dunque, allude in modo evidente al grave problema estetico di raffigurare una possibile Attualità temporale o spaziale. Il poeta Rilke scriveva che la tipica conformazione tendenzialmente “accerchiata” degli uccelli, osservati con attenzione alla luce dell’atmosfera circostante, rimandava subito ad una 1


parallela (ma più importante!) incurvatura superiore, relativa alla volta celeste. Nell’installazione di Franco Del Zotto, la rotondità quindi “arrotonda” la sua medesima ambientazione esterna, mentre la dimensione “unitaria” (o meglio ancora attuale) della composizione interna fra i disparati elementi decorativi vuole far “riposare” lo sguardo dello spettatore, incapace di concentrarsi sui singoli disegni cromatici. Le cupole degli antichi polittici medioevali “calmano” l’interpretazione metaforica complessiva, ma se per Bachelard nel componimento rilkiano la “propagazione” circolante (nel caso precedente, data proprio dalla corporeità ornitologica!) avviene per un avvenuto grido (forse, il verso dei suddetti uccelli), l’onda rappresentativa in grado di mostrare “visivamente” la basilare “incurvatura ontologica” qui resta artisticamente dichiarata dai numerosi contro-movimenti a spirale (le note “deviazioni regolari”, parafrasando il linguaggio usato da Kandinsky!).

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Si può in effetti parlare di un chiaro “bilanciamento rotatorio”, nella misura in cui, accanto al grande “accerchiamento” ascensionale superiore (celestiale!), va altrettanto valutata a fondo la “piattezza” delle grandi molle decorative centrali. In un certo senso, come il poeta Rilke studiava la contrapposizione concettuale fra la rotondità “volteggiante” delle chiome alberate e la dispersione “casuale” delle foglie (decisamente poco attualizzante) dovuta alla forte ma “rischiosa” (per il suo imprevedibile “capriccio” fenomenologico) ventilazione aerea, così i ripetuti motivi a spirale interni simboleggiano degnamente il contemporaneo contromovimento esistenziale. In sostanza, la vita umana, considerata nel proprio intrinseco divenire storico “decisionale” (sulla base, quindi, delle necessarie scelte comportamentali) si dissipa “allargandosi” in maniera continuata ma già da se stessa dinamica.

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In realtà, sia le motivazioni sia soprattutto le conseguenze di qualsiasi nostro atto esistenziale hanno infinite “complicazioni” ambientali, il cui caratteristico “disordine solo cronometrico” (almeno, in opposizione alla più decisiva rotondità attuale) va per il poeta Rilke inteso in maniera espressamente “pericolosa”. La dispersione decisionale, perciò, assume nell’installazione di Del Zotto una configurazione astutamente a spirale: un’immagine, questa, che sulla superficie affrescata ricalca molto bene (come auspicherebbe il medesimo Bachelard) la caratura permanente e nello stesso istante mutevole della grande Volta dell’Essere (se d’altro canto la chioma di un albero viene a dissipare le foglie, essa lo fa per un immediato incurvamento superiore…). Probabilmente, l’avallato ed in seguito assai riuscito bilanciamento dialettico, fra i variegati motivi a rappresentazione circolarmente metaforica, determina precisi “stacchi” di scelta esistenziale la cui indispensabile “squadratura angolare” (tozza) va ovviamente inscritta dentro alla parallela Rotondità Ontologica.

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I “pezzi” del mosaico cronometrico vitale appaiono così abbastanza pesanti, forse a delineare visivamente meglio l’indubbia fatica, ma anche il relativo (storico!) contrassegno temporale, in merito ad ogni nostra differente “decisione” ambientale. In definitiva, le scelte esistenziali umane, benché da un’ottica artisticamente fenomenologica qui assai contraddittorie, fanno comunque “restare” qualcosa di certamente “squadrato”, ossia il singolo “atto” intenzionale. Spesso, nella composizione elaborata da Del Zotto le “pale” rivedute dalla classica iconografia medioevale vengono improvvisamente tagliate, laddove il rigoroso (mai azzardato) distanziamento superficiale rivela la consueta paradossalità spazio-temporale del necessario “scarto” decisionale. Ancora una volta, i “pezzi” del divenire storico esistenziale vengono collegati tra di loro da continue “fratture” più o meno importanti, che naturalmente non possono affatto arrestare il contro-movimento a spirale di stampo fenomenologico (tendenzialmente posto in punti d’osservazione centrali, quasi a ribadire di nuovo la sua venatura prettamente focale…), la cui continuazione grafica e colorata rimane facilmente intuibile.

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La ben impostata incurvatura superiore rinvia implicitamente ad un successivo giro ascensionale, laddove la metafora inerente al “religioso” slancio sovrannaturale va riscontrata a partire dalle trasfigurazioni anche cromatiche. Così, il giallo trapassa in colorazione dorata, mentre il bianco riflette di una propria trasparenza interna: a tratti, invece, alcune chiazze d’azzurro acceso sembrano voler alimentare il dubbio di trovarsi ancora in una dimensione appena “atmosferica” (a metà strada, insomma, fra la condizione terrena e quella celestiale).

Tuttavia, con l’esposizione udinese del 1995 (presso la trecentesca Chiesa di S. Giovanni dei Battuti), Franco Del Zotto decide di presentare una serie di cotti affrescati e dipinti ad acrilico che consentono presto di “complicare” la sfumatura certamente concettuale dei consueti “cerchi” iconografici. In questo caso, la fondamentale dialettica autenticamente fenomenologica, fra la rotondità attualizzante del più universale Essere con la circolarità spiroidale delle singole decisioni esistenziali umane, pare da un’ottica prettamente “tecnica” asserita in modo forse preferibile. Ora, gli elementi decorativi “accerchianti” e “squadrati” risultano chiaramente inscritti l’uno con l’altro, dato che le medesime linee di conformazione grafica (definenti le differenti figure) si contornano in maniera un po’ meno confondente. Pur senza abbandonare il ricorso iniziale alle superfici “di stacco” (i contrassegni temporali delle nostre ripetute scelte esistenziali), la colorazione diventa tendenzialmente più accesa, in maniera tale da accrescere subito la contrapposizione concettuale tra le significative simbologie interne. L’intera composizione, molto espressiva, permette idealmente di assegnare una maggiore rilevanza ai già sottolineati tagli lineari, la cui aumentata carica stilistica serve d’altro canto a “snellire” l’avvenuta grande “compattezza” coreografica totale. Alla fine, sembra quasi di rintracciare un enigmatico specchio spiroidale, una specie di allusivo “vortice” eccezionalmente auto-riflettente, laddove il “visibile” viene perennemente 6


rimesso in gioco, ossia rimandato al “mittente” (l’osservatore) in modo puramente rotatorio. Non è un caso, infatti, che gli elementi a colorazione azzurra o comunque più “trasparenti” e “celestiali” (ascensionali) risultino inseriti in posizione frequentemente centrale, proprio in mezzo al misterioso giro circolare, al di là dei corrispettivi (ma altrettanto apprezzabili) tipici fendenti lineari. Tendenzialmente, l’autore si serve di una tinteggiatura “primaria” (costituita da pennellate gialle, rosse e blu), che in parecchie situazioni pare “confondersi” in chiave combinatoria solo all’interno del grande vortice direzionale, a tratti lavorato a decorazione grigia. Seguendo le riflessioni teoriche di Klee, proprio quest’ultimo colore consentiva di “equilibrare”, accentrandole in se stesso, tutte le normali opposizioni di gradazione cromatica. E’ poi interessante notare che anche per lui nel primigenio “disco pittorico” si potevano rintracciare importanti triangolazioni complementari, inscritte perciò dentro ad un perfetto “cerchio originario”, del quale sapevano tagliare ciascun diametro lineare. Lo stesso Klee, in fondo, amava ricordare come lo status fisico liquido od atmosferico divenisse in ambito prettamente artistico del tutto “instabile”, ed una simile semplice constatazione fenomenologica permette di giustificare il frequente “accentramento azzurro” (o comunque trasparente) insito in parecchi “vortici” spiroidali. L’installazione udinese, però, presenta un nuovo elemento coreografico, peraltro assolutamente funzionale a comprendere il resto (su parete) della medesima riuscita esposizione. Esiste dunque uno “scarto” decorativo pure per la medesima composizione rotatoria, nella misura in cui all’interno della vasta navata ecclesiale (ed in posizione sempre centrale!) compare una prolungata, ma a tratti (coerentemente con gli assunti concettuali complessivi…) anche “spezzata”, superficie rettangolare.

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Essa, nonostante il proprio ribassato spessore di alzata (quasi a ricavare una specie di nuova “pedana”), a mano a mano che si cammina avanzando porta alla luce misteriose “finestre” ornamentali, qui solo giustapposte sopra lo strano basamento inferiore. Queste, che vengono curiosamente esposte in maniera tale da “emergere” dagli strati superficiali più profondi, come se continue folate di vento le avessero “liberate” dal precedente (antico) insabbiamento, hanno una conformazione all’incirca squadrata, mentre architravi e stipiti (piuttosto pronunciati) si intrecciano tra di loro. Le finestre, insomma, spiegano ancora una volta la netta predilezione espressiva per tutte le installazioni capaci di bucare lo sguardo, sulla scia del contemporaneo centro rotatorio murale. Esse, ovviamente, non consentono di osservare alcunché (data la posizione astutamente adagiata sopra la strana pedana superficiale), ma si lasciano unicamente vedere. Gli spettatori, dunque, devono limitarsi a guardare di…guardare, nella misura in cui i varchi sono ora interamente conclusi.

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Qui le finestre dell’analisi fenomenologica restano delineate da rette a loro volta coerentemente tagliate, quando la stessa predilezione per la direzione diagonale, seguendo la celebre disquisizione tecnica offerta dal pittore Kandinsky, rende la sua immediata “concisione” grafica assai più universalizzante (ambiguamente intermedia fra la verticalità ascensionale e la piattezza orizzontale). Esse risultano in prevalenza “acentrali”, in maniera tale da perforare idealmente il sottostante basamento comune, mentre il contemporaneo “sfondamento” marginale (per andare oltre il confine esterno della prolungata pedana inferiore) rimane comunque bilanciato dal criptico “affioramento” implicitamente sabbioso. Per certi versi, i visitatori ai quali Del Zotto si rivolge hanno la sola possibilità di scoprire un diverso (ma altrettanto significativo!) contro-movimento spiroidale esistenziale.

In realtà, se l’installazione superficiale sembra far riaffiorare il “passato” storico decisionale, la venatura “spezzata” delle nostre aperture comprensive concettuali (che ci aiutano quindi a “recuperare” la dimensione temporale insabbiata e trascorsa, nella sana illusione, forse, di poter conoscere tutta la Verità Originaria…) viene ad attestare il carattere comunque “instabile” (ritagliato!) delle necessarie scelte di vita singolari. Molto probabilmente, seguendo una celebre analisi del filosofo francese Merleau-Ponty, qui la visione umana non vuole affatto far da tramite percettivo per la successiva elaborazione “intellettuale” mentale, 9


bensì unicamente mostrarsi in qualità di necessario “schema” fenomenologico (ai lati squadrato, al centro aperto…) per qualsiasi “atto intenzionale” del pensiero. Bisogna così provare finalmente a guardare di…guardare, in un contro-movimento “auto-riflettente” evidentemente spiroidale. In tal senso, è il medesimo Merleau-Ponty a ribadire la caratura fondamentalmente trasparente dell’occhio umano, che per lui (riprendendo il poeta Rilke) va simbolicamente identificato in una vera e propria finestra dell’anima. Il grande artista, dunque, non può mai credere all’esistenza di un mondo (esterno a lui) appena ingenuamente illusorio (per favorire, invece, il primato conoscitivo assegnato al mero spirito intellettuale concettuale). In realtà, come aggiunge subito Merleau-Ponty, egli preferisce accettare la strana “mitologia” (la storia creativamente metaforica) della visione solo davvero “estetica” (o percettiva, nell’accezione greca del termine): quella che permette di guardare unicamente di…guardare. La dimensione “sensibilmente” fenomenologica, di cui pure Franco Del Zotto vuole appropriarsi, acquisisce poi un’ulteriore approfondimento artisticamente teorico, allorché nel Marzo del 1996 presso la Chiesa della Trasfigurazione a Parma viene esposta una nuova installazione a tecnica mista, dalle numerose significazioni religiose. In questo caso, egli decide di creare una composizione dagli spiccati accenti “naturalistici”: un tronco di albero, costruito su circa nove metri d’altezza, ricavato da legno di cedro libanese (ma lavorato pure con ferro, cotto e foglia d’oro). Esso, nel suo terminale superiore, risulta però dolcemente slanciato, verso l’aria sovrastante, da una fitta maglia di struttura metallica, pensata dunque per farlo implicitamente “aprire” in sommità. Adesso, per così dire, la precedente finestra dell’anima “sensibilmente fenomenologica” non concerne più il solo ambito “fisico” (o meglio percettivo) dell’occhio umano, ma anche tutta la natura stessa. In fondo, quasi a voler sempre riprendere in mano il tema autenticamente estetico degli squadrati resti “decisionali”, benché da una prospettiva ora divinamente universalizzante, il medesimo legno usato dall’artista si trova “recuperato” da scarti di alberi seccati dai fulmini, mentre qui a risultare frequentemente “bucato” è proprio il fondamentale tronco. Come poetava il famoso Reiner Maria Rilke, la pianta diventa in sé completamente “apertura”, in modo tale da costituire una basilare “porta”, che se da un lato sembra mostrare piccoli “varchi” del tutto incerti (nella faticosa “arrampicata” verso l’alto!), dall’altro lato libera nella sua sommità un più importante squarcio di “luce”, quello per raggiungere Dio. In un certo senso, la fondamentale apertura superiore fa morire il grande albero, ma il “martirio” naturalistico che si raffigura funge unicamente da status “preparatorio” per la Visione Suprema, l’Apparizione del Signore nella Gloria. La lettura fenomenologica di un possibile “percorso” di maturazione vitale nasce anche dal fatto che l’Albero di Del Zotto viene collocato a fianco del Fonte Battesimale, laddove cioè la religiosa “purificazione” iniziale trova un senso solo nella trasfigurazione dopo la morte. Il tronco naturale simboleggia a ragione la dimensione “corporea” dell’uomo, intermediaria (nella sua qualità “percettiva”) fra la realtà materiale esterna e la coscienza intellettuale individuale. Qui essa però preferisce rendersi segno (rimando) appena scomparente (nella misura in cui si “apre” improvvisamente all’infinito, mai totalmente “riducibile” in comodi “parametri” comprensivi), quando la “maglia metallica” di ogni nostra diversa squadratura decisionale esistenziale si “autosospende” da sola. La struttura reticolare superiore sembra dunque librarsi in alto, perdendo il precedente piedistallo (intermediario) “corporeo”, arrivando finalmente a vedere il misterioso Invisibile (l’Assoluto). L’albero cresce quindi maturando, sino a slanciarsi in sommità mosso e piegato da una “ventilazione” (seguendo il poeta Rilke) del tutto divinamente aprente. La pianta, la cui corteccia è tendenzialmente squamata, presenta ramificazioni da molto tempo “tagliate”, proprio a ribadirne la venatura per così dire scartata. Se le metaforiche “scelte (direzioni) di vita” esistenziali si perdono per l’ineluttabile “usura” cronometrica avanzata dal Tempo, va però altrettanto registrata la parallela presenza di un resto immediato, di un sostrato a sua volta opportunamente “troncato” che ben sottolinea la necessaria “permanenza” della nostra continua condanna a dover decidere (parafrasando qui il filosofo 10


danese Kierkegaard). Il grande avvolgimento metallico inserito proprio sulla corteccia tramuta l’iniziale opacità di questa in bagliori sempre più candidamente “dorati”, a mano a mano che si compie il fondamentale percorso ascensionale.

La corporeità naturale, quindi, si trasfigura un po’ alla volta, sebbene da un punto di vista espressamente fenomenologico vada sottolineato che anche nello straordinario momento di raggiungere Dio la maglia strutturale resta comunque presente, senza mai scomparire del tutto. Forse, lo strano reticolato metallico aiuta a “sostenere” razionalmente (considerato il caratteristico “intreccio” fra ogni diversa costruzione intellettuale, ma già subito concettuale!) le titubanze verso la pascaliana scommessa in un credo religioso alquanto difficile da “teorizzare”. Del resto, la maglia strutturale è in se stessa decisamente “paradossale”: esattamente come nel caso delle finestre dell’anima, essa istituisce una sorta di “passaggio” attraverso due differenti mondi fenomenologici (quello terreno con il correlato celestiale), qui messi separatamente uno a confronto diretto con l’altro. In fondo, le medesime sezioni delle ramificazioni recise rievocano le precedenti spirali murali (già care al filosofo Bachelard), metafore delle ineluttabili e ripetute “decisioni” esistenziali umane, valutando la nota conformazione ad anelli “disegnata” naturalmente dentro a tutti gli “scarti” troncati. Inoltre, la doratura sapientemente lavorata dall’artista serve a ribadire la venatura simbolicamente riflettente della consueta Trasfigurazione divina, se il volto di Cristo, una volta “salito” in Cielo, giunge a risplendere di propria luce (come nel caso del Sole). Il metallo autenticamente aureo, poi, è tanto duttile e malleabile alla sua lavorazione da sembrare davvero indicato per assurgere a giusta “metafora” della vita umana. Questa, giova 11


ricordarlo, induce a prendere “decisioni” esistenziali singolari che rimangono perdutamente mutevoli, ma nello stesso tempo attuate sulla base di motivazioni passate o conseguenze future comunque (implicitamente) concatenate (qui, legate in maniera reticolare!) fra di loro. Gesù, quando parla con un cieco di Betsaida, si sente rispondere che gli uomini sono simili ad alberi che camminano, dai tronchi sospesi a metà tra il cielo e la terra, dalle chiome incurvate, dalle ramificazioni a tratti pure mutilate. Ancora una volta, sembrano soprattutto gli elementi “pittorici” a ritaglio (i cosiddetti materiali da scarto) quelli più indicati a rappresentare meglio la semplicità della nostra “condanna” a dover scegliere in vita, al di là di qualsiasi comoda “costruzione” a maglia concettuale. Dunque, lo strano reticolato in metallo, posto sulla sommità “aprente” della pianta, va inteso come avvio ad un sistema di legami prevalentemente “spirituali”. Ovviamente, bisogna dapprima compiere il difficile “cammino” di maturazione ascensionale, irto di evidenti e numerosi ostacoli (simbolicamente, le ferite per le ramificazioni troncate). In questa prospettiva, però, anche le sofferenze esistenziali hanno una loro importante giustificazione spirituale, se è vero che il grande varco di luce conclusivo pare in grado di fondere le concatenazioni ferrose sottostanti per farle “trasfigurare” in intrecci di linfe. Qui, insomma, il “bagliore” dovuto alla fondamentale riflessione (splendente) superiore consentirebbe di rendere più scorrevole la contemporanea (ma assai faticosa!) “costruzione” dei soliti legami esistenziali (naturalmente, già affettivi…), in primis in occasione del decisivo “trapasso” celestiale. In una successiva lavorazione a committenza religiosa (anno 2000), Franco Del Zotto decide di costruire un “monumento”, per celebrare a suo modo il conterraneo sacerdote e poeta Turoldo.

Dato che in alcune liriche si accenna ad un “possibile” pertugio che consenta di vedere anche dalla tomba, l’installazione che l’artista propone risulta essere un grande “sepolcro” naturale, dove la numerose tavole di legno (intrecciate fra di loro, così da recuperare la tradizionale idea del reticolato concettuale) rimangono complessivamente aperte per riuscire a guardare il Cielo. Il monumento, a forma circolare, si trova bucato da una riconoscibile “scheggia” appuntita, in maniera tale da favorire l’ingresso direttamente dentro al sito. Compaiono, allora, i consueti elementi ornamentali a conformazione accerchiante o squadrata, mentre il medesimo pavimento della tomba non viene affatto ricostruito con le tavole di legno, ma abbandonato (qui, però, solo idealmente) alla completa “nuda terra”, che lo stesso Turoldo 12


sapeva essere germogliante di vita. Ancora una volta, dunque, la grande installazione commemorativa gioca internamente fra due differenti piani simbolici di tipo circolare: l’apertura celeste e quella, correlata, del tutto esistenziale. Secondo lo stesso Franco Del Zotto, la fabbricazione delle necessarie “maglie metalliche” non risulta affatto indolore, ed è invece una sorta di “costitutiva” reazione energetica, che curiosamente libera scintille “intermittenti”. In verità, la “tensione spirituale” di vivere emana piccole ma continue incandescenze esistenziali, che se da un lato (fuor di metafora!) vogliono implicitamente rievocare la ben nota “procedura tecnica” della lavorazione sul ferro, dall’altro lato (simbolicamente!) ribadiscono il carattere fondamentalmente “liquido” (mutevole, ma già permanente…) della caldissima linfa animata umana. In tal senso, dunque, si spiega la decisione estetica di lacerare l’interno del medesimo Albero, così da poter “travagliare” il cuore di tutta la fortunata installazione, anch’esso sapientemente “segnato” da chiare e numerose fessure, che la doratura a mano a mano “sublima” verso l’alto. Il celebre pittore Paul Klee soleva affermare che il vero artista, nel momento di creare la sua opera, si trova stranamente nella condizione di un comunissimo tronco. Ricevuta la “linfa” generatrice dalle radici, condotta su larga scala (s’intende, proprio tramite il fusto…) la forza ascensionale del “nutrimento”, egli deve alla fine dispiegare “nello spazio e nel tempo” (grazie alle chioma frondosa) quello che lui stesso è “istintivamente” costretto a raccogliere per poi unicamente trasmettere. Si tratta, ancora una volta, di riproporre la solita questione paradossalmente estetica relativa alle rivedute (ormai già in più circostanze…) finestre dell’anima fenomenologica. Adorno, celebre filosofo novecentesco, diceva che la Natura era identica e contemporaneamente diversa rispetto alla Ragione. In realtà, la sua affermazione mirava a capovolgere l’arbitrario primato “idealistico” accordato da Hegel alla caratteristica speculazione filosofica umana. Per il pensatore di origini italiane, infatti, la Ragione, pur nella propria indubbia diversità “strutturale”, da un’ottica più modestamente solo fenomenologica andava considerata comunque (ossia, pure da se stessa) del tutto “naturale” (anche per il riconoscimento interno in spirito di “conservazione” tipicamente biologico!). Dunque, essa si poneva nel medesimo tempo in maniera “identica e differente” rispetto alla seconda, in un approccio “dialettico” ora davvero coerente (senza, quindi, la cosiddetta “sintesi”, ossia l’arbitrario primato idealistico avallato da Hegel). La Ragione, per Adorno, diveniva una sorta di Altra Natura, contrapposta (in modo evidentemente paradossale) a quella per così dire molto più “tradizionale”. In definitiva, essa non poteva mai ingenuamente annullare (accentrandolo in se stessa) il “corrispettivo” concetto dialettico, pena l’immediata (assolutamente contraddittoria) riduzione a quello (dovuta, evidentemente, proprio alla decisione “sbagliata” di sminuire il necessario “contraltare” materiale). La Ragione, una specie di ambivalente Seconda Natura, grazie a questa nuova (coerente!) fenomenologia teoretica, sapeva tuttavia giustificare il suo carattere anche obiettivamente “storico” (cioè ambientale, contestuale). Essa, insomma, veniva a possedere una propria (adesso assolutamente costitutiva!) estetica filosofica interna (di base). In definitiva, se la storicità della Ragione era esattamente la condizione comunque “fisica” di questa, allora (adesso, evidentemente, dal punto di vista inverso, cioè della cosiddetta Prima Natura, molto più tradizionale…) doveva per necessità logica risultare pure “percettiva”. La sua innovativa connotazione anche “estetica”, perciò, si rifaceva alla dimensione paradossalmente da sempre “concettuale” interna al medesimo contraltare “materiale”. Per la riflessione adorniana, la filosofia della storia è già (intrinsecamente!) filosofia dell’arte, ma in modo del tutto coerente (senza l’arbitraria “sintesi” razionalistica avanzata da Hegel). Ovviamente, se si ammette una simile “identificazione problematica” (molto ambivalente!), la cosiddetta Seconda Natura, necessariamente “estetica”, si “costruisce” su concetti intellettuali alquanto instabili, data la loro immediata venatura “eventuale” (contestuale, ambientale). La Ragione adorniana è quindi perennemente “in ricerca”, proprio per la sua qualità storica nonché artistica. Essa, 13


per il filosofo di origini italiane, può unicamente “costruire” ripetute ma differenti costellazioni concettuali, senza più le “ingenue” sistemazioni idealistiche elaborate da Hegel. Il vero fenomeno artistico, che si pone (in chiave internamente “storica”) da intermediario fra la Ragione e la Prima Natura, va considerato (coerentemente con gli assunti precedenti) nel medesimo tempo reale od irreale! La produzione autenticamente “estetica”, ad ogni modo, ha una propria qualità spirituale (per la solita compartecipazione razionalistica di secondo grado), ma deve evidentemente pensarsi anch’essa in maniera curiosamente “costellata”. A questo punto, pure l’installazione brillantemente studiata dall’udinese Del Zotto si costruisce su “instabili” tentativi di disposizione concettuale, ricordando la fondamentale rete metallica superiore. Forse, lo squarcio divinamente ascensionale che conclude il suo Albero naturale ed assieme spirituale, con il significativo “rimando metaforico” alle “sublimate” costruzioni razionalistiche umane, sa effettivamente alludere ad una misteriosa “costellazione” intellettuale. In fondo, la grande maglia metallica superiore si apre verso la volta celeste, mentre le intrinseche ma ben nascoste “incandescenze energetiche” (linfatiche) sono le scintille intermittenti che, durante la salita per la Trasfigurazione finale, le “galassie decisionali” (storicamente singolari) devono necessariamente poter emanare. Anche in tal senso, quindi, lo Spirito autenticamente artistico del fortunato Albero della Vita fa da intermediario ontologico fra la Natura e la Ragione universali. Se la filosofia della storia è già filosofia percettiva, il “movimento” delle rappresentazioni dentro al vero fenomeno estetico deve subito (coerentemente!) apparire dialettico. Esso, insomma, va considerato in maniera ambivalente, per la sua intrinseca “duplice” antinomia interna, quasi a poter “trasfigurare” le immagini visive in chiave a loro volta costellata, così da tentare unicamente di “disporle”. In effetti, il “movimento” fra gli elementi dentro alla composizione artistica deve da un lato essere naturale, dall’altro lato anche un po’ concettuale. La sua caratteristica “significazione appena simbolica” (in grado di farlo apparire reale od irreale) può solo tentare di disporsi, senza mai ridursi né in scialba “riproduzione fotografica” dell’esterno, né in presuntuosa manifestazione razionalistica dell’Idea. Le raffigurazioni estetiche vanno dunque preferibilmente mosse, proprio perché a risultare immediatamente azionata è la stessa (non a caso, assai paradossale) Seconda Natura ontologica. Questa particolare Ragione, apprezzata da Adorno, ha una sua caratteristica aggettivazione interna: contemporaneamente, sia fisica (percettiva) sia soprattutto storica.

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Nella produzione artistica di Del Zotto, il “processo dialettico” che la rete di costellazioni concettuali lascia intendere meglio (per cui, insomma, le nostre “categorie intellettuali” di vita restano comunque scartabili, mai “definitive” ed anzi appena “contestuali”!), trova la propria connotazione “naturale” in una serie di lavorazioni ad affresco (con la tecnica dell’encausto; anni 2000-2004). Qui, l’autore si mette, con assoluta dedizione, a creare una serie di opere inerenti alla rappresentazione di alcuni ottimi (nonché seducenti) ballerini, dalle movenze però continuamente abbastanza “sfasate”. Se in precedenza la maglia metallica alludeva ai “tentativi di disposizione” della Ragione umana (un po’ fisica…), ora le immagini esposte (molto attraenti) rimandano ai corrispettivi “sforzi” da parte della Prima Natura di dispiegarsi in modo tendenzialmente più concettuale. Tutte le composizioni sembrano astutamente ripetere i medesimi “leggiadri” movimenti di danza, mentre da un punto di vista prettamente fenomenologico va anche notato che tante opere si devono leggere “divise” (ma nel medesimo tempo già unite!) dai soliti “tagli” (i resti…) separatori. Si possono quindi rintracciare diverse “azioni” autenticamente estetiche (poste una sopra l’altra): per i “passi” naturalmente (fisicamente) previsti dal ballo, per la “reiterazione” delle immagini in più numerose produzioni artistiche, per la paradossale venatura “ambivalente” (duplice) della costellazione comprensiva concettuale (capace di cogliere raffigurazioni appena sfasate). Secondo Franco Del Zotto, la stessa temporalità cronometrica giunge ad apparire ambigua, pensata, in chiave paradossalmente “sintetica”, fra la sua dimensione passata e quella futura, ma in un preciso (storico, ovvero contestuale) “momento presente”, la cui fugace esistenza nasce solo in quanto correlata alle altre due condizioni. Essa va dunque considerata sfasata, o meglio ancora “mossa”, proprio perché (parafrasando la riflessione adorniana) a farsi “azionata” è la medesima storicità (razionale) umana. La cosiddetta Seconda Natura arriva a “comandare” pure l’arbitraria divisione cronometrica temporale, che nella nostra caratteristica vita singolare si “attua” nel momento “preciso” di scegliere. Evidentemente, le sue differenti ma ripetute “decisioni” intellettuali sono intrinsecamente già storiche (contestuali), considerate sia le “motivazioni” a monte (passate) sia le “conseguenze” a valle (future), scovabili in qualunque diversa “azione” comportamentale. La temporalità autenticamente artistica si fa perciò continua sovrapposizione di “eventi” solo in apparenza contraddittori fra di loro, mentre la “corporeità” dei danzatori sembra sfaldarsi in maniera molto blanda, quasi “spirituale”.

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La superficie caldamente intonacata, in fondo, giunge a ricevere la medesima metaforica leggiadria del ballo, nella misura in cui, in più di un’occasione, risulta a sua volta stranamente recisa, forse segnata (tagliata) dalle impercettibili tracce che gli scarpini vengono idealmente a lasciare, sul pavimento di prova. Quando i misteriosi tratti (appena lievemente fendenti) sono un po’ distaccati dai corpi, si possono anche riconoscere le tradizionali forme simbolicamente squadrate, assai gradite all’autore. Con la serie dei cosiddetti bozzetti, le immagini della misteriosa “danza spirituale” paiono persino accerchianti (data la significativa conformazione in prevalenza arrotondata assegnata ai consueti tagli superficiali), con tutte le complicazioni “spiroidali” (ossia, esistenziali) del caso. Il fascinoso esito iconografico finale porta addirittura i ballerini seduti, o comunque appoggiati sul pavimento di prova, a sembrare improvvisamente “ridestati”, presi dentro all’enigmatico (ma già assolutamente placido) vortice metaforico complessivo. Del resto, gli stessi ballerini in azione devono pur sempre muoversi roteando, facendo le comunissime piroette, qui davvero “coreografiche” con dolcezza. Forse, simbolicamente parlando, i danzatori vengono “risvegliati” persino in chiave “esistenziale” (molto al di là, dunque, del mero esercizio tecnico), laddove, a tratti, sembrano girare soltanto perché “colpiti” da un improvviso fascio di luce, subito profondamente “rivelatore”. Comunque, anche l’espressione sul viso dei ballerini ritratti in primo piano denota una certa “tensione” vitale: è la concentrazione di chi, benché esteriormente fermo, in verità sta già per “volteggiare”…

Secondo l’autore, quindi, la contemporaneità del “movimento” artistico si fa immediata accettazione di una contraddittoria attesa esistenziale, dove ciascun diverso danzatore possiede una propria (specifica) “immagine” certamente assai labile, attenuata dalla medesima resa caldamente intonacata (di contro agli esiti, più esasperati, della nota avanguardia futuristica). Alla fine, dobbiamo continuamente “rivedere” l’azione, offerta agli 16


spettatori sotto una specie di enigmatica moviola circolare (data la venatura assai “ripetitiva” di tutta la produzione, sia pensando ai soggetti internamente rappresentati sia al gran numero di encausti a mano a mano creati). Il celebre filosofo Kant (non a caso, apprezzato anche dal “collega” novecentesco Adorno!) sosteneva che la forma fosse il risultato di un complesso di “relazioni” dialettiche ordinate fra di loro, dense (specie in ambito artistico) di ricche aggettivazioni “armoniche”. Vermeer aggiungeva che essa, sempre in chiave autenticamente estetica, simboleggiava una sorta di illuminazione (ispiratrice) dentro ad una stanza buia. Per Del Zotto, alla stregua adorniana, nel movimento c’è davvero esperienza artistica, mentre la “vitalità esistenziale” si trova esattamente in quella paradossale dimensione dell’attesa presente. Una condizione, da un’ottica prettamente fenomenologica, tutt’altro che ingenuamente statica (o peggio ancora “meccanica”, convinti di dover appena contare il numero dei “passi” totali richiesti dal ballo). La giusta “lettura” dell’opera, quindi, ha una sua spiegazione precisa nel riconoscimento della chiara spontaneità (quasi “istintiva”, rievocando la qualità già spiritualmente conservativa della citata Seconda Natura filosofica) insita nell’azione individuale, capace di “adombrare” il medesimo ornamento figurativo. In tal senso, tutte le differenti immagini artistiche possono davvero “rivitalizzare” il loro necessario sfondo rappresentativo, che sembra anzi simbolicamente diventare la storicità, concettualmente “contestuale”, della strana (ambivalente) Ragione adorniana. La temporalità del fenomeno realmente estetico è dunque assolutamente processuale, mossa da continui “fotogrammi di vita” (scartabili o tagliabili, ma pur sempre “collegati” assieme!). L’artista si limita unicamente a sezionare (non per “ripudiarla”, bensì a semplificarla!) la materia da dover ricreare, ricavandone, tolti gli “accessori” banalmente inutili, il quoziente (il “resto”) essenziale: la sua (di sicuro “inevitabile”) storicità temporale. Per questi motivi, Franco Del Zotto ritiene che la raffigurazione estetica conclusiva sia solo l’indispensabile “contraltare” contestuale (in riferimento, quindi, alla consueta “condanna” a vivere scegliendo…) del parallelo (costitutivo) processo inventivo, assolutamente mai “trascorso” del tutto (nemmeno a lavorazione apparentemente terminata). Ancora una volta, da un’ottica puramente dialettica, la rappresentazione artistica si spiega unicamente per il desiderio (la tensione) manifestato da qualcuno, resosi opportunamente disponibile a “tentare” di ri-crearla.

La stessa Simone Weil, alla stregua di Adorno, sosteneva che il fenomeno estetico fosse intrinsecamente “vitale”. Tuttavia, lei credeva che la vera opera d’arte restasse principalmente 17


“armonica”, ed in senso stretto più precisamente anche bella. La sua valutazione, dunque, voleva “accorciare” il campo di una corretta autenticità estetica, “limitandone” la nozione fenomenologica a poche (straordinarie) situazioni esistenziali umane, di contro alle maggiori concessioni adorniane. Ad ogni modo, tutti gli “eventi” di vita capaci di rispecchiare esternamente la nostra armonia interiore (nell’animo singolare) potevano essere giustamente considerati come “belli”. In questi (particolarissimi) casi, il Mondo all’infuori di noi diventava immediatamente davvero “estetico”. Anche Simone Weil, insomma, veniva ad “identificare” la dimensione della vita umana con la più convincente (nonché reale) “esperienza artistica”. In effetti, per lei era comunque l’animo l’unico “tramite” fra i due consueti contraltari dialettici, nella sua venatura, però, straordinariamente (eccezionalmente) “armonica”, ossia in se stessa già bella. Di certo, solo una stranissima percezione sapeva “esperire” il vero fenomeno artistico: quella in senso lato “interiore” (tipicamente… vitale). Evidentemente, però, essa doveva originarsi unicamente a partire dalla corporeità singolare, anziché dalla mera “riflessione intellettuale”. La percezione estetica nasceva dalla nostra “condizione passionale”, dalla caratteristica sentimentalità fisica. Per Simone Weil, la “corporeità” più straordinariamente “armonica” coglieva il vero fenomeno artistico, trasferendone la propria bellezza “simmetrica”. In tal senso, quindi, il Mondo all’infuori di noi veniva eccezionalmente esperito in un “appassionato” rispecchiamento estetico.

La corporeità, secondo Simone Weil, riusciva ad “armonizzare” (in chiave artistica) anche la realtà esterna (storicamente esistenziale) perché solo essa sapeva davvero “avvertire” il paradossale distanziamento dialettico sussistente fra Finito ed Infinito. La speculazione razionale, in effetti, poteva anche correre il rischio di “accentrare” in se stessa (in maniera molto arbitraria) tutto il contraltare del Mondo. La corporeità, invece, aveva la sola chance fenomenologica di “mediare” fra Finito ed Infinito, mantenendo in vita (cioè nel proprio animo straordinariamente armonico) la medesima (fondamentale) dialettica ontologica. La sua intrinseca (ma altrettanto necessaria!) ritmologia biologica, poi, permetteva subito di riconoscerne la qualità evidentemente già “simmetrica”. La corporeità, quindi, presa nella propria interna “essenzialità fenomenologica” (nell’animo passionale), poteva esperire soltanto in maniera assolutamente “armonica”. Di certo, il vero fenomeno artistico consentiva di far capire (s’intende, alla riflessione concettuale umana) la sfumatura eccezionalmente “simmetrica” (o meglio ancora, “ritmica”!) del Bello. Una suddetta “armonia”, forse, è 18


rintracciabile persino in tutta la serie di affreschi ad encausto racchiusi nel ciclo di opere denominato da Del Zotto Gli Animali (periodo 2000-2003).

Qui, stranamente, la paradossalità del “movimento” vitale viene dipinta a tinte davvero fosche, quasi letteralmente “spaventose”. In realtà, il sanguinoso “gocciolamento” degli animali sta a significare la loro intrinseca venatura (è proprio il caso di dirlo…) autenticamente “biologica”, pure al momento di scomparire nella profondità del nulla abissale. Esso, insomma, consente di mettere “attivamente” in moto l’altrettanto simbolica, ma già molto “pesante”, solidità squadrata dovuta alla sottostante superficie intonacata, così da confondere anche “fisicamente” il piano figurativo della vita da quello più tetro (nascosto oltre il “sostrato” ad encausto!) della morte. Vengono in mente, qui, certi quadri di Gerard Garouste, dove però l’intromissione di rappresentazioni od oggetti per così dire “spiazzanti” (deformi) non sembra accompagnarsi al contemporaneo degrado della tavola. Non è un caso, perciò, se la precisa ammissione weiliana ben si adatta a “giustificare” (in chiave più prettamente filosofica) tutta la serie di installazioni “danzanti” elaborate dall’udinese Del Zotto. Anzi, secondo la stessa celebre “pensatrice” il ballo resta una tra le diverse manifestazioni artistiche decisamente migliori, proprio per la connotazione internamente “ritmica” della sua specifica corporeità estetica. La danza fa anche compiere movimenti circolari, i quali ben si addicono a simboleggiare degnamente il caratteristico ciclo della vita naturale, in modo tale da far paradossalmente “coincidere” (in chiave autenticamente “armonica”!) il Finito con l’Infinito. Va ricordato, qui, che pure il noto pittore Kandinsky aveva capito l’ambiguità fenomenologica del ballo, considerata la completa esattezza sia delle “linee” idealmente disegnate sul pavimento orizzontale (con i vari passaggi ritmati), sia quella “verticale” per la postura a mano a mano assunta dagli interpreti. Una sottolineatura in grado di rievocare curiosamente certi quadri di Degas, tutti giocati sulle differenti “direzioni” (reali o comunque immaginarie…) studiabili al momento di danzare, con ogni “paradossalità temporale” del caso. Anche il celebre pittore francese, in fondo, 19


cercava di dipingere la solita ambivalenza “motoria” (cara a Del Zotto) dello strano giro placidamente in ballo.

Dal punto di vista prettamente umano, però, la Seconda Natura adorniana deve comunque risolversi in qualche immediata “decisione intellettuale”, proprio perché è da se stessa (ed in misura di certo maggiore!) concettuale. Seguendo la riflessione proposta da Simone Weil, la ritmologia naturale della corporeità armonicamente passionale va coerentemente “tradotta” pure in ambito più fedelmente “razionale”. Per questi motivi, Del Zotto ha intrapreso (a partire dal 2004) una nuova “strada” artistica, cominciando a creare una serie di opere (anche qui, guarda caso, continuamente ripetute…) davvero assai “concettuali”. Tutte le produzioni si propongono quindi di studiare ulteriormente la consueta costellazione intellettuale, già 20


apprezzata da Adorno, ma in precedenza appena “intuibile” fra le diverse maglie metalliche (ascensionali) collocate attorno o sulla sommità del grande Albero Trasfigurato. Ora, l’autore elabora alcune lastre (a forma rettangolare) in plexiglas trasparente oppure satinato, che consistono unicamente in un campionario di pagine testuali (selezionate da celebri libri di filosofia, arte e poesia), fatte di sole lettere (senza, cioè, il necessario spazio “bianco” divisorio). In realtà, per sostenere meglio l’intera composizione estetica, la superficie risulta essere materialmente “duplice”: tutte le parole, dunque, si possono leggere sia davanti che dietro di quella (insomma, tecnicamente parlando, nel verso come nel recto). Le lastre, posizionate in maniera verticale, vengono addirittura collegate a fonti d’illuminazione interna, tramite millimetrici fili in fibra ottica, in grado di legare assieme ogni differente lettera. Non è un caso, dunque, se Franco Del Zotto abbia intelligentemente voluto chiamare la serie di opere Progetto Verbalux, in maniera tale da ribadire la venatura necessariamente “visiva” delle nostre normali (inevitabili) scelte concettuali esistenziali. Però, egli desidera distanziarsi da certi esiti radicalmente “nichilistici”, nella misura in cui il suo personale percorso di produzione estetica tenta sempre di comunicare un “messaggio” (di matrice prepotentemente filosofica). Dunque, le installazioni che studia si distaccano dalle conclusioni più esageratamente ermetiche insite in molta arte concettuale novecentesca (si ricordi, per esempio, una celebre pittura di Ramsden). Ad ogni modo, le stesse parole continuamente selezionate perdono qui il loro “cartaceo” spazio bianco divisorio, risultando dunque “bucate”. Tecnicamente parlando, c’è insomma luce (profondità visiva) fra ognuna di queste, e la conclusione che possano degnamente simboleggiare i consueti resti fenomenologici vitali (le precedenti “squadrature” murali distanziate, o meglio ritagliate…) sembra molto probabile. D’altro canto, le parole rimangono comunque (paradossalmente!) vincolate tra di loro, mentre l’ipotesi che sappiano riprodurre le “vecchie” maglie metalliche, divinamente trasfigurate (ma forse, ancora un po’ misteriose da comprendere bene), nasce nel momento in cui, leggendone le frasi, si scopre che (almeno nel maggior numero di casi!) introducono a veri e propri ragionamenti concettuali. Qui, la costellazione intellettuale consente di imparare analisi di pura speculazione filosofica, come avviene per le installazioni basate su di un celebre testo di Martin Heidegger, denominato Sentieri Interrotti.

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La rete dei concetti esistenziali, nel proprio (autenticamente artistico) tentativo di disporsi, giunge perciò a citare un famoso libro ad argomentazione intrinsecamente estetica, la cui profonda “riflessione” teoretica ora sembra simbolicamente alludere a quella (contemporanea ma solo naturale) della fonte illuminante superiore, con astuzia creata da Del Zotto. La speculazione heideggeriana, infatti, se da un lato studia il vero “fenomeno artistico” (come effettivamente accade nel celebre testo chiamato Sentieri Interrotti!), dall’altro lato viene qui a sua volta “rispecchiata”, benché per volontà dell’artista. Le installazioni consentono dunque di far riflettere…la stessa riflessione concettuale umana, quasi a rivalutare (in chiave decisamente più filosofica ancora) il tema delle precedenti finestre spezzate dell’anima, già care al francese Merleau-Ponty. La “millimetrica” fonte d’illuminazione superiore trapassa perciò le parole, rendendole “visibili” proprio perché finalmente dovremo “tentare” di “osservare” anche queste. Da una prospettiva più precisamente “metaforica”, diciamo che tutti i concetti esistenziali umani, nelle installazioni di Del Zotto, vanno “guardati” esattamente come ogni altra cosa (reale od astratta). Una simile affermazione va giudicata con molta importanza, perché sono proprio i ragionamenti intellettuali a far sussistere qualunque “ente” (sia materiale, sia trascendente). Però, solo il fenomeno “autenticamente estetico” conserva in sé la (rara) possibilità di mostrare il “necessario” (tipicamente umano!) filtro concettuale esistenziale. In effetti, come chiarisce anche Heidegger, l’opera davvero artistica è intrinsecamente (per costituzione) autoreferenziale, ossia “costruita” su una sua (inevitabile…) “rete” di riflessioni intellettuali che tuttavia, molto fortunatamente, ora risultano appena fini a loro stesse.

Il fenomeno realmente estetico, per il filosofo tedesco, dice unicamente…di dire, afferma unicamente la necessità (tipicamente umana…) di usare comodi “strumenti concettuali” al fine di vivere. Esso, in verità, diventa proprio inutile: non “serve” a nulla, dunque la sua intrinseca (e comunque, assolutamente inevitabile!) riflessione intellettuale è completamente 22


fine a se stessa. Così, può soltanto dire che gli uomini sono “costretti” a dire, per poter “vivere” in modo storicamente (s’intende: a seconda delle differenti “situazioni” esistenziali singolari) migliore. Per questi motivi, Franco Del Zotto inserisce tra le sue personalissime “piattaforme” verbali passi estrapolati da uno fra i più “potenti” (dato la straordinario valore assegnato all’opera d’arte) saggi di teoria estetica sin qui elaborati, e se anche le successive superfici in plexiglas riproducono frasi “rubate” a Garcia Lorca o Kandinsky, si tratta pur sempre di delucidazioni a tema comunque molto similare. La riflessione heideggeriana dentro al libro denominato Sentieri Interrotti, completamente inane (naturalmente, da un punto di vista appena “strumentale”, o peggio utilitaristico), adesso va a sua volta “illuminata” proprio perché così si possa vedere…la nostra (costitutiva) “condanna” a dover vedere. Certamente, di contro agli esiti appena “fenomenologici” (amati da Merleau-Ponty) del primo tentativo artistico (con le “finestre spezzate dell’anima”), ora la conclusione estetica propugnata da Del Zotto sembra assai più universalizzante. Infatti, con questa nuova importante installazione (il particolarissimo Verbalux), gli spettatori non devono tanto vedere di…vedere, quanto piuttosto dire…di dire, nella misura in cui la nostra peculiarità fondamentale è quella di ragionare ripetutamente per affermazioni, comunicazioni, concetti. Si tratta, insomma, di affermare la caratteristica (costitutiva) “costrizione” umana ad usare un “linguaggio”.

Le nostre parole vedono la dimensione reale od astratta dell’Essere, solo perché superficialmente “illuminate” da un sistema di comunicazione opportunamente codificato, che consente loro di affermarsi in chiave più opportunamente concettuale. L’installazione inventata da Del Zotto, dunque, vuole principalmente portare in “luce” la struttura linguistica umana, cioè, artisticamente parlando, il dire…di dire già in se stesso davvero assai estetico. La fonte d’illuminazione primaria, in fondo, trapassa le lettere in rilievo per pure (molto suggestive) intermittenze visive, ma la lastra che contiene le parole rimane sempre ben salda. Fuor di metafora, ancora una volta, i giochi di luce generati dalla proiezione superiore fanno 23


brillare certe precise situazioni esistenziali, però qualcosa alla fine deve comunque “restare”. Va poi opportunamente aggiunto che il fascio d’illuminazione superiore è addirittura ritoccabile a piacimento, e che, nella fattispecie, la stessa irradiazione naturale solare potrebbe interagire con questo, a sovrapporre nuove interessanti raffigurazioni geometriche (circolari o rettangolari, dalle linee incurvate oppure spezzate, ecc…). Alla fine, ma già rispettando tutti i suoi “assunti” estetici precedenti, l’intera composizione del cosiddetto Verbalux muove continuamente le lettere interne. In tal senso, le contemporanee (suggestive) “intermittenze” testuali paiono simboleggiare la consueta (e, giova ricordarlo, anche assolutamente ineluttabile!) storicità vitale di qualsivoglia “nostra” (umana) decisione esistenziale singolare. Così, tutta la fortunata installazione viene a muoversi ripetutamente: le stesse parole, in fondo, riproducono la medesima “pagina” concettuale solo capovolgendola, laddove (con una “scelta di stile” davvero assai arguta!) si nota una chiara sfasatura tra le diverse frasi girate (qui rievocando, perciò, la metafora del ballo artisticamente ambivalente). Nella sua caratteristica progettazione estetica, Franco Del Zotto deve ovviamente trascrivere la basilare struttura linguistica umana. Da un’ottica più fedelmente ontologica, l’opera d’arte ha il difficile ma importante compito, esattamente quanto in Heidegger, di rappresentare la nostra specifica condizione esistenziale (quella che il filosofo tedesco definirebbe come essere nel mondo). Curiosamente, anche la Natura possiede proprie scritture più o meno organiche: le vene degli occhi “dicono” le emozioni, le onde del mare “affermano” la velocità, le crepe sui muri “rivelano” la storia, ecc… Però, soltanto l’uomo fabbrica “sistemi” di reti concettuali, arrivando a “giustificarne” in chiave tecnologica il praticissimo utilizzo strumentale. Per Franco Del Zotto, la “nostra” scrittura (quella, insomma, per antonomasia) è la dimensione radicalmente più astratta degli individui, l’intima essenza spirituale di chi si trova costretto a dover vivere “scegliendo” diverse costruzioni metalliche intellettuali. Da un punto di vista essenzialmente estetico, quando essa viene resa in vero fenomeno artistico ottiene (in maniera alquanto paradossale) una conformazione immateriale, costituita da luce, da piccoli corpuscoli luminosi perennemente “in flusso” comune. In fondo, l’irradiazione risulta essere ambivalente (dialettica) anche da un’ottica semplicemente “fisica”, nella misura in cui fa sorgere scomparendo ciascuna figura che tocca. In tal senso, per Franco Del Zotto, la scrittura sembra in chiave appena fenomenologica una struttura reticolare già in se stessa (al di là, insomma, della propria complicazione estetica!) abbastanza labile, decisamente poco “tecnologica”. Essa, dunque, è tendenzialmente meno “predisposta” a dominare la Natura. Nelle installazioni del cosiddetto Progetto Verbalux, la scrittura fa uscire le parole, che risultano quindi collocate in rilievo, a mano a mano “generate” dalla strana vibrazione superiore. Tutte le frasi, perciò, sembrano tracciare (ritagliare!) la superficie in plexiglas, e questi impercettibili “segni” (qui originati da una “grafia” straordinaria, perché completamente auto-referenziale!) simboleggiano degnamente la consueta storicità del “vivere decisionale” individuale. Per Del Zotto, la scrittura resta il necessario sfondo comunicativo del particolare essere nel mondo (parafrasando Heidegger) umano. Perciò, risultando intrinsecamente prospettica (relazionale), deve in maniera del tutto evidente “esperirsi” in ambito immediatamente storico (contestuale). Anche Heidegger sosteneva la venatura per così dire ambientale (relativa a singole “situazioni di vita”) della fondamentale predisposizione linguistica umana. Questa, in effetti, rendeva possibile la stessa (variegata) esperienza esistenziale individuale (in senso lato, la ben risaputa storicità). Peraltro, va ricordato che lui rifiutava di assegnare al linguaggio umano ogni banale rivendicazione “metafisica” (tesa cioè a farlo primeggiare, in modo molto arbitrario, in qualità di “sicuro” principio universale superiore). Derrida, filosofo francese di estrazione fenomenologica, affermava dal canto suo che non potesse mai esserci storicità senza quella che, in maniera abbastanza enigmatica, egli definiva la serietà e la fatica del Letterale. Tutte le diverse “situazioni” temporali (od esistenziali) di 24


vita, insomma, dovevano necessariamente cominciare con una “istantanea” riflessione. La “storicità” costituiva una sorta di passionalità della Scrittura, una molto significativa resistenza della Lettera. Per Derrida, la medesima costrizione umana a dover “comunicare” (ossia, in poche parole, a “servirsi” comunque di un dato linguaggio culturale di genere “convenzionale”: concettuale, sistematico, razionalistico, tecnologico, ecc…) veniva a stabilire una specie di Archi-Struttura Universale. Una simile terminologia, di certo decisamente (ma, in fondo, anche volutamente…) un po’ enigmatica, tendeva a chiarire che questa ineluttabile “condanna” a relazionare sempre verbalmente andava presa unicamente per se stessa, senza cioè “primeggiare” in qualità di annesso principio metafisico superiore. In tal senso, la misteriosa Archi-Struttura Universale diventava una sorta di Grammatologia (evidentemente, un continuo “dispiegamento” dell’Essere in continue sistemazioni linguistiche), come di consueto (qui, alla stregua heideggeriana!) leggibile in maniera puramente “storica” (relativa, così, ai singoli “eventi” singolari di vita). Per Derrida, quindi, la stranissima Sintassi Ontologica si poteva giustamente identificare in una sorta di fondamentale Scrittura. Così, egli riusciva coerentemente ad affermare che questa misteriosa Grammatologia Universale doveva necessariamente far cominciare (da se stessa) la storia, perennemente segnata dalle diverse “sistemazioni linguistiche” umane. Da una simile prospettiva filosofica, Derrida poteva evidentemente dire che scrivere significava ritrarsi dalla stessa (fondamentale) Grafia. Secondo lui, il vero poeta (artista con la penna in mano!) sapeva far parlare da sola la “singola” parola, in maniera tale che a rivelarsi fosse la pura “condanna a doverla sempre e comunque trascrivere”. Sembra dunque ammissibile ritrovare anche qui il tipico auto-riferimento estetico (già di stampo heideggeriano) simbolicamente “installato” dentro al Verbalux di Del Zotto, la cui operazione artistica resta principalmente grafica nell’accezione più universalizzante (ontologica) del termine! Per Derrida, poi, l’indispensabile spazio bianco divisorio fra le differenti parole andava, evidentemente, considerato fondamentale per poter effettivamente scrivere. Una simile (molto semplice) constatazione fenomenologica lo portava subito a dichiarare che, in senso lato, la basilare Grammatologia era in se stessa una già paradossale Cesura Universale. Ancora una volta, questa particolare espressione derridiana rimanda, implicitamente, ai tradizionali tagli continuamente presentati (in maniera più o meno allusiva) da Franco Del Zotto. Addirittura, coerentemente con gli assunti precedenti, se le “singole” trascrizioni storicamente linguistiche sembrano “nulle”, in confronto alla contemporanea Grammatologia Universale (la consueta “costrizione” a dover comunque comunicare), esse risulteranno subito intrinsecamente (per necessità dialettica) “frammentarie”. La sedimentazione, quindi, è per il pensatore transalpino costitutiva di qualunque “sistemazione” linguistica (concettuale) umana, benché nella “straordinaria” produzione poetica una simile idea sembra molto più facile da comprendere. Il linguaggio scritto, per Derrida, diventa la rottura stessa della totalità, laddove il “segno” che si prefigge di incidere fa immediatamente storia. L’Essere, per il filosofo francese, diviene (intrinsecamente) una paradossale Grammatica Universale. Inoltre, il Mondo al di fuori di noi sembra un immenso “crittogramma”, che va subito (necessariamente) costruito per mezzo di innumerevoli e continue iscrizioni. In questo senso, allora, il filosofo francese può concludere coerentemente affermando (in maniera molto criptica) che il Libro è originario. Non sembra un caso, dunque, se anche Franco Del Zotto in passato (anno 2005) abbia deciso di cimentarsi con la creazione di alcuni “volumi” fisicamente bucati, tagliati, scartati, ecc…, benché il Progetto Verbalux rimanga indubbiamente la più derridiana fra le sue variegate installazioni. In altre interessanti (ma già un po’ differenti) lavorazioni, l’artista udinese pare invece orientato ad “aumentare” la dimensione sedimentata della propria poetica di stampo concettuale. Così, nella realizzazione artistica ideata per l’Albornoz Palace Hotel di Spoleto (anno 2005), egli decide di presentare una serie di grandi pareti rettangolari, dove, sparita la 25


fonte d’illuminazione visiva, anche la stessa superficie da ri-creare (in opposizione agli altri “normali” muri dell’albergo!) è ora senza i precedenti “buchi” di luce architettonica. Qui, i tradizionali “ritagli” simbolici paiono appena nascosti, fra i differenti “giochi di sfumatura tonale” che si possono intravedere dentro all’unica importante colorazione bluastra. Le consuete “parole” restano ancora presenti, ma la stesura del testo è qui completamente sfasata, tanto da leggersi in maniera curiosamente dislessica. Dunque, non se ne capisce il significato finale “complessivo”, ma ciò non toglie che tutti i termini, se presi singolarmente, sappiano forse “ricostruire” un misterioso senso comune, solo in apparenza alquanto nascosto. La composizione vuole dunque “abbattere” l’ingenuo primato convenzionale assegnato alle “strumentali” sistemazioni concettuali linguistiche umane (utili, naturalmente, per vivere meglio…). Però questa precisa operazione, che di certo rimane tipicamente “lirica”, sembra andare addirittura oltre il caratteristico “fenomeno poetico”, qui interamente (ossia, pure da un punto di vista meramente “grafico”!) irriducibile alle solite (opportune) articolazioni a maglia intellettuale. Anzi, le parole restano ora espressamente (visivamente) fluttuanti, proprio perché intrinsecamente “mossa” è la medesima composizione artistica in “versi”, i quali dal canto loro devono unicamente farsi capire, in maniera già in se stessa del tutto “processuale” (mai, perciò, banalmente, o facilmente, “immediata”!). Franco Del Zotto definisce con il termine (neologistico) Parosia la sua personalissima e molto curiosa sedimentazione linguistica (parafrasando qui Derrida), Se la condizione prettamente umana è quella per cui (come direbbe Heidegger) bisogna essere sempre artefici, cioè necessariamente “costruttori” di continue reti metalliche (tecnologiche) concettuali, una comunissima “parete” d’albergo possiede già troppe connotazioni opportunamente “strumentali” (utilitaristiche). Però, la scelta autenticamente artistica di “metterne in mostra” la propria (del tutto inevitabile!) dimensione linguistica, può subito consentire di far capire che anche questa ha una sua più decisiva origine del tutto “ontologica”, e relativa così alla solita “costrizione” singolare (storica, o meglio contestuale) a dover scegliere, a dover comunicare, a dover affermare, a dover “sistemare” la vita. La parete d’albergo, quindi, uno fra i tanti “strumenti” della tecnologia concettuale umana, vuole unicamente “dire” che essa è da se stessa comunque “trascrizione”, ma solo nella misura in cui si faccia, in chiave davvero molto “estetica”, costellazione intellettuale di parole.

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Tutte le frasi estrapolate dall’artista (guarda caso, “rubandole” proprio da alcuni poeti…) sembrano fluttuare in una comune colorazione bluastra dagli spiccati “accenti” atmosferici. La sensazione, dunque, è che le parole vengano perdutamente lasciate in una più originaria costellazione linguistica, già ben cara al filosofo Adorno. In tal senso, seguendo Heidegger, anche una banale parete d’albergo giunge a dire di…dirsi (a propugnare il consueto autoriferimento assai “estetico”), così da “mostrarsi” come una fra le diverse innumerevoli costruzioni artificiali “utilizzate” (per vivere, alla stregua di ineluttabili strumenti esistenziali) dalla fondamentale “costrizione” umana a dover comunicare. Per questi motivi, dunque, Franco Del Zotto può correttamente affermare che la sua strana costellazione linguistica è qui Parosia, ossia per una metà “parola” e per l’altra metà “ poesia”. Non sembra un caso, quindi, se le stesse ripetute (ed in apparenza davvero incomprensibili!) frasi testuali vengono segnate con una colorazione “bianca”. Così, infatti, permettono di “illuminare” l’atmosfera azzurra che le rende dolcemente “costellate”, per ottenere, allora, un risultato stilistico finale dai richiami qui fortemente adorniani! La Parosia permette di postulare un specie di pensiero configurativo, in grado di vincolare in maniera intrinsecamente dialettica la dimensione da un lato strumentale (utile a vivere!) e dall’altro lato già in se stessa di certo fenomenologica (per studiare, dunque, il “nostro” fondamentale essere nel mondo “vitale”) della necessaria “condanna” a dover comunicare, tipicamente umana. Qui, bisogna ricordare che il medesimo Martin Heidegger aveva studiato una simile conclusione filosofica, tentando sempre di “risolverla” in chiave sicuramente estetica. Anche Hegel pensava ad una straordinaria Parusia Universale, nella misura in cui l’Assoluto si trovava comunque già per se stesso (cioè, per sua volontà essenzialmente spirituale) “presente” presso tutti gli uomini, dal canto loro ovviamente finiti. Però, una simile proposizione filosofica, qui tipicamente idealistica (per la quale, in poche parole, una conoscenza razionale che “capisca” proprio questo può così venire a sapere tutta la Verità del “reale”, ecc…) si scontra con la prospettiva filosofica più fedelmente heideggeriana professata da Del Zotto. La Parusia di Hegel, in sostanza, rende l’esperienza storica (in cui dover decidere “come” contestualmente vivere!) una pura e semplice manifestazione essenzialmente “voluta” dallo stesso Assoluto, mentre gli uomini agiscono (in maniera diversa) solo perché questo riesca a dispiegarsi nel mondo.

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Una conclusione, quindi, tutt’altro che in linea con le costellazioni concettuali (evidentemente, assai frammentarie) presentate sulle installazioni di Del Zotto, costituite da continui (paradossali) sentieri interrotti intellettuali (parafrasando Heidegger). La sedimentazione estetica avallata dall’autore udinese arriva persino a “colpire” direttamente il medesimo “procedimento” tecnico da compiere per la stessa, finale, creazione realmente artistica. Del Zotto, dunque, inventa uno stranissimo marchingegno meccanico, costituito da un’unica ma prolungata tubazione a spirale (sorretta da quattro aste metalliche verticali), contenente numerose biglie di plastica, tutte ovviamente concatenate tra di loro. La cosiddetta Macchina distributrice di opere d’arte (anno 2005), la cui denominazione è chiaramente molto provocatoria, qui fa girare in continuazione piccole “miniature” autenticamente estetiche. Dentro alle biglie, perciò, possono ad esempio comparire le tradizionali superfici di “parole bucate” (pensando al Verbalux) o quelle invece tendenzialmente più geometriche (con i caratteristici “ritagli” per spezzare le figure, a ricordare le prime produzioni murali), assieme a tante altre nuove (diverse) rappresentazioni. Ad ogni modo, l’opera d’arte viene ora realizzata nel suo contemporaneo momento di farsi, proprio perché essa, in certo senso, deve intrinsecamente (necessariamente!) “liberare” ripetute produzioni successive.

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La vera creazione artistica, quindi, non può mai “effettivamente” arrestarsi, pena la perdita del proprio (significativo ma anche assai “raro” da ottenere!), status fenomenologico fondamentale. L’opera d’arte, insomma, va perdutamente interpretata: riprendendo Heidegger, essa “dice”… di dire, afferma la sola (benché straordinaria) “costrizione” linguistica umana (il fatto che noi dobbiamo necessariamente “trovarci” a comunicare con il Mondo per via di “utili” concetti intellettuali). Il fenomeno estetico non serve davvero a nulla (tranne che a se stesso!), quindi, se risulta internamente del tutto auto-referenziale, riusciamo a “comprenderlo” unicamente per infinite interpretazioni, di volta in volta “consecutive” (in grado, insomma, di richiamarsi assieme). La Macchina inventata da Del Zotto si “aziona” dunque per una tecnologia strumentale completamente inane, ma proprio per questo sa “liberare” continue produzioni artistiche successive. L’installazione si carica così di notevoli complicazioni heideggeriane, nella misura in cui tutte le “diverse interpretazioni” del vero fenomeno estetico qui sembrano uscire in modo curiosamente “seriale”.

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Ora, va subito sottolineato che è la medesima tecnologia delle inevitabili riflessioni concettuali umane a risultare essenzialmente “sistematica”, ossia del tutto meccanica: ancora una volta, la scelta operata da Del Zotto resta coerentemente ancorata al tradizionale tema della più originaria costellazione metallica intellettuale. In fondo, anche la stessa prolungata tubazione spiroidale (già scovabile nelle prime lavorazioni murali!) ricorda molto presto la dimensione “storica” (contestuale) della nostra inevitabile “condanna” a dover scegliere in vita, laddove una “singola” digitazione elettronica (al momento di premere il bottone d’avvio) fa immediatamente partire una “serie” di infiniti contro-movimenti esistenziali. Le biglie plastificate, così, ruotano perché la stessa “decisione” di azionarle “scatena” una parallela circolarità di eventi paradossalmente contemporanei (allorché le motivazioni “passate” a compiere il gesto si spiegano solo nelle correlate conseguenze future!). Anche in questo senso, insomma, si può giustamente affermare che la connotazione infinitamente interpretativa del vero fenomeno artistico deriva dal carattere fondamentalmente “storico” (contestuale) della nostra convinta scelta di “farlo partire” (di “leggerlo”).

Qui, vengono in mente le profonde analisi sulla “fenomenologia del gioco”, avanzate dal celebre pensatore novecentesco Gadamer. Egli, dopo gli iniziali studi heideggeriani, aveva saputo varare una sua personale “teoria” del fenomeno artistico, basata proprio sulla sfumatura infinitamente interpretativa di questo, curiosamente creduta già tipica della diversa (ma assai più facile o frequente!) attività ludica. Come sosteneva anche Aristotele, il gioco andava ritenuto unicamente fine a se stesso, ossia da farsi in vista della pura e semplice ricreazione conclusiva (insomma, per il divertimento e basta). Gadamer, accettando questa idea, aggiungeva che l’attività prettamente ludica si produceva attraverso i partecipanti (i concorrenti), i quali risultavano allora in completa “balia” delle regole di volta in volta necessariamente rispettate, pena il mancato funzionamento della gara. In un certo senso, a 30


giocarsi era il gioco stesso, ragion per cui esso giungeva a costituire una sorta di continuo movimento, data la chiara processualità interna del suo strano farsi fenomenologico (addirittura, a discapito della libera “azione” degli inevitabili interpreti). Gadamer diceva pure che l’attività ludica doveva essere tendenzialmente ripetuta nel corso del tempo, considerata la sicura (intrinseca) mancanza di un proprio “fine”, realmente esaustivo. Il gioco, dunque, non servendo a nulla, andava essenzialmente replicato, pena la sua (immediata) scomparsa! Per il pensatore tedesco, esso risultava così del tutto simile alla natura, che per dispiegarsi nel proprio fondamentale ciclo di vita, avanzava di stagione in stagione ripetendosi senza “fine”. A questo punto, era abbastanza semplice concludere che il gioco sembrava (da un punto di vista filosofico!) davvero molto simile al più riuscito fenomeno estetico, il quale, da un’ottica già ampiamente heideggeriana, veniva continuamente ad auto-rappresentarsi. Gadamer, però, sapeva bene che talune attività ludiche, assai particolari, consentivano addirittura una duplice auto-raffigurazione interna. Così, il gioco della “messa in scena” teatrale si basava su un paio di auto-rappresentazioni fenomenologiche: quella dei “concorrenti” (gli attori) accanto a quella, altrettanto indispensabile, dei numerosi spettatori.

Perciò, nel fenomeno autenticamente estetico a “recitare” nella prima auto-raffigurazione era evidentemente l’autore, nella seconda solo l’osservatore conclusivo. Ad ogni modo, Gadamer 31


preferiva terminare la sua analisi precisando che la duplice auto-rappresentazione artistica costituiva una specie di trasmutazione in forma, nella misura in cui (come al solito…) si doveva intrinsecamente (essenzialmente!) “ripetere” qualcosa di permanente, con tutte le ambivalenze dialettiche del caso. Una sottolineatura, questa, che nella poetica perennemente auto-referenziale di Franco Del Zotto sembra curiosamente in grado di ricollegare la strana Macchina distributrice di opere estetiche al precedente Albero divinamente Trasfigurato di Parma! Saggio di “fenomenologia estetica” a cura di PAOLO MENEGHETTI

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